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NUROBIOLOGIA E RISPOSTA AI TRATTAMENTI TDCS E TMS NELLA DEPRESSIONE FARMACORESISTENTE: ANALISI DELLA LETTERATURA E STUDIO PRELIMINARE

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(1)

Università di Pisa

DIPARTIMENTO DI PATOLOGIA CHIRURGICA, MEDICA, MOLECOLARE E DELL’AREA CRITICA

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN

PSICOLOGIA CLINICA E DELLA SALUTE

TESI DI LAUREA

NEUROBIOLOGIA E RISPOSTA AI TRATTAMENTI tDCS E TMS

NELLA DEPRESSIONE FARMACORESISTENTE: ANALISI

DELLA LETTERATURA E STUDIO PRELIMINARE

CANDIDATO RELATORE

Serena La Fauci

Dott. Claudio Gentili

CONTRORELATORE

Dott. Angelo Gemignani

Anno Accademico 2014/2015

(2)

(3)

Ai miei genitori…

che mi hanno accompagnata e sostenuta

in questo percorso di crescita e di vita e a tutti coloro che hanno da sempre creduto in me…

(4)

“ Le persone sono disturbate non dalle cose

ma dall’interpretazione che ne danno”

Aaron T. Beck

(5)

INDICE

Abstract

Introduzione

Capitolo I- Aspetti clinici e diagnostici della depressione

1.1 Cenni storici

1.2 Inquadramento diagnostico 1.2.1 Classificazione DSM IV 1.2.2 Classificazione DSM V 1.3 Struttura dimensionale dei sintomi 1.4 Epidemiologia e fattori di rischio 1.5 Tentativi di suicidio

Capitolo II- Neurobiologia della depressione

2.1 Aspetti neurobiologici dell’umore

2.2 I correlati neurometabolici dell’umore normale 2.3 I correlati neurometabolici della depressione 2.4 L’ influenza dei fattori genetici e ambientali

2.4.1 L’ influenza dei fattori predisponenti non genetici: il ruolo dello stress

2.4.2 Aspetti psicologici dello stress

2.5 Alterazioni neurochimiche e neurofisiologiche

2.5.1 Ritmo sonno-veglia nella depressione

(6)

Capitolo III- Trattamenti della depressione farmacoresistente

3.1

Transcranial magnetic stimulation

3.2

Transcranial direct current stimulation

3.3

Terapia elettroconvulsiva

3.4

Stimolazione del nervo vago

3.5

Fototerapia

3.6

Trattamenti farmacologici

3.7

Trattamenti psicoterapici

3.8

Caratteristiche neurobiologiche della risposta ai trattamenti

Studio sperimentale

Riferimenti bibliografici

Sitografia

(7)

Neurobiologia e risposta ai trattamenti TMS e TDCS nella

depressione farmacoresistente:

Analisi della letteratura e studio preliminare

Abstract

I disturbi depressivi provocano nei pazienti un’intensa sofferenza e un profondo disagio determinando un costo elevato in termini di spese sanitarie, sia per ciò che concerne il trattamento farmacologico e le frequenti ospedalizzazioni ma anche da un punto di vista personale, sociale e lavorativo, in quanto il loro funzionamento biopsicosociale risulta gravemente compromesso. Ciò che contraddistingue questi pazienti è uno stato peculiare di sofferenza in cui, il modo di pensare alla vita, la percezione del tempo e dello spazio, la percezione del proprio corpo e della realtà esterna risultano modificati, intrappolando la persona in uno stato di profondo malessere e in un circuito oscuro dal quale talvolta non vi è via d’uscita. Diventa un lavoro estremamente impegnativo da parte dei clinici e familiari trovare il codice d’accesso e gestire “il male oscuro” che attanaglia questi pazienti nell’oscurità e nel ricorrente pensiero di morte, come unico modo per porre fine ad una triste e dolorosa esistenza. Dunque con tale elaborato, si è cercato di offrire una rassegna ad ampio raggio del disturbo, tenendo in considerazione la classificazione diagnostica proposta dal DSM IV e l’attuale classificazione diagnostica presentata nel DSM V, si è cercato inoltre di prestare attenzione ad una struttura dimensionale dei sintomi nell’andamento a lungo a termine e ai fattori che predicono il tentativo di suicidio, il cui rischio come sappiamo è molto elevato nei soggetti con tale patologia.

(8)

Successivamente sono stati trattati i correlati neurometabolici dell’umore

normale e depresso, gli aspetti neurobiologici della depressione

farmacoresistente e della risposta ai trattamenti rTMS e tDCS nonché focus di tale lavoro, tenendo in considerazione i principali fattori genetici, molecolari e neurochimici coinvolti nella patologia e che ne costituiscono appunto il substrato neurobiologico. La Transcranic Magnetic Stimulation e la Transcranic Direct Current Stimulation sono tecniche non invasive di neuromodulazione e neurostimolazione della corteccia cerebrale, basate su un principio di induzione elettromagnetica di un campo elettrico e che attualmente si configurano come uno strumento di grande utilità nello studio delle funzioni cognitive e nel trattamento di distinte patologie psichiatriche, in particolar modo nelle forme di depressione definite farmacoresistenti in cui i pazienti non rispondono adeguatamente a due adeguati trials di antidepressivi. Infine verrà presentato uno studio preliminare volto a valutare i correlati neurometabolici dell’attività cerebrale spontanea con l’obiettivo di dimostrare come l’applicazione della fMRI può essere utile nel valutare l’umore nei soggetti normali. In questo senso lo studio servirà a validare un metodo per studiare attraverso questa tecnica l’umore normale e patologico ed i correlati neurometabolici della risposta ai trattamenti non invasivi di stimolazione cerebrale (TMS e tDCS) in pazienti depressi farmacoresistenti.

(9)

Introduzione

Questo lavoro di tesi è stato creato come un’occasione per approfondire con grande interesse l’area della patologia depressiva, gli aspetti clinici, neurobiologici e si inserisce all’interno di una linea di ricerca più ampia volta allo studio dei correlati neurometabolici in risposta ai trattamenti non invasivi di stimolazione cerebrale, in particolar modo la stimolazione magnetica transcranica (TMS) e la stimolazione magnetica a corrente diretta (tDCS) in pazienti depressi farmacoresistenti. La Transcranic Magnetic Stimulation e la Transcranic Direct Current Stimulation sono tecniche elettromagnetiche non invasive di neuromodulazione e neurotrasmissione della corteccia cerebrale, le quali inizialmente vennero messe a confronto con l’elettroshock per le caratteristiche che presentano in comune, ossia l’aumento dell’eccitabilità della corteccia cerebrale. Successivamente si è osservato come queste tecniche siano molto distanti dalle precedenti tecniche elettroconvulsive che richiedevano un’anestesia generale del paziente per indurre violente contrazioni muscolari che potevano provocare notevoli effetti collaterali, tra questi il più comune è l’amnesia. Infatti la Transcranic Magnetic Stimulation e la Transcranic Direct Current Stimulation, si configurano attualmente come strumenti di grande efficacia nel campo dello studio delle funzioni cognitive, da sempre oggetto di grande interesse della psicologia e delle neuroscienze. Con l’applicazione di tali strumenti è possibile ottenere una modulazione dell’attività cerebrale transitoria ed è inoltre possibile indagare e stabilire specifiche relazioni tra 1cervello-

cognizione- comportamento e mappare la connettività funzionale tra le diverse aree cerebrali.

(10)

Di conseguenza sarà presentato uno studio preliminare volto a valutare, i correlati neurometabolici dell’attività cerebrale spontanea con l’obiettivo di dimostrare come l’applicazione della fMRI può essere utile nel valutare l’umore in tutte le sue alterazioni e i correlati neurometabolici della risposta ai trattamenti non invasivi di stimolazione cerebrale in pazienti depressi farmacoresistenti. Si tratta di uno studio che apre le porte a nuovi orizzonti e a nuove modalità di studiare la neurobiologia dell’umore basata sull’attività cerebrale spontanea a riposo a differenza dei precedenti studi che indagavano l’umore in seguito alla presentazione di immagini, volti che esercitavano un effetto manipolatorio su di esso. Pertanto si parla di un approccio più naturalistico dello studio dell’umore, considerato come una caratteristica relativamente stabile dell’individuo e scarsamente legato a stimoli provenienti dall’ambiente esterno. Come già documentato da molteplici rassegne teoriche e dati sperimentali, la depressione maggiore è una patologia altamente invalidante per i pazienti, in quanto il loro funzionamento biopsicosociale risulta gravemente compromesso, provocando una sofferenza così profonda e intensa da vedere il suicidio come l’unico mezzo per sfuggire ad un “Sé, Mondo, Futuro” che non preannuncia nulla di positivo. Risulta necessario da un punto di vista clinico stabilire degli obiettivi a breve e a lungo termine, cercando di intervenire efficacemente nella gestione dell’episodio acuto, di prevenire le ricadute, ridurre la cronicità e soprattutto di ottenere un miglioramento del funzionamento biopsicosociale in termini di qualità della vita.

(11)

Capitolo I: Aspetti clinici e diagnostici della depressione

“Molte persone vorrebbero piuttosto… essere certe di essere depresse…

piuttosto che rischiare di essere felici.”

(Robert Anthony)

In questo primo capitolo, cercheremo di tracciare una breve rassegna sulla storia clinica di tale disturbo, ripercorrendone il percorso evolutivo, dalla classificazione diagnostica proposta dal DSM IV, all’attuale classificazione.

Inoltre, approfondiremo con interesse, la struttura dimensionale della sintomatologia tenendo in considerazione gli aspetti epidemiologici, il decorso e i fattori di rischio che sono alla base di tale patologia.

(12)

1.1 Cenni storici

I disturbi dell’umore vennero descritti per la prima volta dalle civiltà babilonesi, ebraiche ed egiziane. Successivamente ricordiamo i contributi di Ippocrate, Galeno alla descrizione di tali patologie. A partire dal XVII secolo, attraverso studi nosografici di impostazione naturalistica, depressione e mania vennero differenziate in base alla varietà della sintomatologia. Durante il XIX secolo, Baillarger con la 2folie à double forme e Falret con la folie circulaire definirono

i disturbi dell’umore come un disturbo autonomo che si caratterizzava principalmente per l’alternarsi con regolarità e continuità di episodi depressivi e maniacali. Dunque per gli autori l’alternarsi di questi due stati costituiscono due diverse modalità di espressione della stessa patologia. Un ‘importante contributo alla storia dei disturbi dell’umore deriva, da Kraepelin, il quale nella sua grande opera, Trattato di psichiatria, individuò due importanti categorie diagnostiche: la dementia praecox attualmente definita schizofrenia e la psicosi

maniaco-depressiva nota attualmente come disturbo bipolare, in cui rientrano stati

depressivi, maniacali e misti. In seguito, con la collaborazione di altri 3autori, si giunse alla separazione tra: le forme depressive unipolari e forme depressive

bipolari. Le prime si caratterizzano per la presenza ricorrente di marcati episodi

di depressione maggiore, le forme bipolari invece si caratterizzano per l’alternarsi di episodi depressivi e maniacali, ipomaniacali e misti.

2 CASSANO G.B., TUNDO A, Psicopatologia clinica psichiatrica, Utet, Torino 2006, pp. 262-3.

(13)

1.2 Inquadramento Diagnostico

La depressione si presenta con un’ampia costellazione di sintomi emotivi, cognitivi, comportamentali e somatici che interferiscono negativamente con il

4“funzionamento” della persona, compromettendo la capacità di adattarsi alla

vita sociale. Dunque si parlerà di episodio singolo se il disturbo depressivo maggiore compare una sola volta nell’arco della vita, di episodio ricorrente qualora il disturbo si presenti più volte. 5Per depressione maggiore si intende,

quella forma tipica di depressione che si presenta con una marcata, persistente e duratura sintomatologia, provocando conseguenze estremamente negative sul comportamento della persona, sul suo adattamento sociale e lavorativo, e soprattutto un maggior rischio di suicidio. Ricordiamo che l’ideazione suicidaria rappresenta uno dei criteri indispensabili e fondamentali per la diagnosi della depressione maggiore. E’ fondamentale sottolineare che generalmente l’ideazione suicidaria nella depressione maggiore precede il tentativo di suicidio e i fattori coinvolti possono differire tra i pazienti con o senza diagnosi psichiatrica. A tale proposito è stato condotto uno 6studio su 196 soggetti, in cui

i partecipanti furono suddivisi in tre principali categorie: 92 pazienti psichiatrici con un tentativo di suicidio, 47 pazienti psichiatrici che non avevano mai tentato il suicidio e infine 57 soggetti sani di controllo. I dati sono stati raccolti tenendo in considerazione, fattori socio-demografici, storia clinica, dettagli dei tentativi di suicidio e i partecipanti sono stati chiamati a rispondere ad una batteria di valutazione di alcuni importanti aspetti psicologici tra cui; aggressività-impulsività, dolore mentale, depressione, sentimento di sfiducia ed eventi di vita negativi.

4 GALEAZZI A., MEAZZINI P, Mente e comportamento, Giunti, Firenze 2004, p. 292.

5 CARPNIELLO B, La Depressione, Giovanni Fioriti Editore, Rome 2006, p. 32.

6 GVION Y., HORESH N., LEVI-BELZ Y., APTER A, A proposed model of the development of

(14)

Lo studio ha permesso di raggiungere tre importanti risultati: gli eventi di vita negativi hanno avuto un ruolo significativo nella rabbia e impulsività nei non tentatori rispetto ai tentatori di suicidio, la disperazione e i sentimenti di sfiducia contribuivano al maggior rischio di ideazioni suicidarie nei tentatori ma non nei non tentatori, infine la solitudine contribuiva in modo significativo nella depressione dei non tentatori rispetto ai tentatori. Pertanto attraverso questo studio è possibile ipotizzare un modello dualistico dell’ideazione suicidaria, infatti il meccanismo sottostante all’ideazione suicidaria sembra essere differente tra i pazienti psichiatrici che hanno già tentato il suicidio e pazienti psichiatrici che non hanno avuto alcun tentativo di suicidio. Dunque la separazione tra i 7disturbi depressivi e bipolari è stata riportata negli attuali

sistemi di classificazione dei disturbi mentali (DSM IV e ICD 10) i quali risultano limitati, poiché utilizzano un approccio categoriale che impedisce di prendere in considerazione quelle forme subcliniche e intermedie che costituiscono un’importante collegamento tra le forme bipolari e unipolari. Successivamente è stato proposto un modello unitario di “spettro dell’umore”, con quest’ultimo è possibile identificare anche quelle forme sotto-soglia che precedono o seguono l’esordio del disturbo vero e proprio e ne influenzano la modalità di espressione della sintomatologia.

(15)

1.2.1 Classificazione diagnostica (DSM IV TR)

I disturbi dell’umore nella classificazione diagnostica proposta dall’APA per DSM IV TR, vengono suddivisi in tre grandi macro categorie:

- Disturbi depressivi - Disturbi bipolari

- Altri disturbi dell’umore

Tra i disturbi depressivi ritroviamo, il disturbo depressivo maggiore a episodio singolo, ricorrente, distimico e non altrimenti specificato. I disturbi bipolari vengono distinti in; bipolare I, bipolare II, ciclotimico e bipolare non altrimenti specificato. Infine nella categoria “Altri disturbi dell’umore” sono inclusi i disturbi dell’umore dovuti a condizioni mediche generali, indotti da sostanze e non altrimenti specificati. Dunque per poter formulare una diagnosi di Depressione Maggiore è necessario che vengano soddisfatti i seguenti 8criteri:

(A) Almeno cinque tra i seguenti sintomi per almeno II settimane, di cui almeno due devono necessariamente essere l’umore depresso e la perdita d’interesse o

piacere

- Umore depresso - Anedonìa

- Autosvalutazione e senso di colpa

- Alterazione della capacità di pensare, concentrarsi e prendere decisioni - Rallentamento psicomotorio

- Alterazioni del ritmo sonno-veglia (riduzione della latenza REM e

insonnia tradiva)

- Aumento o perdita repentina dell’appetito - Astenia

- Suicidio

8 FAVA G.A., GRANDI S., RAFANELLI C, Manuale di Psicosomatica, Pensiero scientifico editore,

(16)

(B) I sintomi non soddisfano i criteri per un Episodio Misto

(C) I sintomi causano disagio clinicamente significativo nel funzionamento sociolavorativo

(D) I sintomi non sono dovuti agli effetti fisiologici o diretti di una sostanza (E) I sintomi non sono meglio giustificati da un lutto

E’ importante sottolineare che secondo il DSM IV TR i sintomi depressivi possono essere presenti anche durante un disturbo delirante, schizofrenia o disturbo psicotico NAS. Talvolta risulta difficile valutare la presenza dei

9sintomi cognitivi quali, la difficoltà di concentrazione negli anziani, poiché

questa condizione è sovrapponibile ad una condizione di demenza. Pertanto se il disturbo depressivo maggiore è una conseguenza del declino cognitivo, si postula una diagnosi di demenza; se invece il declino cognitivo si presenta in concomitanza con il disturbo depressivo, si formulerà una diagnosi di disturbo depressivo maggiore. Attualmente tra le scale di valutazione maggiormente utilizzate per la diagnosi di depressione ritroviamo la: 10Beck Depression

Inventory (BDI) e la 11Hamilton Depression Rating Scale (HDRS). La prima

(BDI) rispetto alla seconda (HDRS) non valuta la componente ansiosa e somatica ed è costituita da 21 item con quattro possibili alternative di risposta. Tale 12strumento si propone di valutare l’incidenza della depressione nel corso

del trattamento e monitorare l’evoluzione del disturbo nel tempo.

9 GALEAZZI A., MEAZZINI P, Mente e comportamento, Giunti, Firenze 2004, p. 281.

10 BECK AT., WARD CH., MENDELSON M., MOCK J., ERBAUGH J, An inventory for measuring

depression, Arch Gen Psychiatry 1961, pp. 561-71.

11 HAMILTON M, A rating scale for depression, J Neurol Neurosurg Psychiatry 1960, pp. 56-62. 12GALEAZZI A., MEAZZINI P, Mente e comportamento, Giunti, Firenze 2004, pp. 289-90.

(17)

Dunque la Hamilton Depression Rating Scale indaga diverse aree come: - Umore depresso - Senso di colpa - Suicidio - Insonnia - Funzionamento socio-lavorativo - Rallentamento - Agitazione

- Ansia (psichica e somatica) - Sintomi somatici

Attraverso i 13punteggi ottenuti dai pazienti alla somministrazione di tale

strumento diagnostico-clinico è possibile distinguere: (I) Depressione Lieve (punteggio compreso tra 8-17) (II) Depressione Moderata (punteggio compreso tra 18-24) (III) Depressione Grave (punteggio > 25)

Nel caso in cui l’episodio depressivo sia accompagnato da acute turbe del pensiero quali deliri e convinzioni irrazionali, si parla di “Depressione

psicotica”. Qualora l’episodio depressivo si presenti con umore particolarmente

cupo, risveglio precoce al mattino, fluttuazioni durante il corso della giornata, miglioramento verso sera, rallentamento o agitazione psicomotoria marcati, idee di colpa persistenti, si definisce “Depressione melanconica”. Infine nel caso in cui i sintomi prevalenti sono; ipersonnia diurna, iperfagìa, peggioramento serale della sintomatologia e eccessiva sensibilità al giudizio degli altri, si diagnostica una “Depressione Atipica”. Se si manifesta esclusivamente durante i cambi di stagione si parla di “Depressione stagionale”.

(18)

1.2.2 Classificazione diagnostica (DSM V)

Con la pubblicazione del DSM V, vengono introdotte importanti cambiamenti nella classificazione diagnostica delle diverse patologie psichiatriche. Dunque le più importanti innovazioni riguardano l’utilizzo di una classificazione multidimensionale, la patologia mentale viene concepita come un “continuum” e non più con un sistema multiassiale come nel DSM IV che è stato appunto criticato in quanto non permetteva di cogliere gli stati “subsindromici”. Il disturbo mentale si presenta come una sindrome caratterizzata da un’alterazione significativa della sfera cognitiva, emotiva, comportamentale e vegetativa. Nel

14DSM V si cerca di dare una maggiore importanza personale al disturbo e al

contesto cercando di personalizzare il più possibile le cure. Per ciò che concerne lo spettro dell’umore le principali novità riguardano; l’introduzione di parametri dimensionali per valutare i sintomi subsindromici, la considerazione di nuovi specificatori e una soglia più restrittiva per la diagnosi di ipo/mania. Una maggiore attenzione ai sintomi sotto-soglia nasce dal fatto che questi determinano una grande disabilità psicosociale nei pazienti, infatti il 15Medical

Outcomes Study, fu uno dei primi studi ad evidenziare l’elevata correlazione tra i sintomi sub sindromici e una grave disabilità psicosociale. Successivamente i dati dello studio del Collaborative Depression Study valutarono il grado di disabilità sociale associato a ciascun livello di gravità della sintomatologia, dimostrando come i sintomi depressivi a qualunque livello di gravità e anche sotto soglia compromettono il 16funzionamento psicosociale del paziente.

14 DE DIOS C., GOIKOLEA J.M., COLOM F., MORENO C., VIETA E, Rev Psiquiatr Salud Ment

2014, pp. 179-185.

15 KELLER MB, Procedure cliniche per la depressione e il disturbo bipolare, Edra Lswr Spa,

Milano 2014, pp. 36-7.

16 JUDD LL., AKISKAL HS., ZELLER PJ et al, Psychosocial disability during he long- term course

(19)

Dunque nel DSM V, i disturbi depressivi vengono separati dai disturbi dell’umore, il disturbo disforico premestruale promosso dall’appendice B del DSM IV-TR, rientra nella categoria dei disturbi depressivi nel DSM V, il lutto viene mantenuto come criterio di esclusione per l’episodio depressivo e viene cancellato il criterio secondo cui il lutto doveva essere risolto entro i due mesi e introdotto un nuovo criterio che prevede la risoluzione entro un anno, prima di formulare una diagnosi di lutto patologico. Pertanto nel DSM V sotto la categoria dei disturbi depressivi rientrano:

- Disturbo da disregolazione dell’umore dirompente - Disturbo depressivo maggiore

- Disturbo depressivo persistente (distimia) - Disturbo Disforico Premestruale

- Disturbo depressivo indotto da sostanze/ farmaci

- Disturbo depressivo associato ad altre condizioni mediche - Disturbo depressivo con altra specificazione

(20)

1.3 Struttura dimensionale dei sintomi

L’ episodio depressivo, in alcuni casi ha un esordio improvviso, spesso invece si accompagna alla presenza di sintomi prodromici che anticipano l’insorgenza del disturbo e tendono a ripetersi sempre con le stesse modalità. Tra i sintomi prodromici più comuni ritroviamo; la labilità affettiva, l’astenia, la riduzione degli interessi, l’inappetenza, l’insonnia e l’incapacità di concentrazione. A tale proposito è stato dimostrato come i pazienti con 17sintomi sotto-soglia abbiano

una compromissione maggiore del funzionamento psicosociale, in quanto questi pazienti tenderebbero ad assentarsi più spesso dal lavoro, a ricorrere all’uso dei servizi sanitari, a mostrare maggiore irritabilità ed infine a prolungare la degenza a casa. Generalmente i pazienti descrivono l’umore depresso come un’angosciante dolore psichico e vitale, non come una semplice tristezza o infelicità. Il paziente depresso non è in grado di provare emozioni, di percepire le esperienze in modo positivo e soprattutto diventa insensibile agli eventi esterni. L’insorgenza e l’andamento del disturbo depressivo maggiore è connotata dalla presenza di tre importanti 18fasi:

- Esordio

- Periodo di stato - Sintomi residui

La fase d’esordio si caratterizza per la presenza di alcuni sintomi quali: riduzione degli interessi, astenia, labilità affettiva e sintomi somatici.

17 LEVIS L JUDD., HAGOPOP S AKISKAYL., MARTIN P PAULUS, The role and clinical

significance of subsyndromal depressive symptoms (SSD) in unipolar major depressive disorder, Journal Affective disorders 1997, p. 5.

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Il periodo di stato è connotato dalla presenza di un umore depresso a cui si associa irritabilità, tristezza, ansia, anedonia, indifferenza, dalla presenza di

sintomi psicomotori, quali la mancanza di energia, la ridotta espressività

mimica, irrequietezza, agitazione; sintomi cognitivi quali visione negativa di sé, del mondo del futuro, difficoltà di memoria e concentrazione, sintomi neurovegetativi quali riduzione della libido, inappetenza o iperfagia, risveglio precoce, insonnia. La depressione comporta un’importante compromissione delle funzioni cognitive, molto frequente è il rallentamento delle attività di pensiero, talvolta si ha un’accelerazione delle idee in cui i pensieri risultano instabili, disordinati. Un aspetto fondamentale presente negli episodi depressivi è la frattura tra il tempo cronologico del mondo esterno e il tempo soggettivo o interiore che risulta immutabile e statico. Il paziente si sente intrappolato in un tempo che non scorre mai, in cui tutto è bloccato e in cui pervade la sensazione di non riuscire ad affrontare la giornata e di essere condannato ad un’eterna sofferenza. Di fondamentale importanza sono le alterazioni del contenuto del pensiero caratterizzate da continui sentimenti di colpa, di svalutazione, idee suicidarie, accompagnate da un incessante ruminare sui propri sbagli e colpe lontane, incapacità di programmare il futuro e visione negativa di sé, del presente e del futuro definita da Beck 19triade cognitiva che rappresenta quelle

convinzioni distorte e disfunzionali che guidano il paziente depresso. Dunque il tempo del depresso oscilla tra un futuro privo di speranza e un presente vuoto e inutile e si ritiene responsabile del proprio disturbo e dell’incapacità di guarire, convinto di poter 20“star meglio facendo una sforzo” si giudica indegno per il proprio egoismo e il proprio comportamento.

19 Cit.in GALEAZZI A., MEAZZINI P, Mente e comportamento, Giunti, Firenze 2004, p.288.

20 Cit.in DI SALVO S, Depressione, Ansia, Attacchi di panico: percorsi di cura, Cortina Editore,

(22)

Il 21deficit cognitivo è uno dei più frequenti sintomi residui della depressione maggiore, infatti la persistenza di tale deficit in alcune delle funzioni cognitive, in particolar modo nelle funzioni esecutive e attenzione, può costituire un nesso tra il disturbo depressivo maggiore e scarsi risultati funzionali nell’andamento psicosociale del paziente, indipendentemente dalla presenza dei sintomi depressivi. Pertanto l’impatto negativo dei deficit cognitivi sul funzionamento psicosociale del paziente spinge ad una valutazione della cognizione a più domini, tenendo in considerazione i correlati clinici di disfunzione cognitiva nella depressione maggiore. L’importanza dei deficit cognitivi nella depressione ha determinato l’avvio di numerose ricerche che cercano di studiare la correlazione tra depressione e mild cognitive impairment (MCI). A tale proposito è stato condotto uno studio longitudinale, ancora in corso, che cerca di esaminare una possibile relazione trasversale tra depressione e mild cognitive impairment e se tale relazione varia in base al tipo di depressione. Lo 22studio è stato condotto su 583 partecipanti per il 50% uomini di età compresa tra i 50-80 anni, dei quali 304 con aMCI e 279 con naMCI, (anamnestic versus non amnestic MCI) e 1.446 partecipanti cognitivamente normali. I sintomi depressivi elevati sono stati valutati utilizzando, il Centro per gli Studi Epidemiologici Depression Scale (CES-D punteggio> 18), e veniva chiesto ai partecipanti se avevano avuto una precedente diagnosi di depressione. I rapporti dei tassi di incidenza del tutto adeguati per MCI, aMCI, e naMCI in depressione rispetto a partecipanti non-depressi erano 2.06 (95% intervallo di confidenza, 1,60-2,64), 3,06 (2,21-4,23), e 1.93 (1,46-2,57). Questi dati indicano che a relazione tra depressione, sintomi depressivi e MCI possa dipendere dai tempi della depressione e il sottotipo di MCI.

21 BORTOLATO B., CARVALHO AF., MCINTYRE RS, Cognitive Dysfunction in Major Depressive

Disorder: A State-of-the-art Clinical Review, CNS Neurol Disord Drug Targets 2014, pp 804-818.

22 DLUGAJ M., WINKLER A., DRAGANO N., MOEBUS S et al., Depression and Mild Cognitive

Impairment in the General Population: Results of the Heinz Nixdorf Recall Study, Journal of Alzheimer's Disease 2014, p.159.

(23)

Non a caso, la 23depressione è un disturbo psichiatrico molto spesso riscontrato in patologie neurologiche quali; Morbo di Alzheimer, Morbo di Parkinson e Corea di Huntington, in questi casi l’insorgenza della depressione potrebbe essere una conseguenza dei processi neurodegenerativi. La fase in cui sono presenti i sintomi residui si caratterizza per la presenza di isolamento sociale, irritabilità, labilità affettiva e bassa autostima. La presenza dei sintomi residui è un’importante indice predittivo della probabilità di ricadute. A tale proposito è stato condotto uno 24studio prospettico su 318 soggetti seguiti per dieci anni, con

disturbo depressivo maggiore unipolare. Il numero medio di episodi depressivi al follow-up di un anno era 0,21 e quasi i 2/3 dei soggetti mostrava una recidiva. Ciò ha portato i ricercatori a concludere che la depressione maggiore è una patologia altamente ricorrente in cui il rischio di ricaduta diminuisce all’aumentare della remissione e più è lunga la remissione è minore sarà la probabilità di ricadute. Per indagare l’importanza clinica della depressione sub-sindromica, 25alcuni ricercatori hanno condotto un importante studio di coorte in

cui vennero messe a confronto le caratteristiche cliniche e demografiche di due gruppi di pazienti, di cui 775 pazienti con disturbi depressivi e 1420 con depressione sub- sindromica. Le due coorti di pazienti mostravano caratteristiche cliniche e demografiche molto simili, il 41% dei pazienti con depressione sub-sindromica presentava una storia familiare di depressione paragonabile al 59% dei pazienti con disturbo depressivo e in entrambi le coorti il sesso femminile predominava in maniera significativa. Tali 26studi hanno

messo in rilievo un aspetto di notevole importanza, ossia che i sintomi depressivi sub-sindromici rappresentano una variante della depressione maggiore unipolare.

23 FAVA G.A., GRANDI S., RAFANELLI C, Manuale di Psicosomatica, Pensiero scientifico editore,

Roma 2011, p. 247.

24 SOLOMON DA., KELLER MB., LEON AC., MUELLER TI ET AL., Multiple recurrences of

major depressive disorder, Am J Psychiatry 2000, pp. 229-33.

25 SHERBOURNE et al., 1994.

26 LEVIS L JUDD., HAGOPOP S AKISKAYL., MARTIN P PAULUS, The role and clinical

significance of subsyndromal depressive symptoms (SSD) in unipolar major depressive disorder, Journal Affective disorders 1997, p. 5.

(24)

Nel corso degli ultimi decenni è emerso sia dalle ricerche del Collaborative Depression Study (CDS), si tratta di uno 27studio osservazionale su pazienti

depressi in cui il trattamento veniva monitorato, ma non controllato dai ricercatori che la depressione maggiore ricorrente è una patologia cronica che tenderebbe a ripresentarsi dopo la risoluzione dell’episodio come “ricaduta” ed a ricomparire come nuovo episodio come “ricorrenza”. Un altro dato importante che sottolinea la cronicità della depressione è la percentuale di settimane di follow-up in cui i pazienti dello CDS presentavano sintomi depressivi a diversi livelli di gravità. I 28dati statistici che valutavano l’andamento settimanale della depressione durante 31 follow-up, mostravano che i pazienti presentavano i sintomi depressivi per il 55,4 % delle settimane di follow-up e che i pazienti mostravano sintomi depressivi subsindromici per 1/3 della settimana anche quando non si trovavano in fase acuta. Tali ricerche concorrono a dimostrare come la depressione maggiore ricorrente non sia caratterizzata da un episodio singolo e isolato ma sia una patologia cronica e ricorrente, in cui i pazienti mostrano la sintomatologia in gran parte del suo decorso clinico. L’andamento a lungo termine della depressione maggiore si manifesta lungo un “continuum” dimensionale di gravità. Durante il 29decorso di malattia, i pazienti mostrano una grave sintomatologia per il 14,8% delle settimane, una sintomatologia moderata per il 24,2%, una sintomatologia lieve e sintomi sotto soglia per il 16,4 % delle settimane di follow-up e infine il 45% risultava asintomatico. A conferma di ciò è stato osservato che circa il 95,1% dei pazienti con depressione maggiore ricorrente, seguiti per due anni, presentava la sintomatologia a tutti i livelli di gravità nel 75,2% dei casi. Pertanto i vari livelli di gravità non sono separati tra loro ma rappresentano i diversi stadi di un

continuum che si distinguono per l’intensità e la durata.

27 CRYELL et al., 1990, KELLER et al., 1992, MULLER et al., 1999., ANGST et PREISIG 1995.,

ANGST et al., 2003, BRODATY et al., 2001.

28 KELLER MB, Procedure cliniche per la depressione e il disturbo bipolare, Edra Lswr Spa,

Milano 2014, pp. 32-33.

29 JUDD LL, Dimensional Paradigm of the Long Therm Course of Unipolar Major Depressive

(25)

Nella gestione della depressione maggiore ricorrente, tra gli aspetti di grande rilevanza ritroviamo, la tendenza alle ricadute e la remissione della sintomatologia. A tale proposito sono stati condotti molteplici studi per comprendere quali fattori biologici, psicologici e sociali interferiscono con una maggiore o minore probabilità di ricadute. In una prima analisi dei dati, condotta dal Collaborative Depression Study, 30alcuni ricercatori mostrarono che il

principale fattore predittivo delle ricadute era strettamente associato ad una storia di malattia, caratterizzata dalla presenza di tre o più episodi depressivi. Successivamente con una seconda analisi, i ricercatori si accorsero che la remissione dall’episodio depressivo dipendeva strettamente dalla persistenza dei sintomi depressivi sotto-soglia e che la persistenza dei sintomi residui non solo correlava con una più rapida ricaduta ma anche un decorso più grave e cronico. Infatti questi pazienti mostravano una 31probabilità di ricaduta del 2,4%

maggiore, per ogni settimana di follow-up. Dunque, nei casi in cui i sintomi depressivi sotto-soglia persistono dopo la risoluzione dell’episodio acuto, significa che l’episodio depressivo è ancora in fase attiva, il funzionamento psicosociale è ancora compromesso e pertanto che la risoluzione non è completa. 32Alcuni studiosi, a conferma del fatto che la patologia depressiva sia biologicamente attiva in tutti livelli di gravità, Depressione Maggiore Ricorrente, Distimia e Depressione Minore sottolineano le alterazioni del ritmo sonno-veglia, in particolar modo la ridotta latenza del sonno REM che persisterebbe nelle diverse forme di gravità. Infatti l’insonnia, rientra in quei sintomi residui che risultano strettamente correlati con la presenza di ricadute. Uno stato di “distress” prolungato provoca una condizione di iperarousal che determina a sua volta un’alterazione della funzionalità globale dell’individuo e predispone il terreno per le ricadute.

30 Keller et al., 1983.

31 KELLER MB., LAVORI PW., LEWIS CE et al, Predictors of relapse in major depressive disorder,

JAMA 1983, pp. 3299-304.

32 KELLER MB, Procedure cliniche per la depressione e disturbo bipolare, Edra Lswr Spa, Milano

(26)

Pertanto il ripetersi di episodi depressivi, che sono appunto di per sé altamente stressogeni, determina una maggiore vulnerabilità del substrato psicobiologico del soggetto. A conferma di ciò, studi di neuroimaging condotti postmortem su pazienti depressi, evidenziano nei soggetti depressi un’atrofia neuronale a livello dell’ippocampo, coinvolto nella regolazione dell’umore, nella memoria e nei

processi di neurogenesi e una compromissione della plasticità neuronale

(27)

1.4 Epidemiologia e fattori di rischio

I 33disturbi dell’umore si presentano in circa il 20% della popolazione generale,

con un’alta incidenza delle forme unipolari pari ad un rapporto di 10:1 rispetto alle forme bipolari che si presentano con un rapporto di 4:1. La prevalenza lifetime della depressione maggiore è del 4,6% rispetto, ai disturbi bipolari, la cui prevalenza lifetime è pari allo 0,5% per il disturbo bipolare di tipo I e del 1,1 %- 5,3% per il disturbo bipolare di tipo II. Per ciò che concerne l’età d’esordio, la depressione maggiore si manifesta tra i 20-50 anni e solo nel 10% dei casi si registrano casi di depressione dopo i 60 anni che non siano associati ad una condizione medica generale. La depressione maggiore, colpisce prevalentemente le donne rispetto agli uomini, infatti il rapporto femmine/maschi è di 2:1. Studi di genetica e su famiglie dimostrano come i parenti di I grado dei pazienti con depressione hanno un rischio di 2-18 volte maggiore rispetto alla popolazione generale. Diverse ricerche sono state condotte per indagare importanti correlazioni tra stress-depressione-sistema immunitario, depressione-dolore cronico, cancro-depressione, patologie coronariche e depressione. Per ciò che concerne la correlazione tra 34stress-depressione-sistema immunitario, è stato osservato che sia in condizioni di stress cronico che nella depressione abbiamo un’alterazione dell’interleuchina 6 che è un indice aspecifico di infiammazione, riflette l’attività del sistema immunitario ed è uno dei fattori infiammatori maggiormente coinvolti nei disturbi correlati all’invecchiamento:

- Cancro

- Disturbi cardiovascolari - Demenze

33 CASSANO G.B., TUNDO A, Psicopatologia e clinica psichiatrica, Utet, Torino 2000, pp. 263-4.

34 FAVA G.A., GRANDI S., RAFANELLI C, Manuale di Psicosomatica, Pensiero scientifico editore,

(28)

Diversi studi concorrono a dimostrare come lo stress cronico aumenta la sensibilità ai processi infiammatori dovuto ad un eccessivo rilascio di IL 6 che si associa ad un maggior rischio di malattie. Anche studi di epigenetica dimostrano come in condizioni di stress cronico è possibile subire una modificazione delle sequenze nucleotidiche di DNA. Ulteriori studi condotti sulla depressione dimostrano come questa sia strettamente correlata ad un under-stimuation o

over-stimulation dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene che determina a sua volta

un immunosoppressione e maggiore suscettibilità a patologie infiammatorie. Citiamo uno studio condotto da Ivans e collaboratori, sulla correlazione tra depressione e sistema immunitario, il quale dimostra come nei depressi maschi e non nelle femmine ci sia una modificazione dell’attività delle cellule Natural Killer e dell’IL6 e una maggiore attività della proteina C reattiva (CRP). Ancora un altro studio di Pike e Irwin, condotto su 50 soggetti, tra cui 25 depressi e 25 non depressi dimostra come nei soggetti depressi ci sia una maggiore attivazione dell’IL 6 e una soppressione dell’attività delle NK. Dunque tra i fattori di rischio che determinano l’insorgenza della patologia depressiva svolgono un ruolo importante:

- Sesso (donne > uomini) - Età (20-50 anni)

- Classe sociale - Stato civile

(29)

1

.

5 Tentativo di suicidio

E’ ormai da tempo accertato che tutti coloro che soffrono di un disturbo mentale, qualunque esso sia, abbia un maggiore rischio di suicidio o tentativo di suicidio. Tale valutazione è importante nella scelta del trattamento da intraprendere per monitorare quanto più possibile le idee suicidarie e ridurne il rischio. Studi condotti postmortem su pazienti con patologia mentale e non, dimostrano come siano pochissimi i suicidi che avvengono in assenza di patologia mentale. Nel corso del tempo, tutti i 35suicidi sono stati accertati per un periodo di 100 anni e

su 26 casi, circa il 92% soffriva di un disturbo depressivo maggiore, inoltre è stato evidenziato un’importante ruolo dell’ereditarietà alla base dei tentativi di suicidio, proprio per come questi si distribuivano nelle linee di parentela. Numerose ricerche sui suicidi, suggeriscono la presenza di specifici fattori di rischio relativi a determinati disturbi mentali, a tale proposito in uno studio condotto da alcuni ricercatori si osservò come i sintomi precedenti al suicidio in un gruppo di pazienti con alcolismo fossero diversi dai sintomi che precedevano il suicidio nel gruppo di pazienti che soffriva di depressione maggiore. Dunque per cercare di comprendere quali siano i fattori di rischio specifici per ciascun disturbo furono utilizzati studi di coorte retrospettivi o prospettici, i primi sono più facilmente eseguibili rispetto ai secondi che richiedono un lungo periodo di osservazione. In un importante studio condotto da Maser e collaboratori, vennero analizzate diverse variabili per capire, quali di esse, potesse essere un fattore predittivo di suicidio a breve e a lungo termine.

35 EGELAND JA., SUSSEX JN, Suicide and family loading for affective disorders, JAMA 1985,

(30)

Al termine dello studio, i ricercatori evidenziarono come i principali fattori predittivi del rischio di suicidio sia nel breve che nel lungo termine erano:

pregressi tentativi di suicidio con sicura intenzionalità e una storia di abuso di sostanze. Nei successivi follow-up dello studio emersero altre variabili

responsabili e predittivi dei tentativi di suicidio come; i tratti temperamentali,

elevata dipendenza, rimuginazione, impulsività e sensibilità al rifiuto, mentre l’età avanzata, e il non essere sposati non costituivano un fattore di rischio per il

suicidio. Ancora un altro studio di notevole importanza condotto da 36Clark e

collaboratori, su 928 pazienti con disturbo affettivo ha permesso di indagare se il livello di predittività di un pregresso tentativo suicidio aumenta o diminuisce nel corso del tempo. I ricercatori introducono, un modello di eterogeneità per spiegare la probabilità di suicidio, concludendo che il valore predittivo di un tentativo di suicidio rimane stabile nel corso del tempo e non subisce modificazioni per tentativi di suicidio futuri. Attualmente un importante fattore biologico predittivo del rischio di suicidio, in pazienti con depressione maggiore è il test di 37soppressione al dexametasone. I soggetti positivi a questo test

presentano maggiori tentativi seri suicidi accompagnati da un’alta intenzionalità e una maggiore attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. I soggetti che risultano negativi al test, invece hanno una probabilità di compiere tentativi di suicidio con bassa intenzionalità. Diverse 38analisi condotte dal Collaborative

depression study sui principali fattori di rischio clinici alla base del suicidio hanno permesso di evidenziare tra i principali fattori di rischio a breve termine;

un delirio di inserzione del pensiero, abuso di sostanze, presenza di episodi a frequente ciclicità o polarità mista, invece tra i fattori di rischio a lungo termine;

tentativi di suicidio remoti, mancanza di un ruolo, di speranza, isolamento cronico, allucinazioni, deliri e disabilità.

36 CLARK DC., GIBBONS RD., FAWCETT J et al, What is the mechanism by wich suicide attempts

predispose to later suicide attempets? A mathematical model, J Abnorm Psychol, 1989, pp. 42-49.

37 CORYELL W., SCHLESSER M, The dexamethasone suppression test and suicide prediction, Am J

Psychiatry 2001, pp. 748-753.

38 KELLER MB, Procedure cliniche per la depressine e il disturbo bipolare, Edra Lswr Spa, Milano

(31)

Attualmente la depressione, si configura come la patologia psichiatrica a più alto rischio di suicidio, infatti circa il 15% dei pazienti clinicamente depressi muore per suicidio. Come già noto, la depressione comporta una grave compromissione del sonno, autoconservazione, libido, l’alimentazione. Dunque il ritmo sonno-veglia dei pazienti con depressione, risulta notevolmente alterato, tra le più comuni alterazioni ritroviamo; insonnia tardiva con risveglio mattutino precoce,

incubi intensamente inquietanti, riduzione della durata del periodo caratterizzato principalmente da oscillazioni delta, aumento della latenza REM, percentuale della fase REM rispetto alle altre fasi del sonno risulta più lunga del normale. Pertanto diverse ricerche hanno permesso di ipotizzare un’elevata

correlazione tra alterazioni del ritmo sonno-veglia, comuni in tutti i pazienti depressi e rischio di suicidio, in particolar modo la correlazione tra insonnia e suicidio completato. A tale proposito alcuni 39ricercatori sostengono come sia

l’insonnia che l’ipersonnia siano associati ad un elevata tendenza suicidaria nei pazienti depressi. Anche in 40pazienti con dolore cronico un precoce risveglio è

stato collegato all’ aumento dell’ideazione suicidaria.

39 AGARGUN et al., 1997, CHELLAPPA ET ARAUJO., 2007, McCALL et al., 2010.

40 MARINOVA P., KOYCHEV I., LALEVA L et al., Nightmares and suicide: predicting risk in

(32)

Capitolo II: Neurobiologia della depressione

“Un’ esperienza potrebbe essere... emotivamente così forte…

da lasciare una cicatrice nel tessuto cerebrale” William James, 1890.

In questo secondo capitolo, ci soffermeremo più dettagliatamente sugli aspetti neurobiologici dell’umore, dal normale al patologico. Si procederà con una ricerca ad ampio spettro in cui verranno indagati i correlati neurometabolici che contraddistinguono un umore normale da un umore depresso, le alterazioni funzionali e strutturali connesse alla patologia prendendo in considerazione successivamente l’interazione tra fattori neurobiologici, neurochimici, neurofisiologici, genetici, psicologici e ambientali che stanno alla base di tale patologia e costituiscono quel modello multidimensionale necessario per comprenderne la natura, l’evoluzione e le conseguenze.

(33)

2.1 Aspetti neurobiologici dell’umore

La neurobiologia sia sperimentale che clinica ha permesso di dimostrare come nella patologia mentale e in particolar modo nelle alterazioni dell’umore, vi è una progressiva perdita di trofismo neuronale e una riduzione della plasticità. Le

41aree cerebrali maggiormente coinvolte in questo processo sono: l’ippocampo,

l’amigdala e la corteccia del cingolo che costituiscono insieme ad altre regioni

cerebrali quali; talamo, corpi mammillari, fascio mammillo - talamico, fornice,

ipotalamo, gangli della base, corteccia per frontale orbitale e mediale, il

cosiddetto “Sistema Limbico”, sede principale del controllo dell’emozione e principale rete di scambio delle interconnessioni neurali che collegano, l’elaborazione cognitiva dell’emozione e la produzione delle risposte emotive. Dunque il Sistema limbico è coinvolto in numerose funzioni quali; la regolazione emotiva dei pensieri, degli stimoli esterni, il controllo dell’appetito e del sonno e infine nella modulazione della libido e della motivazione. Alterazioni di tale “network cerebrale” si associa a pensieri negativi, irritabilità, alterazioni dell’appetito, del ritmo sonno veglia, riduzione della motivazione e depressione. Attualmente, l’ipotesi neurobiologica in grado di spiegare più accuratamente tali alterazioni neuroanatomiche, sostiene fortemente che l’associazione tra eventi stressanti prolungati ed elevati livelli di corticosterone, determina un’alterazione nelle stesse aree cerebrali che sono strutturalmente e funzionalmente alterate nella patologia umana.

41 STEGAGNO L, Psicofisiologia dalla genetica comportamentale alle attività cognitive, Zanichelli

(34)

Ciò accade, poiché concentrazioni fisiologiche di cortisolo nell’uomo, se da una parte è fondamentale per garantire la plasticità neuronale e indurre la neurogenesi ippocampale, dall’altra parte elevate concentrazioni di cortisolo per un periodo prolungato di tempo in associazione all’attivazione di sinapsi eccitatorie, provoca uno scompenso dell’omeostasi cellulare che predispone l’insorgenza alle recidive. Facendo riferimento ai numerosi studi sulla

42neurobiologia dell’umore è possibile sostenere che l’esposizione prolungata al

corticosterone sopprima la neurogenesi ippocampale. Infatti lo 43stress

interferisce con il processo di proliferazione cellulare, sopravvivenza neuronale e funzionalità. L’esposizione prolungata ad 44elevati livelli di glucocorticoidi può determinare, un’alterazione in altre strutture cerebrali, in particolar modo

nella 45PFC, nella quale avvengono cambiamenti neurodegenerativi che

riguardano; l’attivazione di microglia, atrofia dei neuroni piramidali, riduzione delle spine dendritiche e infine riduzione delle proteine sinaptiche come la PSD95. Di conseguenza, questi cambiamenti si associano a deficit cognitivi nei compiti che correlano con l’attività della corteccia prefrontale. Pertanto è possibile confermare che stress e depressione si associano entrambe ad atrofia neuronale e perdita di neuroni in regioni cerebrali sia limbiche che corticali.

Successivi 46studi neurobiologici, infatti dimostrano come i farmaci

antidepressivi siano in grado di stimolare la neurogenesi e il trofismo neuronale e dunque di indurre nel cervello la proliferazione e la differenzazione di nuovi neuroni con proprietà funzionali e di apprendimento.

42 WILLNER P., BELZUNGC C et al., The neurobiology of depression and antidepressant action,

Neurosci Biobehav Rev 2013, p. 2337.

43 CZEH et al., 2001; MIRESCU and GOULD, 2006; OOMEN et al., 2007; WONG and HERBERT,

2004.

44 DUMAN RS., Neurobiology of stress, depression, and rapid acting antidepressants: remodeling

synaptic connections, Depress Anxiety 2014, pp. 291-6.

45 Le aree frontali anteriori sono notevolmente più estese nell’uomo che nelle altre specie e complesse

sia da un punto di vista strutturale che funzionale.

Queste rappresentano la sede delle principali funzioni cognitive nell’uomo e occupano tre aree della superficie: laterale, mediale e orbitale ciascuna con una specifica funzione.

Inoltre ciascuna delle tre regioni è costituita, da una porzione dorsale superiore e una inferiore ventrale, la porzione dorsale media i processi cognitivi mentre la porzione ventrale è strettamente associata alla regolazione dei processi emotivi.

(35)

Il meccanismo d’azione, mediante il quale i farmaci antidepressivi inducono la neurogenesi e la proliferazione cellullare si basa sull’aumento dei livelli di fattori neurotrofici; in particolar modo il BDNF (brain-derived neurotrophic factor). A tale proposito, ricerche condotte postmortem sull’ippocampo di pazienti depressi, supportano il ruolo del BDNF non solo nella depressione ma anche nei tentativi di suicidio, infatti l’espressione del fattore neurotrofico di origine cerebrale risulta essere ridotto nei pazienti suicidi rispetto ai pazienti trattati con antidepressivi. Ulteriori 47studi clinici, osservando una riduzione

della concentrazione del BDNF nel siero e nel plasma di tali pazienti, considerano la concentrazione del BDNF nel siero come un biomarker della depressione e dell’efficacia dei farmaci antidepressivi. L’evoluzione delle tecniche di brain imaging ha permesso di dimostrare una stretta associazione tra i disturbi dell’umore e cambiamenti funzionali e strutturali in specifiche regioni cerebrali. La depressione, come già accennato precedentemente è associata alla neurogenesi dell’48ippocampo che svolge un ruolo predominante sia nella

memoria che nell’umore, infatti in molti pazienti depressi si riscontra una perdita dei neuroni dell’ippocampo e ciò correla proprio con alterazioni della memoria e umore distimico. La 49neurogenesi avviene a livello del giro dentato, regione della formazione ippocampale e diversi studi condotti su animali dimostrano come fattori stressogeni che inducono sintomi depressivi sopprimono la neurogenesi ippocampale. Inoltre un’altra struttura cerebrale maggiormente coinvolta nella depressione è l’amigdala, si evidenzia infatti una riduzione del volume in questi pazienti.

47 SCHMIDT., DUMAN RS, Peripheral BDNF produces antidepressantlike effects in cellular and

behavioral models, Neuropsychopharmacology 2011, p. 2378.

48L’ippocampo è una struttura cerebrale, situata nella circonvoluzione interna dei lobi temporali, le sue

principali componenti sono situate all’interno del lobo temporale, a livello sottocorticale del

proencefalo e nelle aree mesencefaliche. Queste strutture anatomicamente connesse tra loro, attorno al tronco encefalico, svolgono un ruolo importante nei processi di memoria e apprendimento, nel comportamento e nelle emozioni

(36)

Ricordiamo che 50l’amigdala, localizzata nella parte mediale del lobo temporale, rappresenta all’interno del sistema limbico, la struttura centrale nella regolazione delle risposte emozionali e in particolare delle reazioni di difesa. Pertanto, ippocampo e amigdala come un circuito altamente integrato giocano un ruolo non solo nella regolazione dell’umore ma anche nei processi di apprendimento e memoria. A tale proposito 51diversi autori, osservarono che i pazienti con

alterazioni dell’umore presentavano prestazioni peggiori rispetto ai soggetti sani nei compiti di memoria verbale e visiva. I compiti di memoria nei soggetti sani sono strettamente connessi a due porzioni cerebrali specifiche: cornu Ammonis (CA1-3) e giro dentato (DG), strutture che risultano invece ridotte nei pazienti con depressione maggiore. A sostegno di ciò, recenti 52studi di neuroimaging

suggeriscono che il DG e CA1-3 siano coinvolti nei processi di memoria visuo-spaziale. Fino a qualche tempo fa, si credeva che l’ippocampo fosse la sede centrale delle emozioni, come sostenuto da MacLean nella sua teoria del sistema limbico, successivamente si osservò un ruolo chiave dell’ippocampo in uno dei sistemi cognitivi più importanti del cervello, quello della memoria del lobo temporale. Attualmente, si ritiene che il 53cervello contenga diversi sistemi di

memoria; una memoria cosciente dichiarativa o esplicita, mediata dall’ippocampo che ci permette di ricordare cosa si stava facendo durante un trauma e una memoria implicita o memoria emotiva, mediata dall’amigdala che ci permette di ricordare le emozioni associate all’evento traumatico attraverso, la modificazioni di alcuni indici fisiologici come l’aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca. Entrambi i sistemi sono attivati dagli stessi stimoli e operano in parallelo per produrre funzioni della memoria indipendenti.

50STEGAGNO L, Psicofisiologia dalla genetica comportamentale alle attività cognitive, Zanichelli,

Bologna 2010, p. 95.

51 LEE et al., 2012.

52TRAVISA S., COUPLANDB NJ., SILVERSONEB PH et al., Dentate gyrus volume and memory

performance in major depressive disorder, Journal of Affective Disorders 2015, p. 159.

(37)

Dunque, ippocampo e amigdala sono strettamente connessi ad altre aree corticali come la corteccia ventromediale che svolge un ruolo fondamentale nel processo del 54decision making e nell’inibizione della risposta emotiva. Inoltre

l’attivazione della 55corteccia prefrontale ventromediale, implica il grado di

controllo del comportamento che un individuo ha sui fattori stressanti, pertanto quando un fattore stressogeno è controllato, l’attivazione del nucleo dorsale del raphe, indotta dallo stress è inibita dalla corteccia pre frontaleventromediale, ciò suggerisce che la corteccia prefrontale ventromediale è in grado di inibire l’attività neuronale indotta dallo stress, nei nuclei del tronco encefalico. La corteccia prefrontale ventrale è costituita dalla corteccia orbitofrontale e dalla

corteccia cingolata subgenuale che svolge un ruolo particolare. Quest’area

riceve afferenze dirette dal talamo dorsomediale, dalla corteccia temporale, dal sistema olfattivo e dall’amigdala e invia efferenze alla corteccia cingolata, ippocampo, ipotalamo laterale e amigdala, comunicando con altre regioni della corteccia frontale. In tal modo è in grado di fornire informazioni su ciò che accade nell’ambiente, attraverso le sue afferenze e di organizzare i comportamenti, le risposte fisiologiche e le risposte emozionali, modulate dall’amigdala. Lesioni della corteccia prefrontale ventromediale provoca alterazioni comportamentali e della capacità di prendere decisioni, associate ad una disregolazione emotiva. Diversi studi hanno permesso di osservare una stretta correlazione tra la disregolazione emotiva e la compromissione delle competenze che riguardano il mondo reale. Ulteriori ricerche dimostrano, come le reazioni emotive siano in grado di guidare i giudizi morali, le gratificazioni personali e le decisioni relative ai rischi e come la corteccia prefrontale sia implicata in questi processi.

54 Per decision making si intende, la capacità di indirizzare il proprio comportamento e di produrre

risposte appropriate sulla base di esperienze passate e delle loro conseguenze, questa abilità è mediata dalla corteccia orbitofrontale.

55 AMAT J., BARATTA MV., PAUL E., BLAND ST., WATKINS LR., MAIER SF, Medial

prefrontal cortex determines how stressor controllability affects behavior and dorsal raphe nucleus, Nature neuroscienze 2005, p. 365.

(38)

Fino a poco tempo fa, si credeva che i 56giudizi morali fossero l’espressione di processi razionali e consapevoli, attuali evidenze empiriche dimostrano invece come siano le emozioni protagoniste dei giudizi morali. Studi di neuroimaging hanno evidenziato alterazioni di altre strutture cerebrali; riduzione volumetriche dei gangli della base, talamo, corteccia frontale, sostanza grigia, corteccia cingolata che regola le emozioni e il comportamento e infine il cervelletto, coinvolto nella regolazione del tono muscolare e movimento. A tale proposito, si è osservato che nei pazienti con disturbi dell’umore vi è un’aumentata attività della corteccia cingolata anteriore che potrebbe predisporre ad un maggior rischio di recidive e una riduzione della porzione ventrale del cervelletto rispetto ai soggetti sani. Infatti, una storia ricorrente di depressione si associa a bassi

livelli di 57recettori GABA proprio nella corteccia cingolata. Studi

elettrofisiologici e biochimici hanno dimostrato la presenza di due differenti siti di legame del GABA, GABA a e GABA b che differiscono tra loro per struttura molecolare, profilo farmacologico e trasduzione del segnale). Un’altra struttura cerebrale profondamente associata alle alterazioni dell’umore è l’insula coinvolta anche essa nella regolazione delle emozioni, percezione e cognizione. A tale proposito 58studi condotti con fMRI hanno mostrato nei pazienti con alterazione dell’umore, variazioni della porzione anteriore dell’insula e della sostanza grigia. I risultati di questi studi concorrono a sostenere l’ipotesi secondo la quale, la depressione maggiore è caratterizzata da alterazioni cerebrali che sono alla base di più frequenti ricadute e malattie croniche. Una recente ricerca ha permesso di dimostrare, come pazienti con depressione maggiore, dopo il recupero rimangono comunque più vulnerabili all’incidenza di nuovi episodi con un rischio dell’80% rispetto alla popolazione generale.

56 CARLSON N.R, Fisiologia del comportamento, Piccin, Padova 2014, pp. 367-69.

57 I recettori gaba sono i principali neurotrasmettitori inibitori del SNC che si trovano in quantità elevata in

alcune strutture cerebrali come; nuclei della base, ipotalamo, sostanza grigia periacqueduttale e ippocampo.

58 FAKHOURY M, New insights into the neurobiological mechanisms of major depressive disorders,

(39)

Tale lavoro ha individuato un 59“default mode network” coinvolto nei meccanismi biologici sottostanti alla vulnerabilità. Pertanto attraverso fMRI, sono stati confrontati 20 soggetti dopo il recupero dall’evento depressivo con 20 controlli sani. I risultati dello studio hanno mostrato nei pazienti dopo il recupero, un’alterazione della connettività funzionale in alcune regioni cerebrali; in particolar modo a livello del precuneo bilaterale e della corteccia prefrontale

dorsomediale che costituiscono il substrato neurale per i modelli cognitivi,

introspettivi e meditativi. Ciò ha condotto i ricercatori ad ipotizzare che il “default mode network” continua ad essere alterato nei pazienti depressi in fase di recupero, agendo come substrato per l’elaborazione, interferendo con il reclutamento di reti più efficaci e infine determinando un substrato biologico della vulnerabilità. Il concetto del “default mode network” è stato introdotto, in seguito ad un numero esiguo di prove che dimostrano un pattern di disattivazione che coinvolge alcune regioni cerebrali, in particolare precuneo, corteccia cingolata posteriore, corteccia prefrontale mediale, laterale e corteccia parietale posteriore che si verifica durante l’esecuzione di un compito. Generalmente questa rete si attiva durante l’esecuzione di un compito ma diverse ricerche hanno mostrato che questa rete rimane attiva anche nel cervello a riposo, con un alto grado di connettività funzionale tra le regioni.

59 NIXON N.L ., LIDDLE P.F., NIXON E., WORWOOD G., LIOTTI M., PALANIYAPPAN L,

Biological vulnerability to depression: linked structural and functional brain network findings, The British Journal of Psychiatry 2014, pp. 283-5.

(40)

Questo stato di riposo è stato definito proprio 60“default mode dell’attività

cerebrale”, per indicare uno stato in cui il soggetto è vigile e sveglio ma non

attivamente coinvolto in compiti finalizzati. Successive 61ricerche a tale

proposito hanno permesso di evidenziare come nella depressione, alterazioni del default mode network correlano con ruminazioni negative. Dunque è possibile sostenere che alterazioni dell’umore, correlano con modificazioni strutturali e funzionali di specifiche aree cerebrali, coinvolte sia nella regolazione di specifiche funzioni cognitive che nella regolazione delle emozioni.

60 BROYD SJ., DEMANUELE C., DEBENER S., HELPS SK., JAMES CJ., SONUG-BARKE EJ,

Default-mode brain dysfunction in mental disorders: a systematic review, Neurosci Biobehav Rev 2009, p. 279.

61 WHIDFIELD-GABRIELI S., FORD JM, Default Mode Network Activity and Connectivity in

(41)

2.2 I correlati neurometabolici dell’umore normale

Con l’evoluzione di nuove metodologie di esplorazione metabolica funzionale del cervello, in particolar modo, la 62PET e la fMRI è oggi possibile studiare in

vivo e in maniera non-invasiva, i correlati neurometabolici sottostanti le funzioni

cerebrali. Attraverso la PET, si inietta nei pazienti il 632-deossiglucosio radioattivo, uno zucchero che viene assorbito insieme al glucosio nelle cellule. Quando le molecole radioattive di 2-deossiglucosio si suddividono, generano delle particelle definite positroni, quest’ultime successivamente emettono fotoni che percorrono direzioni opposte. I sensori posti sulla testa del paziente permettono di rilevare questi fotoni e lo scanner ci permette di visualizzare le aree dalle quali vengono emessi. In tal modo è possibile osservare una sezione cerebrale e l’attività delle regioni che la costituiscono. Dunque per lo studio in vivo del metabolismo cerebrale, gli 64isotopi più comunemente utilizzati sono; il

18 FDG (Fluoro 2 deossi glucosio) in grado di misurare il metabolismo

glucidico, l’H2 O15 in grado invece di misurare il flusso ematico e infine il 11 C,

attraverso queste sostanze è possibile misurare l’attività sinaptica di uno specifico distretto cerebrale. Gli isotopi marcati sono strettamente aggregati nell’acqua, nel glucosio e nelle molecole di specifici neurotrasmettitori. Quando gli isotopi marcati con sostanze radioattive vengono iniettati nella circolazione sanguigna, si posizionano generalmente nelle aree cerebrali con maggiore attività metabolica e quindi con maggior apporto di flusso ematico, ciò indica una maggiore attività neurale nelle stesse aree. Questa metodica di mappatura funzionale è molto utilizzata in diversi ambiti clinici e la sua efficacia si esplica nella capacità di rilevare patologie oncologiche, metaboliche, cerebrali, infettive e cardiache.

62 Gli studi in vivo risultano più attendibili rispetto agli studi in vitro, poiché in questi ultimi i

meccanismi biologici vengono riprodotti in provetta e non sull’essere vivente vero e proprio. Si prediligono gli studi in vivo poiché superano il limite anatomico, il limite dei modelli animali e permettono di valutare la segregazione e l’integrazione funzionale.

63 CARLSON N.R, Fisiologia del comportamento, Piccin, Padova 2014, p. 150.

64 PURVES D., BRANNON E.M., CAPEZA R, Neuroscienze cognitive, Zanichelli, Bologna 2009,

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