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La ricezione delle Northern Antiquities germaniche nell'Inghilterra preromantica per la costruzione dell'identita nazionale

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Academic year: 2021

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INDICE

ABBREVIAZIONI p. 3

ABSTRACT p. 4

1. L’ORIGINE DEGLI STUDI SULLE ANTICHITÀ p. 6

1.1 L’influenza di umanesimo e Riforma negli studi sul passato p. 7 1.1.1 La riscoperta delle fonti classiche e medioevali p. 11

1.1.2 Le fonti scandinave p. 15

1.2 La creazione elisabettiana del passato anglosassone inglese p. 19 1.2.1 La diversa interpretazione del passato nazionale: la ricerca antiquaria

di William Camden e Richard Verstegan p. 25 1.3. Le analisi linguistiche tra XVII e XVIII secolo: l’adozione del mito gotico

p. 28

2. IL RUOLO DELLE ANTIQUITIES NEI GUSTI DEL XVIII SECOLO

p. 38

2.1 La funzione delle antichità nel dibattito politico p. 41

2.2 La rivalutazione storica del Medioevo p. 45

2.2.1 Il sentimento di consapevolezza borghese: verso la diffusione della

disciplina p. 51

2.2.2 Il concetto di eredità nazionale e preservazione del passato p. 55

2.3 La riscoperta del mondo nordico p. 57

2.3.1 Le fonti scandinave: dall’utilizzo scientifico al canone letterario p. 59

2.3.2 La revisione del mito vichingo p. 62

3. LA RIVOLUZIONE ESTETICA p. 70

3.1. Il passaggio da classicismo a goticismo p. 74 3.1.1 Il culto settecentesco del Sublime e del Primitivo p. 78 3.2. L’interesse del XVIII secolo nel Gothic Revival p. 82

3.2.1. Il Celtic Revival p. 87

3.2.2. Le teorie settecentesche sullo sviluppo del romanzesco p. 91

4. LA RICEZIONE DELLA TRADIZIONE CULTURALE SCANDINAVA

IN INGHILTERRA p. 96

4.1. Il progetto culturale di Thomas Percy p. 98

(2)

4.2. Lo sviluppo dell’immagine nordica in poesia: Thomas Gray p. 111 4.2.1. La composizione delle Northern Odes p. 113

CONCLUSIONI p. 122

BIBLIOGRAFIA p. 125

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ABBREVIAZIONI

aingl. antico inglese

aisl. antico islandese

an. antico nordico

a.n.e. ante nostra èra (avanti Cristo)

as. antico sassone

ca. circa

cfr. confronta

MS manoscritto

ned. nederlandese

p.es. per esempio

(4)

ABSTRACT

La ricezione delle Northern Antiquities germaniche nell’Inghilterra preromantica per la costruzione dell’identità nazionale

La fase culturale meglio nota come ‘preromanticismo’ viene convenzionalmente definita nei termini di un’evoluzione all’interno del sistema dei valori della società inglese, che preparò il terreno per lo sviluppo del movimento romantico. Nella fattispecie, questa nuova temperie, che rappresentava la traduzione in termini artistici della complessa situazione di instabilità vissuta dall’Inghilterra nel XVIII secolo, si proponeva di rispondere ai cambiamenti sociali, politici ed economici coevi at-traverso la riscrittura e la riscoperta di una tradizione culturale fino a quel momento percepita come primitiva anche da quelle correnti del naturalismo illuministico europeo concentrate sulla ricerca del Sublime.

Sebbene spesso si sia portati a concepire il periodo di sviluppo relativamente breve del preromanticismo come un intervallo rispetto alle più nitide coordinate culturali dell’illuminismo e del romanticismo, il lavoro di tesi qui affrontato si propone di evidenziare quanto il processo di recupero delle Antiquities locali, funzionali alla ricerca di un’identità nazionale inglese antagonista alla tradizione classica mediterranea, si fosse attivato in anticipo rispetto agli impulsi caratteristici del XIX secolo. Risalendo nel tempo, il Settecento inglese si presenta infatti come un periodo denso di spinte culturali e programmi politici eterogenei, coerenti con i mutati fattori ambientali, come le ripercussioni politiche dello sviluppo mani-fatturiero e commerciale, della crescita di peso economico e politico della borghesia, dell’espansionismo coloniale e, allo stesso tempo, anche dei profondi rivolgimenti politici e spirituali dei secc. XVI e XVII, che contribuirono alla creazione e alla percezione della Englishness, fra cui la morale borghese e democratica e la nega-zione di una qualsiasi influenza proveniente dall’Europa continentale, proprio attraverso il recupero e la rivalutazione delle fonti locali più antiche, storiche, archeologiche e letterarie.

Per analizzare la temperie culturale del XVIII secolo, mi sono proposta di analizzare, in modo quanto più sincronico, le ragioni dello sviluppo del movimento antiquario che fiorì nel secolo precedente ma che fu figlio dello scisma anglicano del 1532. Da questo momento chierici ed eruditi si impegnarono in un progetto di ricerca, attraverso il quale, con l’ausilio delle fonti autoctone, magnificare le premes-se di un’autonomia della cultura e della Chiesa locale rispetto alla tradizionale egemonia romana. Nella fattispecie, a seguito delle teorie protestanti, si sviluppò in Inghilterra una disillusione nei confronti degli uffici della Chiesa romana, ormai incapace di fornire una corretta interpretazione delle Scritture, oltre alla convinzione per cui già nella società preromana celtica erano presenti elementi riconducibili all’originaria purezza della spiritualità cristiana.

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In modo molto simile, pur con esiti diversi, il XVII secolo registrò l’acceso confronto politico tra i sostenitori dell’assolutismo monarchico filoeuropeo e la controparte borghese che mirava alla limitazione parlamentare del potere regio.

Anche sul piano politico, si andò dunque delineando una corrente costituzionalista di stampo democratico, che cercava un sostegno ideologico anche attraverso il riscontro storiografico. Sulla base dei documenti giuridici alto medioevali già analizzati dal circolo degli antiquari elisabettiani di Matthew Parker, il XVII secolo fu testimone di una rivalutazione delle antiche società germaniche, nella fattispecie anglosassoni, che si erano stanziate in Inghilterra durante l’epoca delle grandi migrazioni (V secolo), le quali contemplavano consessi assembleari di uomini liberi. La presenza di tali organi istituzionali forniva la prova storica dell’innata spinta democratica alla base della moderna istituzione parlamentare inglese, successi-vamente corrotta e repressa dal dominio normanno.

Dopo aver analizzato la condizione alla base dell’interesse verso le culture germaniche antiche, che in passato si era acriticamente rivolta verso l’individuazione di un’origine culturale celtica o anglosassone della società moderna; ho constatato che, successivamente agli sviluppi della filologia e degli studi linguistici, la classe antiquaria spostava l’epicentro degli impulsi culturali sulla cultura inglese, dalla zona del Mediterraneo al Nord Europa, interessandosi alle influenze provenienti dalla tradizione scandinava. Il frequente contatto con le nazioni scandinave caratteristico del XVII secolo fu un elemento di continuità all’interno dei programmi culturali e commerciali inglesi, ma nel XVIII secolo fu possibile registrare un processo di adozione del modello nordico come archetipo della società contemporanea.

Attraverso le opere di due degli studiosi più rappresentativi della fine del XVIII secolo, promotori della diffusione dell’interesse nella letteratura antico nordica, Thomas Percy e Thomas Gray, ambisco a dimostrare quanto le condizioni prece-dentemente analizzate avessero inciso sulla società inglese moderna, la quale dimostrava un crescente gradimento verso opere dell’antichità in grado di alimentare nuove percezioni identitarie.

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1. L’ORIGINE DEGLI STUDI SULLE ANTICHITÀ

Alla fine del XIV secolo, in Inghilterra come in tutta Europa, si sviluppò un diffuso atteggiamento di disillusione nei confronti dell’istituzione della Chiesa romana. In seguito alla decimazione del popolo inglese causata dalla peste del 1347-50, affiora-rono dubbi sul presunto ruolo salvifico propagandato dalle gerarchie ecclesiastiche che, uniti ai perduranti imbarazzi dottrinali suscitati dal regime del doppio papato avignonese (1309-77),1 si tradussero in un dilagante desiderio di rinnovamento e di riforma rispetto alla venalità, all’immoralità e alla negligenza del clero.

Questo clima culturale favorì un crescente ‘anticlericalismo’ che ancora poteva esprimersi in ambiti eruditi circoscritti: il portavoce inglese fu il teologo John Wycliffe († 1384), le cui teorie tendevano a promuovere una visione meno gerarchica e più votata all’ambito sociale del rapporto tra Stato e Chiesa, che gli sarebbe sopravvissuta nel tempo e che avrebbe conosciuto ampie ripercussioni anche di natura culturale.2 In Inghilterra, veniva percepito un clima ostile alla giurisdizione spirituale e temporale del Papa in modo sempre più diffuso; in primo luogo poiché, a giudizio di Wycliffe, nella Bibbia trovava fondamento solo la figura del rex virtuoso come vicario di Dio, chiamato a esercitare il potere temporale negli uffici della Chiesa (Marenco 1996: VI, 895); ma anche, perché le Scritture assegnavano le prerogative del dominio spirituale a coloro che si votavano al sacerdozio i quali, già vivendo secondo la legge evangelica, non necessitavano di alcuna mediazione da parte del papato o dei vescovi. La Bibbia, già in precedenza considerata un’autorità completamente autosufficiente, fu accolta, in questo periodo, come veicolo di un messaggio auspicalmente accessibile a tutti, al fine di vanificare la funzione di molta gerarchia ecclesiastica.

1

La ‘cattività avignonese’ rappresentò il periodo del trasferimento del papato da Roma ad Avignone avvenuto tra il 1309 e il 1377. Il termine venne utilizzato dagli storici coevi per sottintendere alla situazione di esilio in cui verteva la Chiesa cattolica, paragonabile a quella vissuta dal popolo ebraico durante la cattività babilonese (587-17 a.n.e.). Il Papa Clemente V, a seguito della debolezza dell’I-stituzione cattolica a Roma, dovuta alle numerose guerre di potere tra feudatari locali, ritenne necessario sia riaffermare l'indipendenza della Santa Sede, sia mantenere un rapporto relativamente stretto con il sovrano francese: nel 1309, dunque, si spostò dal luogo della propria incoronazione, Bordeaux (che era sotto il dominio dell’Inghilterra), ad Avignone dominata dal regno di Napoli.

2 L’esempio di Wicliffe verrà strumentalizzato all’interno della diatriba politico religiosa seicentesca nella ricerca di un precedente storico per la costituzione della Chiesa anglicana. È possibile ritrovare nelle teorie di Wycliffe, gli elementi essenziali di un’ideologia che acquisterà forza a partire dal secolo successivo, e che verrà assoggettata ai mutamenti strutturali dell’Inghilterra conseguenti alla Riforma e al Rinascimento.

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Coloro che condividevano le posizioni di Wycliffe furono chiamati, nel corso del secolo, ‘lollardi’ (lollards, dal ned. lolle, «mormorare, pregare»)3 e, tra essi, andò crescendo il numero di predicatori itineranti e preti poveri che si proponevano di diffondere il Vangelo alla popolazione.

Per comprendere il fallimento culturale delle teorie riformiste di Wycliffe, è necessario riconoscere l’esistenza di due elementi funzionali nel panorama inglese coevo: il primo era rappresentato dalla completa detenzione da parte della gerarchia ecclesiastica - ortodossa e ostile - degli strumenti dell’alfabetizzazione, condizione necessaria alla diffusione dell’abilità di leggere e scrivere; il secondo consisteva nel fatto che fino all’invenzione della stampa (1450 ca.), e alla sua comparsa in Inghilterra nel 1476, la stessa diffusione dei testi sacri non poteva che aver luogo tramite l’oralità o la faticosa e lenta copia a mano dei manoscritti.

Nell’Inghilterra dei secoli successivi, questi due fattori avrebbero subito notevoli trasformazioni: sotto l’impulso dell’umanesimo, a quasi tutti i livelli della società crebbe sia il sostegno all’educazione scolastica, sia un relativo grado d’incremento dell’investimento privato nell’istruzione domestica; due elementi che, uniti alla diffusione delle scuole parrocchiali e delle grammar school cittadine, incisero note-volmente nella possibilità di accesso alla scrittura e alla lettura.

L’Inghilterra tra 1500 e 1700 poteva essere descritta come una società «parzial-mente alfabetizzata» (Marenco 1996; VI: 897), nonostante la provenienza sociale, i mezzi economici, la disparità dei sessi e le difficoltà dovute alla posizione geografica in cui verteva la popolazione.

1.1. L’influenza di umanesimo e Riforma negli studi sul passato

Nel Rinascimento, gli autori classici, dapprima confinati al campo dello scola-sticismo medioevale, tornarono oggetto di studio: l’esempio dell’antica Roma diventò, infatti, un modello d’istruzione ed espressione culturale. Ne nacque l’atteg-giamento umanista, che si proponeva di istituzionalizzare e normalizzare l’approccio verso la letteratura ‘imperiale’ a tutti i livelli dell’istruzione scolastica, proprio grazie al valore didattico dei testi classici, che si dimostrarono capaci di fornire agli studiosi gli strumenti atti all’acquisizione di una corretta conoscenza del latino e del greco.

La preoccupazione per la lingua, caratteristica della pedagogia umanistica, enfa-tizzava il ruolo della parola come veicolo di significato, considerandola, in ultima analisi, parte essenziale nel processo di apprendimento. Fu in questo periodo che, tramite l’interesse nelle discipline necessarie al processo di distinzione tra le fonti storiche originali e quelle contaminate - come letteratura manoscritta antica e

3 In Inghilterra erano conosciuti anche come i poor preachers. Essi non possedevano regole, voti o abiti unicamente determinati, come anche una vera e propria unità dottrinale.

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paleografia - gli umanisti europei iniziarono ad ambire al recupero di una tradizione storiografica locale.

Contemporaneamente, gli umanisti tedeschi si resero conto che in gran parte dei manoscritti antichi delle librerie monastiche,4 la messa per iscritto non risultava contemporanea al contenuto dei testi: nel migliore dei casi si trattava di prodotti dei secc. VI-VII; altrimenti, la tradizione manoscritta ritrovata rappresentava il risultato delle politiche di recupero e riscrittura storica dovute al fenomeno culturale della ‘rinascita carolingia’ (IX-X secolo).5

Nella fattispecie, secondo Dekker (1999: 14), nessuna ricerca umanista ebbe l’impatto culturale della scoperta, nel XV secolo, del manoscritto contenete la Germania di Tacito.6 L’impatto delle descrizioni dell’autore latino portò alla riconsiderazione, da parte degli storici moderni, del passato etnico e culturale che accomunava gran parte degli Stati europei.

Diversamente, la scoperta e le analisi riguardo le fasi primitive della lingua volgare iniziarono, in Inghilterra, a seguito della dissoluzione dei monasteri per opera di Enrico VIII (1536-41). Avendo causato una disastrosa perdita di manoscritti antichi, la politica regia funse da impulso nel processo di recupero e preservazione delle opere che erano in grado di testimoniare la tradizione culturale della nazione; una campo di studio che si focalizzava, in questo periodo, sulle epoche antecedenti agli influssi romano-cattolici proprio attraverso le indagini linguistiche.

La tradizione umanista fu convenzionalmente concepita come élitaria, illuminata e tollerante, cosmopolita e lucidamente critica dei confronti dell’eredità medioevale, alla quale contrappose un metodo ‘filologico’ di studio delle fonti storiche, sia delle antichità classiche sia delle Scritture, e di tutto il corpus su cui la Chiesa fondava la propria autorità. Pur muovendo da un terreno in parte comune, la riforma protestante fu descritta come la conseguenza di un movimento popolare, o populista, fortemente polemico e intransigente, di stretta matrice nazionalistica. Anche per questi motivi, gli umanisti utilizzavano il latino nella redazione delle proprie opere;7 diversamente dagli autori protestanti coevi come Lutero († 1546) o William Tyndale († 1536)8

- che fu il primo traduttore in inglese del Nuovo Testamento - i quali ambivano alla

4

La Germania rappresentava, in questo periodo, l’epicentro degli studi umanistici che si focalizzava-no sul passato nordico europeo.

5 La rinascita, o rinascenza, carolingia, ad opera dell’imperatore del Sacro Romano Impero Carlo Magno (768-814), si proponeva di reintrodurre la lingua latina come veicolo comunicativo standard della legislazione, dell’amministrazione e della cultura. 6 In Germania, Tacito fu introdotto dall’umanista Eneo Silvio Piccolomini (1405-64) che, al servizio dell’imperatore Federico III, compilò un resoconto storiografico della nazione (1454) sulla base dell’ampio riferimento al testo dell’autore latino.

7

Uno tra i molti esempi fu Erasmo da Rotterdam († 1536). 8

Fu dapprima un sostenitore dell’edizione bilingue della Bibbia curata da Erasmo (in latino e greco), ma in seguito alle politiche filo-cattoliche di Maria Tudor, atte a ripristinare la completa comunione con la Chiesa di Roma, lo studioso inglese redasse la Bibbia di Ginevra (1557-60). La prosa semplice dell’opera e l’impostazione attivista ne fecero un potente strumento di propaganda del movimento puritano che si proponeva di correggere tutte le forme di deviazione dalle Scritture. Il primato culturale dell’opera venne sottratto dalla Bibbia di re Giacomo I (1611).

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restituzione di dignità alla lingua volgare. Questa condizione fu mantenuta durante tutto il secolo XVI, nel quale, mentre gli autori rinascimentali inglesi subivano un senso di disagio nell’utilizzo della lingua madre, i riformisti insistevano sulla perfetta idoneità dell’inglese quale mezzo letterario per propagandare la verità dei testi sacri.9

È necessario rilevare che, allo stesso tempo, gli esponenti di entrambi i movimenti culturali ambivano alla purificazione delle Scritture e rigettavano l’intervento di qualsiasi strumento mediatore nella catena della trasmissione testuale. In questo periodo, furono numerose le convergenze tra la dottrina protestante e le testimonian-ze classiche sulla tradizione germanica.

Il sentimento religioso chiaramente antiromano di Lutero, per esempio, mirava alla costruzione di una crescente superiorità spirituale rispetto alla tradizione cattoli-ca romana nell’immaginario tedesco, attraverso la descrizione moralmente positiva delle tribù germaniche per merito di Tacito (Dekker 1999: 30).

Inoltre, la presenza in Germania della versione in volgare del Vangelo redatto dal chierico Otfried von Weissenburg (IX secolo),10 unita al contemporaneo ritrova-mento in Inghilterra del manoscritto Heliand (dall’as. «il salvatore»);11 oltre alla scoperta nel 1554 del manoscritto del Nuovo Testamento in lingua gotica risalente al VI secolo, denominato nel 1597 dall’umanista tedesco Bonaventura Vulcanius († 1614) Codex Argenteus,12 aggiunse valide argomentazioni alla pretesa dei riformisti di valersi della lingua volgare nella promulgazione dei testi sacri (Dekker 1999: 32). Queste opere fornivano, infatti, la prova storica dell’adattamento della cultura germa-nica d’origine agli insegnamenti delle missioni evangelizzatrici: le traduzioni in volgare delle Scritture, che furono progressivamente scoperte, testimoniavano che le lingue germaniche (fino a quel momento sottovalutate giacché espressione di società non civilizzate), non soltanto erano attestate storicamente, ma erano risultate idonee alla trasmissione delle immagini e dei valori cristiani.

Tra le due posizioni, si sviluppò in questo periodo un atteggiamento umanista che recuperava sotto la propria insigne tutti quei letterati, teologi e pensatori che, accogliendo l’esigenza di una profonda riforma dell’istituzione ecclesiastica e delle

9 Secondo i riformatori, la Chiesa romana si era discostata a tal punto dal messaggio originario di Cristo, da considerare l’interpretazione delle Scritture subordinate alla saggezza umana, con l’obiet-tivo di rendere i testi sacri nuovamente accessibili ai fedeli (Marenco 1996: X, 891).

10 Monaco benedettino che tra l’865 e l’870 compose, in antico alto tedesco, l’Evangelienbuch, con l’intento di fornire ai Franchi il primo grande poema nazionale religioso.

11

Poema epico che parafrasava la Bibbia, rappresenta il manoscritto antico sassone più lungo a noi pervenuto. Sebbene il tema principalmente affrontato sia cristiano, il testo si compone di numerosi e-lementi letterari che fanno riferimento al mondo culturale germanico pagano; inoltre, fu redatto in ottemperanza alle norme stilistiche della poesia allitterativa germanica.

12 De literis et lingua Getarum sive Gothorum, 1597: 5. Nell’opera, Vulcanius, oltre a riconoscerà la paternità gotica della traduzione dell’Antico Testanìmento e dei Vangeli, fu il primo erudito a collega-re questa versione al lavoro del vescovo ariano Wulfila.

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forme di religiosità popolare, individuavano nel ritorno alla purezza e alla semplicità evangelica, l’unica soluzione per preservare lo spirito cristiano dalla modernità.13

La Riforma e il Rinascimento, correnti tra loro inscindibilmente legate in Inghil-terra, costituirono le fasi cruciali della ricezione della Bibbia e della tradizione mano-scritta, dovute alla profonda sinergia tra testualità e attività del clero riformato, che tramite la divulgazione, la lettura in pubblico e la propaganda dei testi sacri, segnarono l’epoca della diffusione della tradizione scritta in una lingua ‘nazionale’.

In Inghilterra, il fenomeno secondo cui a partire dagli esiti della ricerca linguistica era fondato il senso di appartenenza etnica, conobbe il proprio apice durante il regno di Elisabetta I (1558-1603), attraverso il lavoro di un gruppo di eruditi i cui studi pionieristici sulla materia antico inglese fondarono l’ideale di un’origine anglosas-sone del carattere inglese (Niles 2015: 50). Lo stretto rapporto tra testualità e impulsi motivati dai riformatori rappresentò una delle caratteristiche dello sviluppo della letteratura in volgare in Inghilterra; benché la stampa protestante raggiungesse l’apice del suo sviluppo in pieno XVII secolo a segito dell’allentamento delle maglie della censura durante la Glorious Revolution (1688-89).14

Diversamente, a partire dal XVII secolo, gli antiquari inglesi divennero sempre maggiormente dipendenti dalla tradizione scandinava coeva, che sviluppò un forte interesse nelle testimonianze letterarie e storiografiche autoctone come, ad esempio, la riscoperta delle rune: nel caso specifico, lo studio dei reperti runologici divenne gradualmente, a partire dallo sviluppo seicentesco dell’archeologia, uno dei docu-menti storici riguardo alla tradizione culturale e linguistica norrena, che conseguì un costante riferimento alla connotazione mistica che la contemporanea classe colta vi attribuiva, a causa della difficile comprensione delle attestazioni e della relativa-mente tarda specializzazione erudita in materia.Un esempio di ciò fu rappresentato dall’opera dell’arcivescovo di Uppsala Johannes Magnus († 1544), che pubblicò un esempio di alfabeto runico, inserito postumo dal fratello Olaus Magnus († 1568) nella propria storia illustrata della nazioni del Nord Europa, pubblicata nel 1555.15

Il pioniere degli studi sulla scrittura runica, l’antiquario danese Ole Worm († 1654),16 comprese nella sua opera non soltanto un inventario di iscrizioni runiche, ma anche una storia dell’alfabeto e un dizionario latino-islandese. Worm fu in-fluenzato dalle teorie dei primi eruditi islandesi che si occuparono di attestazioni linguistiche locali, tra cui Þorlákur Skúlason († 1656) e Arngrímur Jónsson († 1648), le cui opere catalizzarono l’interesse danese nei confronti dei testi antico islandesi.

13 In questo modo il passaggio dall’umanesimo erasmiano alla condivisione degli imperativi della Ri-forma poteva manifestare una «sotterranea coerenza» (Marenco 1996: VI, 432).

14 La seconda rivoluzione inglese scandì l’inizio di una monarchia costituzionale che, a seguito del riconoscimento del Bill of Rights (1689), restituì al Parlamento il potere vincolante nei confronti dell’autorità regia, stabilendo, di fatto, un equilibrio tra i due organi politici.

15 Cfr, Cap. 1.1.2. 16 Cfr, Cap. 1.1.2.

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Worm considerava le rune come testimonianza dell’estrema antichità delle lingue scandinave e, in particolare, della tradizione scritta dei Goti, dei Geti e dei Danesi, in grado di essere rappresentata nella propria purezza dai reperti recuperati in Europa settentrionale, un’area geografica tardamente esposta alle influenze culturali straniere (Dekker 1999: 237).

1.1.1. La riscoperta delle fonti classiche e medioevali

L’atteggiamento culturale dell’Inghilterra nei confronti della costruzione di un’origi-ne ‘nazionale’ mitico-leggendaria venun’origi-ne scandita in due momenti principali: in epoca moderna, in seguito alla necessità di difendere pragmatiche istanze ideologiche, gli eruditi inglesi miravano a ricollegare la coeva conformazione psicologica e sociale alle tradizioni germaniche; diversamente, in epoca medioevale, il processo di costruzione identitaria, e conseguentemente, comunitaria strumentalizzava le origini classiche, latine e greche, della classe dominante di turno, ovvero quella Normanna.

Le testimonianze storiografiche riguardo alle popolazioni germaniche ebbero, ovviamente, inizio con le opere degli autori classici, tra i quali è necessario annoverare Publio Cornelio Tacito, che nel I secolo si misurò con la redazione della prima opera etnografica sulle società tribali che si erano stanziate oltre i confini dell’impero romano, dal titolo De origine et situ germanorum. Il manoscritto che conteneva la Germania e le altre opere di Tacito, il Codex Hersfeldensis, fu probabilmente redatto intorno al IX secolo e ritrovato nel monastero di Hersfeld solo durante lo sviluppo degli studi umanistici tedeschi nella prima metà del XV secolo.

Non avendo avuto esperienza diretta con queste popolazioni, Tacito non fu il primo storico che descrisse le società germaniche, bensì fece ampio affidamento ai resoconti di Plinio il Vecchio († 79)17

e di Caio Giulio Cesare († 44),18 da cui proba-bilmente derivava la scorretta associazione delle popolazioni celtiche al macrogruppo germanico. L’opera di Tacito iniziava con la descrizione dei territori occupati dai germani, delle leggi e delle usanze da essi adottate all’interno delle proprie società, che venivano descritte quanto più singolarmente a partire da quelle confinanti con l’Impero fino ad arrivare a quelle ubicate sulle coste del Mar Baltico (Germania: I-III). L’autore, adottando tratti moraleggianti e politici, aveva con ogni probabilità l’intenzione di sottolineare il pericolo rappresentato da queste popolazioni per Roma, esaltandone oltre all’estrema vicinanza rispetto ai confini imperiali, anche il

carat-17

Si fa riferimento al resoconto in venti libri delle guerre germaniche, nell’opera Bella Germaniae, in cui venne descritta la battaglia del 113 a.n.e, in cui le popolazioni nomadi di Cimbri e Teutoni, originarie delle penisole dello Jutland, dopo aver abbandonato le proprie posizioni in Pannonia, tentarono di entrare in Italia.

18 Nei Commentarii de bello gallico, Cesare descriveva le numerose campagne militari per sconfig-gere i Galli, tra cui la battaglia del 58 a.C in cui sconfisse il comandante Ariovisto.

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teristico stile di vita legato alla moralità e alla semplicità rispetto alla crescente decadenza e degenerazione dei costumi romani.

Per la prima volta, quindi, Roma aveva un alter, un composto di tribù difficil-mente assoggettabili proprio a causa della loro intrinseca diversità; tanto differente rispetto alla tradizione della società romana che le politiche di integrazione attuate terminarono con l’inevitabile dissoluzione dei valori classici in gran parte del territorio imperiale.

Mediante la ricezione dell’opera di Tacito, ebbe inizio la doppia possibilità di interpretare le conseguenze delle migrazioni germaniche sul territorio europeo: se adottare il punto di vista classico, che definiva le incursioni germaniche come invasioni di barbari incivili; oppure la sfumatura che si sviluppò dall’epoca moderna, secondo cui queste popolazioni riportarono un livello di moralità e valore etico, derivante dalla mera necessità di sopravvivere, all’interno delle società civilizzate che lo avevano progressivamente abbandonato in favore del proseguimento degli interessi individuali.

Con la cristianizzazione dei popoli germanici,19 sempre più autori inglesi decisero di redigere le proprie testimonianze storiche riguardo alla tradizione culturale d’ap-partenenza: per la tradizione storiografica che sosteneva la prospettiva classicista, fu di profonda importanza la riscoperta delle produzioni dello storico Gildas (VI secolo), che compose un sermone in cui denunciava la situazione politica e sociale della popolazione inglese successivamente al ritiro delle legioni romane.

Nel De Excidio Britanniae l’autore condannava le azioni compiute dai propri contemporanei anglosassoni, accusandoli di aver causato la distruzione della pre-cedente civiltà romana, attraverso un pervasivo atteggiamento di malgoverno. L’opera registrò un ampio interesse da parte della ricezione medioevale,20

soprattutto nel processo di costruzione dell’immagine barbarica delle invasioni anglosassoni, susseguentemente recepite come germaniche, a discapito della civiltà romana.

L’opera letteraria inglese che riassunse l’atteggiamento medioevale nei confronti della creazione di una genealogia mitica attraverso cui avvalorare le dinastie regnanti contemporanee fu la Historia regum Britanniae (1136) a cura di Goffredo di Mon-mouth. Durante il dominio normanno, l’Inghilterra necessitava di un’opera storio-grafica che mediasse il momento di convivenza tra il popolo anglosassone indigeno e la classe monarchica e feudale egemone. A questo proposito, il progetto crona-chistico dell’autore si proponeva di ripercorrere la storia dei monarchi britannici che

19

La cristianizzazione dei popoli germanici fu un processo graduale primariamente attestato dalla Bibbia di Wulfila del IV secolo attestata dal Codex Argenteus, che testimoniava l’adozione da parte delle popolazioni gotiche dell’arianesimo, che si concluse attorno al XI secolo con la conversione della Scandinavia la quale, a causa delle proprie resistenze, subì un’evangelizzazione dall’interno ad opera dei capi militari e dei monarchi che si susseguirono sul territorio.

20 È probabile che l’opera di Goffredo di Monmouth dipendesse da tale fonte (MacDougall 1982: 7).

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avevano avuto origine dal discendente dell’eroe troiano Enea, Bruto, fino all’ibrida-zione anglosassone avvenuta a partire dal VII secolo. Goffredo di Monmouth presen-tò l’opera come una semplice traduzione in latino di un non meglio precisato liber

vetustissimus di cronache in gallese, sulla base del quale si fondava l’argomentazione

moderna riguardo all’essenziale inattendibilità dell’opera.21

La Historia ebbe ampia popolarità nel Medioevo e contribuì in modo fondante alla creazione e alla diffusione del ciclo arturiano e della materia bretone: Artù, già presente in uno dei testi più antichi riguardo alla storia dell’Inghilterra,22 divenne in epoca moderna il simbolo della monarchia inglese per entrambe le dinastie Stuart e Tudor.

In modo diametralmente opposto, e in linea con il programma culturale di riscoperta delle qualità germaniche tra XVII e XVIII secolo, fu interpretata l’opera di un altro storico del VI secolo, lo storico bizantino Jordanes. Nel 552, l’autore si misurò con un’opera riassuntiva della Getica di Cassiodoro, che contribuisse al resoconto storico delle migrazioni dei popoli germanici avvenute a partire dal III secolo. Diversamente dal suo predecessore, che mirava a glorificare la figura di Teodorico e della sua stirpe, Jordanes ambiva nel De origine actibusque Getarum, attraverso la descrizione della pregevole forza fisica e morale gotica, ad accrescere la fama dell’imperatore Giustiniano I (527-65), che era riuscito a vincere gli Ostrogoti nella guerra per la conquista del territorio italiano (535-53).

L’opera di Jordanes ebbe una profonda influenza sul movimento di stampo nazionalistico che si sviluppò in Svezia tra XVI e XVII secolo, soprattutto per quanto riguardava il processo di sovrapposizione etnica tra Geti e Goti alla base della teoria che vedeva il territorio svedese come vagina gentium delle popolazioni germaniche e, successivamente, europee. L’autore, di fatto, sosteneva che le popolazioni germa-niche derivassero dal macrogruppo gotico il quale, migrando dal territorio della

Scandza, si riversò in Europa. Conseguentemente, la popolazione aborigena che si

diffuse sul Continente si divise in due rami, ostrogoti e visigoti, dai quali ebbero origine le numerose tribù germaniche (Kliger 1952: 11).

Il processo di assimilazione per cui i Geti entrarono a far parte della confedera-zione gotica, fu un fattore decisivo per lo sviluppo delle teorie moderne che ricerca-vano un precedente storico per domiciliare la tradizione culturale gotica in Inghil-terra.23 In ogni caso, l’opera che rappresentava la base delle speculazioni

storiogra-21 Nella fattispecie, era convenzionalmente riconosciuta la presenza di elementi e figure storiche all’interno del racconto, pur in un contesto e in una cornice altamente narrativizzati.

22

Si trattava della Historia Brittonum del IX secolo a cura del monaco gallese Nennio, che descriveva la storia delle vicende inglesi dalla partenza delle legioni romane alle ‘invasioni’ anglosassoni. In questo testo comparivano per la prima volta sia la figura di re Artù, vincitore sui Sassoni nella bat-taglia di Badon (ca. 500), sia la figura di Merlino.

23 Il punto di partenza delle speculazioni degli antiquari moderni riguardo la teoria di Jordanes coincise con l’adventus della migrazione anglosassone sull’isola, canonicamente datata nel 449.

(14)

fiche sulle origini dell’Inghilterra fu redatta dal monaco e storico anglosassone Beda († 735), che nel 731 compilò un resoconto storico sulla Chiesa inglese, con parti-colare riferimento al conflitto tra Chiesa romana e cristianità ‘celtica’ dal titolo

Historia ecclesiastica gentis anglorum.

Il primo dei cinque libri di cui si componeva l’opera si focalizzava su una pano-ramica geografica dell’isola, tratteggiando la storia dell’Inghilterra dall’invasione romana guidata da Cesare nel 55 a.C. In seguito, l’autore compilò un resoconto sull’avvento del Cristianesimo nella provincia romana, che comprendeva la descri-zione del martirio di Sant’Albano fino alla missione agostiniana del 597, simbolo dell’incipiente cristianizzazione delle popolazioni anglosassoni. Beda sosteneva chia-ramente che la colonizzazione dell’Inghilterra ebbe inizio con la conquista del Kent da parte di tre popolazioni germaniche, Angli, Sassoni e Iuti, guidati da due capi militari, probabilmente iuti, Hengsta e Horsa (Kliger 1952: 14). Il ruolo degli Iuti, che si stanziarono nella contea del Kent, ebbe importanti effetti sulla percezione identitaria della popolazione inglese all’interno della diatriba politica del XVII secolo: le fazioni democratiche parlamentari strumentalizzarono la storia alto medioevale del Kent nella definizione del carattere democratico e liberale alle origini della Englishness, che diventò proverbiale non solo nel contemporaneo panorama culturale inglese, ma anche nella tradizione letteraria delle generazioni successive.24

Inoltre, facendo riferimento alle teorie di Samuel Kliger (1952: 14-15), il pubblico del XVII secolo investì gli Iuti di un ruolo preponderante nell’invasione anglosas-sone dell’isola, soprattutto per quanto riguardava l’adozione del mito d’origine gotico nella difesa degli organi istituzionali. L’autore, infatti, sosteneva che la traduzione antico inglese dell’opera di Beda (IX secolo), comunemente ascritta al circolo di studiosi della corte di Alfredo il Grande, fornì alla ricezione moderna possibilità di identificare, sul piano linguistico, gli Iuti e i Geti: il latino Iutis,

Iutarum, venne tradotto nella variante northumbra Īote, Īotan, in Mercia Ēote, Eota, e

nel sassone dell’Ovest Ȳte, Ȳtan (dall’asass.*Īete, Ietan), fino ad arrivare alla designazione ad opera di Nowell, verso la metà del XVI secolo, di Gēat.

Risulta abbastanza evidente che il processo di associazione tra Goti e Iuti, i cui capi militari guidarono l’invasione delle popolazioni anglosassoni del territorio da cui ebbe origine la moderna fisionomia del popolo inglese, divenne completo grazie alla concomitante convinzione dell’equivalenza culturale Goti/Geti, di derivazione scandinava ma già pacificamente adottata all’interno del primo dizionario antico inglese ad opera di William Somner (1649).

Il secondo, il terzo e il quarto libro della Historia descrivevano rispettivamente i progressi delle missioni evangelizzatrici nel Kent, in Northumbria, e i tentativi di

24 La connotazione democratica e liberale dell’‘uomo del Kent’ è rintracciabile sia nell’Henry VI (1592) di Shakespeare, sia nel The Men of Kent di Wordsworth.

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cristianizzazione del Sussex ad opera di Vilfrido di York († 709);25

diversamente, il quinto libro descriveva l’epoca contemporanea all’autore, e comprendeva il resocon-to dell’opera dei missionari romani in Frisia, e del contrasresocon-to di quest’ultima con la Chiesa locale riguardo alla corretta datazione della Pasqua. La Historia possedeva un fine chiaramente politico e didattico nel resoconto della storia ecclesiastica e politica dell’Inghilterra: la cristianizzazione, secondo l’autore avvenne per merito delle missioni evangelizzatrici irlandesi e romane senza alcun supporto da parte della popolazione anglosassone. Il tema sviluppato dagli scritti di Gildas, che aveva denunciato i peccati dei governanti locali a seguito delle incursioni anglosassoni, fu corroborato e ampliato dall’opera di Beda che rappresentava il processo di cristia-nizzazione come un avanzamento civile della società anglosassone rurale. Inoltre, grazie all’opera di Beda, ebbe origine la connotazione germanica delle popolazioni di Angli, Sassoni e Iuti che, assieme alla teoria ‘agglutinante’ ad opera di Jordanes terminò, nell’immaginario comune settecentesco, con l’adozione del termine ‘Gothic’ in riferimento a tutto ciò che poteva essere ricollegato alle popolazioni germaniche antiche. Il caratteristico atteggiamento goticista della temperie culturale dei secc. XVII e XVIII fu adottato nella definizione della cultura medioevale inglese, la cui tradizione si diramava al di là delle fonti classiche romane. In questo modo, il termine ‘Gothic’ fu utilizzato dalla ricerca antiquaria nell’etichettatura delle opere letterarie recentemente riscoperte che esulavano dal canone classico, come le ballate nordiche e le leggende arturiane.

Per quanto riguardava le operazioni lessicografiche, in atto soprattutto a partire dalla fine del XVI secolo, una delle risorse di più alto rilievo fu la produzione del monaco anglosassone Ælfric (X secolo). L’autore altomedioevale redasse una gram-matica antico inglese, in cui spiegava e forniva paradigmi per le declinazioni e le coniugazioni in latino e un glossario organizzato per temi, in cui apparivano liste di traduzioni in latino dei termini in Old English (Brackmann 2012: 42-3). L’opera fu redatta con l’obiettivo di esemplificare l’insegnamento del latino ai contemporanei di Ælfric, pur rappresentando un’opera bilingue che le generazioni successive utilizza-rono nel processo di apprendimento contrario.26 La popolarità di cui l’autore godette in epoca elisabettiana era primariamente dovuta, oltre alla prolifica attività letteraria e lessicografica, anche alla volontà di sottolineare l’autorialità delle proprie opere.

In altre parole, Ælfric si preoccupava di fornire un referente alle produzioni in cui venivano trattati argomenti educativi e religiosi, con evidenti obiettivi didattici

25

È necessario ricordare che questo periodo fu cruciale per la diffusione del cristianesimo in Britannia: sebbene sin dal V secolo, la popolazione indigena fosse stata quasi totalmente convertita, le nuove ondate migratorie ad opera degli anglosassoni riportarono sul territorio il culto delle divinità pagane; inoltre, l’Inghilterra si trovava ad affrontare le lotte di supremazia tra le missioni del cristia-nesimo celtico e della Chiesa di Roma.

26 L’importanza della produzione di Ælfric fu tanto profonda per gli antiquari dell’epoca Tudor, da essere inserita nel dizionario anglosassone a cura di William Somner (1659).

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(Brackmann 2012: 44). In epoca rinascimentale e protestante, una tale caratteristica fu erta a simbolo di autorevolezza riguardo alle documentazioni fornite, per esempio rispetto all’Eucarestia e alla traduzione di passi biblici in volgare. Inoltre, sempre coerentemente ai principi umanistici, Ælfric divenne l’emblema della tradizione educativa legata all’insegnamento e all’autodidattismo.

1.1.2. Le fonti scandinave

Allo stesso modo dell’Inghilterra, anche le aree scandinave svilupparono una ritrovato interesse nei confronti della propria storia nazionale che, attraverso il lavoro di numerose antiquari, si tradusse nella rivalutazione delle fonti letterarie autoctone (Larrington 2007: 21); e che, a partire dal XVII secolo, entrò a contatto con la corrispondente tradizione letteraria inglese che si occupava di mitologia, prosa e poesia norrena.

Dal punto di vista dei paesi scandinavi, la fonte letteraria tardo medioevale di profonda rilevanza culturale nella ricostruzione della storia della Danimarca fu l’opera dello storico danese Saxo Grammaticus che, nel XII secolo, compose il saggio Danorum Regum heroumque Historiae, Historia Danica. I sedici libri che componevano i più comunemente conosciuti Gesta Danorum potevano essere catalogati in due parti: la prima, trattava della mitologia norrena, e la seconda, affrontava la storia medioevale della Danimarca e dei paesi scandinavi. Malgrado la mancanza di manoscritti originali, grazie al più ampio frammento rimasto, il Frammento Angers, e al riassunto dell’opera compreso nelle Chronica Justensis del 1342, il traduttore danese Christiern Pedersen riuscì, agli inizi del XVI secolo, a pubblicarla in una versione sia latina sia, con ogni probabilità, danese (1540).27

È necessario comprendere che l’Inghilterra aveva da sempre intrattenuto rapporti di natura economica e culturale con le aree scandinave, tanto che verso la fine del XVIII secolo, la Danimarca offrì la possibilità di annettere l’Islanda al Regno Unito, in cambio delle Isole Crab nelle Indie Orientali (Wawn 2000: 16). In concomitanza delle discussioni di politica estera, gli antiquari delle due nazioni entrarono sempre più spesso in contatto, anche in virtù del comune senso di appartenenza alla tradizione germanica continentale derivato dalle testimonianze storiche classiche e medioevali.

In questo periodo inoltre, in Danimarca e Svezia, furono pubblicati una serie di volumi che arrivarono rapidamente a rappresentare, sul Continente, il canone letterario nordico: oltre alla riedizione dei Gesta Danorum di Saxo Grammaticus, il XVI secolo vide la pubblicazione dell’opera enciclopedica del cattolico umanista

27 Per la prima traduzione inglese, la società dovrà aspettare l’opera di Oliver Elton († 1945) del 1894 dal titolo The First Nine Books of the Danish History of Saxo Grammaticus.

(17)

Olaus Magnus († 1557) Historia de gentibus septentrionalibus (1555).28

Sebbene l’opera riprendesse alcuni episodi descritti da Saxo Grammaticus, l’autore non si misurò con un’edizione strettamente storica, bensì con una descrizione approfondita delle tradizioni e delle istituzioni svedesi. La Historia fu tradotta e pubblicata in numerose lingue europee, costituendo per lungo tempo il principale testo di riferimento nello studio delle popolazioni scandinave arcaiche.29

Olaus Magnus si propose di pubblicare anche l’opera storiografica postuma (1554) del fratello Johannes Magnus, la Historia de omnibus Gothorum et Sueonumque

rigibus, in cui l’autore descriveva, attraverso un utilizzo creativo delle redazioni di

Saxo Grammaticus e Jordanes, la storia dei re gotici e svedesi.

L’interesse nell’ambito dell’etnografia tradizionale dell’antiquario svedese collaborò alla diffusione della convinzione che le popolazioni scandinave rappresen-tassero un elemento fondamentale nel processo di ripopolazione della Terra in seguito al Diluvio Universale descritto nel decimo libro della Genesi (Kidd 1999: 53-5). L’autore sosteneva infatti che il primo re svedese fosse stato uno dei figli di Jafet, Magog,30 responsabile della ricostituzione della lingua originariamente parlata dall’umanità (O’Donoghue 2007: 102).

Secondo l’autore, il popolo svedese era depositario di una grande tradizione letteraria, primariamente scritta attraverso l’utilizzo delle rune, antico alfabeto germanico, di cui era possibile ottenere una testimonianza archeologica a seguito dei ritrovamenti in gra parte dell’Europa settentrionale (O’Donoghue 2007: 102). In questo modo, le rune e le iscrizioni runiche iniziarono a rappresentare le ultime tracce della grande civiltà scandinava precristiana.

Nel XVII secolo, le edizioni in latino di opere scandinave medioevali crebbero esponenzialmente all’interno del mercato editoriale inglese, fornendo informazioni testuali sulla letteratura e sulle tradizioni culturali dei paesi nordici.

La prima opera antiquaria fu edita da Ole Worm con il titolo Runer seu Danica

literatura antiquissima, ed ebbe una rilevante funzione nello sviluppo della disciplina

filologica in atto nel XVIII secolo, malgrado la diffusione di numerose informazioni sbagliate riguardo alcune usanze dei popoli scandinavi, a seguito di errori traduttivi.31

Nel 1643 fu inoltre scoperto e pubblicato il codice contenente l’Edda poetica, il

Codex Regius (GKS 2367 4˚) redatto nel XIII secolo dal vescovo islandese

28

Già nel 1539, l’antiquario svedese pubblicò a Venezia una carta geografica mediamente attendibile dell’Europa del Nord, dalla Groenlandia meridionale alle coste baltiche della Russia, dal titolo Carta marina et Descriptio septentrionalium terrarum. 29 In Inghilterra, l’opera di Magnus venne tradotta in latino da Robert Sheringham († 1678) nel 1670, e in inglese da Aylett Sammes († 1679) nel 1676 (Wawn 2000: 20). 30

Genesi 10:2, Jafet, terzogenito di Noè ebbe sette figli che ambirono alla ripopolazione dell’Eurasia.

31 L'uso, ad esempio, di teschi umani come tazze da cui bere è privo di fondamento. L'origine di questo mito sembra risalire all’errata traduzione di una frase che parlava di guerrieri che bevevano ór bjúgviðum hausa (‘dai curvi rami dei teschi’, presumibilmente, dai corni) con ex craniis eorum quos ceciderunt (‘dai crani di coloro che uccisero’).

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Brynjólfur Sveinsson († 1675), che riconobbe nell’opera la fonte delle informazioni leggendarie che comparivano nell’Edda di Snorri Sturluson,32

un manuale sulla poe-sia scaldica redatto dal monaco islandese da cui prende il nome nel 1220 e che conteneva ampio materiale sulla mitologia norrena.

Questo evento diede inizio a una serie di ricerche antiquarie sulla letteratura nordica in volgare, il cui corpus era di fatto molto più cospicuo rispetto alle altre tradizioni europee di origine germanica.

Poco dopo infatti, nel 1655, lo studioso danese Peder Resen († 1688) pubblicò l’Edda Islandorum, la prima opera comprensiva dell’Edda in prosa, tra cui l’opera contenente saghe sulle gesta dei re svedesi e norvegesi altomedioevali, Heimskringla, a riprova del grande interesse che le fornaldarsögur esercitavano sul panorama culturale nordeuropeo del XVII secolo,33 e dei primi due poemi d’apertura dell’Edda poetica (rispettivamente Völuspá «la profezia della veggente» e Hávamál «la canzone dell’eccelso»), inseriti dall’autore allo scopo di testimoniare l’esistenza di un sistema di valori e di miti espresso in modo coerente dall’apparato poetico delle civiltà ‘barbariche’. Il testo latino, posto a fronte della traduzione in danese dell’o-pera di Snorri Sturluson, si affidava alla precedente traduzione curata dal poeta islandese Magnús Ólafsson († 1636), Laufás Edda, nel 1665 sotto richiesta dell’anti-quario islandese Arngrímur Jónsson di redigere una versione enciclopedica e anali-tica dell’opera di Snorri. Secondo Clunies Ross (1998: 78), la versione tradotta più antica risultava anche quella meno difforme dall’originale.

Oltre alle pionieristiche edizioni delle saghe leggendarie di Olof Verelius († 1682), autore del dizionario rudimentale Index linguæ veteris Schytha-Scandicæ sive

Gothicæ (1691), alla fine del XVII secolo circolavano compendi e antologie sulla

conoscenza delle rune e della grammatica islandese, come lo Specimen lexici runici (1650) a cura di Magnús Ólafsson, l’opera edita nel 1651 da Runólfur Jónsson († 1654) dal titolo Grammatica Islandicæ rudimenta, che ambivano a definire una progressiva specializzazione in materia antiquaria da parte degli eruditi scandinavi (Wawn 2000: 18).

32 L’opera è stata registrata in quattro manoscritti a noi pervenuti e redatti tra il XIV e il XVII secolo: oltre al Codex Regius, infatti, è necessario annoverare il Codex Worminianus (1340-50), il Codex Trajectinus (1600), e il Codex Uppsaliensis (1300). L’Edda di Snorri, o Edda in prosa, fu probabil-mente redatta attorno al 1220 al fine di tramandare la decadente tradizione poetica scaldica, attraverso un manuale di poetica. Essa recuperava una serie di miti e leggende antico islandesi dalla tradizione orale norrena - compresa anche nel manoscritto dell’Edda poetica (anch’esso inserito nel Codex Regius ma, con ogni probabilità, di composizione antecedente al manoscritto di Snorri) – al fine di spiegare la caratteristica arte compositoria antico nordica.

33 Queste ultime, a differenza di ciò che accadde nel XIX secolo, venivano investite di una importante funzione storiografica dal pubblico seicentesco, proprio perché fornivano agli antiquari dell’epoca una quantità di materiale aggiuntivo alle fonti storiche già disponibili, come quelle latine e cristiane, che in questo periodo vennero definite più tarde rispetto alle testimonianze ‘gotiche’ (Wawn 1994: 1).

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Con ogni probabilità, l’edizione scandinava ritenuta più influente nel processo di ridefinizione del mito gotico da parte della ricezione inglese fu Antiquitatum

Danicarum libri tres (1689) ad opera dell’antiquario danese Thomas Bartholin (†

1690): nello specifico, il mito nordico del ridens moriar fu una conseguenza della descrizione dettagliata di scene inedite tratte dalle saghe islandesi, in cui l’eroe germanico veniva seguito dal momento della battaglia all’arrivo al meritato paradiso

Valhalla (Wawn 2000: 18). L’esteso e ben contestualizzato compendio di Bartholin

includeva anche illustrazioni di pietre runiche e una minuziosa analisi del ruolo centrale degli scaldi all’interno delle società nordiche antiche (Wawn 2000: 19).

In conformità a queste fonti e successivamente alla riscoperta del patrimonio letterario norreno, gli studiosi svedesi del XVIII secolo ambivano alla giustificazione culturale della crescente acquisizione di potere da parte della madrepatria all’interno del panorama politico economico europeo. A tal proposito, l’antiquario Olaus Rudbeck († 1702) tentò di ricollegare la storia nazionale alla più ampia storiografia continentale attraverso l’opera incompiuta in quattro volumi Atlantica (1679-1702). Nello specifico, Rudbeck sosteneva che la Svezia, essendo stata la terra d’origine delle popolazioni gotiche, avesse avuto un ruolo primario nella formazione delle moderne nazioni europee: sulla base delle fonti classiche, l’autore adattò il mito platonico della civiltà perduta, Atlantide, alla leggendaria visione di Jordanes della

Scandza, patria dei Goti. L’opera in questione, nonostante la forzatura di alcuni esiti,

rappresentava la linea di pensiero di molti antiquari dell’epoca, che attraverso l’uso di fonti secondarie, come fiabe, saghe, poesia scaldica, geografia e studio delle rune, miravano alla costruzione di una macro identità primitiva che precedesse l’avvento della romanità, e se ne distaccasse totalmente.

Il XVIII secolo visse le conseguenze del legame tra eruditi inglesi e scandinavi sviluppatosi nel secolo precedente, e vide la pubblicazione - nel 1715 a Oxford - della prima edizione di un testo islandese tradotto: si trattava dell’Íslendingabók di Ari Þorgilsson (XII secolo) ad opera dello studioso danese residente in Inghilterra Christian Worm († 1737); allo stesso modo, l’islandese Grímur Thorkelín († 1829) pubblicò la trascrizione dell’unico manoscritto rimanente del poema epico anglosas-sone Beowulf (1787),34 oltre che una traduzione inglese della Laxdæla saga 35 e della

Ragnars saga 36 l’anno seguente.

L’attenzione ai volgari divenne funzionale a questo tipo di ricerca anche alla luce del fatto che, proprio attraverso la lingua era possibile conoscere non solo il

contenu-34

Cfr, Cap. 2.3.2. 35

Una delle più importanti Íslendingasaga, saghe degli islandesi, che trattava delle vicissitudini del clan di Laxárdalrl, redatta attorno al 1245.

36 Saga che trattava delle avventure di un semileggendario re di Svezia e Danimarca che nella seconda metà del IX secolo riuscì a unificare i due regni. Ragnarr compariva anche nelle Gesta Danorum, e fu inserito all’interno del panorama leggendario germanico medioevale come sposo della figlia dell’eroe Sigfrido. La Ragnarr saga anticipava, infatti, la Ragnarrsona Ϸáttr, la saga breve dei figli di Ragnarr.

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to dei manoscritti antichi, ma anche comprendere elementi di familiarità tra le moderne culture europee di origine germanica. Le antichità gotiche divennero il simbolo dell’età aurea inglese, proprio grazie alla ‘domiciliazione’ di queste popolazioni sull’isola a seguito dell’adozione delle tradizioni culturali che si distaccavano dai valori mediterranei. Questo atteggiamento fu , con ogni probabilità, catalizzato dalla consuetudine protestante di perseguire un’ideologia democratica; sebbene l’opinione pubblica avesse cominciato a sviluppare un attaccamento emotivo all’esercizio della libertà personale - che si tradusse nell’allontanamento critico dai regimi culturali di stampo assolutistico - a partire dalle conseguenze delle due rivoluzioni civili inglesi.

1.2 La creazione elisabettiana del passato anglosassone inglese

Con la Riforma protestante, in Inghilterra come nel resto dell’Europa, si sviluppò un crescente interesse verso i testi e le tradizioni autoctone che, pur non detenendo il prestigio del canone classico, fornivano un valido precedente storico al sostegno di ideologie programmatiche tanto della Chiesa anglicana, quanto del dibattito politico.

Gli eruditi e umanisti dei secc. XVI e XVII affrontarono lo studio dei manoscritti antico inglesi grazie alla mediazione del latino e all’ausilio di paleografie e gram-matiche glossate, malgrado questo modus operandi risultasse, ovviamente, meno utile nelle analisi dei testi poetici, che presentavano maggiori difficoltà.37 Lo sviluppo di questa tendenza culturale influenzò, oltre l’ambito delle controversie religiose, anche il campo del diritto costituzionale inglese e, in modo particolare, la spinosa questione del rapporto tra potere parlamentare e monarchico. Gli studiosi inglesi, attraverso la rivalutazione delle antichità locali, riuscirono a contrapporsi alla consapevolezza storica canonica e alle autorità istituzionali che vi fondavano il proprio potere.

Il primo erudito che si autodefinì con il termine antiquarius fu John Leland († 1552), che si impegnò nella riscoperta delle antichità inglesi e nella redazione di resoconti strumentali all’entusiasmo protestante della riscrittura, o reinvenzione, del passato preromano come origine della Chiesa anglicana e della nazione. Malgrado la relativa conoscenza dell’antico inglese, le sue indagini topografiche fornirono le fonti storiche su cui imperniare uno studio scientifico della materia per le generazioni successive di eruditi.38 Sebbene Leland si fosse concentrato sull’epoca romana del passato nazionale, i numerosi tours del Paese che intraprese nella ricerca di reperti storici, collaborarono alla rappresentazione di una linea culturale continua tra la

37 La Regula Benedicti (1129), per esempio, era inclusa in manoscritti bilingue, i Salmi contenevano glosse in inglese, oltre alla traduzione in volgare di parte della Bibbia. Di ampio utilizzo furono i Col-loquia di Ælfric (XI secolo), originariamente redatti in latino e successivamente tradotti in forma ano-nima in antico inglese, venivano sfruttati come rudimentale dizionario in vernacolo (Niles 2015: 54).

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tradizione classica e l’epoca anglosassone dell’isola (Niles 2015: 78). Il lavoro di Leland era fortemente debitorio rispetto alle opere di John Bale († 1563), studioso protestante che prese parte a un evento che segnò formalmente l’inizio degli studi goticisti: la scoperta del Codex Argenteus,ovvero il manoscritto del V secolo che attestava la traduzione in gotico dell’Antico Testamento da parte del vescovo ariano Wulfila (Dekker 1999: 21).

In Inghilterra, il processo di riscoperta del patrimonio religioso in volgare fu intra-preso dal circolo di studiosi cui faceva capo l’arcivescovo di Canterbury Matthew Parker († 1575), collezionista di opere antiche, che concentrò i propri sforzi nella ri-valutazione e nella preservazione dei manoscritti medioevali all’interno delle catte-drali e delle collezioni private, contribuendo allo sviluppo di una pratica culturale si-stematica che ambiva al recupero dei documenti circa il passato medioevale inglese. Ciò che prevalentemente spinse Parker, e le personalità che appartenevano al circolo della regina Elisabetta I, a interessarsi dei manoscritti anglosassoni fu la ricerca di fonti che documentassero il carattere originario della Chiesa inglese prima della conquista normanna e del IV Concilio Lateranense del 1215, che impose riforme sostanziali alle Chiese di tutta Europa.

Attraverso questo processo di recupero, si ambiva alla riscoperta di un precedente storico cui collegare le ideologie propagandistiche funzionali agli obiettivi di Enrico VIII prima, ed Elisabetta I dopo, volte a stabilire l’indipendenza della Chiesa inglese da quella romana, con la conseguente imposizione del potere assoluto nel paese.39 L’impulso a questo tipo di ricerca fu, con ogni probabilità, la pubblicazione nel 1564 della traduzione inglese della Historia Ecclesiastica di Beda a cura di Thomas Stapleton († 1598), un prete cattolico che emigrò in Belgio per ricongiungersi alla comunità di cattolici espatriati, o recusants, durante l’epoca delle persecuzioni prote-stanti (Niles 2015: 52-3). L’opera fu pubblicata ad Antwerp con il titolo completo:

The Historie of the Church of England, compiled by Venerable Bede, Englishman: translated out of Latin into English. La conseguenza della pubblicazione che, per

altro, ebbe il merito di aver tradotto in volgare per la prima volta l’opera di Beda, fu quella di rappresentare la profonda congiuntura tra la Chiesa celto romana e la più ampia comunità cattolica che faceva capo all’autorità centrale di Roma. Rilevando un carattere di continuità tra la Chiesa inglese dell’epoca di Beda (VIII secolo) e quella moderna, Stapleton mirava a definire il Protestantesimo come atto meramente scismatico, dunque eretico, rispetto alla Chiesa romana.

Alla luce di ciò, le personalità ecclesiastiche della Chiesa riformata, utilizzarono la stessa opera di Beda per sostenerne posizioni contrarie; ovvero che le dottrine e le pratiche sostenute dalla Riforma rappresentavano un ritorno ai principi originari della

39 Parker doveva rendersi conto dell’impossibilità di collegare il carattere protestante della Chiesa inglese direttamente alla spiritualità indigena: la Chiesa dell’epoca infatti dipendeva da Roma e dagli stessi monasteri che Enrico VIII si era proposto di dissolvere; dunque l’interpretazione dei testi antichi assunse, già alle sue origini, un carattere ideologico e strumentale.

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cristianità come l’indipendenza della Chiesa inglese dal Papato, la negazione della dottrina della transustanziazione, la critica all’obbligo del celibato cui era soggetto il clero e l’utilizzo della lingua volgare come medium di osservazione ed educazione religiosa.40 A sostegno delle ultime due posizioni ideologiche, gli antiquari dell’e-poca Tudor trovarono un valido supporto nelle fonti anglosassoni: oltre alla possibi-lità di ricevere il sacramento del matrimonio per il clero, prima del Concilio Latera-nense IV (1215), erano numerose le testimonianze dell’utilizzo dell’inglese nei con-testi religiosi,41 nonostante il latino rappresentasse il mezzo di comunicazione preferito nelle liturgie e nelle occasioni formali.

Uno dei protagonisti del recupero delle testimonianze scritte antico inglesi fu il segretario di Parker, James Joscelyn († 1603), che si impegnò nello studio di alcuni manoscritti redatti in antico inglese di cui annotò e classificò una serie di parole e frasi che, in un secondo momento catalogò in liste più ampie, collaborando allo sviluppo del processo di analisi linguistica che avrebbe portato alla formazione di dizionari e grammatiche antico inglesi.

Allo stesso tempo, l’antiquario Lawrence Nowell († 1571) si specializzò nella trascrizione e nella consultazione di numerosi manoscritti antico inglesi, tra cui due dei quattro codici che attestavano esempi di poesia anglosassone: l’Exeter Book e il manoscritto contenente il Beowulf, il Cotton Vitellius A.xv (o Nowell Codex), da cui dedusse numerose informazioni topografiche, giuridiche oltre che storiche e lettera-rie. L’opera lessicografica di Nowell era volta a sottolineare l’importanza dell’eredità anglosassone nella società contemporanea a partire, proprio, dalla lingua. Tra i suoi lavori, compariva la riedizione di alcune sezioni della traduzione anglosassone della

Historia adversos paganos libri septem di Orosio (IV-V secolo) a cura di Alfredo il

Grande (IX secolo), in cui, per altro, veniva presentata una delle più antiche descrizioni geografiche della Scandinavia descritta dai dialoghi tra l’anglosassone Wulfstan e lo scandinavo Ohthere (Niles 2015: 55-6). Come Joscelyn, Nowell redas-se un dizionario antico ingleredas-se, il Vocabularium Saxonicum, che funredas-se da modello per le future redazioni e pubblicazioni sull’argomento.

A partire dagli anni Cinquanta del XVI secolo, vennero redatti una serie di manoscritti che rappresentavano il ritrovato interesse per il recupero delle origini della società inglese moderna, e che allo stesso tempo contribuivano alla difesa patriottica di ideologie tanto religiose quanto politiche. Il valore delle opere di trascrizione da parte di questi studiosi assicurò la preservazione del contenuto letterario di manoscritti altrimenti perduti (Dekker 1999: 33). La stessa scelta tipografica nella redazione di tali manoscritti, che ricalcava il font antico inglese, non

40

Le prime due posizioni sostenute dai riformatori, ovvero la dipendenza dal papato e il concetto di eucarestia, non trovarono pressoché alcun supporto nelle fonti anglosassoni. 41 Per esempio, le traduzioni delle Scritture, dei Vangeli e dei primi sei libri dell’Antico Testamento.

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soltanto creava nel lettore una percezione di autenticità, ma mirava a defamiliarizzare questi testi con l’obiettivo di renderli più autorevoli (Frantzen 1990: 45).

La prima opera redatta attraverso questo metodo fu A Testimonie of Antiquitie,

shewing the auncient faith in the Church of England touching the sacrament of the body and bloude of the Lord here publikely preached, and also receaued in the Saxons tyme, aboue 600 yeares agoe (1566), il cui titolo completo dichiarava

apertamente i contenuti del testo (Niles 2015: 59). La maggior parte di esso consi-steva in un’edizione, con traduzione a fronte, del Sermone della Domenica di Pasqua di Ælfric, chierico anglosassone dell’XI secolo, che includeva una discussione sulla natura dell’Eucarestia. Anche se nel titolo fu asserita l’antichità della Chiesa inglese e, allo stesso tempo, fu negata la dottrina della transustanziazione, non si trattava, secondo gli antiquari elisabettiani, di un’opera eretica, proprio a causa del postulato che sosteneva la diversa natura della Chiesa inglese rispetto a quella romana.

L’obiettivo pragmatico di questa serie di pubblicazioni consisteva nella dimostra-zione dell’esistenza di un precedente di tradudimostra-zione in volgare delle Scritture nel panorama culturale inglese antecedente alla conquista normanna (Niles 2015: 61).

Pubblicato secondo le stesse norme e sempre a cura di Parker e del suo circolo di studiosi, fu APXAIONOMIA, sive de priscis Anglorum legibus libri (1568), che rap-presentava la prima edizione, con il dichiarato intento erudito, contenente lo studio di una serie di leggi antico inglesi (Niles 2015: 62).

Anche se l’autorialità del libro fu assegnata a William Lambarde († 1601), è evidente dalla mole dell’opera, che essa fosse il risultato della cooperazione tra eru-diti. L’Archaionomia includeva il codice giuridico risalente all’epoca dei primi regni anglonormanni e, in aggiunta alle leggi anglosassoni precedentemente tradotte da Nowell,42 un breve glossario in latino dei termini legali utilizzati in antico inglese. L’importanza dell’opera fu rappresentata dal suo utilizzo, nel XVII secolo, nella diatriba politica a supporto dell’autorità della Common Law e a discapito della pretesa assolutistica della monarchia inglese (Dekker 1999: 37). Nel materiale introduttivo all’opera compariva, inoltre, una mappa dell’Inghilterra, caratteristica dei tentativi di ricostruire la geografia medioevale inglese, che comprendeva alcuni esempi di toponomastica antico inglese.43 A questo proposito, nell’indicare il territorio britannico, l’Inghilterra (Anglia) veniva definita come Angelsaxonum

Heptarchia, ovvero come confederazione di sette regni anglosassoni minori. La

rappresentazione della nazione quale eptarchia, impresse nella memoria inglese moderna l’idea che gli antichi regni anglosassoni della Northumbia, del Wessex, del

42 Il modello antiquario a cui Nowell ispirò le proprie ricerche fu Sir William Cecil (1520-98), mem-bro della Society of Antiquaries e delle Inns of Court, che all’epoca rappresentavano il centro delle attività che approfondivano l’antico inglese e le sue pubblicazioni (Dekker 1999: 37).

43 Per esempio, fu usata la denominazione Westeaxnaric, per indicare il regno dei Sassoni dell’Ovest.

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