• Non ci sono risultati.

Interpretazione e casistica del divieto nel rapporto di lavoro.

Nel documento I "nuovi" limiti alla concorrenza (pagine 51-56)

Il rapporto di lavoro (art 2105 c.c.) e il rapporto di agenzia (art 1743 c.c.)

2. Interpretazione e casistica del divieto nel rapporto di lavoro.

I principali dubbi interpretativi dell’articolo in questione nascono, in modo alquanto anomalo, da una non corrispondenza formale tra la sua rubrica (“Obbligo di fedeltà”) e il suo contenuto. La parola “fedeltà” non è, infatti, richiamata nel testo dell’articolo. Si tratta di un falso problema?

Se dovessimo limitarci ai principi generali di tecnica legislativa, la risposta sarebbe positiva; si ritiene, infatti, che la rubrica non sia vincolante in caso di contrasto con il contenuto dell’articolo, tanto da far prevalere quest’ultimo117. In realtà è presente un contrasto interpretativo tra giurisprudenza e dottrina, proprio sulla natura e delimitazione dell’elemento della “fedeltà”.

Da un lato, la giurisprudenza ha ormai consolidato un orientamento che, in sostanza, identifica l’obbligo di fedeltà come obbligo a carico del lavoratore dipendente di tenere un comportamento leale; da qui deriva un’interpretazione estensiva che comporta l’applicabilità di questa norma, in combinato disposto sia con il dovere di diligenza del prestatore di lavoro118 sia con l’obbligo di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto119.

Quest’interpretazione estensiva dell’articolo 2105 c.c. è stata confermata dalla Cassazione120 in occasione di una fattispecie singolare. Un lavoratore era stato licenziato perché, secondo il suo datore di lavoro, non aveva reso noti i rapporti di parentela e affinità con soci e collaboratori di società appaltatrici, di cui doveva controllare l’operato. In questo caso la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento, sostenendo che le ipotesi previste all’art. 2105 c.c. (concorrenza, divulgazione e uso di notizie segrete) non sono tassative e che, proprio in virtù dei principi di correttezza e buona fede il lavoratore si deve astenere da comportamenti che danneggino l’azienda o i suoi interessi. Più nello specifico, al lavoratore sono vietati comportamenti contrastanti con il suo inserimento 118 Art. 2104 c.c. 1° comma“Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale”

119 Art. 1175 c.c. “Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza”; Art. 1375 c.c. “Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede”

nell’organizzazione aziendale e idonei a creare situazioni di conflitto con gli interessi della stessa. E´ chiaro che tale interpretazione giurisprudenziale comporta l’ampliamento dei confini applicativi della norma.

Infatti, in altra ipotesi, la giurisprudenza ha ravvisato la violazione dell’obbligo di fedeltà anche in ipotesi estranee alla prestazione principale. Ad esempio, in un caso di diffusione di critiche o accuse all’impresa, i giudici hanno stabilito che il lavoratore, nell’esercizio del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, aveva superato i limiti del rispetto della verità oggettiva, dando luogo a una condotta lesiva della reputazione dell’impresa, tale da provocare non solo un danno all’immagine aziendale ma anche un danno economico in termini di perdita di opportunità di lavoro. Ciò è bastato per inquadrare questa condotta come giusta causa di licenziamento, sancendo il principio che “il lavoratore (...) deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall’articolo 2105 c.c., ma anche da tutti quelli che, per la loro natura e le loro conseguenze (...) sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto stesso”121.

Un’ulteriore conferma di questa visione giurisprudenziale dell’ “obbligo di fedeltà” si riscontra anche in quelle fattispecie in cui, in vigenza del rapporto di lavoro, è legittimamente sospesa la prestazione 121 Cass. Civ. 14 giugno 2004, n° 11220 in GLav, 2004, 11, p. 813

a carico del lavoratore, come avviene in caso di malattia o di esercizio del diritto di sciopero. In queste ipotesi è stato più volte riconosciuto che l'eventuale svolgimento di altra attività lavorativa, in costanza di malattia, non è vietato (cioè con sostituisce di per sé una giusta causa di licenziamento) ma dev’essere valutato, caso per caso, sotto il profilo della compatibilità tra l'attività svolta ed il tipo di patologia, ovvero dell’inidoneità dell'attività lavorativa di pregiudicare il recupero delle energie psico-fisiche, ovvero, diversamente, della simulazione fraudolenta della malattia. Così il lavoro svolto da un dipendente nei confronti di terzi, durante il periodo di assenza per malattia, può giustificare il “licenziamento per violazione dei doveri di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell'ipotesi in cui l'attività esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, anche quando la medesima attività, valutata ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e con essa il rientro del lavoratore in servizio” 122.

Tutta la suddetta interpretazione giurisprudenziale non è condivisa dalla dottrina, la quale non trova giustificabile una tale estensione del concetto di fedeltà, perché di per sé estranea a un rapporto di scambio

come quello lavorativo123. Si sostiene infatti che la rubrica dell’art. 2105 c.c. sia priva di rilevanza e non collegata al contenuto dell’articolo stesso.

La dottrina stessa124 ha rilevato che, stranamente, la giurisprudenza nega l’esistenza di un contrasto con la prevalente dottrina, sostenendo che le ipotesi previste dall’articolo 2105 c.c. non siano tassative e “non esauriscano, quindi, l’obbligo di fedeltà del lavoratore, obbligo che violato da ogni comportamento tale da scuotere la fiducia del datore di lavoro, anche in presenza di un danno solo potenziale” 125. In realtà, la dottrina maggioritaria126 sostiene che le fattispecie che la giurisprudenza vuole ricondurre ad una violazione in senso ampio dell’obbligo di fedeltà costituiscono, invece, ipotesi atipiche di obblighi di protezione che, a differenza di quelli previsti dall’art. 2105 c.c., devono desumersi dall’applicazione dei principi generali. Infatti esse non riguardano l’esecuzione in senso stretto della prestazione lavorativa, ma sono elementi che costituiscono un “interesse di

123 MANCINI, La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Milano, 1957, p. 126 ss. ; MATTAROLO, Obbligo di fedeltà del prestatore di lavoro, in Il codice civile, Commentario, a cura di P.Schlesinger, Milano, 2000, p. 237 ss.

124 PISANI, Sull’uso improprio dell’art. 2105 c.c. da parte della Cassazione, nota a Cass. Civ. 4 aprile 2005 n° 6957, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2005, 4, p. 916 -928

125 Cass. Civ. 4 aprile 2005 n° 6957, cit. 126 PISANI, op. cit.

protezione” esterno127, rilevante per l’esecuzione del rapporto ma estraneo al contratto.

Nel documento I "nuovi" limiti alla concorrenza (pagine 51-56)