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Violenza fisica e violenza verbale. Una comunicazione poco empatica

2. Le parole che feriscono

2.1 Violenza fisica e violenza verbale. Una comunicazione poco empatica

Come già accennato nelle pagine precedenti, a livello linguistico esiste un duplice significato di violenza, quella fisica che si percepisce sul corpo e quella verbale che

si parla. Le donne sono le più colpite, il genere che maggiormente subisce violenza

fisica:

il 24,7% delle donne ha subìto almeno una violenza fisica o sessuale da parte di uomini non partner: il 13,2% da estranei e il 13% da persone conosciute. In particolare, il 6,3% da conoscenti, il 3% da amici, il 2,6% da parenti e il 2,5% da colleghi di lavoro.102

Alcune violenze fisiche che subiscono le donne possono essere spinte, schiaffi, calci, pugni e morsi.

Altre volte sono colpite con oggetti che possono fare male (6,1%). Meno frequenti le forme più gravi come il tentato strangolamento, l’ustione, il soffocamento e la minaccia o l’uso di armi. Tra le donne che hanno subìto violenze sessuali, le più diffuse sono le molestie fisiche, cioè l’essere toccate o abbracciate o baciate contro la propria volontà (15,6%), i rapporti indesiderati vissuti come violenze (4,7%), gli stupri (3%) e i tentati stupri (3,5%).103

D’altra parte si incontra la violenza verbale caratterizzata dalla presenza di hate

words, parole d’odio. Queste ultime sono in grado di generare un tipo di violenza

che non lascia segni sul corpo ma ferite più profonde interne.

È una violenza che secondo Marshall Rosenberg si genera da quelli che lui chiama «giudizi moralistici, che implicano il torto o la cattiveria di quelle persone che non agiscono in armonia con i nostri valori».104 Tuttavia bisogna saper distinguere ed

102 Il numero delle vittime e le forme della violenza. Dal sito ISTAT https://www.istat.it/it/violenza-sulle-donne/il-

fenomeno/violenza-dentro-e-fuori-la-famiglia/numero-delle-vittime-e-forme-di-violenza#targetText=Le%20donne%20straniere%20hanno%20sub%C3%ACto,%25%20contro%2016%2C2%25).

103 Ibidem.

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evitare di confondere i giudizi di valore con i giudizi moralistici. Ognuno di noi esprime giudizi di valore in relazione alle qualità che apprezziamo nella vita, come l’onestà, la libertà o la pace:

i giudizi di valore riflettono le nostre convinzioni relativamente ai modi in cui si può servire meglio la vita. Invece, esprimiamo giudizi moralisici sulle persone e sui comportamenti che non rispecchiano i nostri giudizi di valore, ad esempio: -La violenza è cattiva. Chi uccide altre persone è malvagio-.105

A livello formale è sicuramente una frase corretta ma, secondo il linguaggio che

dovrebbe agevolare l’espressione dell’empatia, la stessa frase potrebbe essere riformulata in relazione ai nostri bisogni e ai nostri valori, senza giudicare e senza insinuare l’idea di torto. «Ad esempio, invece di dire la violenza è cattiva potremmo dire: -Temo l’uso della violenza per risolvere i conflitti; apprezzo la risoluzione dei conflitti attraverso altri mezzi».106

Alcuni esempi di giudizi moralistici, che bloccano la comunicazione empatica e che quando parliamo rispecchiano quello che pensiamo e comunichiamo nei termini di che cos’è che non va negli altri, sono:

Incolpare: Quando si dice “Sei un bugiardo” a qualcuno lo si accusa di non aver

detto la verità, si accusa il suo comportamento utilizzando un linguaggio di rabbia. Non siamo abituati ad ascoltare, a capire le ragioni per le quali qualcosa è stato detto o fatto. Invece di incolpare, infatti, si potrebbe chiedere il motivo, instaurare una conversazione del tipo: “Perché hai pensato di dire queste cose?”, “Credo che

quello che hai detto non sia vero”.

Insultare: se osserviamo dei comportamenti che non ci piacciono non solo tendiamo

a considerarli sbagliati ma rispondiamo anche con un linguaggio violento. Se qualcuno ci taglia la strada, con l’esortazione spontanea: “Idiota!”, stiamo offendendo una persona, senza rendercene conto. Tralasciamo il perché ci ha tagliato la strada, sarà stato preso da un momento di distrazione. Così non siamo più abituati neanche a osservare, ma reagiamo istintivamente alle azioni degli altri considerando solo i nostri bisogni.

105 Ivi, p.41.

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Etichettare e Criticare: Quando etichettiamo una persona o un gruppo di persone

«gli attribuiamo sommariamente una certa qualifica»107 e solitamente con il tempo non cambia la visione che abbiamo di quella persona o di quel gruppo. Quando

critichiamo qualcuno tendiamo a «giudicare negativamente, disapprovare qualcuno

o qualcosa».108 In entrambi i casi, sia quando etichettiamo sia quando critichiamo,

esprimiamo dei giudizi moralistici negativi che ci allontanano da quella persona perché non agisce o non parla come faremmo noi. Possiamo, dunque, leggere queste due parole come dei sinonimi negli esempi che seguono:

- È possibile che se qualcuno non approva una relazione fra due donne queste saranno soprannominate lesbiche e malate, se invece si osserva una coppia di etero su una panchina, secondo la concezione comune, quelli saranno definiti dolci e

piccioncini.

- In ambito lavorativo «se un collega è più attento ai dettagli rispetto a un altro, lui è puntiglioso e nevrotico mentre se è l’altro ad avere più cura dei dettagli di quanto faccia lui, allora lui è «sbadato e disorganizzato».109

- Se un afroamericano è in Italia e non trova lavoro, non lo troverà mai “perché

spaccia”, se un italiano non trova lavoro è colpa delle aziende e “in Italia non c’è lavoro”.

Gli esempi vogliono mettere in luce che in un modo o nell’altro ci auto-proteggiamo sempre e cerchiamo di difenderci anche quando capita a noi stessi di comportarci come l’altro. Non ci etichettiamo mai e non siamo mai critici verso noi stessi ma tendiamo sempre a criticare e a etichettare l’altro. Da questi esempi, inoltre, emerge che c’è una forte relazione fra linguaggio e violenza. Il professore di psicologia O.J. Harvey del Colorado portò avanti una ricerca nella quale, dopo aver selezionato vari brani di letteratura da molti Paesi del mondo, calcolò «la frequenza delle parole che classificano e giudicano le persone».110 Il risultato mostra un elevato legame

fra l’uso di queste parole e l’incidenza della violenza, ed è forse per questo che pare esserci meno violenza nelle culture in cui le persone si relazionano ai bisogni umani rispetto a quelle in cui le persone si etichettano come buone e cattive e che credono che quelle cattive meritino di essere punite. In un programma televisivo notò che se

107 Vocabolario Sabatini Coletti, s.v. etichettare.

108 Ivi, s.v. criticare.

109 Rosenberg 2017, p.41.

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l’eroe uccide il cattivo, gli spettatori cresciuti con quella cultura del buono/cattivo trarranno piacere da quella violenza.

2.1.1 La problematicità della (in)comprensione e l’importanza delle parole

Succede spesso che atti di ira o atteggiamenti verbali violenti si generino da una forte incomprensione tra parlanti. Il termine incomprensione indica proprio la «mancanza di comprensione: i. fra generazioni diverse; i. familiare, e anche malinteso, dissapore, screzio tra due o più persone: un matrimonio minato da molte incomprensioni».111 Quando si comunica, quando si mettono insieme parole per formare enunciati sia nello scritto che nel parlato possono sorgere delle incomprensioni. L’enunciato creato non deve essere per forza in un’altra lingua e nemmeno deve contenere linguaggi speciali, tecnici o scientifici per far si che si crei un’incomprensione. Molto spesso, però, «la consapevolezza che capire parole e frasi può non essere cosa ovvia, immediata, automatica»,112 appare evidente solo quando si incontrano e si interagisce con persone che parlano lingue straniere o quando si legge un testo scritto in maniera complessa, in una forma aulica, pieno di tecnicismi. In realtà

comprendere è difficile sempre. Comprendere un enunziato, comprenderlo davvero, è sempre un caso di problem solving. Così abituale per ogni essere umano sin dalla nascita, così abituale e intrinseco per tutta la nostra specie da centinaia di migliaia di anni, che di questa ordinaria difficoltà quasi ci dimentichiamo. Ma in tal dimenticanza abbiamo torto. Vi è, ed è da esplorare analiticamente, una difficoltà permanente del comprendere linguistico ogni volta che siamo dinanzi a qualunque enunziato parlato o scritto che dia corpo alle frasi e ai testi possibili in una lingua.113

Di solito quando comunichiamo, l’obiettivo è quello di essere capiti, per questo cerchiamo di «usare parole e frasi scelte e fatte in modo che, almeno nell’intenzione, siano trasparenti»,114 parole che per noi sono le più comprensibili per chi ci sta ascoltando. Alcuni vocaboli, però, non sempre sono noti o conosciuti

111 Vocabolario Hoepli, s.v. incomprensione.

112 De Mauro 1999, p.3.

113 Ivi, p.VIII.

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da tutti. Si consideri la professione del meccanico e della terminologia relativa al suo lavoro fatta di termini tecnici che utilizza giornalmente ma che potrebbero essere oscuri a un chimico, a un falegname, a un agricoltore ecc.:

un meccanico sa bene cosa vogliono dire giunto e differenziale, biella e ferodo. […] Un professore di belle lettere o un filosofo ignora queste parole ma forse conosce bene parole come archetipico, istoriale, anagogico e olofrastico. Tuttavia può restare imbarazzato quando un matematico gli dice parole come monoide o, magari, anche solo curva esponenziale.115

Sono considerate parole ben note e usate ma «limitatamente a questioni e interlocutori di una certa area semantico-pragmatica».116 L’insieme di questi termini caratterizza i linguaggi settoriali o speciali.

Quando si realizza un discorso semplice, con frasi ben fatte, si dà per scontato che si tratti di una produzione comprensibile e molto di rado ci si interroga sulla problematicità della comprensione, sugli aspetti denotativi e connotativi delle parole. Il motivo per il quale si creano dei fraintendimenti quando si comunica è dovuto al fatto che alcune parole sono ambivalenti, hanno un duplice significato. Non basta quindi conoscere la stessa lingua per comunicare e comprendere. La difficoltà, infatti, si trova nel significato delle parole e nell’utilizzo che ne facciamo. Un ruolo molto importante è svolto dagli insegnanti che lavorano proprio per far sì che i loro alunni ricevano un’efficace strategia di apprendimento e di comunicazione:

risolvere il problema dell’incomprensione, affinché gli studenti facciano progressi nell’apprendimento dell’italiano, deve fare parte della lezione giornaliera, ed è la sfida più grande che ogni docente affronta in classe. Gli insegnanti devono aiutare i loro studenti a padroneggiare l’abilità di comprendere l’italiano usando strategie che aiutano non solo l’apprendimento di nuovi termini, ma anche la conoscenza di parole nuove e frasi idiomatiche che non si traducono col dizionario. […] È compito del docente, nell’insegnare una lingua, insistere sulla connotazione dei termini e sull’importanza di

115 Ivi, p.75.

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far capire agli studenti le parole o le frasi che abbiano più di un significato, evidenziando la differenza tra denotazione e connotazione.117

Il termine denotazione, in linguistica,

è inteso come l’elemento significativo stabile e oggettivo di una unità lessicale, indipendente da ogni elemento soggettivo e affettivo che essa può avere nel contesto di una frase; per esempio, le parole fanciullo, bambino, pupo, piccino, ecc., hanno uguale denotazione perché designano lo stesso oggetto, seppure con differenti connotazioni.118

è quindi una parola espressa nel suo significato più oggettivo. La connotazione, invece, esprime la

sfumatura di senso che una parola o un’espressione ha o acquisisce in aggiunta al suo significato base (per esempio mamma ha una connotazione affettiva rispetto a madre); si contrappone alla denotazione.119

Tantissime parole, secondo questa logica, sono utilizzate nel loro significato connotativo, per offendere, prendere in giro e insultare (parole, quindi, di odio), ma ne esistono altrettante per elogiare e apprezzare le qualità positive di una persona.

Significato denotativo Significato connotativo Aquila Uccello rapace dei Falconiformi, di becco adunco, robusti artigli e vista acuta. Persona dotata di acutezza di ingegno; “Hai trovato la soluzione a questo

117 Filomena Fuduli Sorrentino. Il significato delle parole e la comprensione della lingua – Mettere in risalto le parole

o le frasi con più di un significato e far rivelare la differenza tra denotazione e connotazione. 23 Ottobre 2016. Dal sito

La Voce di New York. https://www.lavocedinewyork.com/arts/lingua-italiana/2016/10/23/il-significato-delle-parole-e-la-comprensione-della-lingua/

118 Vocabolario Treccani, s.v. denotazione.

52 difficilissimo problema finanziario, sei davvero un’aquila!” (Connotazione positiva) Fegato Voluminosa ghiandola del corpo umano ed animale che segrega la bile; è situata nell’addome subito sotto il diaframma. Come sinonimo di coraggio. “Quella ragazza ha avuto fegato”. (Connotazione positiva) Vacca Animale, femmina adulta dei bovini. Vacca da latte, da riproduzione. Donna volgare che si prostituisce o si concede con facilità. (Connotazione negativa) Mongolo Nome dell’abitante della Mongolia, Paese situato nell’Asia orientale. Idiota, deficiente. (Connotazione negativa)

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A dare inizio alla riflessione linguistica fu prima John Locke nell’Ottocento, seguito da Leibniz che esplorò la diversità linguistica e un secolo più tardi, Wittgenstein e le teorie del Novecento:

dobbiamo a Wittgenstein importanti osservazioni: sul comprendere quale padroneggiare una tecnica; sul nesso tra comprendere e avere senso; sulla continuità e discontinuità delle diverse modalità del comprendere una qualunque proposizione ordinaria […]. La tradizione filosofica […] ha sempre avvertito come problematica la comprensione linguistica […], è sempre apparso incolmabile il divario tra la mutevole, ricca pienezza dell’esistere e la povera ripetitività della parola umana.120

Altri importanti studi sulla problematicità della comprensione hanno riguardato, oltre alla tradizione filosofica, anche la traduttologia, in relazione alla resa del senso da testi di partenza scritti in un’altra lingua alla lingua d’arrivo; l’ermeneutica

dei testi letterari, in relazione alla veridicità di alcuni termini; l’ermeneutica religiosa, legata spesso ad aspetti traduttivi e di interpretazione del senso di testi

religiosi; l’ermeneutica giuridica e l’ermeneutica filologica e storica; «dal greco ἑρμηνευτική (τέχνη), propr. arte dell’interpretazione; arte, tecnica e attività d’interpretare il senso di testi antichi, leggi, documenti storici e simili, soprattutto in quanto presentino notevoli difficoltà».121 È stato quindi molto utile condurre degli studi sull’interpretazione per comprendere a fondo testi appartenenti a diversi ambiti; non si dovrebbe mai dare per scontato che tutto sia comprensibile.

Più avanti nel tempo, emerge, secondo Saussure, che i modi di ricezione di un messaggio cambiano da persona a persona in base a «diverse possibili conoscenze della lingua, diverse esperienze personali di ogni singolo, della sua disponibilità a conoscere o no certe associazioni di senso e perfino certe assonanze».122

E così con l’avvio degli studi di psicoanalisi si affermava che ciò che realmente contava nella comunicazione verbale per far sì che il messaggio venisse trasmesso in maniera comprensibile fosse, non tanto l’espressione in sè quanto la «strategia dell’ascolto e della accorta comprensione delle parole del paziente nella ecologia della comunicazione».123

120 De Mauro 1999, p.6.

121 Vocabolario Treccani, s.v. ermeneutica.

122 De Mauro 1999, p.14.

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È necessario tenere sempre in considerazione un aspetto chiave per quanto riguarda la comprensione, a partire dalla sua origine, ovvero dall’uso delle parole. Senza le parole, infatti, non esisterebbe la produzione di un discorso e senza un discorso non ci sarebbe la trasmissione di nessun messaggio e quindi neanche la successiva e finale interpretazione o comprensione.

La comprensione, tuttavia, è spesso sottovalutata e trascurata in molti paesi. Si consideri l’ambiente scolastico. L’idea della comprensione si riduce a «un atto dovuto, un processo linearmente consecutivo alla produzione».124 In Italia, ad esempio, sembra non essere importante per gli insegnanti accertarsi del fatto che gli alunni abbiano realmente compreso un testo o un’intera lezione. Vi è

una generale negligenza per ogni verifica puntuale della comprensione e persino il fastidio e il sospetto per ogni tecnica di accertamento oggettivo del grado di effettiva avvenuta comprensione dei testi. Un corale “Sì” della classe a un rituale “Avete capito?” dell’insegnante è il massimo degli accertamenti.125

Come noto una frase è fatta di parole e segni.126

Schema del segno:

/ significante/ [espressione] segno enunziato “significato” “senso” 124 Ivi, p.13. 125 Ibidem.

126 Il segno è un’entità a due facce: costituito da un significante prodotto più facilmente dall’emittente e riconosciuto e percepito più facilmente dal ricevente, in altre parole un’immagine acustica e un significato ovvero l’insieme di ciò che si può fare e comunicare con il segno, ciò che si definisce come concetto. In tutti i codici, tutti i possibili segni si realizzano attraverso concreti enunziati. Ogni significante si realizza, negli enunziati, attraverso innumeri espressioni concrete, anche parecchio diverse tra loro. Il segno si colloca in rapporto a quattro dimensioni: semantica, espressiva, sintattica e pragmatica. La dimensione ‘semantica’ (da un aggettivo greco, semantikòs, che vuol dire “indicativo”, che è quella del rapporto tra significato del segno e i possibili sensi che può assumere;

La dimensione ‘espressiva’, che è quella del rapporto tra il significante e le diverse espressioni che possono realizzarlo; La dimensione ‘sintattica’(da un aggettivo del greco antico, syntaktikòs, che voleva dire “relativo all’ordine, alla connessione”), che è quella del rapporto che c’è tra un segno e gli altri dello stesso codice;

La dimensione ‘pragmatica’ anche qui all’origine c’è un aggettivo greco antico, che si può tradurre “pratico, operativo”, che è quella dell’utilizzazione che di un segno fanno gli ‘utenti, cioè gli emittenti e i riceventi, per informarsi, minacciarsi, corteggiarsi, interrogrsi, ecc.

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Inoltre un altro aspetto da considerare di elevata importanza è che la lingua parlata è molto diversa dal linguaggio matematico dei calcoli. Il linguaggio parlato è

creativo. «Una lingua, le sue frasi, le sue parole, non rispettano l’assioma di

non-creatività. Ogni giorno possono nascere parole nuove, sparire parole usate fino ad allora, riapparire parole dimenticate».127 Si possono coniare, quindi, parole nuove e questo avviene attraverso l’invenzione.

Inventare, dicono i vocabolari, significa trovare con l’intelligenza, con l’ingegno, qualcosa di nuovo […], in molti casi l’invenzione di nuove parole consiste nel prendere vecchi materiali linguistici fuori uso […] e nel rilanciarli con forma e valori riadattati per esprimere sensi nuovi.128

Con il tempo molte di queste parole inventate sono entrate in uso (entrate, quindi, a far parte della lingua comune proprio perché utilizzate dai parlanti) in una maniera talmente forte che hanno trovato un posto nei vocabolari, parole che sono state così registrate e spiegate. Capita però che a volte alcune nuove parole non trovano una collocazione nei dizionari e in questi casi è molto difficile risalire al significato di esse. La maniera di procedere a questo punto è provare a individuare il significato in base al contesto e

ricostruire un possibile senso per le parole nuove che sentiamo o leggiamo tirando a indovinare, […] facciamo funzionare quella capacità così umana che è uscire da situazioni impreviste tirando a indovinare […]. Anche noi, tutti noi, siamo costretti a essere un po’ inventivi e creativi.129

L’invenzione di parole nuove può essere un’arma a doppio taglio nel linguaggio, infatti molti sono stati i vocaboli creati ed entrati in uso che hanno permesso l’evoluzione di un linguaggio violento e aggressivo. Chiaramente non tutte le parole d’odio sono state inventate dal nulla. La maggior parte, in realtà, sono entrate in uso assumendo una connotazione molto negativa.

127 De Mauro 2003, p.79.

128 Ivi, p.83.

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Ogni parola, quindi, «può essere fonte di equivoci […] legata alla possibilità di uso creativo, di allargare i suoi significati e le sue accezioni».130 Segue un ampio catalogo e un’analisi approfondita di queste parole realizzato da Tullio De Mauro.