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I "nuovi" limiti alla concorrenza

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Academic year: 2021

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Sommario

-Introduzione-

p.5

-CAPITOLO

I limiti legali alla concorrenza (art.2595 c.c.)

1. Origine e ratio. p.10 2. L’avvento della Costituzione: nuovi orizzonti. p.12 3. Interessi dell’economia nazionale, utilità sociale e limiti. p.17 4. I nuovi “limiti”. p.19

-CAPITOLO

II-I divieti legali di concorrenza

Sezione I

L’alienazione d’azienda (art. 2557 1° comma)

1. Origine, cenni comparativi e ratio. p.24 2. Interpretazione della norma e casistica. p.30 3. Applicazione analogica del divieto: l’ipotesi di trasferimento

(2)

4. L’attualità dell’art. 2557 c.c. alla luce del diritto Antitrust

nazionale ed europeo. p.42

Sezione II

Il rapporto di lavoro (art. 2105 c.c.) e il rapporto di

agenzia (art. 1743 c.c.)

1. Ratio e peculiarità. p.48 2. Interpretazione e casistica nel rapporto di lavoro. p.51 3. Attività del lavoratore: inquadramento e casi. p.56 4. Interpretazione e casistica nel divieto nel rapporto

di agenzia. p.61 5. Conclusioni. p.65

Sezione III

I divieti legali nelle società: gli artt. 2301 e 2390 c.c

.

1. Origine e ratio. p.70 2. Le ipotesi degli amministratori di fatto, dei liquidatori e

dei direttori generali. p.74 3. Il concetto di attività concorrente. p.81 4. Il problema del cumulo delle cariche sociali e applicazione

dell’art. 2390 c.c. p.86 5. Un divieto particolare: l’art. 2527, 2°comma, c.c. p.89

(3)

6. Un particolare limite legale: l’interlocking directorates. p.93

-Capitolo

III-I divieti contrattuali di concorrenza

Sezione I

Il patto di non concorrenza (art. 2596 c.c.).

1. Origine e ratio. p.100 2. Il concetto di patto. p.103 3. Applicabilità agli accordi orizzontali e verticali. p.108 4. Forma e condizioni di validità. p.111 5. Rapporti fra l’art. 2596 c.c. e la legge Antitrust:

compatibilità o superamento? p.114

Sezione II

Il patto di non concorrenza ex. art. 2557, 2° e 3°comma c.c.

1. Natura giuridica della clausola. p.121 2. Contenuto della clausola e suoi limiti. p.123

(4)

Sezione III

Il patto di non concorrenza successivo al rapporto di lavoro

ex art. 2125 c.c. e successivo al rapporto di agenzia ex art.

1751 bis c.c.

1. Ratio del patto (art. 2125 c.c.). p.132 2. Ambito di applicazione e momento di stipula del patto

(art. 2125 c.c.). p.135 3. Un aspetto peculiare: l’onerosità obbligatoria

(art. 2125 c.c.). p.140 4. Il patto dell’art. 1751 bis c.c. p.144 5. Un caso particolare: i promotori finanziari. p.149

-Osservazioni conclusive-

p.153

(5)

Introduzione

Fin dagli albori del pensiero economico1, la concorrenza e le sue problematiche hanno suscitato grande interesse, al punto da incidere in varia misura sulle legislazioni e sulle politiche sia europee2 sia d’oltreoceano.

Il concetto di concorrenza, in fondo, è semplice: in uno stesso mercato, domanda e offerta devono trovare l’equilibrio ideale per raggiungere l’efficienza produttiva consentendo, così, solo a chi opera a condizioni migliori, di restare sul mercato.

Una similitudine è utile a chiarire meglio il concetto di concorrenza e l’importanza della sua regolamentazione: il mercato è come una grande piazza circolare nella quale confluiscono tante strade; se non ci fossero regole per il passaggio agli incroci, strisce pedonali, vigili e semafori, tutti vorrebbero passare contemporaneamente creando una situazione talmente caotica da vanificare il diritto di transito di ciascuno, bloccando la circolazione. Di qui l’esigenza di regole che funzionino come il codice della strada e la necessità di autorità e giudici preposti a intervenire nei momenti critici.

1 Fin dal XVIII° secolo Adam Smith si occupa di concorrenza teorizzando il cosiddetto “laissez faire”, vale a dire un non intervento dello Stato, proprio perché il mercato è in grado di autoregolarsi.

2 Ad esempio, Karl Marx vedeva la concorrenza come un elemento di diseguaglianza a danno della classe lavoratrice tale da rendere necessario l’intervento dello Stato.

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Meno lineare è, senz’altro, la concorrenza “pratica”, il suo effetto in particolari circostanze (ad esempio ipotesi di concentrazioni e abusi di posizione dominante) e il rapporto con altri elementi di cui subisce l’influenza.

Si tratta, insomma, di un grande bilanciamento d’interessi; da una parte bisogna garantire una crescita del mercato a vantaggio della collettività, dall’altra bisogna vigilare su possibili situazioni pericolose e degenerative che comprometterebbero il sistema.

Proprio per questo nasce la legislazione Antitrust, che trova la sua culla negli Stati Uniti e in particolare nello Sherman Act3. Com’è noto il provvedimento mirava a tutelare i consumatori e le imprese più piccole dal potere delle grandi organizzazioni industriali nei settori strategici dell’economia. Certamente nel tempo si susseguirono altre misure volte a implementare e migliorare l’esperienza antitrust, ad esempio il Clayton Act4 e il Federal Trade Commission Act5.

Sul versante europeo (tranne qualche ipotesi di legislazione antitrust nei primi anni venti del ‘900) la disciplina antitrust ha acquisito via via maggior spessore in conseguenza della sua inclusione come mezzo per

3 Emanato nel 1890, lo “Sherman Act” rappresenta il primo provvedimento contro i monopoli e i cartelli tra imprese.

4 Approvato nel 1914 per superare l’imprecisione dei concetti contenuti nello

Sherman Act.

5 Coevo al Clayton Act, istituiva una commissione di esperti per supportare gli organi giurisdizionali nelle loro valutazioni.

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il perseguimento dell’obiettivo comunitario di formazione del mercato comune.

Si pensi, ad esempio, al ruolo centrale di vigilanza della Commissione Europea che, attraverso autorizzazioni o divieti, di volta in volta plasma il mercato cercando di mantenere un assetto concorrenziale. Sono sostanzialmente due le possibili forme di legislazione sulla concorrenza (antitrust): una legislazione di “libertà” e una di “divieto”. L’Europa ha scelto una via ibrida, basata sul principio del divieto di restrizioni e accordi idonei a pregiudicare il commercio fra Stati membri, ma anche prevedendo esenzioni in determinate circostanze e per determinate categorie.

Sono proprio le strade intraprese, fin dal Trattato C.E., a interessarci maggiormente: in primo luogo perché è ormai consolidato il primato del diritto europeo6 su quello nazionale e, inoltre, perché la stessa disciplina antitrust europea è stata la matrice dell’antitrust italiano. A questo punto, però, è necessario precisare quando si concretizzi una situazione di concorrenza rilevante per il diritto.

Se volessimo dare una definizione potremmo dire che si trovano in concorrenza due o più imprenditori che in un determinato periodo di tempo offrano o possano offrire beni e servizi suscettibili di soddisfare,

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anche in via succedanea, lo stesso bisogno o bisogni simili, nel medesimo ambito di mercato attuale o immediatamente potenziale.7 Seguendo l’impostazione data dal Codice Civile in materia di concorrenza, la dottrina8 è solita riconoscere che esso prevede tre aspetti: i limiti legali, i limiti contrattuali (o pattizi) e la concorrenza sleale.

Prima della legge Antitrust, i fenomeni di limitazione della concorrenza venivano talvolta confusi con le ipotesi di concorrenza sleale9, tanto che la giurisprudenza sia di merito sia di legittimità10, in assenza di normativa Antitrust, riteneva che gli abusi di posizione dominante potessero essere colpiti utilizzando l’articolo 2598 n° 3 c.c. In questo lavoro non ci si soffermerà sulla concorrenza sleale, ma solo sulle ipotesi codicistiche di limitazioni della concorrenza: di fonte legislativa come, per esempio, in pendenza del rapporto di lavoro dipendente e nel caso di soci e di amministratori di società e di fonte pattizia, come nel caso del patto di non concorrenza (art. 2596 c.c.) e del patto per il periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro.

7 Per tutti, FRANCESCHELLI, Trattato di Dir. Ind., II, Milano 1960, p. 509 8 GUGLIELMETTI, voce Concorrenza in Dig. Comm. Torino 2005, p. 301 9 La concorrenza sleale riguarda ipotesi d’illiceità di specifici atti concorrenziali 10 A. Milano 24 novembre 1978 in GADI, 1978 n° 1099 e Cass. Civ. 23 febbraio 1983 n° 1403, RDI, 1984, II, 1

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Ritengo importante utilizzare questa classificazione per stabilire, da un lato, il livello di autonomia negoziale che la legge riconosce ai privati e dall’altro verificare l’applicazione delle regole interpretative anche in via analogica.

Dei limiti suddetti verrà proposto il punto di dottrina e giurisprudenza, soffermandosi soprattutto sulle questioni ancora aperte e sui dubbi interpretativi alla luce della normativa nazionale e comunitaria successiva al Codice Civile stesso.

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Capitolo I

I limiti legali alla concorrenza (art. 2595 c.c.)

1. Origine e ratio.- 2. L’avvento della Costituzione: nuovi orizzonti.- 3. Interessi dell’economia nazionale, utilità sociale e limiti. - 4. I nuovi “limiti”.

1. Origine e ratio.

Le prima forma d’interesse del legislatore nazionale in materia d’iniziativa economica privata risale alla Carta del Lavoro del 192711. In piena fase di sviluppo dell’ordinamento fascista, è lo stesso Mussolini che in quegli anni propugna la sua visione dello Stato come “coordinatore e armonizzatore delle forze economiche che liberismo e socialismo lasciavano impunemente disfrenate”12.

In quest’ottica il fascismo non fece altro che fare proprie le opinioni contrarie al principio economico della borghesia liberale del “libero scambio tra liberi individui”, adottando un modello accentratore e totalitario13.

Questi presupposti sono alla base dell’articolo 2595 c.c. che ha rappresentato, insieme alle altre norme dello stesso Capo del Titolo X,

11 Art IX, Carta del Lavoro “l’intervento dello Stato nella produzione economica (deve aver) luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata o quando siano in giuoco interessi politici dello Stato”

12 “Introduzione” di B.Mussolini, in C. Gutkind (a cura di), Mussolini e il suo fascismo, Firenze 1927.

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la prima disciplina della materia della concorrenza dotata di una propria omogeneità. 14

Del resto, alla luce dei principi del corporativismo, l’esigenza del legislatore del ’42, non poteva che sancire la legittimità della libertà di concorrenza solo se svolta in modo da non ledere gli interessi dell’economia nazionale ed entro i limiti stabiliti per legge.

E´proprio in quell’epoca di dittatura che, paradossalmente, si forma l’embrione del principio della libertà di concorrenza.

Certamente non si può sostenere che il legislatore abbia voluto consapevolmente tutelare il principio della libertà di concorrenza: il suo vero obiettivo era incrementare la produzione nazionale e rafforzarne la struttura, attraverso un forte controllo statale 15 . Di conseguenza eventuali contrasti tra l’esercizio di attività in concorrenza e il perseguimento dei fini protezionistici avrebbero fatto prevalere questi ultimi 16.

Dopo la caduta del fascismo e la conseguente soppressione dell’ordinamento corporativo17, in dottrina18 è stato rilevato che la

14 ZANABONI, sub art. 2595 c.c. in CATRICALÀ-TROIANO (a cura di) Codice

commentato della concorrenza e del mercato, Torino, 2010, p. 1510

15 Cfr. OPPO, Iniziativa economica in Riv.Dir.Civ, 1988, parte 1°, p. 312

16 Cfr. ZANABONI, sub art. 2595 c.c., cit., che precisa che “l’assetto concorrenziale del mercato avrebbe altresì dovuto inchinarsi”, se prevalenti le esigenze di controllo dello Stato.

17 Ordinamento soppresso dal R.D.L. 9.8.1943 n° 721

18 TABACCHI,FALCIONI , Diritto civile e diritto della concorrenza , in CENDON (a cura di) Il diritto privato nella giurisprudenza, Torino,2005,44 ss

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norma, per corrispondere ai nuovi obiettivi economici generali, doveva essere interpretata non come espressione di un’economia liberale ma come diritto speciale rivolto ai soli imprenditori per regolare il corretto esercizio della loro attività. Come precisato, non c’era “nessuna preoccupazione per l’assetto concorrenziale del mercato”19.

2. L’avvento della Costituzione: nuovi orizzonti.

L’entrata in vigore della Costituzione ha comportato, inevitabilmente, il confronto tra le norme codicistiche in questione e gli innovativi principi costituzionali in materia di rapporti economici.

Senza dubbio il primo riferimento è l’articolo 41 Cost. che, al 1° comma20, nel sancire il riconoscimento della libertà d’iniziativa economica, ha elevato a livello costituzionale il principio di libertà di concorrenza. Infatti, come sostiene la dottrina 21, la libertà d’iniziativa economica privata non è altro che libertà di concorrenza, se considerata dal punto di vista della compresenza di più soggetti che ne usufruiscono. Più precisamente, si sostiene che proprio perché la libertà d’iniziativa economica è riconosciuta dalla Costituzione e

19 TABACCHI,FALCIONI, op. cit.

20 Art 41 Cost 1° comma “L’iniziativa economica privata è libera”.

21 GALGANO , Rapporti economici, in Comm. Cost. Branca, sub artt. 41-44, Bologna-Roma, 1982, p. 11 ss.

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compete a ogni cittadino, nel momento in cui più soggetti la esercitano, automaticamente si traduce in libertà di concorrenza22. E´ dibattuto, in dottrina, se la libertà d’iniziativa economica debba considerarsi un diritto fondamentale alla pari di altri diritti (pensiero, religione, associazione) oppure no23. Sembra preferibile la tesi negativa sulla base non solo della collocazione dell’art. 41 Cost. nell’ambito dei Rapporti economici e non dei Principi Fondamentali, ma anche perché l’esistenza di limiti ne esclude il carattere di assolutezza. Di quest’avviso è stata la stessa Corte Costituzionale24, la quale ha espressamente affermato: “Infatti, (…) alla libertà di iniziativa privata (…) la Costituzione rende legittima l'imposizione di limiti, rispettivamente, per evitare che la libertà di iniziativa economica si svolga in contrasto con l'utilità sociale (art. 41)… Per quanto riguarda l'asserita violazione dell'art. 2 della Costituzione, è da escludere che tra "i diritti inviolabili dell'uomo" si possa far rientrare quello relativo all'autonomia contrattuale (…) giacché tale diritto, operando nell'ambito di quelli più generali della libertà di iniziativa economica e del diritto di proprietà terriera, è specificatamente tutelato, come si è visto, da altre norme costituzionali, le quali

22 GRISOLI, La concorrenza. Disposizioni generali, in Tratt. Rescigno, 18, Torino, 1983, p. 305

23 BALDASSARRE, voce iniziativa economica privata, in Enc. Dir., Milano, 1971 vol. XXI

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autorizzano il legislatore ordinario ad imporre adeguati limiti per soddisfare preminenti interessi di carattere generale e sociale”.

Di non minore importanza è anche il 2°comma del medesimo articolo 41 Cost., che vieta lo svolgimento dell’iniziativa economica privata in contrasto con l’utilità sociale.

Proprio con riferimento al sopravvenire di quest’ultimo principio costituzionale, si è posto il problema in dottrina se l’articolo 2595 c.c. potesse considerarsi tacitamente abrogato, avendo perso portata precettiva. Infatti, taluni autori25hanno ritenuto che il riferimento all’utilità sociale, previsto nella Costituzione, abbia sostituito il limite dell’interesse dell’economia nazionale.

Altri, invece 26, non ravvisano un’ipotesi di abrogazione tacita perché ritengono preferibile interpretare in chiave storico-evolutiva il riferimento all’interesse dell’economia nazionale. Di conseguenza, fermi i dati storici di cui sopra, il concetto d’interesse dell’economia nazionale, reinterpretato alla luce dei principi costituzionali, non può rimuovere in ogni caso l’interesse dello Stato a un efficiente sistema economico nazionale.

Del resto quest’interesse si rileva anche dallo stesso 3°comma dell’art. 41 della Costituzione, che permette l’indirizzo e il coordinamento

25 Per tutti, ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali. Lezioni di Diritto Industriale, 3° ed., Milano, 1960, p. 18

26 AULETTA, Concorrenza, 3°ed. in Comm.Scialoja – Branca, sub artt. 2584-2601, Bologna-Roma, 1987, p. 183

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dell’attività economica verso fini sociali, attraverso programmi e controlli riservati alla legge.

La conferma che non si possa parlare di abrogazione tacita dell’articolo 2595 c.c. emerge dal confronto tra il dettato dello stesso (“nei limiti stabiliti dalla legge”) e il sopra richiamato 3° comma dell’articolo 41 Cost. che pone una riserva di legge.

Evidentemente l’effetto appare simile; tuttavia la riserva di legge, dettata dal codice, nasce a tutela d’interessi diversi27 da quello costituzionale che è diretto al conseguimento dei fini sociali nell’attività economica pubblica e privata.

Il principio di riserva di legge è stato più volte affermato dalla Corte Costituzionale, ad esempio, quando ha precisato “che tale riserva espressamente prescritta dall'ultimo comma del detto art. 41, debba ritenersi necessaria(…) si desume, secondo quanto è stato altre volte statuito dalla Corte (con le sent. nn. 50 e 103 del 1957, 47 e 52 del 1958) tanto dai principi generali informatori dell'ordinamento democratico, secondo i quali ogni specie di limite imposto ai diritti dei cittadini abbisogna del consenso dell'organo che trae da costoro la propria diretta investitura, quanto dall'esigenza che la valutazione relativa alla convenienza dell'imposizione di uno o di altro limite sia effettuata avendo presente il quadro complessivo degli interventi statali nell'economia inserendolo armonicamente in esso, e, pertanto, debba

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competere al Parlamento, quale organo da cui emana l'indirizzo politico generale dello Stato”28.

Infatti, confermato il suddetto principio, la Corte concluse dichiarando l’incostituzionalità delle norme impugnate in quanto le stesse non contenevano elementi sufficienti per individuare i programmi e i controlli che costituivano corollario necessario ex art. 41 3°comma, che invece erano rimessi per relationem ad atti amministrativi e quindi non vagliati dal Parlamento in sede legislativa.

In altra sentenza dello stesso anno, la Corte Costituzionale ha precisato che, per il rispetto del principio di riserva di legge, quest’ultima debba anche specificare quali siano i fini di utilità sociale e i criteri ai quali si ispira.29

Naturalmente, col tempo questa “riserva di legge” ha perso la sua dimensione originaria. Oggi tale principio dev’essere riformulato sia avendo riguardo agli atti normativi dell’Unione Europea30, sia rispetto alla legislazione regionale nei casi di equiparazione alla legge statale.

28 Corte Costituzionale 6 febbraio 1962 n° 4 29 Corte Costituzionale 14 giugno 1962 n°54 30 Regolamenti e direttive self-executing

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3. Interessi dell’economia nazionale, utilità sociale e limiti.

Com’è stato sostenuto 31, l’osmosi tra Costituzione e Codice Civile, si è perfettamente verificata nel nostro caso attraverso l’identità concettuale tra “interessi dell’economia nazionale” e i “fini di utilità sociale”.

La Consulta32ha affermato che l’articolo 41 della Costituzione. “enuncia sul piano costituzionale la libertà economica nella sua fondamentale manifestazione di libertà di iniziativa economica e privata, che si traduce nella possibilità di indirizzare liberamente, secondo le proprie convenienze, la propria attività nel campo economico. A tale libertà la Costituzione pone il limite del pubblico interesse, in quanto l’iniziativa privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, intesa come conseguimento del bene comune”. L’interesse generale rappresenta il confine entro il quale libertà d’iniziativa economica e libertà di concorrenza devono essere temperate; il rinvio ai “limiti stabiliti dalla legge” 33, generalmente, suggerisce un distinguo tra “ limitazioni pubblicistiche dell’iniziativa economica privata” e “limiti posti dallo stesso legislatore a tutela di interessi patrimoniali e privati”.34

31 OPPO, op. cit.

32 Corte Costituzionale, 21 gennaio 1957 n°29

33 GHIDINI, Slealtà della concorrenza e costituzione economica, Padova, 1978 e GRISOLI, op. cit, i quali ritengono che il rinvio non abbia autonoma portata normativa

ma assolva solo una funzione di coordinamento.

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Ciò che c’interessa ora sono le regole pubblicistiche, riscontrabili in tutti quei casi in cui l’esercizio di talune attività sia subordinato “a concessione o autorizzazione amministrativa” 35 . Si parla di concessione amministrativa quando le attività esercitate sono ritenute come proprie dello Stato, come ad esempio nel settore radiotelevisivo privato e delle telecomunicazioni. Invece, si parla di autorizzazione amministrativa quando lo svolgimento delle attività rientra nella sfera dell’iniziativa privata ma si richiede una preventiva valutazione a tutela dei pubblici interessi, come ad esempio nel settore bancario. Non va dimenticato che costituiscono limiti anche i poteri di vigilanza e controllo che la legge attribuisce alla Pubblica Amministrazione in quei settori che rivestono particolare importanza economica o sociale36.

Infine, rientra tra le ipotesi di limiti legali anche il sistema di controllo pubblico dei prezzi di vendita di alcuni beni o servizi ritenuti di rilevante importanza o larga diffusione.

In Italia, questa forma di controllo dei prezzi fu sperimentata, in particolare, fra il 1973 e il 1974, a seguito del primo shock petrolifero: per evitare un'improvvisa impennata dei prezzi, il Governo dispose un

35 Art. 2084 c.c. : “La legge determina le categorie di imprese il cui esercizio è subordinato a concessione o autorizzazione amministrativa. Le altre condizioni per l’esercizio per le diverse categorie di imprese sono stabilite dalla legge.”

36 Rilevante è anche il caso, nel settore creditizio-bancario, degli ampi poteri di vigilanza e indirizzo riconosciuti ad organi di governo (Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio e Banca d’Italia).

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blocco assoluto degli stessi per circa un anno, consentendo variazioni dei listini solo dopo l’autorizzazione da parte del Comitato interministeriale per i prezzi (CIP). Anche se quest’esperienza non diede i risultati sperati, ancora oggi sussistono forme di controllo analoghe. Infatti dopo la soppressione del CIP, le sue competenze sono transitate al Cipe (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) e ad altri organismi pubblici: ad essi spetta il compito di fissare il prezzo massimo di alcuni beni e servizi considerati di prima necessità e sorvegliare l'andamento di alcuni prezzi liberi, analizzando le variazioni di questi e le cause che le hanno determinate (cd. prezzi sorvegliati o controllati).

4. I nuovi “limiti”.

Quanto fin qui detto ha evidenziato i limiti di legge richiamati dall’art 2595 c.c. e coordinati con i principi costituzionali (art 41 Cost.).

Ora si pone il problema di come possono aver interagito in questo campo i principi della normativa europea.

L’impostazione comunitaria nei confronti della concorrenza è caratterizzata da un sostanziale favore verso un sistema che, nell’ottica della formazione di un mercato unico, sia il più possibile libero e scarno di limitazioni. Tutto ciò comporta che le restrizioni sono ammissibili solo se non pregiudicano il commercio fra Stati membri o una parte rilevante del mercato. Quando il caso è rilevante per la

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normativa europea, come già accennato, la restrizione applicabile dev’essere solo quella prevista dalla normativa europea; una norma interna contrastante dovrà essere disapplicata37.

La prevalenza delle norme europee su quelle nazionali è ormai consolidata38.

Da qui si può sostenere che gli “interessi dell’economia nazionale” indicati nell’art. 2595 c.c., hanno ancora rilevanza solo nei casi di concorrenza che non siano rilevanti per la normativa europea. Infatti non avrà senso, in ipotesi rilevanti, fare riferimento a quest’articolo proprio perché la disciplina del Codice Civile non difende la libertà di concorrenza che è invece principio dell’Unione Europea.

Allo stesso modo il caso di concorrenza rilevante per il solo mercato interno, non dovrà essere regolato dall’art. 2595 c.c. ma dalla legge Antitrust n. 287/1990 che (come già detto) è figlia della disciplina Antitrust europea.

Fino a non molto tempo fa, il valore programmatico di questa norma veniva riconosciuto in dottrina solo nei casi de minimis39. Oggi appare, in prospettiva, dubbia anche quest’affermazione: le recenti disposizioni in materia di liberalizzazione fanno immaginare uno scenario

37 TESAURO, Diritto comunitario, 4° ed., 2005, CEDAM, Padova

38 Corte di Giustizia U.E. : 16 luglio 1964 ”Costa v. Enel” ; 19 giugno 1990

“Factortame”.

39 Con questa espressione s’intendono i casi inferiori ad una determinata soglia per cui non sono suscettibili di produrre effetti sulla concorrenza tra Stati membri

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ulteriormente mutato. Le pressanti esigenze di adeguamento ai principi europei hanno spinto il legislatore ad emanare leggi nelle quali i detti principi vengono dichiarati espressamente come “principi generali dell’ordinamento nazionale”.

Il riferimento è all’art. 31, 2° comma della legge n.27 /201240 che recita: “secondo la disciplina dell’ U.E. e nazionale in materia di concorrenza, libertà di stabilimento, e libera prestazione di servizi, costituisce principio generale dell’ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali, o altri vincoli di qualsiasi altra natura esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali”.

Quest’impostazione è stata ulteriormente confermata dalla successiva legge n. 62 /2012 41 che all’articolo 1 così recita:

“1. (...) in attuazione del principio di libertà di iniziativa economica sancito dall’articolo 41 della Costituzione e del principio di concorrenza sancito dal Trattato dell’Unione europea, sono abrogate, dalla data di entrata in vigore dei decreti di cui al comma 3 del presente articolo e secondo le previsioni del presente articolo:

a) le norme che prevedono limiti numerici, autorizzazioni, licenze, nulla osta o preventivi atti di assenso dell’amministrazione comunque

40 Legge di conversione del D.L. 6 /12/2011 n° 201 c.d. “Decreto Salva Italia” 41 Legge di conversione del D.L. 24/1/2012 n°1 c.d. “Decreto Cresci Italia”

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denominati per l’avvio di un’attività economica non giustificati da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l’ordinamento comunitario nel rispetto del principio di proporzionalità;

b) le norme che pongono divieti e restrizioni alle attività economiche non adeguati o non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite (...) che pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli, ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate e che in particolare impediscono, condizionano o ritardano l’avvio di nuove attività economiche o l’ingresso di nuovi operatori economici ponendo un trattamento differenziato rispetto agli operatori già presenti sul mercato (...) 2. Le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all’accesso ed all’esercizio delle attività economiche sono in ogni caso interpretate ed applicate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato alle perseguite finalità di interesse pubblico generale, alla stregua dei principi costituzionali per i quali l’iniziativa economica privata è libera (...) ed ammette solo i limiti, i programmi e i controlli necessari ad evitare (...) possibili contrasti con l’utilità sociale, con l’ordine pubblico, con il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed internazionali della Repubblica”.

Com’è chiaro, l’intento del legislatore è stato quello di abrogare tutte quelle norme che, in qualsiasi settore produttivo, pongano limiti,

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restrizioni o divieti, fermo restando la tutela dei principi costituzionali e dell’ordinamento europeo.

Il continuo riferimento ai principi europei sembra rendere difficile uno spazio di autonomia della norma codicistica anche se residuata ai casi de minimis.

Concludendo, che valore possiamo attribuire a questa norma?

In realtà quest’articolo, anche dopo aver subito tutte le successive innovazioni normative costituzionali, comunitarie ed ordinarie, non sembra potersi considerare norma abrogata, in quanto le si può riconoscere semplicemente una funzione di coordinamento seppur priva di “autonoma portata normativa”42.

Del resto, si è visto che gli interessi dell’economia nazionale permangono anche se in forme e modalità differenti; inoltre il concetto di “limiti stabiliti dalla legge” non è venuto meno ma è stato rimodulato nei suoi parametri.

Pertanto confermata appare la tesi di chi 43 sostiene la validità dell’articolo anche se bisognoso di un’interpretazione evolutiva secondo lo spirito e i principi costituzionali.

42 GHIDINI, op. cit., p.89 43 AULETTA, op. cit.

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Capitolo II

I divieti legali di concorrenza

Sezione I

L’alienazione d’azienda (art. 2557, 1° comma, c.c.)

1. Origine, cenni comparativi e ratio. - 2. Interpretazione della norma e casistica. - 3. Applicazione analogica del divieto: l’ipotesi di trasferimento delle quote sociali. - 4. L’attualità dell’art. 2557 c.c. alla luce del diritto Antitrust nazionale ed europeo.

1. Origini, cenni comparativi e ratio.

Il divieto contenuto nel 1° comma dell’art. 2557 c.c. 44 mira a contemperare due opposte esigenze: da una parte garantire al cessionario dell’azienda il pieno godimento della stessa contro un possibile tentativo dell’alienante di riappropriarsene in fatto; dall’altra, non menomare eccessivamente la libertà professionale dell’alienante45. All’epoca del previgente codice civile46, si discuteva se tale divieto esistesse o no; un orientamento prevalente47 ne

44 “Chi aliena l’azienda deve astenersi, per il periodo di cinque anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta.”

45 La Cassazione ha affermato che tale divieto ha carattere di relatività; cioè ,pur nei limiti temporali e oggettivi previsti, è subordinato ad un giudizio di idoneità che va espresso caso per caso dal giudice (Cass. 20 Gennaio 1975 n°225)

46 Codice Civile del 1865

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ammetteva l’esistenza, rilevando che “la cessione dell’avviamento importa il divieto per il cedente di riprendere l’attività che formava oggetto dell’azienda ceduta nei limiti di tempo e di spazio nei quali la ripresa costituirebbe concorrenza a danno del cessionario”; mentre l’orientamento a sostegno dell’inesistenza del divieto era confermato da altra giurisprudenza e altra dottrina48.

Il codice del commercio del 1882 non prevedeva una norma analoga all’attuale art. 2557 c.c., ma si riteneva ugualmente che nella vendita di azienda commerciale (e anche nel trasferimento della quota di maggioranza di una società) fosse implicito tale divieto di concorrenza. Infatti nella cessione d’azienda, in mancanza di patto contrario, erano compresi anche l’avviamento e la clientela, in modo tale che il cedente implicitamente, assumeva il dovere di astenersi dal compiere atti che avrebbero impedito al cessionario di mantenere la clientela. In caso contrario avrebbe provocato l’evizione del “bene-azienda” come previsto dall’art. 1482 49 del codice civile del 1865. In un’ottica comparativa possiamo, altresì, notare che in Paesi europei come la Spagna, la Francia e la Germania non esistono norme analoghe al divieto di cui si tratta.

48 Cass. 2 febbraio 1925, Riv. dir. comm. 1926, II, 588, con nota di Casanova (il divieto di concorrenza funge da garanzia da evizione e permane anche in caso di scioglimento della s.n.c. cedente)

49 Art 1482 c.c. 1865 “ Quantunque nel contratto di vendita non siasi stipulata la garantìa , il venditore è tenuto di diritto a garantire il compratore dall’evizione che lo priva di tutto o di parte della cosa venduta, ed altresì dai pesi che si pretendono gravarla e che non furono dichiarati nel contratto”

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In particolare, in Spagna, non è sancito il divieto di concorrenza in caso di vendita di un’impresa e neanche nella giurisprudenza è stato preso in considerazione tale elemento, a meno che non vi sia o un espresso patto di non concorrenza oppure il cedente abbia compiuto atti di concorrenza sleale (competencia disleal).

La Ley 3/1991 sulla concorrenza sleale non contempla, però, tra le sue ipotesi la sottrazione abusiva di clientela in casi di cessione d’azienda ; qui, sostiene la giurisprudenza, si può fare rifermento al generale obbligo di comportarsi secondo buona fede nei rapporti tra imprese50.

Anche nel code de commerce francese, non esiste una norma simile al nostro art. 2557 c.c., anche se viene consentita la stipula di una clausola di non concorrenza che sia improntata al raggiungimento di un più ampio regolamento d’interessi secondo i principi della buona fede51. La validità della stessa clausola viene comunque subordinata al mantenimento di criteri di proporzionalità, sia spaziale sia temporale, diretti al raggiungimento della salvaguardia della clientela aziendale.

Una diversa impostazione si ravvisa, invece, in Germania laddove il BGB, in tema di diritti e obblighi in ipotesi di trasferimento

50 Tribunal Supremo, Sentencia 446/2008 in

http://supremo.vlex.es/vid/competencia-desleal-abogados-42929262

51 Trib. Paris 3 novembre 1982, in Recueil Dalloz, 1985 , 219 ,dove espressamente si richiama il 3° comma dell’art. 1134 del code civil secondo cui le convenzioni legalmente stipulate “ doivent être exècutèes de bonne foi”

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d’azienda, si occupa in particolare della tutela dei lavoratori dell’impresa e non stabilisce alcun obbligo di non concorrenza in capo al venditore52.

Oltreoceano53, la disciplina del suddetto tema non è unitaria, dato che i singoli Stati dell’Unione hanno il potere di emanare proprie leggi; pur tuttavia nessuna norma prevede un divieto di concorrenza ed eventuali patti di non concorrenza, stipulati in occasione della cessione, sono tollerati entro certi limiti54.

Sono, infatti, ritenuti validi i patti stipulati in occasione di una cessione d’impresa e caratterizzati da “ragionevolezza”, limiti di spazio e tempo; non, invece, quelli sorti e perfezionati in altre fattispecie55.

Passando ora all’inquadramento giuridico dell’art. 2557 c.c. è importante evidenziare che in dottrina sono emerse diverse tesi. Una prima tesi si basa sul principio della “irrevocabilità dei contratti”: l’alienante che svolge attività concorrenziale dopo la cessione dell’azienda, riappropriandosi e avvantaggiandosi dell’avviamento, viene meno al suo obbligo contrattuale di consegna

52 SCHMIDT, Il codice commerciale tedesco dal declino alla ri-codificazione, in Riv.

dir. civ., 1999, I, p. 711

53 Ci si riferisce agli Stati Uniti d’America

54 In California (Stato molto rigido rispetto ai patti di non concorrenza) fra le poche eccezioni contemplate vi è proprio la cessione d’impresa “Sale of business”, come previsto dal “California Business and Professions Cod, section 16600”

55Si parla di “Ancillary to another enforceable agreement” ossia di clausole strettamente funzionali al patto sottostante

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del complesso aziendale nella sua interezza. Questa turbativa nel godimento dell’azienda da parte dell’acquirente, fa sorgere l’inadempimento dell’alienante all’obbligazione di consegna dell’oggetto del contratto: il consenso è stato prestato e il contratto è stato perfezionato56.

Una diversa tesi, prevalente in dottrina57, sostiene che la clientela, non essendo un bene giuridico oggetto di un obbligo di dare ma solo un’ipotetica limitazione dell’attività personale, costituisca solo un’obbligazione autonoma di non fare, derivante dal contratto di alienazione scaturito dalla volontà delle parti; quindi si dovrà valutare caso per caso se la limitazione dell’attività legata alla clientela era stata voluta dalle parti (e quindi esistente) o esclusa in caso contrario58.

Nella previgente legislazione sorse un’altra tesi, poi abbandonata, che interpretava il divieto di concorrenza come una forma di “garanzia da evizione”, nel senso che doveva garantire l’acquirente dalla perdita di tutti i beni “aziendali”, ivi compresa la clientela. Abbiamo già sottolineato come la clientela non sia un bene suscettibile di trasferimento ed inoltre, non si può parlare di una

56 CASANOVA in “Il divieto di concorrenza nella cessione d’azienda, nota a Cass. 2 febbraio 1925, Riv. dir. Comm. 1926, p. 594

57 AULETTA, Commento all’artt. 2557, in Commentario del Codice Civile a cura di Scialoia e Branca, Bologna- Roma 1960, p. 44

58 AULETTA, Alienazione d’azienda e divieto di concorrenza, in Riv. trim .dir. proc.

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“evizione” in senso tecnico dato che nella fattispecie non c’è un terzo titolare di un diritto venduto.

L’inquadramento giuridico che appare più adatto e preferibile è quello dell’’ “obbligo di non fare”.

Viene da chiedersi, infine, perché il legislatore italiano abbia introdotto questa norma che, come abbiamo accennato, non si trova in altri ordinamenti. Perché integrare la volontà delle parti in un contratto di cessione d’azienda, inserendo ex lege tale divieto di concorrenza?59

Evidentemente, la preoccupazione del legislatore è stata quella di arginare in qualche modo la pericolosità insita nella posizione dell’alienante, il quale si trova in una situazione privilegiata rispetto all’acquirente.

Competenze tecniche del settore, capacità organizzative e conoscenze del mercato di riferimento, lo rendono particolarmente avvantaggiato rispetto alla generalità dei concorrenti dell’azienda ceduta.

Proprio per questi motivi, l’ordinamento ha ritenuto di impedire entro certi limiti spaziali e temporali, lo sfruttamento di questa sua

59 COLOMBO, L’azienda e il divieto di concorrenza dell’alienante,in L’azienda e il

mercato, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia

diretto da F. Galgano, III, Padova 1979, p. 174: integrazione del contratto e non di interpretazione dello stesso

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posizione per non compromettere quello che deve essere il risultato finale del contratto di cessione 60.

Proprio questa ratio, spiegata finora, è sintetizzabile nel concetto dottrinale di “concorrenza differenziale” dell’alienante 61 ; questo concetto verrà ripreso successivamente nel corso del presente lavoro, perché necessario alla comprensione della legittimità dei divieti di concorrenza anche alla luce delle normative nazionali ed europee più recenti.

2. Interpretazione della norma e casistica.

Il combinato disposto dai commi 1°e 4° dell’articolo 2557 c.c. estende l’applicazione del divieto anche ai casi in cui vi sia una variazione del soggetto titolare dell’azienda62.

La disciplina di cui si tratta, infatti, è applicabile anche alle ipotesi di circolazione del possesso aziendale a titolo temporaneo, quali i casi di usufrutto e affitto d’azienda; ipotesi in cui il divieto di concorrenza resta rispettivamente a carico del proprietario o del locatore. Del resto appare chiaro che la compresenza di due elementi,

60 Chiaramente questo pericolo preoccuperà in misura minore qualora il valore aziendale sia fondato su brevetti e marchi; sarà più insidioso, invece, se il bene-azienda è fondato su capacità personali dell’imprenditore cedente

61 MINERVINI, Concorrenza e consorzi, in Tratt. di diritto civile diretto da Grosso e Santoro Passarelli, 2° ed., 1965, p. 59

62 4° comma art. 2557 c.c. “Nel caso di usufrutto o di affitto dell’azienda il divieto di concorrenza disposto dal primo comma vale nei confronti del proprietario o del locatore per la durata dell’usufrutto o dell’affitto”.

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quali il trasferimento della disponibilità dell’azienda e la possibilità che il cedente con la sua attività possa porre a rischio l’effetto utile del trasferimento del possesso aziendale, si verifica anche in dette ipotesi.

Proprio la necessaria coesistenza dei suddetti elementi ha fatto evidenziare in dottrina63che nel caso di usufrutto costituito mortis

causa, il divieto non si applica perché non è più in vita il soggetto che può porre in essere la concorrenza differenziale.

E´ ormai consolidato, inoltre, che il divieto di concorrenza dell’art. 2557 c.c. si applichi in tutti i casi in cui si verifica un cambio di titolarità dell’azienda, perché è in quel momento che può emergere una concorrenza differenziale tra il vecchio e il nuovo titolare, che il legislatore vuole comunque limitare.

Così, in tema di affitto d’azienda, com’è importante il momento del trasferimento dal proprietario al locatario, altrettanto importante è il momento del ritorno dell’azienda dal locatario al proprietario64. La Corte di Cassazione ha infatti ritenuto applicabile l’articolo in esame “non soltanto con riguardo alle ipotesi di alienazione dell’azienda, intesa in senso tecnico, ma anche a tutte quelle altre ove si avveri la sostituzione di un imprenditore all’altro nell’esercizio di un’impresa,

63 Così MARTORANO, L’Azienda, in V.BUONOCORE (fondato da), Trattato di Diritto

Commerciale, sez. I, t. 3, Torino, Giappichelli, 2010

64 Si parla in dottrina di “circolazione di ritorno” v.MARTORANO, L’Azienda, cit, p. 313 ss.

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come conseguenza diretta della volontà delle parti o di un fatto da esse espressamente previsto e, pertanto, anche in favore del proprietario di un’azienda nel caso che l’abbia data in affitto allorché l’azienda gli sia stata ritrasferita dall’affittuario per scadenza del termine finale o per altra causa negozialmente prevista”65.

La Suprema Corte è giunta a tale decisione, attraverso un’interpretazione estensiva dell’articolo 2557 1° comma c.c. senza utilizzare procedimenti interpretativi di tipo analogico66. Ciò rappresenta il definitivo abbandono delle precedenti posizioni della stessa Cassazione 67, per la quale due erano le ragioni sottostanti alla non estensibilità del 1° comma dell’art. 2557 c.c. al caso dell’affittuario d’azienda cessante: da una parte il carattere eccezionale della norma rispetto alla libertà di concorrenza e dall’altra, l’interpretazione ad excludendum del già citato 4°comma. Dal punto di vista soggettivo, facendo riferimento alla posizione del titolare dell’azienda, non sempre è applicabile l’art. 2557 c.c.. Infatti sono frequenti e ben noti, nella prassi, casi in cui un soggetto pur titolare di un’azienda solo formalmente, non ha mai esercitato l’attività prima della cessione a terzi. Si pensi al nudo proprietario

65 Cass Civ.. n° 13762/ 1991 in Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 1993, parte I , 1ss.

66 Per quanto riguarda la possibilità d’interpretazione analogica si rinvia al paragrafo successivo.

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che aliena l’azienda quando, cessato l’usufrutto, la piena proprietà si consolida in capo allo stesso; oppure all’ipotesi in cui un erede o legatario, che riceve l’azienda mortis causa, dopo non molto tempo la vende senza averla mai esercitata.

In queste ipotesi, la caratteristica principale è che il titolare dell’azienda non può utilizzare alcun “vantaggio concorrenziale”68 rispetto al cessionario, semplicemente perché non ha mai esercitato l’attività e non ha intrattenuto quei rapporti con la clientela, oppure acquisito quelle conoscenze organizzative e aziendali che lo potrebbero porre in una posizione di privilegio.

Altra questione: sono tutelati i successivi acquirenti dell’azienda nei confronti del primo alienante?

Ebbene la dottrina69 ritiene che il divieto ex art. 2557 c.c., imposto all’alienante, esista anche nel caso di successiva alienazione dell’azienda,“a cascata”, a favore di successivi acquirenti. Del resto la ratio di tale interpretazione si basa sempre sullo scopo della disposizione in esame, ovvero, come già detto, quello di tutelare il risultato utile della cessione d’azienda.

Altro punto che merita attenzione è il concetto di “nuova impresa”, espressamente indicato dal codice.

68 In particolare: alcun “vantaggio differenziale”

69 Così COLOMBO, L’Azienda in GALGANO (diretto da), Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, vol. III, Padova , CEDAM, 1979, 197 ss.; FERRARI, voce Azienda, in Enc. Dir., vol. IV, Milano, Giuffrè, 1959, 710;

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E´ giusto il caso di precisare che, sia in giurisprudenza che in dottrina, la “novità” dell’attività non investe la prosecuzione di altre attività preesistenti all’alienazione d’azienda70; questo risulterebbe un obbligo di astensione particolarmente gravoso per l’alienante e contrario al principio di libertà d’iniziativa economica che non può essere compresso oltre misura. Infatti, il divieto di cui si parla, si riferisce all’inizio (dopo il trasferimento d’azienda) di una nuova attività idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta; non, quindi, ad alcuna attività preesistente al trasferimento stesso.71

Ad esempio rientra nel divieto il caso in cui il cedente abbia rilevato un esercizio da un terzo e poi intrapreso in proprio l’attività nel medesimo settore; è chiara in quest’ipotesi l’idoneità a causare un danno economico all’avviamento dell’impresa ceduta.

Tale situazione si può creare anche, come in pratica accade, se il cedente dà vita ad una nuova impresa in forma indiretta, o tramite un prestanome o tramite altri soggetti che comunque a lui fanno capo72. Anche in queste ipotesi, coloro che s’interpongono sono soggetti al divieto di concorrenza, naturalmente a condizione che sia possibile provare che l’attività è, in ogni caso, riconducibile al cessionario della stessa.

70 DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Milano, 71 Cass. Civ. 30 marzo 1984, n° 2112.

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3. Applicazione analogica del divieto: l’ipotesi di trasferimento delle quote sociali.

I principali problemi di applicazione della norma in esame emergono dall’ormai frequente utilizzo pratico di espedienti volti ad eludere il divieto sancito. Basti pensare alle ipotesi in cui un imprenditore individuale, dopo aver ceduto la sua azienda, costituisca una società con personalità giuridica, di cui sia amministratore e socio di maggioranza assoluta, che viene a trovarsi in concorrenza con l’azienda ceduta; ovvero, in altra ipotesi, il socio accomandatario di una società in accomandita semplice (oppure un socio che rivesta nella società un ruolo fondamentale per l’attività della stessa ovvero sia in possesso di un know how rilevante) ceda la sua quota e subito dopo inizi un’attività concorrente con quella della società medesima.

Anche se una lettura superficiale dell’art. 2557 c.c. 1°comma sembrerebbe non includere le suddette fattispecie73, non possiamo immaginare che il “vuoto normativo” lasciato dal legislatore, non sia colmabile attraverso una qualche interpretazione che ne impedisca una facile elusione.

Infatti, dottrina e giurisprudenza, chiamate in varia guisa a risolvere il problema, in alcuni casi hanno percorso la via di un’interpretazione

73 Nella prima delle due ipotesi sussiste l’interposizione di un altro soggetto, mentre nella seconda non c’è cessione d’azienda.

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estensiva, altre volte hanno evidenziato la possibilità di un’interpretazione analogica74.

I sostenitori dell’interpretazione estensiva75 la ritengono preferibile per il fatto che si possa prescindere dalla natura comune o eccezionale della norma76. In realtà, c’è anche chi sostiene l’infondatezza di questa tesi, affermando che non si tratta di un caso di minus dixit lex quam voluit, dato che la cessione del bene-azienda è cosa ben diversa dalla cessione del bene- quota sociale77.

La possibilità invece di accedere ad un’interpretazione analogica viene fatta dipendere, in dottrina, dal riconoscimento della natura eccezionale della norma; tale natura renderebbe inapplicabile l’analogia, con la conseguenza immediata che la cessione delle quote sociali sarebbe priva di qualsiasi divieto legale di concorrenza.

Chi 78 sostiene la tesi dell’eccezionalità dell’art. 2557 c.c. ne individua tale natura facendo riferimento ai principi generali di libertà d’iniziativa economica e di concorrenza, sanciti in modo indiscutibile

74 Del resto quand’è necessario forzare un dato normativo i mezzi consentiti non possono essere che quelli di un’interpretazione estensiva o analogica.

75 LA GIOIA, Alienazione di quote sociali e obbligo di non concorrenza, nota a Cass. 23 giugno 1956 n° 2245, Riv. dir. ind. 1957, II, p. 113-114

76 Ricordiamo che le norme eccezionali non sono suscettibili d’interpretazione analogica come dispone l’articolo 14 delle preleggi, ma possono essere oggetto d’interpretazione estensiva: v. GAZZONI, Manuale di diritto privato, 4° ed., Napoli,

1993, p. 50

77 ALBERTINI, Cessione di quote sociali e divieto di concorrenza ex art. 2557 c.c., nota a Cass. Civ. 20 gennaio 1997, n° 549, sez. I in Giust. Civ. 1997, 5, p. 1289. 78 ALBERTINi, op. cit.

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dall’articolo 41 della Costituzione: l’esistenza stessa della norma, quindi, ne evidenzia la sua eccezionalità.

Argomentando ulteriormente79, proprio la netta distinzione dal punto di vista soggettivo (società da una parte e socio dall’altra), renderebbe poco adatta l’applicazione dell’interpretazione analogica; ignorare l’esistenza dello schermo soggettivo, caratteristico dell’ente societario80, significherebbe eliminare un soggetto giuridicamente riconosciuto e tutelato dall’ordinamento con palese contraddizione dello stesso. Del resto, immaginare questo superamento, solo nei casi in cui chi cede riveste un ruolo fondamentale per la società, renderebbe l’applicazione di questa norma poco pratica e oltremodo discrezionale. La tesi avversa e prevalente81 sostiene, invece, che l’articolo 2557 c.c. non è altro che un’ulteriore conferma del principio generale di libertà d’iniziativa economica, partendo dal 2° comma dell’articolo 41 della Costituzione 82 e dello stesso principio di correttezza professionale contenuto nel n° 3 dell’articolo 2598 c.c.83Non va dimenticato che, sia quest’ultimo articolo sia l’art. 2557 c.c. sono espressione del principio

79 ALBERTINI, op. cit.

80 Senza distinguo tra società di persone e società di capitali.

81 DELLI PRISCOLI, Trasferimento di azienda e procedimento di applicazione in via

analogica , nota a Cass. Civ., 4 febbraio 2009 n° 2717, sez. I in Giur. Comm. 2010, 1,

p. 47

82“Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.”

83 “Compie atti di concorrenza sleale chiunque:... 3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda.”

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generale di buona fede che deve accomunare le parti nell’esecuzione di un contratto 84. Quindi, nel caso il cedente che eseguisse una vendita d’azienda priva di una componente essenziale di quest’ultima (la clientela) non potrebbe essere considerato in buona fede. Pertanto si sostiene che non si tratta di norma eccezionale ma di semplice norma speciale, con tutte le conseguenze interpretative del caso.

Così, indipendentemente dalla modalità pratica, ogni volta che si persegua il risultato di trasferire un complesso di beni aziendali, da un soggetto a un altro (sia direttamente sia indirettamente attraverso l’acquisizione di quote sociali) emerge la stessa volontà del legislatore di impedire che il soggetto cedente possa riappropriarsi di una parte dei beni stessi e in particolar modo della clientela.

La peculiarità di questa interpretazione è che il divieto dell’articolo 2557, 1°comma, c.c. può investire anche l’ipotesi di un sostanziale trasferimento aziendale, effettuato attraverso il recesso del socio di maggioranza, con conseguente passaggio della gestione societaria al nuovo socio.

Altra dottrina85, nell’aderire alla tesi della non eccezionalità dell’art. 2557 c.c., tende a dare scarsa rilevanza all’obiezione dello schermo soggettivo, già richiamata dai sostenitori della tesi avversa. Infatti l’ordinamento consente al singolo imprenditore di beneficiare di una 84 Art. 1375 c.c.: “Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede”

85 STILE, Trasferimento di quote sociali e divieto di concorrenza, nota a Cass. Civ, 24 luglio 2000, n° 9682 sez. I in Giust. civ. 2001, 4, p. 1033

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limitazione di responsabilità, avvalendosi della forma giuridica della società unipersonale a responsabilità limitata86.

Così come la dottrina si è espressa in maniera discordante su tale problematica, anche la giurisprudenza ha avuto modo di affrontare il problema giungendo gradualmente alle attuali conclusioni.

La giurisprudenza, sia di merito sia di legittimità87, si è dimostrata inizialmente ferma nel riconoscere all’articolo 2557 c.c. la natura di norma eccezionale, affermando conseguentemente che l’obbligo di non concorrenza, che tale norma pone in capo all’alienante dell’azienda, cessa di operare quando oggetto del contratto di cessione non sia direttamente l’azienda stessa (rectius: quote sociali)88.

L’orientamento più recente e consolidato, dato il numero di decisioni omogenee, è portato ad ammettere l’applicazione analogica dell’articolo 2577, 1°comma, c.c. (disconoscendone la natura eccezionale) in tutti quei casi in cui il potenziale pericolo concorrenziale, combattuto dalla norma, sia rinvenibile.

Così è possibile che “la cessione di quote di partecipazione societaria realizzi il presupposto del pericolo concorrenziale analogo a quello conseguente alla cessione di azienda vera e propria. E ciò 86 Forma introdotta dal d.lgs. n° 88 del 1993, in attuazione della direttiva 21 dicembre 1989 n° 89/ 667 C.E.E.

87 Cass. Civ. 27 febbraio 1947 n° 269 ; Cass. Civ. 7 febbraio 1963 n. 209; Cass. Civ. 29 aprile 1965 n. 756 ; A. Genova 17 dicembre 1993.

88 A. Cagliari, 26 gennaio 1998 in Riv. giur. Sarda 1999, 413; A. Milano, 15 luglio 1997 in Giur. annotata dir. ind. 1999, 222, e Trib. Milano 12 marzo 2002 in Giur. it. 2003, 1428.

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indipendentemente dalla natura giuridica della società in questione (...). Non può escludersi infatti che attraverso la forma della cessione di quote si pervenga in realtà all’obiettivo di cedere una precipua attività di impresa. Cosicché la concorrenza eventuale del cedente può realizzare, in astratto, analoga pericolosità per l’effettivo dispiego del diritto d’impresa a danno del cessionario, attraverso analoga possibilità di sviamento di clientela”89.

Ovviamente è fondamentale comprendere quando ricorrano i presupposti di fatto perché una fattispecie concreta dia luogo a una situazione equiparabile a quella dell’alienazione d’azienda.

Al riguardo la Cassazione ha confermato il suo orientamento, secondo il quale si ha alienazione dell'azienda non solo in caso di vera e propria alienazione, ma in tutte le ipotesi di sostituzione di un imprenditore all'altro nell'esercizio dell'impresa, come conseguenza diretta della volontà delle parti o di un fatto da loro previsto90.

La stessa Cassazione suggerisce, infine, che “la verifica concreta di tale sostanziale equiparazione dev'essere condotta con estremo rigore perché con la equiparazione si fanno discendere da una situazione fattualmente meno estesa di quella prevista dalla norma gli stessi

89 Cass. Civ. 24 luglio 2000 n° 9682 in Giust.civ. 2001 90 Cass. Civ. 20 dicembre 1991 n°13762

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effetti che questa riconduce alla situazione fattualmente più ampia da essa stessa prevista.”91

Lo stesso modus operandi è stato, di recente, confermato dalla Cassazione92, la quale invita il giudice di merito (nell’ipotesi di cessione di quote) a un’analisi accurata delle circostanze in modo da accertare la realizzazione o meno di un caso analogo all’alienazione d’azienda.

Riassumendo quanto finora rilevato, possiamo giungere alle seguenti conclusioni: l'art. 2557, 1° comma, c.c. costituisce una norma non eccezionale, e quindi ne è consentita l'applicazione in via analogica; è astrattamente ammissibile l'applicazione analogica di detta norma alla cessione di quote sociali; tale cessione realizza un "caso simile” all'alienazione d’azienda, prevista dalla norma, allorché dia luogo sostanzialmente allo stesso fenomeno che la norma ha inteso disciplinare; tale equiparazione va accertata in concreto tenendo conto di tutte le circostanze e le peculiarità del caso e va condotta con estremo rigore.

91 Cass. Civ. 20 gennaio 1997 n° 549 92 Cass. Civ. 4 febbraio 2009 n° 2717

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4. L’attualità dell’art. 2557 c.c. alla luce del diritto Antitrust nazionale ed europeo.

Dopo aver esposto le principali problematiche di applicazione e d’interpretazione dell’articolo in oggetto, non si può considerare concluso l’argomento senza analizzare l’impatto che la normativa Antitrust europea e la più recente normativa Antitrust nazionale93 hanno su questo particolare divieto legale di concorrenza.

In che modo, tali discipline incidono su quest’articolo? E´ corretto affermarne una sua abrogazione tacita? E se sì, in che misura?

Le opinioni dottrinali che hanno cercato di rispondere a questi interrogativi sono discordanti. Se da un lato c’è chi94 propende per un’abrogazione tacita della norma, altri95 ritengono invece che siano diversi i campi di applicazione delle normative e che quindi l’articolo 2557, 1°comma, c.c. abbia ancora una sua validità.

Il ragionamento della prima tesi si fonda sull’interesse e sullo scopo primario del diritto Antitrust, ovverosia quello di agevolare l’aumento di soggetti e operatori di mercato in favore della concorrenza, contrastando i comportamenti che tendono, invece, a soffocarla. Di conseguenza, nei casi in cui deve trovare applicazione la normativa

93 L. 10 ottobre 1990, n. 287 - Norme per la tutela della concorrenza e del mercato 94 ALBERTINI, op. cit.

95 MARCHISIO, Circolazione dell’azienda, tutela dell’avviamento e divieto di

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Antitrust96, il divieto ex art. 2557,1°comma, c.c. non può trovare applicazione perché tacitamente abrogato97. Infatti il divieto di concorrenza per l’alienante e la durata quinquennale prevista sono incompatibili con un giudizio in senso restrittivo e caso per caso proprio della disciplina antitrust.

A riguardo è interessante notare come nell’ambito Antitrust non esistano norme che impongono restrizioni o divieti in caso di trasferimento d’azienda, ma entro certi limiti, sono consentite clausole restrittive concordate tra le parti98.

Fondamentalmente sarebbe proprio l’opposta prospettiva dell’Antitrust rispetto al Codice Civile (rectius: l’ordinamento in cui è nato il codice) a far ritenere che l’articolo 2557, 1°comma, c.c. sia abrogato ove trovi applicazione la disciplina antitrust.99

Per cui un divieto concorrenziale rilevante per il mercato di riferimento si scontra inesorabilmente con uno dei pilastri del diritto europeo, ovvero il principio di libertà di concorrenza su cui è impressa non la tutela dell’autonomia privata, ma la tutela del benessere collettivo attraverso lo stimolo della concorrenza imprenditoriale.

96 Cessioni d’azienda o operazioni similari rilevanti a livello comunitario oppure a livello nazionale.

97 Art. 15 preleggi

98 Si tratta dell’ipotesi delle clausole accessorie di non concorrenza a carico del cedente, previste nell’ambito di operazioni di concentrazione attuate attraverso una cessione d’azienda.

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L’altra interpretazione100 si fonda, invece, sulla considerazione che la fattispecie dell’alienazione d’azienda e il divieto di concorrenza ivi previsto costituiscono nella sostanza una regola di diritto commerciale internazionale, comune a tutti i Paesi: in gioco c’è il risultato utile della transazione, costituente lo scopo stesso del contratto che, se privo di qualsiasi tutela, verrebbe meno 101. La stessa Corte di Giustizia dell’Unione europea102 ha, del resto, riconosciuto l’importanza della tutela dell’avviamento e del know-how ceduto, considerando lecita la clausola volta a garantire questa tutela e difendendo così il limite temporale necessario all’ingresso nel mercato dell’azienda ceduta. Nondimeno anche la Commissione europea103, in qualità di istituzione europea Antitrust, ha espressamente riconosciuto che: “Le disposizioni (rectius: le restrizioni) devono essere necessarie alla realizzazione della concentrazioni, vale a dire che, se esse non esistessero, l’operazione non potrebbe essere realizzata o lo sarebbe soltanto in condizioni assai più aleatorie, a costi sostanzialmente più elevati, in tempi nettamente più lunghi o con ben minori possibilità di successo. Necessarie alla

100 STILE, op. cit.

101 CASANOVA, Impresa e azienda, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. VASSALLI, X, Torino 1974, p. 761

102 C. Giust., 11 luglio 1985, 42/ 84, Remia Nutricia

103 Comunicazione della Commissione sulle restrizioni direttamente connesse e necessarie alle concentrazioni, (2005/C 56/03)

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