• Non ci sono risultati.

L'epifania nel primo Sereni.

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "L'epifania nel primo Sereni."

Copied!
130
0
0

Testo completo

(1)

DIPARTIMENTO DI

LETTERATURA, FILOLOGIA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN ITALIANISTICA

TESI DI LAUREA

L’epifania nel primo Sereni

CANDIDATO

RELATORE

Gennaro Laurenza

Chiar.mo Prof. Raffaele Donnarumma

CONTRORELATORE

Chiar.mo Prof. Alberto Casadei

(2)
(3)

3

Introduzione ... 5

Capitolo 1. L’epifania ... 8

1.1 Considerazioni del tardo Sereni ... 8

1.2 Breve salto a Dublino ... 9

1.3 Una tradizione europea ... 12

1.4 L’epifania in Italia: Montale ... 17

Capitolo 2. Prima parte di Frontiera ... 23

2.1 Sereni lettore di Montale ... 23

2.2 Contatto con l’epifania ... 25

2.3 Le mani ... 28

2.4 Compleanno... 31

2.5 L’epifania conservatrice. Temporale a Salsomaggiore. ... 38

Capitolo 3. Seconda parte di Frontiera. Soggiorno a Luino. ... 49

3.1 La riscoperta di Luino ... 49

3.1.1 Epifania in Inverno a Luino ... 53

3.2 Strada di Zenna ... 57

3.2.1 Epifania in Strada di Zenna ... 69

3.3 Ancora sulla frontiera ... 74

3.3.1 Settembre ... 74

3.3.2 Un’altra estate ... 75

3.3.3. In me il tuo ricordo ... 77

Capitolo 4. Il Diario d’Algeria ... 82

4.1 Spesso per viottoli tortuosi ... 82

(4)

4

5.1 Linguaggio ermetico nel Concerto... 86

5.1.1 Memoria d'America ... 86

5.1.2 Poesia militare ... 91

5.2 Versi a Proserpina ... 93

5.3 Sereni e la poesia dei suoi anni ... 98

5.3.1 La chiave montaliana ... 106

5.3.2 Confronto tra modelli ... 115

5.4 Terrazza ... 120

5.5 Conclusione ... 125

(5)

5

Introduzione

In questo lavoro di tesi cercherò di definire il rapporto tra le prime due opere di Vittorio Sereni e la tecnica letteraria dell’epifania. L’interesse per il tema nasce dalla constatazione che il Sereni maturo di Strumenti umani (1965) e Stella variabile (1981) è ormai considerato autore familiare con l’epifania. Donnarumma ritiene Sereni il poeta modernista, oltre Montale, per cui «si può richiamare in modo più pertinente1» l’epifania. Mazzoni2 vede realizzati nella sezione Apparizioni e incontri, l’ultima degli Strumenti umani, diversi tipi d’epifanie. Lo stesso Mazzoni ritiene che anche per

Stella variabile è possibile parlare di metodo epifanico a patto di riconoscerne le

ambiguità e Gibellini3, analizzando le poesie di quelle due raccolte composte in tempi e in luoghi diversi afferma che «è come se Sereni fosse sempre alla ricerca di un’epifania».

Nel primo capitolo ci sarà un percorso tra vari autori modernisti che si sono affidati alle tecniche epifaniche. L’obiettivo sarà fornire una panoramica sulla letteratura primonovecentesca cui Sereni abbia avuto accesso. Il «sentimento della frontiera» che anima il libro nasce dalla «chiusura antidillica della vita quotidiana di quegli anni, d’anteguerra, e la tensione verso quello che stava al di là, verso un mondo più grande4». Durante i suoi anni universitari Sereni ebbe modo di conoscere ciò che la chiusura nazionalistica lasciava fuori. Le lezioni di Banfi lo portarono, fin da subito, a confrontarsi con i meriti di un romanzo europeo fatto di

pienezza e di concretezza in rapporto alle esigenze di uomini vivi e viventi in una determinata epoca contro la vaghezza poetica, tutt’al più velata di leggiadria, ma in realtà estranea a tali esigenze e problemi5.

I nomi che Sereni avanza sono quelli di «Proust, Kafka, Joyce, Thomas Mann6» e l’attenzione si concentrerà soprattutto su Proust e Joyce e sul tipo di scrittura epifanica utilizzato da loro. 1 DONNARUMMA 2018, p. 81. 2 MAZZONI 2002, pp. 166-174. 3 GIBELLINI 2015, p. 93. 4 CAMON 1965, p. 141. 5 D’ALESSANDRO 2012, p. 213. 6 Idem, p. 214.

(6)

6

Il secondo capitolo seguirà i primi tentativi epifanici di Sereni, raccolti nella prima sezione di Frontiera. Nelle poesie di Concerto in giardino saranno individuati alcuni luoghi tipici della rivelazione epifanica e le caratteristiche che questi avranno, prestando attenzione anche al testo in cui sono inseriti. La prima sezione del libro, infatti, contiene più della metà delle poesie totali del libro e copre l’arco cronologico più esteso.

Nel terzo capitolo l’attenzione si sposterà verso la parte centrale di Frontiera, dove sono concentrate le poesie composte durante i soggiorni luinesi e sull’onda lunga di quelli. Nei testi della seconda sezione il tema dell’epifania è svolto in modo nuovo rispetto alle poesie precedenti. L’ambiente di Luino fu ricco di stimoli e Sereni seppe elaborarli per tentare «un’intonazione» personale. L’idea di avere solo «sbalzi e variazioni7» e non una voce propria è una delle autocritiche più nette che il giovane poeta si rivolgeva. Inverno a Luino e Strada di Zenna sono invece poesie riuscite e che costituiscono un punto centrale nella costruzione di un percorso epifanico in Sereni. Un breve sguardo ad alcune poesie successive metterà in luce quale sia il debito verso i risultati di quelle due liriche.

Il quarto capitolo affronterà brevemente la poesia Spesso per viottoli tortuosi che appartiene alla sezione centrale di Diario d’Algeria. Il testo, risalente al 19448, utilizza l’epifania in modo diverso rispetto al primo libro. È un segno importante di come Sereni sia stato pronto a mutare i caratteri della propria scrittura epifanica per adattarla al nuovo contesto storico e personale.

Nel quinto capitolo sono oggetto d’attenzione la lingua di Sereni e la struttura del suo primo libro. Per la lingua di Frontiera sono state proposte varie etichette, spesso ruotanti intorno al baricentro ermetico. Isella riconosce a entrambi, ermetici e Sereni, l’uso di una lingua «aristocraticamente selettiva9» e propende per considerare quella di Sereni una lingua petrarchesca10. Mengaldo inserisce Sereni in una linea di «ermetismo debole11» e considera Frontiera (1941) il termine della stagione ermetica. La condizione di termine ultimo dell’ermetismo fa sospettare la presenza di elementi

7 ISELLA 1991, p. 34. 8 SERENI 2010, p. 448. 9 Idem, p. LXXVII. 10 Ibidem

(7)

7

linguistici estranei a quella corrente. Nelle pagine dedicate al tema della lingua si cercherà di mettere in luce le diverse influenze di Frontiera e se c’è stato un cambiamento tra le poesie a datazione alta e le ultime a essere composte. Riguardo la struttura del libro si sa, grazia a Sereni stesso12 e in mancanza di altri documenti, che l’idea del libro Frontiera nacque quando quasi tutte le poesie erano già state composte. Sempre nel quinto capitolo saranno quindi confrontati alcuni filoni individuabili in

Frontiera con quelli di altre opere coeve, per evidenziare i modelli più probabili di

Sereni.

(8)

8

Capitolo 1. L’epifania

1.1 Considerazioni del tardo Sereni

Durante un intervento in omaggio di Montale13 Sereni rievoca gli anni in cui ebbe il primo contatto letterario con il poeta ligure. La testimonianza riguarda l’estate del 1937 e Sereni afferma:

Non c’era a quel tempo distinzione in me tra impulsi poetici e sussulti emotivi. Non a esclusione ma a inclusione di quelli, le mie ore erano scandite da questi. Proseguiva la mia esplorazione dentro e attorno il paese in attesa non so quanto consapevole di chissà quali rivelazioni a ogni viottolo o scorciatoia o slargo improvviso. […] Nel girovagare di allora le reminiscenze dell’infanzia contavano pur qualcosa; ma non in quanto rievocazioni intenerite di luoghi o figure remoti nel tempo: piuttosto come acqua affluita in un dato punto o momento da una riserva di risorse, di freschezze sorgive: un apporto di energia.

Grazie a questi ricordi di Sereni è possibile trarre alcune considerazioni sull’idea che allora aveva della poesia. La prima è che in lui sopravviveva una radice romantica per cui la poesia e le emozioni non solo non s’escludevano ma si confondevano tra di loro. Il primato dei «sussulti emotivi» era la loro capacità di scandire i giorni, quindi di fare una cernita tra i momenti che trascorrevano senza lasciare traccia e quelli in qualche modo significativi. La seconda considerazione è che il Sereni d’allora era un flâneur per strade di Luino (il luogo delle vacanze estive per quell’anno e l’anno seguente) alla ricerca di una rivelazione. L’ultima riguarda il suo rapporto con la memoria. Egli dice che non si abbandonava con tenerezza ai ricordi ma attraverso essi riceveva energia nel suo girovagare. La Luino che aveva conosciuto era quindi una risorsa per studiare la Luino del presente.

Queste tre considerazioni ci dànno l’immagine di un poeta che già ai suoi esordi abbia cercato una manifestazione di tipo epifanico. Come altri autori del primo Novecento Sereni cerca delle «rivelazioni a ogni viottolo o scorciatoia o slargo improvviso». In questo modo la rivelazione, cioè una verità cui è difficile accedere e che non può essere ottenuta con la semplice logica, era possibile in luoghi secondari e ai quali si giungeva quasi per caso. La rivelazione, inoltre, deve emergere da una serie di

(9)

9

momenti del tutto insignificanti.

1.2 Breve salto a Dublino

Il primo autore del secolo che ha ragionato sulle possibilità dell’epifania è stato James Joyce. L’interesse di Joyce per l’epifania inizia nel 1900, anno in cui comincia a comporre brevi testi che raccoglie sotto il nome, appunto, di Epifanie. Le prime a essere composte hanno una forma drammatica caratterizzata da due o tre personaggi e pochissime battute. Successivamente Joyce abbandona l’impianto drammatico e compone soltanto epifanie narrative14.

La raccolta s’interrompe in modo definitivo intorno al 1904 per un mutare degli interessi artistici dello scrittore. Joyce, infatti, inizia la stesura di un romanzo, Stephen

Hero, nel quale riserva uno spazio per approfondire teoricamente la natura

dell’epifania. A un certo punto del romanzo, infatti, egli riporta una scena vissuta alcuni anni prima, uno scambio di battute banale in qualunque modo lo si guardi ma che a lui fornisce lo spunto per una riflessione:

this triviality [della scena riportata poco prima] made him think of collecting many such moments together in a book of epiphanies. By an epiphany he meant' a sudden spiritual manifestation, whether in the vulgarity of speech or of gesture or in a memorable phase of the mind itself. He believed that it was for the man of letters to record these epiphanies with extreme care, seeing that they themselves are the most delicate and evanescent of moments15.

Nelle parole di Joyce emerge come il compito che egli si riconosce in quanto scrittore consiste nell’isolare «a sudden spiritual manifestation» da un flusso di eventi insignificanti. La trivialità si pone come condizione necessaria per far risaltare i momenti della rivelazione.

Secondo Gozzi16 nell’epifania del giovane Joyce intervenivano due diverse istanze artistiche: da un lato «evidente è la matrice simbolista di questa concezione» e dall’altro va considerato come l’interesse per il quotidiano e l’insignificante sia vicino a quello dei naturalisti. Questa doppia natura si manifesta nello stesso termine che

14 JOYCE 1992, pp. 860-861. 15 JOYCE 1960, p. 216. 16 GOZZI 2002, p. 34.

(10)

10

Joyce adotta, cioè il nome della festività cristiana in cui si ricorda la manifestazione del divino in forma umana e in un contesto umile. Joyce, insomma, unisce la sua educazione gesuitica all’interesse sempre più forte di diventare «man of letters». Sempre dalla tradizione del pensiero cristiano Joyce attinge una sistemazione filosofica dell’epifania. In un brano17 di Stephen Hero egli formula per tramite del protagonista Stephen, suo alter ego letterario, un’estetica che muove da quella di Tommaso d’Aquino e che sembra rappresentare per lui il motore della vocazione di scrittore:

First we recognise that the object is one integral thing, then we recognise that it is an organised composite structure, a thing in fact: finally, when the relation of the parts is exquisite, when the parts are adjusted to the special point, we recognise that it is that thing which it is. Its soul, its whatness, leaps to us from the vestment of its appearance. The soul of the commonest object, the structure of which is so adjusted, seems to us radiant. The object achieves its epiphany.

Alla precisione della teoria non corrisponde un’azione pratica altrettanto efficace. Joyce è consapevole della difficoltà comunicativa insita nell’esperienza epifanica e la mostra nello stesso brano in cui la presenta. Stephen sta illustrando all’amico Cranly il funzionamento epifanico, terminato il quale vuole coinvolgerlo nell’epifania dell’orologio del Ballast Office. Stephen dice che dovrà scrutare l’edificio numerose volte, «will pass it time after time», fino al momento in cui da «item in the catalogue of Dublin’s street furniture» quell’orologio divenga qualcos’altro. Il protagonista quindi spinge Cranly all’osservazione, sperando di poter condividere con l’amico la rivelazione cui è giunto. Nonostante i suoi tentativi però non accade nulla e anzi Stephen percepisce ostilità da parte sua e alla fine è costretto a sviare dal discorso e dice, ridendo, che «it has not epiphanised yet».

All’epifania Joyce riserverà uno spazio maggiore nel libro che compone di pari passo con Stephen Hero. Nonostante quest’ultimo sia il romanzo in cui Joyce elabora la teoria epifanica e quello in cui proclama di volersi dedicare alla raccolta degli attimi evanescenti e pieni di significato è soltanto nei Dubliners che egli mette in pratica la sua idea in modo sistematico. L’opera è una serie di racconti composti parzialmente negli stessi anni di Stephen Hero ma che avranno un destino editoriale migliore. I

(11)

11

Dubliners, infatti, pur ricevendo inizialmente dei rifiuti, vedranno la pubblicazione

nel 1914. Stephen Hero invece risulta soltanto un abbozzo di romanzo, non fu mai pubblicato e forse andò in parte distrutto da Joyce.

Secondo Gozzi il libro dei Dubliners nonostante sia una prova giovanile di Joyce «per compattezza strutturale e organicità non ha precedenti nella storia del racconto18». I testi che compongono il libro appaiono come «squallide cronache di vita quotidiana» dove si muovono «figure di mediocri e di sconfitti19». Su questo sfondo pieno di «triviality» Joyce inserisce le epifanie ma lascia al lettore il compito di individuarle.

La strategia testuale di Joyce ha due di conseguenze. La prima, di natura formale, è che egli riesce a superare la forma del frammento che aveva caratterizzato il libro delle

Epifanie. La seconda riguarda il modo con cui le epifanie sono consegnate al lettore.

Nei Dubliners Joyce evita che si ripeta il fallimento comunicativo che c’era stato con Cranly. Nei racconti non c’è mai un arresto nella narrazione che serva a isolare il momento speciale dell’epifania e così facendo il lettore è «costretto ad interrogare di continuo il testo per non farsene sfuggire i significati segreti20». Dichiarare che uno scambio di battute o una scena siano delle epifanie non è semplice: senza i suggerimenti dell’autore bisogna assicurarsi che l’associazione epifanica sia «collocata in un coerente sistema di riferimenti intratestuali21» e solo in questo modo sarà possibile individuare i momenti epifanici.

Dopo quest’opera Joyce inizia a mutare idea riguardo l’epifania. La sua raccolta di attimi memorabili non sarà più ampliata e nel romanzo Portrait of Artist as a Young

Man farà un passo indietro importante. Il Portrait fu pubblicato nel 1916 e riprende

in parte Stephen Hero: la trama si concentra maggiormente sul protagonista Stephen e solo alcuni brani del vecchio scritto sopravvivono nel nuovo. Uno di questi è la trattazione estetica dell’epifania, con una modifica importante. I tre momenti della conoscenza epifanica, «integritas, consonantia and claritas» sono mantenuti nel

Portrait ma per indicare il risultato finale Joyce non usa mai il vocabolo “epifania”.

18 GOZZI 2002 p. 33. 19 Idem, p. 34. 20 Idem, pp. 34-35. 21 Idem, p. 35.

(12)

12

Egli preferisce invece richiamarsi alla tradizione letteraria inglese citando il «fading coal» di Shelley e parallelamente evoca da tutt’altra disciplina «the enchantment of the heart», definizione che attribuisce al fisiologo italiano Luigi Galvani.

Il risultato è doppio: da un lato Joyce riduce la compromissione con il pensiero cristiano, dall’altro grazie a un allargamento delle fonti riconduce l’epifania a un tipo d’esperienza già noto in letteratura. Restano i riferimenti a Tommaso D’Aquino sulla cui estetica Stephen Dedalus continua a interrogarsi ma essa è usata come punto di partenza per giungere a individuare la «supreme quality […] felt by the artist when the esthetic image is first conceived in his imagination22». Il richiamo a Shelley è invece un’apertura verso la letteratura ottocentesca che prima ancora del Simbolismo aveva immaginato un modo per individuare o raggiungere un istante rivelatore, diverso da tutti gli altri.

1.3 Una tradizione europea

Il primo autore romantico a indagare il potere di momenti pieni di significato è stato Wordsworth nel suo Preludio. Wigges23 considera quest’opera autobiografica come «Wordsworth’s Portrait of Artist as a Young Man», individuando la connessione tra «the poem on the growth of my mind» di Wordsworth e il romanzo sulla formazione dell’artista di Joyce.

Il Preludio di Wordsworth è un poema in quindici capitoli frutto di decenni di lavoro e pubblicato postumo nel 1850. Nel suo ripercorrere l’infanzia e l’adolescenza dell’autore l’opera si sofferma molto sugli episodi che abbiano formato maggiormente il poeta. L’opera, infatti, ruota attorno agli «spots of time» che Wordsworth considera quali momenti che possiedono «a renovating virtue» e che nutrono la mente e l’immaginazione. La forza degli «spots» si manifesta quando l’individuo è

[…] depressed

by false opinion and contentious thought, or aught of heavier or more deadly weight, in trivial occupations24

22 JOYCE 1960 p. 185. 23 WIGGES 1999, p. 15.

(13)

13

e il loro potere è tale che «our minds/ are nourished and invisibly repaired».

In Wordsworth si configura immediatamente un’opposizione tra il pericolo insito nelle occupazioni triviali e la forza di alcuni momenti della propria vita che invece hanno una forza benifica. Il poeta romantico non indaga la provenienza di questi attimi e non costruisce un’estetica che giustifichi la loro presenza. Egli si limita a constatare che esistono momenti di vita significativi la cui azione è immediata e impossibile da prevedere:

such moments

are scattered everywhere, taking their date from our first childhood25.

Una volta che essi siano stati vissuti da un individuo, potranno anche in seguito esercitare una forza benefica sulla sua vita, agendo durante «the round/ of ordinary intercourse».

Ciò che Wordsworth dice degli «spots of time» corrisponde in parte all’epifania di Joyce: entrambi sono momenti, infatti, che risaltano tra tutti gli altri per intensità e conoscenza. Tra i due autori ci sono però anche differenze, dovute principalmente ai requisiti meno stringenti degli «spots». Wordsworth, per esempio, estende l’età dell’epifania alla stessa infanzia mentre stando ai ragionamenti di Stephen essa giunge solo al termine di un procedimento intellettuale ben preciso. Il ruolo della memoria, inoltre, in Wordsworth è fondamentale per rendere il soggetto capace di custodire gli «spots of time» e la loro forza anche dopo la prima volta che si siano manifestati. In Joyce invece non si fa menzione della capacità di conservare l’epifania. Nella scena in cui Stephen aspetta che l’orologio si epifanizzi e non accade nulla risulta evidente che il momento epifanico è completamente imprevedibile e non è replicabile.

Il tentativo di Joyce evoca un altro aspetto che allontana l’autore irlandese da Wordsworth. Nelle prime opere di Joyce l’epifania non è un concetto fisso ma subisce modifiche profonde. Nei primi anni d’attività letteraria Joyce ritiene che l’epifania possa essere sia drammatica sia narrativa e che essendo oggettiva possa essere comunicata. L’oggettività dell’epifania risiede nel suo verificarsi in un momento di vita quotidiana senza che il soggetto partecipi attivamente alla sua realizzazione. La condivisione dell’epifania, inoltre, non ha necessariamente una ricaduta positiva

(14)

14

sull’individuo ma è un compito che Joyce si dà in quanto «man of letters». Gli «spots of time» sono esperienze individuali ma anche potenzialmente diffuse, Wordsworth parla infatti di «our existence» e di «our mind», che aiuteranno l’individuo a non smarrirsi nelle «trivial occupations».

Joyce rielabora in seguito la sua idea di epifania: in Stephen Hero l’autore mostra i primi dubbi sulla possibilità di condividere un’epifania e nei Dubliners queste diventano riconoscibili soltanto grazie a un arduo lavoro da parte del lettore, individuando nell’«impianto narrativo fondamentalmente realistico 26 » le manifestazioni improvvise della verità.

Dopo i Dubliners Joyce amplia sempre più la discrepanza tra la «sudden spiritual manifestation» e il processo cognitivo con cui identifica il lavoro dell’artista27, fino al punto d’eliminare il concetto stesso d’epifania. Progressivamente l’autore irlandese allontana dalla sua scrittura il modello epifanico, disconoscendolo in modo ironico nell’Ulisse:

Remember your epiphanies on green oval leaves, deeply deep, copies to be sent if you died to all the great libraries of the world, including Alexandria? Someone was to read them after a few thousand years, a mahamanvantara. Pico della Mirandola like. Ay, very like a whale. When one reads these strange pages of one long gone one feels that one is at one with one who once... 28

In questo brano Joyce sembra ammettere l’inefficacia dell’epifania, sia per l’impossibilità d’essere comunicata sia come genere di scrittura di cui ogni biblioteca, dunque ogni disciplina umana, dovrebbe disporre.

Mentre nell’Ulysses avviene questa bocciatura altri autori contemporanei hanno iniziato a coltivare l’idea che esistano dei momenti eccezionali. Virginia Woolf per esempio chiama «moments of being29» i momenti della sua infanzia che le hanno permesso di avere un’intuizione particolare:

From this I reach what I might call a philosophy; at any rate it is a costant idea of mine; that behind the cotton wool is hidden a pattern; that we – I mean all human beings – are connected with this; that the whole world is a work of art; that we are part of the work of art. Hamlet or a Beethoven quartet is the truth about this vast mass that we call world. But there is no

26 GOZZI 2002, p. 35.

27 VAN HULLE 2018, pp. 71-74. 28 JOYCE 1986 p. 52

(15)

15 Shakespeare, no Beethoven; cetanly and emphatically there is no God; we are the words; we are the music; we are the thing itself. And I see this when I have a shock30.

In questo caso il rapporto di causa-effetto tra epifania e filosofia è invertito. Joyce cerca di leggere in chiave epifanica l’estetica di Tommaso D’Aquino mentre Woolf giunge a un’idea filosofica solo dopo aver fatto esperienza di uno shock e averne scritto.

Secondo il modello di Woolf l’epifania si configura come uno sguardo verso il passato e difatti Moments of being è un’autobiografia alla ricerca dei momenti più importanti della propria vita. Una delle declinazioni più felici dell’epifania nel Novecento è proprio nella narrazione autobiografica. In questo caso si possono trovare predecessori anche meno recenti di Wordsworth: tra questi il più illustre è il Rousseau delle

Confessioni.

Il filosofo francese, durante una riflessione metaletteraria ammette: «Je ne sais rien voir de ce que je vois; je ne vois bien que ce me rappelle, et je n’ai de l’esprit que dans mes souvenirs31». In questo caso è evidente che l’epifania sia necessaria per giungere alla vera conoscenza. Rousseau si attribuisce una condizione per cui nel presente non è in grado di capire le cose e così facendo legittima il ricorso alla memoria. Come conseguenza egli traccia un solco tra la percezione razionale e ordinaria, di cui difetta, e quella emotiva e memoriale che invece gli garantisce la certezza del suo pensiero. Per Rousseau, d’altro canto, la vera percezione avviene sempre quando è trascorso del tempo, dunque non può mai avvenire nel presente.

De tout ce qu’on dit, de tout ce qu’on fait, de tout ce qui se passe en ma présence, je ne sens rien, je ne pénètre rien. Le signe extérieur est tout ce qui me frappe. Mais ensuite tout cela me revient: je me rappelle le lieu, le temps, le ton, le regard, le geste, la circonstance; rien ne m’échappe. Alors, sur ce qu’on a fait ou dit, je trouve ce qu’on a pensé, et il est rare que je me trompe32.

In questo modo il ruolo della memoria risulta fondamentale per il verificarsi di un’epifania, a discapito della percezione comune che mostra i suoi limiti nella comprensione degli eventi. Al netto di alcune differenze è possibile tracciare una linea comune epifanica.

Il nemico della scrittura epifanica è la realtà piattamente oggettiva. Ciò di cui gli autori

30 Idem, p. 84.

31 ROUSSEAU 1968, p.152 32 Ibid.

(16)

16

epifanici hanno bisogno è un mezzo per isolare un evento pieno di significato da tutti gli altri. Per questo motivo le epifanie sono individuali e difficilmente comunicabili, come mostra il caso di Stephen e Cranly. Il criterio con cui avvengono non è universale e ogni autore cerca di seguire una strada propria, anche se è possibile notare una maggiore attenzione al problema del realismo da parte degli autori epifanici novecenteschi.

Se Wordsworth, per esempio, afferma nettamente che gli «spots of time» esistono, per sé ma anche per una collettività non ben individuata, Joyce sente il bisogno di inserire l’epifania in una teoria estetica più generale e Woolf riferisce che la sua è un’«intuition» e che «all artists she suppose feel something like this33», rendendo quindi l’esperienza epifanica capace di estendersi ad altre persone, altri artisti e non essere soltanto un’esclusiva personale.

L’affermazione di Woolf trova riscontro in un’antologia di saggi curata da Tim Wigges34 dove sono messe in luce prove di scrittura epifanica nella letteratura occidentale dal Settecento in poi. Riguardo al Novecento, accanto ai nomi di Joyce e Woolf sono inseriti Faulkner, Eliot, Pound e Wallace Stevens35. Anche saggi più recenti36 confermano che sia possibile individuare una serie di scrittori, soprattutto d’area anglosassone, accomunati dall’uso dell’epifania e generalmente inseriti nel canone modernista.

Il modernismo anglosassone copre un arco d’anni che va dal 1920 al 1945 nella cronologia adottata da Sanders37 ma comprende inevitabilmente anche opere scritte e pubblicate prima di questo periodo. Il caso di Joyce è significativo: è l’unico autore modernista cui Sanders dedichi un intero paragrafo ma la sua produzione non solo non ha inizio nel 1920 ma per quella data risultano già pubblicate opere fondamentali del modernismo anglosassone, come Dubliners e il Portrait of Artist as a Young Man. Una proposta recente di ampliare l’arco del modernismo viene da Frigerio38 che

33 WOOLF 1978, p. 84. 34 TIGGES 1999. 35 Idem, p. 24. 36 KIM 2012. 37 SANDERS 2004. 38 FRIGERIO 2014.

(17)

17

considera modernista il quarantennio 1900-1940.

1.4 L’epifania in Italia: Montale

Per l’Italia si è iniziato a parlare di modernismo solo negli anni Novanta39 e si è proseguito nel lavoro di inclusione ed esclusione che ogni categoria si porta dietro. Generalmente il modernismo italiano ha al suo interno una fase iniziale di circa vent’anni (1904-1925) che tenta varie strade a livello di generi e di stili, che si confronta con l’avanguardia e infine che arriva al silenzio per l’esaurirsi delle condizioni che l’avevano resa possibile. L’elenco di autori e opere approntato da Donnarumma40 mostra quanto il primo modernismo in Italia sia stato eterogeneo. La fine dell’avanguardia con cui i modernisti si confrontavano, la situazione politica sfavorevole e la necessità di un esame critico del passato oltre che del presente determineranno le condizioni che attraverso un processo graduale porteranno a una seconda fase modernista (1925-1939) che solo sul finire darà i suoi frutti migliori con la poesia di Montale e con il romanzo di Gadda.

Montale, con le date di pubblicazione delle sue prime due opere, apre e chiude la fase avanzata del modernismo italiano e ne emerge come l’autore più rappresentativo. Il suo primato è stato ampiamente riconosciuto dalla critica e la sua poesia è entrata a pieno titolo nel novero del modernismo europeo. Con i grandi autori del primo Novecento condivide il nuovo tipo di soggetto ancorato ai valori classici41, una visione del tempo non lineare, un dialogo critico con i morti e con la tradizione e una rinnovata attenzione al linguaggio quale strumento, spesso inadeguato, che ha il compito di riportare una realtà sfuggente.

Tra gli strumenti di cui Montale si serve per infrangere l’idea della progressione temporale come successione di attimi sempre uguali c’è il momento epifanico, che nella lingua degli Ossi è il «miracolo» o il «prodigio» mentre per il Montale maturo è chiamato «occasione». Tra l’idea di epifania di Joyce e quella di Montale si intravedono differenze simili a quelle che correvano tra Wordsworth e Rousseau:

39 LUPERINI - TORTORA 2012, pp. 3-4.

40 DONNARUMMA 2018 in TORTORA 2018, p. 67-70. 41 DE ROGATIS 2002

(18)

18

Montale, nella sua seconda opera, intende per occasione il «recupero casuale di un momento di vita piena42». A questa definizione, che corrisponde al tipo di epifania più praticato da Montale, si affianca quella di svelamento di una realtà soggiacente, come nel caso dei Limoni e di Forse un mattino andando in un’aria di vetro della sua prima raccolta, che è più vicina all’idea joyciana e che sarà meno presente nelle future poesie. L’epifania memoriale era tuttavia già conosciuta nella letteratura contemporanea perché negli stessi anni in cui Joyce si richiamava a Shelley, e in generale alla tradizione romantica dell’attimo supremo, in Francia Proust delineava un’esperienza epifanica che, con un’espressione simile a quella di Galvani riportata da Joyce, chiamò «intermittence du coeur».

L’idea di Proust ricalca almeno in un aspetto quella del connazionale Rousseau in quanto prevede lo stesso discredito per l’esperienza del presente e posticipa la vera comprensione degli eventi che accadono all’individuo. Per poter comprendere un momento della propria vita passata in Proust è necessario che l’io entri in contatto con un oggetto in modo del tutto involontario. Il contatto sarà seguito da una reazione fisica imprevedibile che la maggior parte delle volte è pertinente ai sensi dell’olfatto e del gusto. Il risultato è notoriamente descritto in brano du Coté de chez Swann quando al sapore di una madelaine il protagonista riacquista i ricordi dell’infanzia trascorsa a Combray.

Et comme dans ce jeu où les Japonais s’amusent à tremper dans un bol de porcelaine rempli d’eau de petits morceaux de papier jusque-làindistincts qui, à peine y sont-ils plongés s’étirent, se contournent, se colorent, se différencient, deviennent des fleurs, des maisons, des personnages consistants etreconnaissables, de même maintenant toutes les fleurs de notre jardin et celles du parc de M. Swann, et les nymphéas de la Vivonne, et les bonnes gens du village et leurs petits logis et l’église et tout Combray et ses environs, tout cela qui prend forme et solidité, est sorti, ville et jardins, de ma tasse de thé43.

La sensazione fisica è fondamentale in Proust per scatenare l’intermittenza del cuore, mentre in Joyce l’epifania passa necessariamente per una comprensione intellettuale delle cose o della scena. La sensazione è ciò che aziona il recupero di un evento o di un mondo passato e permette di riscattarlo dal tempo morto fino a conoscerlo davvero: «la réalité vivante n'existe pas pour nous tant qu'elle n'a été recréée par notre

42 DE ROGATIS 2002, p. 19 43 PROUST 2017, pp. 100-101

(19)

19

pensée44». In Proust viene poi sottolineata la natura involontaria dell’epifania, sulla scorta della mancata sincronizzazione di tempo cronologico e tempo interiore, in sintonia con la filosofia di Bergson. Per l’autore francese, in definitiva, tutto inizia grazie al contatto con un oggetto insignificante, cui segue una percezione imprevista, e infine avviene il riscatto di momenti passati recuperando la pienezza di vita. A quel punto il compito più importante per lo scrittore diventa il sapere comunicare quanto involontariamente scoperto.

La grandeur de l’art véritable […] c’était de retrouver, de ressaisir, de nous faire connaître cette réalité loin de laquelle nous vivons […] et qui est tout simplement notre vie, la vraie vie, la vie enfin découverte et éclaircie, la seule vie, par conséquent, réellement vécue, cette vie qui, en un sens, habite à chaque instant chez tous les hommes aussi bien que chez l’artiste45.

Montale si confronta con sprazzi di questo clima europeo al tempo della prima opera, grazie alla frequentazione della biblioteca comunale genovese dove assieme ai simbolisti francesi erano disponibili le opere poetiche italiane d’inizio secolo, al dialogo con la sorella Marianna e all’incontro e all’amicizia con Bazlen che rappresentò per lui «una finestra spalancata sul nuovo mondo» facendogli conoscere Svevo, Kafka, Musil. La gestazione delle Occasioni, che inizia immediatamente dopo gli Ossi, per quasi tutta la sua durata vede Montale svolgere un lavoro da protagonista nel campo letterario, in quanto direttore del Gabinetto Viesseux di Firenze. La città toscana garantiva anche una centralità culturale maggiore di quanto potesse fare Genova e in questo modo Montale ricevette nuovi spunti per il suo proposito di seguire una strada poetica nuova, che verrà in seguito identificata con una proposta classicista. Lo stesso Montale nel saggio su Umberto Saba del 1926 usa la categoria di «classicismo sui generis e quasi paradossale» per il poeta triestino, ma le pagine del lavoro sembrano più una dichiarazione personale di poetica, come d’altronde lamenterà Saba stesso. Disponendo di quest’immenso bagaglio culturale Montale dà vita a un’opera del tutto in linea con il modernismo europeo, le Occasioni.

La poesia proemiale della raccolta, senza titolo, stabilisce una prima distinzione tra il «vuoto» e la «vita che dà barlumi», legando a quest’ultima una seconda persona che è attesa dal poeta con sempre minore speranza. I vv. 7-8 «nell’arduo nulla si spunta/

44 PROUST 1987, p. 237. 45 PROUST 1989, p. 474

(20)

20

l’ansia di attenderti vivo» fanno capire che l’assenza di questa persona è per l’io poetico la condanna a una vita insignificante, privata dagli attimi di luce che solo dalla donna sono garantiti. Nelle poesie successive oltre ai barlumi compaiono altri fenomeni legati alla luce (folgore, barbaglio, raggio) o al suono (ronzio, cigolio, murmure) che hanno la forza di evocare il passato o di accarezzare una verità presente e più in generale permettono il contatto del poeta con la vera realtà.

La poesia Sotto la pioggia, quarta della quarta sezione delle Occasioni, fu la prima lettura montaliana di Sereni46, risalente al 1933, quando fu pubblicata a luglio su «La Gazzetta del Popolo» e ad agosto fu ripresa da «L’Italia Letteraria». L’impressione che Sereni ne ebbe fu positiva e gli permise di indovinare alcuni tratti particolari del poeta appena scoperto. Nel 2010 De Rogatis47, come anticipazione del commento integrale alle Occasioni che stava preparando, pubblicò l’analisi di tre poesie legate al tema dell’epifania tra cui quello di Sotto la pioggia, aggiungendo che sia su questa poesia sia su Punta del Mesco l’attenzione della critica non era stata sufficiente al fine di inquadrarle nella produzione di Montale. Secondo De Rogatis Sotto la pioggia, e la contigua Punta del Mesco, «approfondisco la fenomenologica acustica del ricordo48». Il componimento, quindi, mi sembra un ottimo punto di inizio per verificare e studiare il dato epifanico da Montale al primo Sereni.

La poesia inizia con un suono improvviso, «un murmure», che inaugura un acquazzone. Il poeta ha sotto gli occhi la casa di una persona conosciuta e il primo effetto della pioggia è l’appannamento dell’abitazione, cioè la sua visione diviene meno chiara, fino ad arrivare al «disfacimento» di quanto è intorno e, con un passaggio non marcato, la dissoluzione coinvolge anche le speranze interiori. Avviene quindi che il confine naturale tra la realtà esterna e quella interna risulti annullato dalla pioggia improvvisa che agisce sia sulle cose circostanti sia nell’animo del poeta. Nella seconda strofa i segnali di collisione tra le due realtà si fanno più forti: emergono alla mente del poeta parole in spagnolo che ricordano la donna, una tenda rossa si agita per il vento, una finestra sbatte per lo stesso motivo e infine il poeta vede un «guscio d’uovo che va per la fanghiglia» tra l’alternarsi «d’ombra e luce».

46 SERENI 2014, p. 1032. 47 DE ROGATIS 2010, pp. 7-23. 48 Idem, p. 7.

(21)

21

L’immagine è significativa ma non è su di essa che il poeta si concentra. Nella confusione generale, infatti, la memoria entra in azione e in luogo dei suoni scomposti del temporale viene recuperata la musica di un grammofono. Il poeta ricorda una canzone, anch’essa in spagnolo, che parla di un addio, più precisamente di un addio ai propri compagni per la morte vicina, ascoltata tempo addietro nella stessa casa e insieme alla donna. Non si tratta di un testo particolarmente profondo e l’associazione è perlopiù emotiva, riemergendo con quelle parole i giorni in cui i due furono insieme. Nel momento del temporale, nonostante sia sopraggiunta la separazione tra i due, il poeta considera caro l’avere ancora un sussulto avvicinandosi alla casa di lei.

Poco dopo, mentre l’io ha avuto riprova del suo sentimento, tra le nuvole si apre un ennesimo squarcio di sereno e questa volta si tratta dell’epifania che si compie. I rumori del temporale hanno evocato la canzone che in passato riempiva l’esterno della casa; il temporale ha richiamato il «mulinello della sorte» che ora costringe il poeta e la donna a essere lontani; l’azzurro che ancora una volta si lascia intravedere in cielo è finalmente la pienezza di una storia che si manifesta al poeta. L’ultima breve strofa suggella, attraverso una metafora che il poeta ha coltivato tra sé, il dover vivere tra due luoghi separati da migliaia di chilometri, pensando al volo della cicogna che copre ogni anno la distanza che separa i tetti europei dalle estremità meridionali dell’Africa.

Come si è potuto capire più che d’epifania sul modello di Joyce bisognerebbe parlare d’intermittenza del cuore o almeno parlare prima di questa. Un banale scroscio d’acqua e uno stesso ricordo anonimo come una canzonetta permettono di fare riemergere un sentimento che ancora scuote il poeta («mi rimane il sobbalzo»). La memoria conferisce nuova forza al sentimento ed esso viene confermato dall’emozione provata nel ripercorrere la strada che porta alla casa della donna. Solo a questo punto interviene l’epifania di uno sprazzo di sereno, ma Montale preferisce non comunicare altro e lascia dei punti di sospensione.

La scelta della reticenza è tipica delle Occasioni, con il poeta che tende a cancellare alcuni dati di realtà, sia per potenziare il testo grazie ai significati ulteriori permessi dall’ambiguità sia per non far conoscere tutte le proprie carte. In questo caso, però, sopraggiunge il silenzio non perché Montale ritenga l’epifania non comunicabile:

(22)

22

l’aver raccontato le cause, l’antefatto, dell’occasione è il massimo che il poeta possa fare, o almeno è questo il compito che egli si è dato.

(23)

23

Capitolo 2. Prima parte di Frontiera

2.1 Sereni lettore di Montale

Sereni, leggendo Montale, conosce un linguaggio che non teme il confronto con il moderno e che, al tempo stesso, a volte ha bisogno di allontanarsi dal mondo per fare esperienza della «vita che dà barlumi». Nell’epistolario di Sereni che risale agli anni della composizione di Frontiera il poeta esprime chiaramente che il suo interesse era tutto rivolto alle cose e non alla propria interiorità: «io in poesia sono per le “cose”; non mi piace dire “io”, preferisco dire: “loro”49».

Il desiderio di Sereni non era condiviso dalla maggior parte dei poeti del suo tempo. Ungaretti e gli ermetici imponevano la propria individualità nella loro poesia e non potevano rappresentare un modello di personaggio per Sereni. Uno dei motivi per cui Montale risultava più adatto di altri poeti contemporanei era che egli prendeva in considerazione il «mondo fisico moderno50» senza eliminarlo dalla poesia come fosse «unicamente un peso51». Le «cose», quindi, trovavano nella poesia di Montale uno spazio che non avevano altrove.

In fondo la posizione stessa di Sereni, di eliminare l’io per lasciare spazio alle sole cose, appare di difficile realizzazione, in quanto c’è comunque bisogno di un io che faccia esperienza delle cose e un allievo di Banfi non poteva non tenerne conto. Anche in ciò Montale offriva un valido esempio per Sereni: nella poesia delle Occasioni, la prima che Sereni legge di Montale52, l’io non è il custode di una verità da comunicare in versi ma egli stesso mostra la sua finitezza. Montale risponde alle intenzioni del poeta lombardo in quanto la verità che la poesia lascia intuire non viene dall’io del presente ma dal ricordo oppure dalla donna o per tramite di lei. Uno dei tratti tipici di Montale, infatti, è il sovrapporre all’interno di una stessa poesia più piani temporali, facendo comparire più io a pochi versi di distanza senza dare mai la chiara indicazione che l’io del presente, quello che parla, sia portatore di verità. In Sotto lo pioggia, per esempio, sono l’uomo e la donna del passato a rappresentare un valore positivo, di

49 ISELLA 1991, p. 34. 50 SERENI 2012, p. 818. 51 Ibid.

(24)

24

felicità; l’io del presente invece potrebbe aver perso quelle sensazione e solo per caso ricorda l’intensità dei suoi vecchi sentimenti. Il soggetto della poesia di Montale affronta la ripetizione della quotidianità in modo impassibile, riuscendo a trovare un sussulto solo ricordando momenti del passato e riuscendo a farlo grazie a oggetti anonimi che possono avere un valore sono nell’ambito privato e per i soli protagonisti della storia.

Sereni ammira sicuramente in Montale la posizione ambivalente dell’io, vittima del suo tempo ma pronto a rispondere ai «barlumi». Nonostante ciò Sereni risolve la questione “io” in modo netto, ossia non nominandolo. Soprattutto nella prima parte di

Frontiera le poesie in cui l’io compare sono poche ed egli non risulta mai coinvolto

nell’azione principale del testo. In Concerto in giardino, poesia del 1935, l’io poetico si colloca lontano dalla scena principale, che sia l’Europa dei giardini annaffiati o che siano le aiuole dove i bambini giocano, ed egli è nascosto su «un’ombra di panca».

In altre poesie Sereni elimina l’io poetico lasciando che sia il solo paesaggio a occupare la scena, raccontato in modo impersonale. Gli altri personaggi, quando presenti, non intessono un legame con l’io poetico e di loro si racconta con lo stesso tono riservato al paesaggio e sono ripresi mentre compiono un’azione spesso vaga. Delle donne in Capo d’anno, per esempio, che all’arrivo della primavera «cantano al sole» non ci viene detto il titolo del canto o le parole che pronunciano, mentre sappiamo che Sereni loderà, nella recensione del ’40, la fedeltà di Montale alle «parole

davvero pronunciate53».

L’evoluzione di Sereni da questa poetica iniziale avverrà seguendo un modello montaliano. Prendendo Sul tavolo tondo di sasso, una delle ultime poesie di Frontiera a essere composte, emerge una maniera diversa di raccontare gli eventi del mondo esterno. La poesia risale al ’41, quindi dopo l’uscita integrale delle Occasioni e dopo lo studio che ne fece Sereni. In questa poesia il poeta luinese non si concentra esclusivamente su eventi naturali ciclici ma sceglie un giorno preciso di cui raccontare. Il modo che Sereni utilizza per evocare quel giorno di festa è di inserire alcune parole tratte da un componimento realizzato per quell’occasione ma nel farlo

(25)

25

egli elimina, come Montale, gran parte dei riferimenti che avrebbero potuto chiarire l’antefatto, cioè il motivo della festa. I primi cinque versi sono:

Sul tavolo tondo di sasso due versi a matita, parole per musica fiorite su una festa. Di occhi ardenti, di capelli castani? Come fu quel tuo giorno, e tu com’eri54?

Alla precisione con cui il poeta riporta i dettagli del presente corrisponde il silenzio sui dati che precedono la poesia, come il titolo del componimento recitato o il giorno stesso della festa. Nella poesia, inoltre, l’io non compare ma la terza sezione, Versi a

Proserpina, si può leggere come un piccolo canzoniere, momenti di una storia in cui

il poeta trova la sua parte almeno nell’esserne narratore.

Sereni si muove da un’attenzione esagerata al dato esterno, estrema nel suo voler occupare interamente il testo relegando l’io ai margini, a un esame critico della realtà da inserire in poesia. Il caso dell’ultima poesia citata dimostra come Sereni abbia selezionato da un giorno di festa un dato molto preciso, «due versi a matita, parole/ per musica fiorite su una festa», tralasciando sia il contesto generale sia un’ulteriore precisazione di quanto detto. C’è quindi un’evoluzione in merito al rapporto con la realtà, per quanto riguarda l’io ma anche per quanto riguarda le cose, e qui entra in gioco l’epifania montaliana.

2.2 Contatto con l’epifania

L’epifania, sia nelle modalità tratteggiate da Joyce sia in quelle di Proust, conferisce grandissima importanza al contatto con un elemento reale, per quanto anonimo questo possa essere. Sereni dovrebbe essere a suo agio con uno strumento del genere, poiché gli permetterebbe di «essere per le “cose»” ma ci sono degli ostacoli iniziali da superare. Il primo, anche in ordine cronologico, è rappresentato dalla vicinanza di Sereni all’ermetismo.

(26)

26

La poesia ermetica copre un arco di tempo brevissimo che però comprende il periodo della formazione di Sereni, dalla fine degli anni ’20 ai primissimi anni ’40, e Mengaldo55 pone quale termine ultimo di quel filone letterario proprio l’uscita di

Frontiera nel ‘41. La tendenza dei poeti ermetici a privilegiare un linguaggio

selezionato e a eliminare o trasfigurare i dati di realtà rappresenta un ostacolo per la letteratura epifanica. Per quest’ultima serve innanzitutto la disponibilità del poeta verso l’esperienza quotidiana, una fiducia in un evento che possa essere esclusivamente individuale e infine un’agilità linguistica sufficiente per poterla comunicare. I poeti ermetici sono considerati piuttosto tardo-simbolisti, quindi sostenitori di una poesia che riconosce al poeta, tramite le sue parole, un grande potere creatore. Questa loro tendenza non è bilanciata, come in Joyce, dall’attenzione al dato naturalistico e dunque essi restano lontani dalle necessità fenomenologiche di un poeta epifanico.

Il secondo ostacolo è dato principalmente dal tipo di epifania che Montale introduce già a partire dagli Ossi e che rappresenta il principale punto di riferimento in Italia. Nella strofa finale dei Limoni avviene un’epifania:

Quando un giorno da un malchiuso portone tra gli alberi di una corte

ci si mostrano i gialli dei limoni; e il gelo del cuore si sfa

e in petto ci scrosciano le loro canzoni

le trombe d’oro della solarità.56

Il soggetto vede inaspettatamente dei limoni e percepisce il loro colore come una forza irresistibile fino al punto in cui le piante si rivelano le «trombe d’oro della solarità». L’epifania, come in Joyce, è attenta al dato quotidiano e banale che dischiude un’improvvisa manifestazione spirituale. In questo modo viene segnato uno scarto tra il piano quotidiano dei limoni e quello prodigioso della solarità. A riguardo Montale parlerà di miracolo laico57, così come chiarirà che per lui «immanenza e trascendenza

55 MENGALDO 1991, pp. 131-132. 56 MONTALE 2001, p. 12.

(27)

27

non sono separabili58».

Per Sereni, invece, l’immanenza non può implicare anche la trascendenza e il poeta lombardo resterà fedele a questa distinzione per tutta la sua opera. Quando, negli

Strumenti umani, Sereni tocca situazioni centrali per la teologia cristiana, come la vita

dopo la morte di Sopra un’immagine sepolcrale o l’anima in Intervista a un suicida, il tono è quasi sarcastico e non lascia spazio ad alcun compromesso, non c’è possibilità di conversione laica del miracolo. Come avvertito da Fortini59 già agli albori dell’interesse della critica per Sereni, «l’antefatto, morale e culturale di Sereni è il positivismo, quello stesso che è alla radice di Gozzano e Montale». Esiste però una distanza tra il modo di Montale d’avvicinarsi all’epifania e quello di Sereni: per quest’ultimo la fedeltà al pensiero critico positivista, se di quello si tratta, è sicuramente maggiore, quasi radicale nell’escludere qualunque scappatoia metafisica.

In ultimo va segnalato un ostacolo anche per quanto riguarda l’epifania della memoria, l’intermittenza del cuore proustiana. In questo caso si tratta di una ragione del tutto contingente e temporanea che pure Sereni tenta di aggirare in qualche modo. Sereni è un autore che dichiara di non praticare il culto dell’infanzia e che non ha «motivo di rievocarla proprio perché nell’insieme è stata felice, capitolo a sé stante, che non richiede celebrazioni, patrimonio intatto e intangibile60». In effetti in nessuna poesia di Frontiera si trova un riferimento alla vita da adolescente di Sereni e solo a partire dagli Strumenti umani saranno presenti dei ricordi della prima età del poeta. In quel caso però si tratta quasi sempre di scene che hanno per protagoniste altre persone e non Sereni stesso.

Il secondo aspetto problematico, quello davvero temporaneo e che viene risolto col proseguire della raccolta, è che Sereni, precludendosi la via dell’infanzia, non può istituire un doppio momento temporale nelle poesie di Frontiera. A ciò si deve aggiungere il proposito ostinato del poeta a ridurre il più possibile la prima persona. In questo modo è quasi impossibile che si verifichi un’intermittenza del cuore. L’amore per le cose porta Sereni, soprattutto nella prima parte dell’opera, a rappresentare la realtà in modo statico, ostacolando così la resa degli effetti del tempo

58 Ibid.

59 FORTINI 2003, p. 579. 60 SERENI 2014, p. 1030.

(28)

28

e la ricomposizione epifanica di un momento di vita passato. In definitiva l’io poetico della prima raccolta tende a fare esperienza diretta solo del tempo presente e non ha realmente un suo passato da richiamare.

2.3 Le mani

Sereni ad ogni modo tenta un’intermittenza del cuore. Consideriamo una poesia come

Le mani, breve e risalente al 1935.

Queste tue mani a difesa di te: mi fanno sera sul viso.

Quando lente le schiudi, là davanti la città è quell’arco di fuoco. Sul sonno futuro

saranno persiane rigate di sole e avrò perso per sempre quel sapore di terra e di vento quando le riprenderai61.

La poesia è composta da un’unica strofa per un totale di nove versi. Il metro è irregolare e predilige versi medi e lunghi, dal senario del v. 5 al doppio senario del v. 6. Le rime mancano del tutto ma si contano assonanze sparse: mani-davanti, difesa-te-sera, fuoco-sonno, persiane-rigate e sole-sapore. Le assonanze non sembrano rispettare uno schema ma unite ad altri aspetti fonici, come le allitterazioni e una paronomasia, aumentano la musicalità della poesia. I due endecasillabi contano numerose occlusive dentali, «queste tue mani a difesa di te» e «quando lente le schiudi, là davanti», nei vv. 5-6 c’è l’allitterazione insistita del suono s: «sul sonno futuro/ saranno», che poi si trascina nelle chiusure di verso sole-sempre e fino al verso 8 con sapore. La paronomasia riguarda i vv. 6-7 persiane-perso-per sempre.

La poesia inizia con il racconto in prima persona di una scena di gioco tra due innamorati; l’ora è quella della prima sera, il luogo è probabilmente una collina poco distante da una città. La narrazione inizia quando la donna copre con le sue mani gli occhi del poeta, impedendogli di vedere alcunché e agendo come se volesse difendersi

(29)

29

da lui. La «sera sul viso» non dura a lungo perché lentamente la donna allontana tra loro le mani, le «schiude», e le dita prima intrecciate lasciano intravedere l’orizzonte. Quest’ultimo è composto dalla città, nominata qui per la prima volta in Frontiera62, e dal cielo che dà a ovest, rosso nella sera. L’immagine dell’arco, evocata esplicitamente per la città, comprende però anche il cielo o almeno la sua porzione più bassa, quella rossa per il tramonto. La forma curva con cui il poeta vede la città può essere motivata in due modi: nel primo l’arco è ciò che è compreso da una linea di cielo non retta, nel secondo l’arco è il risultato ciò che le mani della donna lasciano intravedere del mondo esterno. Questo secondo caso è un modo di rappresentare l’esperienza del tutto soggettivo, in linea con la riflessione modernista sulla prospettiva del racconto ma anche, e credo sia il vero modello per Sereni, con alcuni passi virgiliani.

Nell’opera di Sereni sono state lette più volte eco da Virgilio già in Frontiera63 e ciò mi sembra possibile anche in questo caso. Nell’Eneide, infatti, alcuni episodi sono narrati secondo la percezione che ne avrebbe un personaggio; n questo modo il testo confonde il lettore che attende il dato oggettivo. Il caso più simile a quello di Sereni è nel libro XI, quando al v. 824 Camilla racconta gli effetti della ferita mortale che ha subito: «[…] et tenebris nigrescunt omnia circum». Il momento precede di poco la morte della fanciulla e la necessaria chiusura degli occhi viene resa dal particolare punto d’osservazione di Camilla: la guerriera non dice che sono i suoi occhi a chiudersi o, più astrattamente, che la sua vista viene meno, ma che il mondo diventa nero. La percezione delle cose è soggettivizzata al massimo grado fino a divenire assoluta.

Nelle Mani l’io poetico vede allo stesso modo: la città e il cielo sono un arco perché quello che l’io vede attraverso le dita leggermente curve della donna acquista quella forma. L’arco di fuoco, esperienza personale nata da una percezione involontaria, è un’epifania, ma il procedimento d’acquisizione non è affatto lineare. L’arco di fuoco è un’immagine molto vicina a un simbolo, un prodotto della creatività del poeta e che

62 SERENI 2013, p. 31.

(30)

30

egli stesso non saprebbe spiegarsi. Per questo motivo Sereni prosegue il componimento, non dando inizio a una nuova strofa ma continuando la prima nonostante ci sia uno stacco molto forte. Il verso 5, infatti, è l’inizio di una riflessione dell’io che ragiona su quanto appena visto.

Quello che colpisce, e che denota una comunanza di metodo con l’epifania della memoria, è che per comprendere al meglio un evento del presente Sereni senta la necessità di supporre un tempo futuro da cui istituire un confronto. La poesia si divide così in due tempi, uno presente e reale mentre l’altro è immaginato e futuro; tra di loro sono legati dallo stesso evento dell’arco di fuoco che rappresenterà l’oggetto di una riflessione collocata in una condizione onirica che verrà, «sul sonno futuro». Il poeta immagina come nel futuro l’alternarsi di righe accese e spente, che nel presente è causato rispettivamente da una fascia del cielo e della città, diventerà quello delle «persiane rigate di sole».

La trasfigurazione aiuta l’io a comprendere un cambiamento di stato che, diversamente dall’ambiente casalingo cui rimandano le persiane, evidenzia la perdita della donna. È più corretto pensare che le persiane siano contrapposte al «sapore di terra e di vento» e alla stessa relazione con la donna proprio in quanto esse sono espressione di vita domestica. Il futuro della donna sarà quindi quello di una casa, e in quel futuro l’arco di fuoco diventerà il chiaroscuro delle persiane. A quel punto le mani, con la loro capacità di dare vita all’arco di fuoco, verranno ritirate dagli occhi del poeta, causandogli la perdita di una vita diversa da quella borghese. Gli elementi terra e vento fanno pensare a un clima affine a quello di Memoria d’America, dove si parlava di ranch, e forse sono le medesime letture di scrittori statunitensi, Faulkner e Hemingway in primo luogo, a mediare la possibilità di vivere ai confini della città, in modo da osservarla vedendo una curva infuocata piuttosto che un semplice susseguirsi di persiane.

L’epifania, allora, non nasce nell’attimo in cui l’io vede l’arco di fuoco e ne coglie la manifestazione, ma dal pensare che nel futuro, guardando il gioco di luce e ombra delle persiane, ricorderà l’arco di fuoco e insieme al ricordo evocherà il sapore di una vita trascorsa. Le persiane sono l’oggetto banale che scatena la rivelazione ma l’origine involontaria dell’epifania è tutta nel presente.

(31)

31

La tattica epifanica che Sereni attua è vicina all’intermittenza del cuore ma non ne segue realmente il metodo, in quanto il futuro è creato per poter guardare il presente da un tempo diverso. Sereni stesso afferma64 che lesse Proust solo nel 1941, ritardandone la lettura per un fastidio personale verso gli autori che nei loro romanzi ricorrevano all’infanzia. La lettura integrale, e decisamente positiva («Proust è ormai un mio autore65») avvenne sui libri dello scrittore francese che Bertolucci gli mandava quando Sereni insegnava a Modena, ma è sicuro che alle lezioni universitarie, soprattutto quelle di Banfi, le pagine della Recherche siano state più volte oggetto di riflessione. Il tentativo mostra però come la logica epifanica si inserisca presto nella poesia di Sereni, anche in assenza di una netta mediazione montaliana e nonostante la forte influenza ermetica. Il sintagma «sapore di terra e di vento» e lo stesso «arco di fuoco» sono vicini alla vaghezza ermetica e nel secondo dei due c’è anche una tangenza dannunziana, simile al «vortice d’ombra e di vampe» in Rosaio e al «rogo serale» in Diario bolognese66. Le espressioni «sera sul viso» e «sonno futuro» sono di maggiore chiarezza ma riconducibili sempre al vocabolario ermetico. Nonostante queste punte di indeterminatezza Sereni pone al centro della poesia una precisa percezione visiva, di cui descrive l’antefatto, e la memoria di essa attraverso un processo epifanico.

2.4 Compleanno

Il secondo componimento che può essere inserito in un percorso dell’epifania nel primo Sereni è Compleanno, poesia che occupa la quinta posizione nell’edizione del 1941 e l’undicesima in quella del 1966. Il testo è disponibile in vari autografi dalla datazione prossima a quella del compleanno dell’autore, anche se in una lettera Sereni precisa che fu «intuita o pensata (…) da diverso tempo67».

Un altro ponte

sotto il passo m’incurvi ove a bandiere e culmini di case è sospeso il tuo fiato,

città grave.

64 SERENI 2014, 1030-1031.

65 BERTOLUCCI - SERENI 1994, p. 38. 66 SERENI 2013, p. 31.

(32)

32 Ancora nel sonno

canti di uccelli sento lontanissimi universi e del pallido verde mi rinnovi il tempo,

d’una donna agli sguardi serena mi ritorni memoria,

amara estate. Ma dove t’apri

e tra l’erba orme di carri

e piazze e strade in polvere spaesi senso d’acque mi spiri

e di ridenti vetri una calma. Maturità di foglie, arco di lago altro evo mi spieghi lucente, in una strada senza vento inoltri la giovinezza che non trova scampo68.

La poesia è divisa in due strofe di misura diversa, la prima delle quali predilige versi medio-brevi mentre la seconda quelli medio-lunghi ma con alcune eccezioni in entrambi i casi. Nella prima strofa c’è un endecasillabo in terza posizione e un decasillabo in terzultima, al verso 11; nella seconda strofa il primo verso è un quinario come unica misura breve. Come nelle Mani le rime sono assenti ma si riscontrano delle assonanze: alla fine dei versi 3 e 5 case-grave, 7 e 10 sento-tempo, 14 e 15 apri-carri, 19 e 22 lago-scampo mentre ci sono assonanze interne in 10 e 12 rinnovi-ritorni, 16-17 piazze-strade-acque, 18 ridenti-vetri.

Seguendo le pause sintattiche dei versi 5, 13, 18 e 22 s’individuano quattro sezioni caratterizzate da una maggiore coesione metrica e semantica.

I versi 1-5 formano la prima sezione, hanno come unico legame fonico un’assonanza e sono disposti quasi simmetricamente, con un climax iniziale di quinario-settenario-endecasillabo che poi decresce in settenario e nel quaternario finale, creando un periodo compatto che si apre con il passo del poeta per chiudersi con l’immagine della città. Il primo verso si pone come ultimo momento di una passeggiata in corso, con il ponte da superare che è solo «un altro». Nonostante la poesia abbia una struttura lirica, con un io che racconta ciò gli accade, le sue azioni sono riportate in modo passivo,

(33)

33

creando un effetto spiazzante: non è il poeta che passeggia su un ponte ma è quest’ultimo che s’incurva sotto di lui. A ciò s’aggiunge che il vero soggetto logico della strofa, ossia la «città grave», compare solo all’ultimo verso, impedendo una lettura chiara del periodo fino a quel momento.

I due attori principali, il poeta e la città, godono di caratteri che normalmente sono attribuiti inversamente: la città risulta umanizzata in quanto muove il ponte e soprattutto possiede un «fiato» mentre il poeta sembra sprovvisto di una volontà propria, non decidendo neanche del proprio movimento e sembra invece subire il percorso che la città gli impone. Le «bandiere e culmini di case» indicano il confine cittadino, oltre il quale il poeta giunge in uno spazio meno urbano e aperto sulla campagna. Nel momento del transito, abbandonando la città qualificata come «grave», forse a causa di un clima afoso (il compleanno di Sereni cadeva a fine luglio) oppure per sottolineare l’eccessiva staticità della scena, il poeta ha dei ricordi.

La seconda sezione copre i versi 6-13, tutti settenari con le uniche eccezioni del primo e dell’ultimo verso, quinari, e del decasillabo al verso 11; è la sezione più lunga ed è dedicata alla memoria. Il primo verso, «ancora nel sonno», evidenzia il passaggio dalla dimensione spaziale cittadina a quella onirica personale, con la costante di un io non padrone delle proprie azioni: l’unico verbo alla prima persona singolare non segnala un vero e proprio agire ma è una percezione, «sento». In realtà lo stesso processo mnemonico non ha origine autonomamente nell’io ma è suggerito dall’azione dell’«amara estate» in fine di strofa. L’estate provoca per l’io un cambio di tempo così come nei versi precedenti la città causava un cambio di luogo: l’estate porta il poeta a ricordare la primavera, la città lo porta al confine con la campagna. Superato l’ultimo ostacolo, lasciata alle spalle la città, anche l’estate viene oniricamente superata recuperando la primavera.

Il ricordo sorge nel momento del passaggio fisico sul ponte che scatena quello memoriale che pure prende forma di percezioni, «canto di uccelli sento», e nella consapevolezza della lontananza di quel tempo, i «lontanissimi universi», la stagione corrente dell’estate richiama il tempo della primavera caratterizzato dal «pallido verde». Solo a quel punto, una volta cioè recuperate le sensazioni risalenti ai mesi primaverili, il poeta ricorda la persona connessa a quella stagione.

(34)

34

In questo confronto tra primavera ed estate, tutto a favore della prima, s’intravede un accenno di vena patetica cui Sereni s’abbandona nel rievocare il tempo passato. In più la primavera e l’estate si possono facilmente intendere, oltre che come stagioni dell’anno, quali metafore delle stagioni della vita. L’equiparazione non è molto originale ma in questo secondo gruppo di versi Sereni dedica maggiore attenzione alla «questione “canto”»69 e il gran numero dei settenari, verso tradizionalmente musicale e meno discorsivo, conferma l’impronta melodica che il poeta ha voluto dare, a scapito di soluzioni più innovative. La metafora delle stagioni, soprattutto per la primavera come età felice trascorsa, è presente anche in Poesia militare quando si accenna alle «perse primavere», e nella sola prima parte del libro più di una volta il tempo felice ha i connotati della primavera: in Canzone lombarda e Azalee nella pioggia, poesie composte a poca distanza da Compleanno, si registra la stessa relazione. Il cedimento al canto si rileva anche da una certa ripresa di tratti grammaticali ermetici: i «lontanissimi universi» sono un’iperbole che fa eco all’Infinito di Leopardi, il verso «d’una donna agli sguardi serena» ricorre alla preposizione multiuso a, la sintassi è sempre marcata a causa della posposizione del sostantivo o del predicato.

L’intera strofa, comprensiva delle due sezioni, nonostante il linguaggio ermetico che tende al vago, mostra un aspetto epifanico. Il poeta sta passeggiando in città, situazione del tutto comune nella letteratura del primo Novecento, e lo fa come se quanto della città lo circonda gli scivolasse intorno. In questo stato di coscienza non piena ha una reazione solo quando supera l’ultima parte della città, una reazione nata dal lasciarsi alle spalle la pesantezza cittadina. Il venire meno dell’oppressione urbana porta il poeta a recuperare ancora una volta «nel sonno» i ricordi della primavera come se il processo memoriale fosse automatico ogni volta che abbandona la città grave. L’automatismo in realtà contrasta con quanto si sa dell’intermittenza del cuore, in quanto questa deve essere involontaria e irripetibile. Il proseguire della poesia farà emergere come non è dal passato che potrebbe giungere l’epifania.

La strofa successiva è introdotta dall’avversativa ma che segnala il sopraggiungere di una novità nella passeggiata finora priva di significato. La città torna protagonista nel momento in cui scompare: la polvere e le rotate dei carri tra l’erba sono segnali che

Riferimenti

Documenti correlati

Gli ultimi scavi eseguiti in questa necropoli risalgono agli anni 1970-71, quando in occasione dell’allargamento della strada comunale furono rinvenute una ventina di tombe, in

e meschina: il viaggio, elemento onnipresente del genere, può essere assunto a simbolo stesso di questa volontà di evasione. Tutto ciò richiama alla mente fenomeni attuali,

«Fliegende Blatter» propose· alcune macchine strabilianti: da quella per radere in serie le barbe grazie ad un disco rotante su sui sedevano i clienti, a quella

tesim o e m olti altri per purificare le anim e loro col sacram ento della

TUTTE LE ATTIVITÀ DEL CENTRO PERTINI SONO RISERVATE AGLI ISCRITTI. IL

Quando è stato possibile, a tutto il personale (volontari, dipendenti e ragazzi del servizio civile) è stata offerta la possibilità di sottoporsi gratuitamente allo screening

La stampa italiana – come dimostra il libro “Stranieri e mass media” – non fa mai parlare i “diretti interessati”, si occupa poco dei loro problemi, quasi mai tratta delle loro

Il pensiero di destra, così contrario alla globalizzazione, che sostiene per sempre un percorso proprio per ogni popolo, è ora il movimento più globale, con