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Versi a Proserpina

Nel documento L'epifania nel primo Sereni. (pagine 94-98)

Capitolo 5. La ricerca della parola

5.2 Versi a Proserpina

165 ISELLA, 1991, pag. 38. 166 Idem, p.

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Il dato biografico è per adesso immesso in poesia con fatica e scontento, poiché ancora si concilia male col gusto evanescente dell’ermetismo. La breve terza sezione della raccolta, Versi a Proserpina, esemplifica questa opposizione nel modo migliore. Originariamente era un gruppo di dieci poesie composte tra gli estremi del ’37 e il ’45 ma principalmente dopo il ‘41. Nel 1960 vennero vagliate dall’autore, che le considerava «i versi più giovanili ed estenuati insieme» e le cinque giudicate migliori, il giusto compromesso tra risultato poetico e testimonianza del tempo, saranno incluse nella ristampa di Frontiera. Quello che interessa delle cinque poesie è quanto queste si lascino leggere come un piccolo ciclo del tutto biografico, non avendo tra loro neanche la divisione dei titoli, dando conferma della progressiva volontà di raccontare una vicenda personale. Il principio regolatore dei componimenti non sarà comunque quello cronologico, al modo dell’Allegria di Ungaretti o del Diario futuro dello stesso Sereni, ma una scansione narrativa collaudata nella tradizione italiana di presagio di morte, morte e ricordo della donna ormai assente. Le tappe del racconto sono anche proiettate sullo sfondo ciclico delle stagioni, anche se nella pubblicazione finale quest’ultimo effetto non è immediatamente percepito, data l’assenza di metà delle poesie: si capisce però che la vicenda inizia almeno nella tarda primavera, o inizio d’estate, per concludersi alla metà di marzo, giorno di S. Giuseppe (riprendendo l’incipit della prima delle poesie non pubblicate: «Eternamente è marzo»). Del modello di questo canzoniere minimo parlerei nel prossimo paragrafo, dato che mutua molto dal lavoro più recente di Montale.

Per quanto riguarda lo stile, come per il lessico, siamo ancora nelle regioni ermetiche: il soggetto trattiene sempre la propria diretta espressione e si affida a particolari significativi e quindi a una modalità collaudata e ben presente nelle precedenti sezioni di Frontiera quando un io si mostrava più saltuariamente e non dominava le scene e i luoghi. In Memoria d’America, l’abbiamo visto, il soggetto si definisce «solo» e «abbandonato»; in Inverno, poesia d’apertura della prima sezione e dell’intera raccolta, non compare la prima persona e, come veniva sottolineato da Mengaldo, «tutta o quasi tutta quasimodiana è la modulazione167». Nella seconda sezione, omonima del titolo, è la familiarità geografica a fare da collante per le poesie e lascia individuare il soggetto perlopiù in negativo, presente in quanto immancabile. In Versi

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a Proserpina, in realtà, più d’uno sono i tratti quasimodiani, come nota

D’Alessandro168, ma questo gruppo di poesie è l’ultimo momento, nel percorso evolutivo sereniano, in cui il vocabolario ermetico soccorre in modo cospicuo l’autore. Quando Sereni, nel 1960, giudica questi versi come «una debolezza, un cedimento, un lato esteticamente manchevole169» da nascondere, lamenta proprio l’affanno, che ormai gli è chiaro, del linguaggio della poesia ermetica nel misurarsi con l’aspetto più quotidiano della vita.

Quello che mi interessa sottolineare è che, nonostante queste poesie siano composte dopo la lettura e lo studio delle Occasioni e dopo la stesura di ciò che Sereni stesso reputava come «il meglio del volume (Luino, Diana, Zenna)170», persista una resistenza a rinunciare a quel codice. La prima poesia che si incontra, appena dopo l’epigrafe, inizia con due versi «La sera invade il calice leggero/ che tu accosti alle labbra», un distico musicale di endecasillabo e settenario. Questa poesia, come anche la seguente Te n’andrai nell’assolato pomeriggio, rientrava inizialmente nel Diario

d’Algeria e nella sua prima edizione del ‘47 fu letta da Saba, che in nel secondo

dopoguerra intrattenne frequentazione e scambio epistolare con Sereni. I versi che ho riportato costarono a Sereni un richiamo secco da parte sua: «due bei versi che non dicono niente171». Altre tangenze con l’ermetismo, cercando nelle prime quattro poesie, sono le voci ripetute «prato-i», le immagini vaghe di «nuvole», «nube» e «ombra», l’apostrofe alla propria voce «E tu […] o mia voce più dolce», l’espressione «avvento/ della luna», la personificazione delle ortensie che «dicono», la solita preposizione a di «un fuoco salito alle ville», una certa insistenza evocativa dei «freddi/ verdi astri d’autunno», la figura mitica della «sirena». Costituisce eccezione l’ultima poesia, Sul tavolo tondo di sasso, che sembra essere immune al ricorso alle «zeppe172» tanto da essere scelta da Mazzoni come esempio di lirica matura, «una delle […] più belle di questo periodo173». Quello che spaventa Sereni, riconducendolo sulla via sicura della poesia maggiore del tempo, sembra essere l’attrazione per la quotidianità sapendo di non avere l’autorevolezza di trattarla in poesia con le proprie

168 D’ALESSANDRO, 2012, pp. 37-38. 169 ISELLA, 2010, p. 380. 170 ISELLA, 1991, pag. 48. 171 GIBELLINI, 2015, pag. 54. 172 ISELLA, 1991 pag. 38 173 MAZZONI, 2002 pag. 124

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parole, preferendo quindi ricoprirla con una patina di vaghezza o lirismo. Quando poi nel ciclo a Proserpina la componente biografica e di progresso temporale deve unire non strofe ma intere poesie, Sereni ricorre al linguaggio ermetico per evitare una prosaicità di cui ancora non si fida e dall’altro per conferire unità al ciclo, obiettivo che persegue anche tramite i rimandi lessicali e qualche corrispondenza metrica, come l’endecasillabo finale di ognuna delle cinque poesie. Il soggetto, che potrebbe svolgere lo stesso compito scandendo con la propria esperienza la morte e l’assenza della donna, si ritira.

Raggiunto questo limite ed esaurite le possibilità che l’indeterminatezza poteva offrire nell’adeguarsi alla propria vita, Sereni attua un cambio di priorità per la sua poesia: una fedeltà maggiore a quanto vissuto e meno vincolata da esclusioni estetizzanti. Tutto ciò, proposito e soluzione, covava già quando nel 1940, in una lettera al solito Vigorelli, sottolineava come «la voluttà e la profusione dei convogli, del balcone, dell’abito chiaro, della sera di Pasqua 1939» che leggeva nella sua poesia, fossero soltanto «palliativi» e «modi di mascherare un’impotenza con la vaghezza delle suggestioni174», riferendosi agli aspetti semplici della vita che mal digeriva il linguaggio poetico del suo tempo. Sempre nella stessa lettera, poco oltre, aggiungeva a mo’ di confessione o, come nota Stasi175, con «illuminante schizofrenia», che dopotutto «non potrà mai fare a meno di parlare dell’abito chiaro ecc. Perché vorrà sempre che della sua vita rimangano anche quelle cose» e a ciò si aggiunge la necessità di porre le proprie esperienze a fondamento della poesia, e quindi di seguire un invito banfiano appreso ai tempi dell’università. Sarà a quel punto che la strada intrapresa da Montale si rivelerà feconda, non essendo riducibile a solo repertorio lessicale. Sereni infatti la riconoscerà quale strumento principe non per tradurre in poesia una quotidianità insoddisfacente e ignobile ma per dirigere sé stesso verso un mondo già «abitato da poesia176». Nella recensione alle Occasioni Sereni mostra di aver letto in Montale una lirica del tutto a suo agio con la realtà moderna, obiettivo che pone per sé ma che non raggiunge per un veto troppo netto sia al mezzo della lingua sia ai suoi referenti che non possono far altro che perdere la loro specificità.

174 ISELLA, 1991, p. 36 175 STASI, 2000, p. 68. 176 SERENI, 2013, p. 1008

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Isella177 definisce quest’inclinazione «petrarchesca», indicando così «qualsiasi processo di decantazione della complessità del reale per estrarne delle levigate essenze primarie». L’attitudine, cui sono estranei sia Montale sia Saba, per fare due nomi contemporanei illustri, muterà lentamente in merito a entrambi gli aspetti, introducendo le vicende personali di guerra e con un linguaggio più preciso nel riferirle.

Nel documento L'epifania nel primo Sereni. (pagine 94-98)