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Un caso esemplare: il “malsviluppo” della produzione alimentare

pianificazione sostenibile

3.1 L’insostenibile crescita infinita

3.1.1 Un caso esemplare: il “malsviluppo” della produzione alimentare

…per capitalismo non bisogna solo pensare ad un modo di produzione economica ma ad una mentalità proiettata a fare di ogni realtà esistente un'occasione di guadagno privato…

(Piero Bevilacqua)

Arrivare agli elevati livelli di produzione attuali è stato possibile grazie al crescente uso dei combustibili fossili che a seguito della rivoluzione industriale ha contraddistinto l’attività economica umana. Ciò che caratterizza il passaggio da un’economia legata all’energia solare, e quindi allo sfruttamento del vivente, ad una basata sulle risorse fossili è la possibilità di accrescere indefinitamente la produzione grazie all’utilizzazione di scorte il cui ritmo di prelevamento non dipende dai tempi necessari alla loro ricostruzione ma dallo stato della tecnologia159. Proprio la possibilità di accrescere indefinitamente la produzione, grazie agli stock di energia presenti sul pianeta, ha creato l’illusione di poter soddisfare i bisogni (illimitati) della società con una crescita economica continua, garantita da un adeguato sviluppo tecnologico. In realtà questo non è possibile; la finitezza delle risorse e la legge dell’entropia rappresentano un limite insuperabile, ma questo aspetto è posto in secondo piano dalle dinamiche di funzionamento dell’attuale modello di sviluppo che, non potendo rinunciare al paradigma della crescita continua, ritiene, in una sorta di ciclo autoreferenziale, di poter ovviare a qualsiasi criticità grazie al progresso tecnico, garantito dalla stessa crescita economica. L’unica responsabilità sociale degli individui diviene allora il perseguimento di questa crescita attraverso la massimizzazione del profitto individuale, nella convinzione che ciò sia funzionale all’utilizzo ottimo delle risorse e alla massimizzazione del profitto complessivo160. Infatti, nella logica

159 Mentre l’energia solare è una risorsa rinnovabile limitata alla velocità alla quale il sole la

fornisce alla Terra, i combustibili fossili sono una risorsa da accumulo che può essere sfruttata illimitatamente in relazione alla velocità con cui si riesce ad estrarre (G. Rist, Lo sviluppo. cit., p. 186).

160 Questo principio risale all'economista Adam Smith che, nel suo saggio del 1776 "Indagine sulla

natura e sulle cause delle ricchezza delle nazioni", elaborò una teoria basata sull'idea che tutto il sistema economico sia regolato da una "mano invisibile", ossia da un'inconsapevole regia che mantiene automaticamente in equilibrio il mercato. Nel massimizzare il profitto individuale - spiega Adam Smith - l'individuo è "come condotto da una mano invisibile" e involontariamente persegue un fine che non rientra nelle sue intenzioni, e cioè l'incremento della ricchezza complessiva, che rappresenta un obiettivo di cui finisce per beneficiare l'intera collettività (http://www.filosofico.net/smith.htm)

economicista (ovvero volta alla crescita economica) il perseguimento del profitto si ottiene tramite la continua creazione di valore, ovvero la continua partecipazione alla produzione di merci in grado di generare l’ambita prosperità. Ciò ha dato vita ad uno sviluppo distorto indirizzato verso la produzione di merci che ha creato una disponibilità sempre maggiore di beni di consumo ma che contestualmente ha rimosso tutti i limiti allo sfruttamento della natura e ha polarizzato la società tra chi può avere accesso al benessere, e chi, sfavorito dalla dinamiche sociali, ne è tagliato fuori161. In sintesi è possibile affermare che gli attuali livelli di produzione sebbene migliorino le disponibilità di beni per alcuni accrescono le differenze sociali e la crisi ecologica.

Naturalmente questi processi riguardano anche la produzione, la trasformazione, il trasporto e il consumo degli alimenti. Analizzare questo settore, sia per l’ovvia importanza che ricopre per la società, sia per gli elevati impatti che lo contraddistinguono162, può risultare particolarmente esplicativo delle dinamiche messe in essere dall’attuale modello di sviluppo. Si possono individuare con i dovuti distinguo, nelle pratiche di produzione alimentare analogie comuni ad ogni modello produttivo di ogni settore delle società industriali.

La diffusione delle pratiche agro-alimentari di tipo industriale rappresenta una delle cause principali della distruzione ambientale e dell’instabilità sociale. Man mano che lo sviluppo tecnico dell’uomo è progredito la produzione alimentare è passata da un rapporto simbiotico con la natura ad un rapporto predatorio. L’economista indiana Vandana Shiva in molti suoi saggi ha utilizzato il termine “malsviluppo”163 per indicare i processi industriali di produzione alimentare; processi che, afferma Shiva, non rispettano i principi conservativi ecosistemici e logorano le economie rurali perché hanno come obiettivo lo sfruttamento esasperato e continuo delle risorse per produrre merci da immettere sui mercati. Il

161 Nonostante che in 40 nazioni, a partire dal 1990, il reddito pro capite abbia avuto un incremento

pari al tre per cento annuo, più di 80 nazioni hanno dei redditi pro capite che sono attualmente più bassi rispetto a quanto non fossero un decennio fa. Un quinto della popolazione mondiale vive con meno di un dollaro al giorno, priva dei mezzi necessari a provvedere alle proprie necessità fondamentali quali cibo, acqua potabile e assistenza sanitaria (http://www.onuitalia.it/calendar/conferenze/2002johannesburg/PRESS-KIT-10.html).

162 Globalmente il settore assorbe il 75% dell'acqua dolce e il 20% dell'energia. Un terzo di tutti i

trasporti sono legati al viaggio degli alimenti; un terzo delle terre emerse (escluse le aree ghiacciate) è destinato alla produzione alimentare. Un dato molto preoccupante, per la scarsa efficienza energetica che comporta, è quello che negli ultimi quarant’anni ha visto più che raddoppiare la produzione mondiale di proteine animali: da 25 miliardi di kg a 60 miliardi (M. Correggia, Vitelli o piselli? Maiali o fagioli?, in "Il Manifesto" 17 giugno 2006).

termine “malsviluppo”164 indica appunto uno sviluppo deforme, il cattivo funzionamento di un sistema che vede la logica del profitto preordinata alla natura e agli individui. In quest’ottica sia la natura allo stato originario che le colture di sussistenza, non rientrando in alcun ciclo economico, sono considerate improduttive; per alzare il livello di ricchezza la natura deve essere lavorata per produrre merci, solo la produzione volta al mercato garantisce i profitti e la conseguente prosperità165.

In linea con questa impostazione si sono sviluppate tecniche che consentono di massimizzare le produzioni attraverso la somministrazione di input energetici. Produzione alimentare ed energia sono collegati tra loro in un rapporto di interdipendenza. L’agricoltura tradizionale utilizza esclusivamente l'energia solare: tanto il lavoro dei contadini quanto quello degli animali è reso possibile dalla fotosintesi clorofilliana generata dal sole, mentre la produzione dipende dai ritmi legati a questa energia. L’agricoltura industriale, fornendo energia fossile alle produzioni166, accelera ed intensifica questi ritmi e crea l’illusione di poter produrre cibo all’infinito. In realtà gli elevati investimenti energetici necessari hanno reso passiva l'agricoltura sotto il profilo della produzione energetica. Se si guarda sotto questo aspetto il sistema non si può fare a meno di notarne le inefficienze; infatti l’energia utilizzata nella fase di produzione supera l’energia contenuta nel cibo prodotto. Un settore che nei secoli precedenti è stato produttore

2009, p.13

164 Il termine indica una crescita “selvaggia” noncurante dei costi sociali ed ambientali e connotata

da una duplice forma di spreco: la distruzione di risorse rare per la produzione di beni superflui e la sottoutilizzazione di risorse abbondanti per la soddisfazione di bisogni essenziali. Il “malsviluppo” si manifesta nelle società “industrializzate” attraverso uno stile di vita dissipativi, mentre nei PVS assume l’aspetto della crescita imitativa (P. Gisfredi, Ambiente e Sviluppo, Milano, Franco Angeli, 2002 p.34).

165 Sulla filosofia riduzionista che, promuovendo le regole di funzionamento del capitalismo e

favorendone gli interessi, di fatto giustifica il “malsviluppo” l’economista indiana Vandana Shiva ha affermato: <<…un assalto all'idea degli esseri umani come parte della natura e a quella di natura come organismo vivente: la natura è stata uccisa e la “terra mater” convertita in “terra nullius”, una terra vuota, priva di capacità produttiva e creativa, un mero amalgama di materie prime da sfruttare per creare merci e quindi profitti…>> (G. Battiston, Dalla parte degli ultimi, cit. p.13).

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L’agricoltura industriale ricorre a fonti energetiche non rigenerabili per l’ampliamento delle capacità produttive e la gestione delle produzioni: la fabbricazione di fertilizzanti e pesticidi utilizza componenti derivati dagli idrocarburi, Si calcola che per produrre un quintale di azoto occorrano 5 quintali di carbone e che per una tonnellata di concime servano tre tonnellate di petrolio. Le macchine agricole, che permettono d’incrementare notevolmente la produttività del lavoro umano, funzionano grazie a combustibile, il petrolio viene usato per il trattamento industriale del cibo, di petrolio è fatta la plastica delle confezioni. E infine il petrolio serve a trasportare gli alimenti sempre più lontano dal luogo di produzione (P. Bevilacqua, La Terra è

finita. cit. pp. 98 ss., M. Pallante, Decrescita e terzo mondo,

netto di energia, nella forma di calorie di origine animale e vegetale, è divenuto più consumatore di energia di quanta ne produca167. Come dimostrato dalle leggi della termodinamica non esiste una corrispondenza diretta tra l’immissione e la produzione di energia,; l’immissione di energia in agricoltura ha continuato a crescere senza un corrispondente aumento nei raccolti: Al contrario si è raggiunto un punto oltre il quale i “ritorni” sono marginali. In effetti, a causa del degrado del suolo, delle accresciute esigenze dovute al controllo dei parassiti e ai sempre maggiori costi energetici per la gestione dell’irrigazione, l’agricoltura moderna deve continuare ad aumentare il suo investimento energetico semplicemente per mantenere l’entità dei raccolti attuali168. La moderna produzione alimentare è insostenibile poiché è fondata sullo sfruttamento intensivo e prolungato dell’ambiente. La continua ricerca da parte dei produttori di nuovi profitti da realizzare tramite l'aumento della produzione porta a depredare i boschi e le foreste per far posto al grano e al pascolo169. Il pianeta è sempre più sfruttato, sottratto alla vegetazione spontanea e sottoposto a logiche economicistiche. La produzione alimentare, risucchiata nella stessa logica mercantile della crescita quantitativa, cessa di essere una pratica economica autosufficiente e auto- riproduttiva, fondata su risorse rigenerabili, ma basa la crescita delle proprie produzioni sullo sfruttamento di altri territori e sulla trasformazione degli stock di risorse fossili in alimenti. La concimazione non avviene più tramite fertilizzanti costituiti da materiali rinnovabili, come il letame, ma con sostanze minerali

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La produzione netta di energia nell’agricoltura industriale è negativa. Possiamo distinguere due forme di energia, l’endosomatica e l’esosomatica. L’energia endosomatica è prodotta dagli organismi viventi con la trasformazione metabolica dell’energia alimentare. L’energia esosomatica è generata trasformando in energia qualcosa all’esterno del metabolismo come la luce nella fotosintesi clorofilliana o la benzina in un mototre. Nell’agricoltura industriale, i combustibili fossili incidono sul 90 per cento dell’energia esosomatica usata. Sono necessarie dieci kilocalorie di energia esosomatica per produrre una kilocaloria di cibo, le restanti 9 kilocalorie vanno a produrre rifiuti, inquinamento e maggiore entropia. Parte di questa energia sprecata va nell’atmosfera e contribuisce al cambiamento climatico (V. Shiva, Dall’era del petrolio a quella

dei campi. cit.).

168 Per valutare l’inefficienza energetica della produzione industriale di alimenti è sufficiente

notare che nei vent'anni successivi al 1952 i consumi energetici dell'agricoltura industrializzata sono aumentati del 70%, la produzione alimentare, invece, è cresciuta solo del 30% (P. Bevilacqua, La Terra è finita. cit. p. 101).

169 Nel 2005 il WWF stimava scomparsa circa il 17%della copertura forestale dell'Amazzonia

brasiliana, e rilevava come dal 2001 il tasso di deforestazione annua fosse in continua crescita a causa dello sfruttamento più intensivo e selvaggio della foresta,. Da qualche anno la forza trainante della deforestazione è l'allevamento del bestiame. L'export di carne brasiliana è triplicato tra il 1995 e il 2002 e continua a crescere. Allevare bovini su scala massiccia significa creare nuovi pascoli, dunque tagliare alberi in zone vergini, finché il pascolo si esaurisce e si va a tagliare altrove. A questo poi si sommano le grandi piantagioni industriali, soprattutto la soia, e il commercio illegale di legno (M. Forti, Brasile: Amazzonia, distruzione da record, in “Il

sottratte alla terra; la fertilità delle campagne viene dunque dipendere dal saccheggio delle riserve di minerali ed idrocarburi sparse nei vari angoli del pianeta.

Le innovazioni ad alta intensità energetica introdote hanno trasformato le dinamiche naturali di produzione degli alimenti sconvolgendo condizioni ed equilibri ambientali. Il passaggio da modalità colturali tradizionali a tecniche industriali, cioè lo spostamento da un processo ecologico di riproduzione ad un processo tecnologico di produzione, conosce un momento di svolta a partire dalla metà degli anni Quaranta, quando prese avvio quella che in seguito sarebbe stata definita la “rivoluzione verde”170. La minor forza lavoro richiesta dal nuovo sistema produttivo e i buoni risultati ottenuti contribuirono a radicare l’illusione che si potesse creare benessere investendo nello sviluppo tecnologico delle pratiche agricole, indipendentemente dagli equilibri ambientali. Da allora lo sviluppo agricolo è stato fondato sull’uso di sementi (denominate “high yielding varieties” HYV)171 selezionate per rispondere meglio ad inputs esterni al fine di moltiplicarne la produttività e sulla meccanizzazione delle varie fasi del processo produttivo. In effetti i risultati in termini di crescita delle rese sono stati notevoli. Ma è altrettanto vero che una simile trasformazione ha comportato costi sociali ed ambientali di vasta e durevole portata. Il salto produttivo garantito dalle sementi selezionate è possibile solo grazie all'uso intensivo di inputs esterni, questi hanno un costo ed il denaro necessario ad acquistarli si può avere solo se si vende ciò che si produce, ovvero solo se si produce per vendere. I prodotti chimici comportano in alcune regioni il passaggio da un'agricoltura di sussistenza, basata sulla rotazione e la combinazione delle diverse colture per l’auto-consumo, ad un’agricoltura mercantile imperniata sulla monocoltura della specie più adatta al mercato. Il risultato è una drastica riduzione della biodiversità. La coltivazione

Manifesto” 21 maggio 2005 ).

170 In sostanza si tratta di un rinnovamento delle tecnologie e delle pratiche agricole che lega la

produttività dei terreni agli investimenti economici, essendo le innovazioni introdotte fondate sull’uso intensivo di input chimici (fertilizzanti, pesticidi, diserbanti, antibiotici etc.), sulla diffusione di nuove sementi “ibride” preparate in laboratorio e sulla meccanizzazione delle varie fasi di lavorazione, tutti processi “capital intensive” (P. Bevilacqua, La Terra è finita. cit. pp. 98 ss).

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. L’espressione “varietà ad alta resa” è fuorviante poiché lascia credere che i nuovi semi siano ad alto rendimento in sé e per sé. In realtà la loro caratteristica distintiva è quella di rispondere bene a determinati input di produzione. Nel caso tali input vengano a mancare, i nuovi semi rendono meno delle varietà indigene. Per questo motivo l'espressione “varietà ad alta risposta”, in sostituzione di quella “varietà ad alta resa”, sarebbe più appropriata (F. Lappe, J. Collins, Food

intensiva dei nuovi semi sostituisce i raccolti tradizionali, ma le nuove varietà derivano da una base genetica ristretta rispetto alla elevata varietà genetica esistente nelle tradizionali popolazioni di piante coltivate172. L'assenza di diversità genetica rende le coltivazioni vulnerabili alle epidemie di infestanti e alle malattie, che si possono diffondere rapidamente su vasti territori, data l'uniformità delle colture. I sistemi di raccolto basati sulla diversità delle varietà indigene meglio adattati alle condizioni locali sono resistenti agli imprevisti climatici, agli agenti infestanti e alle malattie: quando una malattia insorge, alcuni ceppi ne risentono mentre altri sono in grado di sopravvivere. Anche la rotazione delle colture aiuta a tenere sotto controllo gli infestanti: poiché essi sono normalmente specifici di date piante, la rotazione dei raccolti nelle stagioni e negli anni determina un forte abbattimento della popolazione d'infestanti. Al contrario, ricavare lo stesso raccolto su vaste aree, anno dopo anno, favorisce la riproduzione dei parassiti. Per ovviare a questi inconvenienti è necessario seguire l’intero ciclo produttivo delle nuove colture con ripetute operazioni di disinfestazione a base di fitofarmaci e pesticidi. Le ingenti quantità di agenti chimici utilizzate, superando le capacità di assorbimento dei suoli, mineralizzano il terreno e lo riempiono di metalli pesanti rendendolo progressivamente sterile ed improduttivo. Il suolo si deumidifica e perde capacità di trattenere l'acqua, i concimi chimici dilavati dalle piogge si infiltrano nei corpi idrici provocando un aumento della concentrazione di nitrati che ne pregiudica la potabilità; aumentano inoltre i fenomeni di eutrofizzazione delle acque di superficie a causa degli eccessivi apporti di sostanze nutrienti. Con le tecniche di coltivazione chimica intensiva le piante crescono in un ambiente inquinato ed artificiale e si genera un circolo vizioso da cui sembra impossibile uscire: l’uso continuo di prodotti chimici riduce la popolazione naturale di batteri fissatori e impoverisce l’humus del terreno, questo richiederà dosi sempre più massicce di prodotti di sintesi che aggraveranno ulteriormente la contaminazione delle acque e l’erosione del suolo173.

L’industrializzazione delle produzioni agricole separa due mondi produttivi: agricoltura e allevamento del bestiame. Gli allevamenti intensivi sono

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Secondo la FAO è andato perduto il 95% della diversità genetica utilizzata in agricoltura all'inizio del XX secolo. L'umanità dipende oggi per l'alimentazione da un numero molto limitato di piante. Diciannove di esse rappresentano il 79% della produzione mondiale, e tre (grano, mais e riso) quasi la metà (G. Barbieri, F. Canigiani, L. Cassi, Geografia e cambiamento globale, Torino, UTET universitaria, 2006, p.198).

riconducibili alla stessa logica di sfruttamento che alimenta la monocoltura: le popolazioni di bestiame vengono rese omogenee sostituendo molte razze locali con capi che aumentino le rese e riducano i tempi d’allevamento; i macchinari, gli input produttivi e le competenze sono standardizzati al fine di produrre sempre più beni; il tutto a spese dell’ambiente e della sua biodiversità. Tale prassi presenta gravi problematiche, l’ossessione per la redditività crea “catene di montaggio della carne” che consumano quantità smisurate di energia, inquinano, generano gas serra e richiedono quantità enormi di cereali, grassi vegetali (olio di palma e olio di cocco in particolare), con cui si “gonfiano” gli animali da quando non è più possibile utilizzare le farine di origine animale. In questi contesti gli animali destinati alla nostra alimentazione sono allevati in condizioni di dura segregazione e sono spinti ad ingrassare velocemente con mangimi industriali ed ormoni per la crescita. Il bestiame industriale prospera solo nel senso che acquisisce peso rapidamente ma il rovescio della medaglia è rappresentato dalle gravi patologie sviluppate. Gli animali manifestano alterazioni fisiche, nevrosi, malformazioni congenite, tumori da cui sono protetti con antibiotici e chemioterapici; questi medicinali vengono somministrati loro anche al solo scopo preventivo poiché gli spazi ristretti in cui vivono favoriscono la rapida diffusione delle malattie. Queste produzioni esercitano un impatto ecologico elevatissimo174, sia in termini di utilizzo delle risorse (occupazione dei suoli, perdita di biodiversità e foreste, uso dell'acqua), sia per quanto riguarda le emissioni inquinanti: il 16% del metano immesso in atmosfera, uno dei GES più pericolosi, viene prodotto dagli animali da allevamento; inoltre le loro deiezioni, avendo scarso contenuto organico e

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A questo si deve aggiungere la totale inefficienza della produzione di proteine animali. Occorrono fino a 15 kg di vegetali per un kg di prodotti animali; l’allevamento bovino, il più energivoro, richiede circa 122 kcal per ogni kcal di carne. Ogni anno circa il 40 – 50% del raccolto globale di vegetali è ogni anno destinato a mangime. L'Institute of Environmental Studies dell'Università di Vrije in Olanda, ha effettuato uno studio da cui emerge che la strada verso modalità sostenibili di produzione e consumo alimentare inizia dalla rivoluzione nell'attuale catena di produzione delle proteine. Secondo lo studio i benefici ambientali di una transizione alle vegetali potrebbe ridurre di 3 o 4 volte il fabbisogno di terra ed energia, e del 30 - 40% il fabbisogno di acqua e l'impatto eutrofizzante. Si ipotizza che una tale modifica comporti anche benefici sulla salute sia nei paesi ricchi (meno obesità e meno malattie) sia nei paesi del Sud del mondo, dove si renderebbe disponibile una maggiore quantità di proteine a uso umano. Ed invece Il consumo mondiale di carne è in continuo aumento, in seguito sia alla crescita demografica sia al crescente uso di questo alimento: nei paesi economicamente sviluppati il consumo pro-capite è di circa 80 kg l’anno; nei paesi in via di sviluppo, di circa 30 kg l’anno (media statistica, quest’ultima, che nasconde la differenza tra una minoranza ben nutrita e una maggioranza