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Attività del lavoratore: inquadramento e casi.

Nel documento I "nuovi" limiti alla concorrenza (pagine 56-61)

Il rapporto di lavoro (art 2105 c.c.) e il rapporto di agenzia (art 1743 c.c.)

3. Attività del lavoratore: inquadramento e casi.

Trattato il tema dell’obbligo di fedeltà, occorre dare cenno a quali siano le attività vietate al lavoratore e in quale collocazione temporale si pongano.

L’attività del dipendente, oggetto del divieto, consiste nella trattazione di affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con il datore di lavoro. Non è necessario, quindi, che si verifichi un danno per quest’ultimo a causa dell’esercizio di quest’attività concorrenziale e neppure che da ciò derivi un profitto per il dipendente. E´sufficiente che da tale attività sia solo potenzialmente idonea a creare attività concorrenziale128. Se consideriamo il punto di vista del lavoratore, si può affermare che il divieto dell’art. 2105 c.c. costituisce una restrizione della libertà d’iniziativa economica di quest’ultimo; restrizione considerata legittima sotto il profilo costituzionale in quanto la limitazione del diritto al lavoro (piuttosto contenuta) si

127 PISANI, Licenziamento e fiducia, Milano, Giuffrè, 2004

128 Cass. Civ. 26 agosto 2003 n. 12489, che nella specie ha ritenuto violato l’obbligo dell’ art. 2105 c.c. nell'attività del dipendente volta alla costituzione di una società, o anche di una impresa individuale, avente ad oggetto la medesima attività economica- commerciale svolta dal datore di lavoro.

giustifica con l’esigenza di tutelare la competitività dell’impresa in un mercato concorrenziale 129.

Non va dimenticato, inoltre, che la fattispecie contenuta nell’articolo 2105 c.c. è diversa dall’ipotesi di concorrenza sleale prevista dall’articolo 2598 c.c., non solo per una differenza di requisiti, ma soprattutto perché quest’ultima è sanzionata come illecito extracontrattuale. Infatti la violazione dell’art. 2105 c.c. espone il lavoratore ad una responsabilità disciplinare che può giungere fino al licenziamento e al risarcimento del danno eventualmente accertato; invece per la violazione dell’art. 2598 c.c. potranno essere applicati i rimedi previsti dagli articoli 2599 c.c. (tutela inibitoria e riparatoria) e 2600 c.c (tutela risarcitoria).

Non è escluso che nella pratica la violazione delle suddette norme possa presentarsi congiuntamente: basti pensare al caso del prestatore di lavoro che inizi un’attività in concorrenza con quella del proprio datore, conducendola in maniera sleale, screditando i prodotti o l’attività di quest’ultimo. In presenza di queste ipotesi la dottrina130 e la giurisprudenza131 sono concordi nel riconoscere, alla parte

129 MENEGATTI, I limiti alla concorrenza del lavoratore subordinato, CEDAM, 2012, p. 36

130 MATTAROLO, op. cit., p. 96; MENEGATTI, op. cit., p. 67

131 Cass. Civ. 8 maggio 2008 n°11410, in Rep. Foro. It., 2008, voce Vendita, n° 56; Cass. Civ. 22 maggio 2000 n° 6664, Giur. Civ. Comm. ,2000, p. 1085

interessata, la facoltà di scegliere se ricorrere ad una qualsiasi delle tutele ovvero ad entrambe.

Un altro aspetto importante su cui è necessario soffermarsi è rappresentato dalla divulgazione delle notizie attinenti all’impresa. Il problema interpretativo principale riguarda l’individuazione di quali debbano essere le notizie per le quali vige l’obbligo di “riservatezza” a carico del lavoratore dipendente.

Parte della dottrina132sostiene la necessità di un’interpretazione restrittiva della norma volta a limitare il più possibile la tutela del segreto in modo da preservare il principio sancito nell’articolo 21 Cost. relativo alla libertà di divulgazione d’idee e informazioni. Così facendo, essa sostiene che l’articolo 2105 c.c, in quanto relativo alla posizione del “generico” lavoratore dipendente, si debba riferire solo alle notizie di carattere strettamente “tecnico”, al contrario di coloro che ricoprono cariche superiori nella struttura aziendale (amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori) per i quali vige una norma diversa 133che estende l’obbligo di riservatezza a tutte le “notizie avute a causa del loro ufficio”.

132 ICHINO, Diritto alla riservatezza e diritto al segreto nel rapporto di lavoro, Milano, 1979, pp. 146-151

133 v. art. 2622 c.c., prima della riforma introdotta dal d.lgs. n. 61/2002, ipotesi prevista ora nell’articolo 622 c.p. come circostanza aggravante del reato di rivelazione di segreto professionale.

Un’altra parte della dottrina (maggioritaria) 134propende, invece, per un’interpretazione estensiva tale da ricomprendere qualsiasi tipo d’informazione che abbia per oggetto il complesso aziendale in tutti i suoi elementi. Pertanto l’obbligo di riservatezza, nel presupposto della nozione di azienda ex art. 2555 c.c., dovrà riguardare tutte le notizie, relative ai beni materiali (materie prime, macchinari, ecc.) ed immateriali (brevetti, marchi, avviamento, costi pubblicitari, ecc.) che la compongono, incluse le loro modalità di organizzazione e di utilizzazione proprie del singolo imprenditore, che siano conoscibili da ciascun lavoratore in occasione dell’esecuzione della prestazione di lavoro.

A rinforzo di questo orientamento soccorre il Codice della proprietà industriale 135 con due norme: gli articoli 98 e 99 c.p.i. .

La prima individua l'oggetto della tutela in tutte le informazioni aziendali e le esperienze industriali, comprese quelle commerciali, che siano segrete, cioè non generalmente note o facilmente accessibili, che abbiano valore economico in quanto segrete e che siano sottoposte a misure ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete; la seconda prevede il diritto del legittimo detentore delle informazioni (il datore di

134 Per tutti: CARINCI, DE LUCA TAMAJO, TOSI e TREU, Diritto del lavoro. 2. Il

rapporto di lavoro subordinato, Torino, 2011, p. 166.

135 D.lgs. 10 febbraio 2005 n° 30 , modificato sul punto dal D.lgs. 13 agosto 2010 n. 131

lavoro) di vietarne l'acquisizione, la rivelazione e l'utilizzo che avvengano «in modo abusivo».

Infine, si deve precisare l’aspetto temporale di questo divieto.

A tal proposito, non si può prescindere dal fatto che la norma si riferisca al “prestatore di lavoro”; ciò vuol dire che il divieto di concorrenza avrà per oggetto attività o condotte che solo il lavoratore dipendente può tenere. Si capisce, quindi, che il divieto opera solo in costanza del rapporto lavorativo e non oltre la cessazione dello stesso, proprio perché non vige più l’obbligo di fedeltà.

Quanto affermato necessita di una precisazione. Vìola l’obbligo di fedeltà il dipendente che, prima d’iniziare un’attività in concorrenza col datore di lavoro, si dedica alla preparazione e organizzazione dell’attività concorrenziale pur in costanza di rapporto?136

La risposta è affermativa: trattandosi di un tipo di tutela anticipata (che per attivarsi non ha bisogno dell’esistenza di un danno), la violazione dell’obbligo si configura con la semplice preparazione (o mera preordinazione) di qualsiasi attività indirizzata a perseguire interessi contrastanti con il datore di lavoro.

Allo stesso modo, nel periodo che intercorre tra il licenziamento e la reintegrazione del lavoratore permane l’obbligo di fedeltà da parte del lavoratore, non potendo quest’ultimo prestare lavoro presso un altro

136 Cass. Civ. 18 gennaio 1997 n. 512 in tema di costituzione di una società avente ad oggetto attività in concorrenza col datore di lavoro, effettuata durante il rapporto ma non ancora attiva

datore in concorrenza con il primo137. Del resto, è il lavoratore stesso che con l’impugnazione del licenziamento manifesta la volontà di mantenere il rapporto, comprensivo dell’obbligo di non concorrenza.138

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