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Dall'educazione socratica alla dialettica platonica: un percorso erotico

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Academic year: 2021

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INDICE

Introduzione 3

1. EROS E CONOSCENZA DI SÉ NELL'ALCIBIADE I 5

1. L'Alcibiade I 5

2. Socrate e la sua attività filosofica 9

3. Eros e vergogna nella confutazione socratica 12

4. Il rapporto educativo tra eros e paideia 16

5. Eros e cura di sé 20

6. Alcibiade: una natura filosofica? 24

7. Eros e conoscenza di sé 26

2. IL SIMPOSIO: DALLA CONOSCENZA DI SÉ ALLA CONOSCENZA 32 DEL BELLO 1. Eros nei dialoghi platonici della maturità 32

2. Il Simposio 34

3. Eros platonico e tradizione 36

4. Il discorso di Socrate 45

5. Eros come generazione 51

6. L'ascesa del filosofo tra emotività, creatività e razionalità 55

7. L'intervento di Alcibiade 64

3. IL FEDRO: TRA AMORE DEL BELLO E REMINISCENZA 71

1. Il Fedro 71

2. L'amore secondo Lisia 73

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4. La reminiscenza 86

5. Eros e cura di sé 93

6. Eros e la soddisfazione del piacere fisico 99

7. Eros e la retorica 104

4. LA REPUBBLICA: DALL'EROS ALLA DIALETTICA 109

1. La Repubblica 109

2. La tripartizione dell'anima 110

3. L'educazione: cura dell'anima e riorientamento dei desideri 120

4. Dalla realtà sensibile all'intelligibile 128

5. La matematica e la dialettica 136

Conclusione 146

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INTRODUZIONE

Con questo mio lavoro intendo identificare un percorso che vada dall'educazione socratica alla dialettica platonica. Se l'elemento di continuità comunemente individuato tra le due concezioni è il logos, ovvero la dimensione dialogica socratica che Platone ha assorbito e rielaborato nel suo pensiero filosofico, questa indagine vuole seguire un'altra strada, quella dell'eros. L'eros costituisce, infatti, un elemento centrale sia in Socrate, che è solito instaurare relazioni di tipo erotico-educativo con i suoi allievi, sia in Platone, che si dedica alla trattazione di questo tema in più dialoghi. Le fonti principali utilizzate saranno quattro dialoghi platonici: Alcibiade I, Simposio, Fedro e Repubblica.

A partire dall'Alcibiade I, che offre una rappresentazione del tipico dialogo socratico in cui la vera posta in gioco non è ciò di cui si parla, ma colui che parla, intendo mostrare il ruolo di eros nella confutazione socratica. Descrivendo e analizzando il tentativo di Socrate di condurre Alcibiade prima a mettere in discussione il suo modo di vivere, e poi a percorrere la strada della conoscenza di se stesso, cercherò di illustrare il ruolo decisivo di eros nel favorire questa “conversione su di sé”, che ha come conseguenza la conquista della virtù e che apre alla dimensione della “cura di sé” intesa come tentativo di migliorare la propria anima. L'esame di questo dialogo sarà utile per seguire, passo per passo, l'intreccio tra dimensione razionale e dimensione emotiva che caratterizza la tecnica confutatoria socratica, e che possiamo pensare che Platone abbia assorbito mantenendone intatto il nucleo più profondo.

Analizzando il modo in cui Platone rivisita e integra nella sua filosofia l'elemento erotico, ovvero mostrando i punti di contatto e le differenze tra l'eros socratico e quello

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platonico, intendo indagare il modo in cui la concezione del legame tra amore, conoscenza e cura di sé si trasforma via via che il pensiero platonico diviene più autonomo rispetto a quello del maestro.

Cercherò di descrivere, perciò, la trasformazione sia del concetto di eros sia di quelli di conoscenza e cura di sé in relazione al passaggio dal piano umano, “orizzontale”, in cui si esaurisce l'attività filosofica socratica, a quello “verticale” della filosofia platonica, che vede la significativa novità dell'introduzione di una realtà ontologica al di sopra di quella sensibile. A questo scopo, analizzerò approfonditamente i dialoghi erotici Simposio e Fedro, in cui emerge l'articolata concezione dell'eros platonico in connessione con gli altri elementi peculiari della sua filosofia, quali la teorizzazione del mondo delle Idee, la dottrina dell'anima tripartita e l'immortalità dell'anima, che ci porteranno direttamente al cuore del pensiero platonico.

Una volta chiarite la genesi e l'elaborazione platonica del concetto di eros, e il suo legame con la conoscenza, sarà possibile verificare se esso possa costituire un efficace elemento di continuità tra l'educazione socratica e la dialettica platonica. Cercherò di capire, nello stesso tempo, se l'interesse platonico per eros e la sua funzione decisiva in relazione alla conoscenza continuino a svolgere un ruolo nell'elaborazione platonica dell'educazione e della dialettica. Quest'ultima viene descritta già nel Fedro, ma è più chiaramente riproposta nella Repubblica come disciplina culmine del curriculum educativo del filosofo.

Il confronto tra Fedro e Simposio da un lato e Repubblica dall'altro considera di mettere in luce lo sviluppo del pensiero platonico riguardo all'effetto che eros e conoscenza, unitamente o separati hanno sull'anima e nella loro capacità di guidare e condurre l'individuo verso la saggezza.

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1. EROS E CONOSCENZA DI SÉ NELL'ALCIBIADE I

1. L'Alcibiade I

Il primo dialogo platonico di cui ci serviremo per affrontare la questione del rapporto tra eros e conoscenza di sé è l'Alcibiade I. Questo dialogo ci interessa in quanto, all'interno del corpus platonico, è quello che indaga più direttamente il tema di “che cosa sia l'uomo”. Intorno a questo interrogativo centrale ruotano concetti importanti della filosofia socratica e platonica, come quello della conoscenza di sé, fondamentale per la nostra indagine. Queste caratteristiche del dialogo hanno fatto sì che, nella tarda antichità, questo testo fosse spesso utilizzato come lettura di avvio per chiunque volesse studiare il pensiero di Platone o fosse interessato ad intraprendere un curriculum di studi filosofici in generale, secondo l'idea presente anche all'interno del dialogo, per cui la conoscenza di sé va ritenuta prioritaria rispetto alla conquista di qualunque altra conoscenza.

Occorre precisare che l'attribuzione dell'Alcibiade I a Platone, e di conseguenza anche la sua datazione, sono oggetto di dibattito da parte degli studiosi. Il dialogo infatti contiene, sia dal punto di vista stilistico che contenutistico, elementi che sono ritenuti caratteristici dei dialoghi giovanili, quelli in cui si ritiene emerga un pensiero soprattutto socratico, misti ad elementi che sono normalmente reperibili nei dialoghi più tardi, in cui il personaggio di Socrate si fa sempre più “portavoce” di pensieri di Platone, pur elaborati sulla base della lezione del maestro. Gli aspetti presenti nell'Alcibiade I che si possono riscontrare con ricorrenza all'interno dei dialoghi giovanili o “socratici” sono, ad esempio, la tecnica della confutazione socratica che procede per brevi domande e risposte e il tema

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centrale della conoscenza di sé, mentre i discorsi lunghi e i riferimenti metafisici sono considerati elementi peculiari dei dialoghi platonici della maturità1.

Olimpiodoro di Alessandria, autore dell'unico commento antico completo del dialogo, vissuto nel V secolo d.C., sottolinea tale carattere “misto” del dialogo, ma ne difende l'armonia interna, in opposizione a coloro che ritengono problematica la sua etereogeneità.2 Egli propone una suddivisione del testo in tre parti distinte che ritiene possano perfettamente integrarsi tra loro in un'ottica di continuità: una prima parte confutatoria, una seconda protrettica e una terza maieutica. Le prime due parti vedono Socrate impegnato nella confutazione del falso sapere di Alcibiade e nel tentativo di convincerlo a purificarsi con un lavoro su se stesso, mentre la terza parte introduce un riferimento al precetto delfico che invita a conoscere se stessi, fino a giungere alla rivelazione maieutica del vero sé.

Per quanto riguarda l'aspetto drammatico del dialogo, abbiamo un unico interlocutore di Socrate, Alcibiade, che non è, come accade in modo ricorrente in altri dialoghi giovanili, un giovane che Socrate non conosce e avvicina per la prima volta, ma è un individuo verso il quale il filosofo nutre da tempo un interesse particolare. Socrate stesso ammette di aver osservato a lungo il suo comportamento e le sue azioni prima di avvicinarlo e parlargli. Alcibiade, inoltre, è presente in più di un dialogo platonico ed è considerato una delle figure più notevoli nella cerchia di Socrate. Qui è rappresentato come un giovane ambizioso che ha come aspirazione fondamentale quella di diventare un potente uomo politico, avere potere ed essere ricoperto di grandi onori. Dal punto di vista storico Alcibiade era di fatto una figura di rilievo nel panorama politico ateniese del V secolo a.C.,

1 Cfr. Maria Michela Sassi, Indagine su Socrate: persona, filosofo, cittadino, Torino, Einaudi, 2015, p. 122. 2 Cfr. Francois Renaud, La conoscenza di sé nell'Alcibiade I e nel commento di Olimpiodoro, in Interiorità

e anima: la psychè in Platone, a cura di Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara, Arianna

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avendo ricoperto un ruolo tanto di spicco quanto controverso negli anni della guerra del Peloponneso.

In questo dialogo lo incontriamo, appunto, agli esordi della sua carriera politica, affiancato da Socrate, che, in nome dell'amore che prova per lui, cerca di convincerlo a seguire i suoi consigli, dipingendosi come l'unico in grado di offrirgli l'educazione di cui necessita per esordire degnamente nel panorama politico. Di fatto Socrate non si preoccupa propriamente di dargli dei meri consigli politici, ma tenta di avviare il suo allievo al modo di pensare e vivere proprio della filosofia, cioè condurlo verso quello che è, a suo avviso, il principale scopo di un'educazione autentica.

La relazione tra Socrate e Alcibiade descritta in questo dialogo è di tipo erotico e insieme di tipo educativo. Questo non sorprende, dato che nella Grecia classica erano comunemente ammesse e praticate le relazioni pederastiche, in quanto avevano una funzione sociale ben precisa: avviavano all’inserimento sociale di un giovane nella società aristocratica. Tali relazioni avevano infatti luogo tra un erastès, l’amante adulto, e un eromenos, il giovane amato, con la precisa funzione di trasmissione del sapere e della virtù dal primo al secondo. In questo senso si trattava di relazioni asimmetriche in cui il giovane ricopriva un ruolo passivo, ruolo che avrebbe poi abbandonato una volta raggiunta la maturità.

Il programma di Socrate si può accostare a questa concezione dell'amore pederastico, che viene per così dire trasfigurato in amore filosofico. Anche in altri dialoghi platonici Socrate rappresenta l’amante filosofico, caratterizzato da un comportamento controllato e misurato, poco incline a lasciarsi sopraffare dal desiderio fisico. Questa caratteristica è enfatizzata da Platone anche per distinguere Socrate da coloro che tenevano un comportamento poco decoroso, privilegiando l'aspetto fisico della relazione a discapito di

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quello pedagogico. Utile accostare a questa situazione quella rappresentata alla fine del Simposio, dove emerge tutta la temperanza di Socrate: Alcibiade rammenta il frangente in cui, deluso, si era dovuto arrendere al rifiuto del filosofo di fronte alla sua volontà di consumare il rapporto, proprio perché aveva erroneamente interpretato l'interesse di Socrate come un interesse fisico. Socrate chiarisce di non voler scambiare “oro con bronzo” (Symp. 218e), ovvero una bellezza dell'anima, la propria, con quella corporea di Alcibiade, perché ciò avrebbe significato scambiare una bellezza autentica con una apparente.

Nell'Alcibiade I Socrate sottolinea l'unicità e l'autenticità del suo amore, diverso dagli tipi di amore: il suo unico scopo è il miglioramento dell'anima di Alcibiade, è ad essa che egli rivolge il suo amore. Il filosofo è convinto di poter educare Alcibiade in modo che acquisisca la competenza necessaria per governare e spiccare tra gli uomini più potenti del suo tempo, ma non è questo il suo obiettivo principale dalla sua educazione: non intende solamente istruire Alcibiade dal punto di vista tecnico-politico, ma intende condurlo a quella “conversione su di sé” che gli permetta di vivere una vita più autentica, in altre parole, più degna di essere vissuta. Socrate è il primo pensatore nella storia della filosofia che, attraverso un'indagine di tipo antropologico ed etico, solleva la questione di quale sia la vita buona per l'uomo, di che cosa significhi “vivere bene” (eu zen). Famoso è il passo del Critone in cui Socrate afferma che «l'importante non è vivere, ma vivere bene» (Crit. 48b). A suo avviso la vita buona e felice risiede nell'esercizio della virtù (aretè) specifica dell'uomo, quella che risiede nella sua dimensione propriamente razionale, e segue necessariamente dalla conoscenza del bene: secondo l'intellettualismo etico attribuito a Socrate, chi compie il male lo fa esclusivamente per ignoranza.

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quale sia la natura dell'uomo (Alc. I, 129e). La tesi che viene sostenuta è che solamente conoscendo la nostra natura possiamo comprendere anche quali siano il bene e il male per noi.

Socrate vorrebbe che Alcibiade si avvicinasse alla filosofia e convertisse il suo modo di vivere sulla base di questa conoscenza del bene, che non è altro che la saggezza che segue l'approfondita conoscenza di se stessi e della propria anima. Occorre, a questo scopo, che il giovane volga la sua attenzione là dove risiedono principi spiritualmente più alti rispetto ad onore, fama e ricchezza. Vi sono infatti quei valori dell'anima, in primis la giustizia, che è necessario conoscere e scoprire dentro di sé in modo prioritario rispetto a qualsiasi altra conquista intellettuale o materiale. La conoscenza e la cura di se stessi che permettono di conquistare e possedere stabilmente nell'anima la virtù, potranno porsi alla base anche del successo politico tanto desiderato da Alcibiade, offrendo le linee guida necessarie per agire in ogni circostanza nel modo più opportuno.

Questa “conversione su se stesso” che Socrate cerca di favorire nel giovane può essere agevolata dal particolare tipo di relazione erotica presente tra i due. Eros e conoscenza di sé sono in questo senso profondamente collegati all'interno dell'Alcibiade I, in quanto il processo di conoscenza interiore ricercato comporta un totale sconvolgimento dell'anima ed implica che l'individuo sia coinvolto sia sul piano intellettuale che emotivo. Recenti studi hanno sottolineato proprio l'importanza della “presa” emotiva che il dialogare socratico è capace di sfruttare per favorire il raggiungimento dei suoi obiettivi filosofici. Approfondiremo questo punto dopo aver fatto una necessaria digressione.

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Non è facile cogliere le linee del pensiero socratico: le fonti più importanti che abbiamo (Aristofane, Senofonte e Platone) ce ne offrono immagini tra loro diverse. Poiché quello che ci interessa qui è contestualizzare l'esempio di attività filosofica socratica presente nell'Alcibiade I, prendiamo in considerazione il Socrate di Platone, così come egli ce lo presenta nei suoi dialoghi.

Come abbiamo già accennato, i dialoghi platonici, in particolare quelli “socratici”, ci presentano Socrate nei panni del filosofo che, attraverso le sue domande, invita i propri interlocutori ad esaminare questioni di vario genere e, attraverso la confutazione delle tesi che essi propongono di volta in volta, li conduce alla consapevolezza della propria ignoranza e alla necessità di porvi rimedio.

Le opinioni che ciascuno ha a proposito dei principi morali o della natura degli oggetti di cui si occupa, determinano quei comportamenti che rendono un individuo ciò che è, e questo può avvenire molto spesso in modo automatico, senza che si sia mai riflettuto abbastanza sulla validità delle proprie opinioni. Le domande che Socrate rivolge ai suoi interlocutori hanno proprio lo scopo di favorire tale riflessione, e capita quasi sempre che costoro, nel dialogare con il filosofo, incorrano nell'incapacità di rispondere coerentemente ai suoi interrogativi. Questo ha ricadute sulla loro condotta di vita: essi non riescono a dare ragione di quelle conoscenze o di quei principi che regolano le loro stesse azioni, e si rendono così conto di non sapere per quale motivo agiscano.

Un passo del Lachete, dialogo platonico che indaga la natura del coraggio, vede uno dei protagonisti, Nicia, descrivere tale situazione con parole significative:

Credo che tu non sappia che chi si incontra con Socrate e inizia a dialogare con lui, qualunque sia l’argomento da cui ha preso le mosse, senza rendersene conto, cade sotto la costrizione di non riuscire a terminare il suo discorso prima di aver dato completa ragione di se stesso, del modo in

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cui vive e in cui ha vissuto. Quando ciò accade, Socrate infatti non lo lascia andare prima di averlo esaminato ben bene (Lach. 187e-188a).

In questo passo vediamo che Nicia è ben consapevole di che cosa significhi intraprendere un dialogo con Socrate: bisogna essere prima di tutto disposti a mettersi in discussione. Per quanto chi si trova a dialogare con lui possa cercare di avere la meglio, non può aspirarvi senza trovarsi a dover rendere conto delle sue convinzioni più profonde e del modo di vita che ha adottato in base a quelle.

Un altro passo che vale la pena riportare è quello dell'Apologia, in cui Socrate riassume il senso essenziale della propria “inchiesta”:

Ehi tu, eccellentissimo fra gli uomini e cittadino di Atene, che è la città più grande e gloriosa per sapienza e potenza, non ti vergogni di rivolgere le tue cure alle ricchezze, per accumularne il più possibile, e alla fama e al prestigio, anziché curarti e darti pensiero di saggezza e verità e della perfezione dell'anima? E se qualcuno di voi ribatterà che invece se ne cura, non lo congederò subito né me ne andrò io, ma lo interrogherò, lo esaminerò, lo metterò alla prova; e se lo troverò privo di virtù, e se ne dichiarasse tuttavia dotato, lo biasimerò perché tiene in poco conto le cose di maggior valore, privilegiando invece quelle vili (Apol. 29d-30a).

Questo passo illustra molto bene quello che doveva essere lo scopo dell'attività socratica: portare gli individui ad occuparsi della propria anima prima che di qualsiasi altra cosa. Maria Michela Sassi ha ultimamente sottolineato il carattere rivoluzionario del programma di “cura” della città presentato da Socrate: non era uso comune nell'Atene del V secolo la condanna morale del desiderio di ricchezza, fama e onori. Tali desideri erano diffusi e considerati del tutto legittimi, in quanto la maggioranza dei cittadini aspirava a possedere una vita ricca di onori e riconoscimenti3.

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Il carattere rivoluzionario delle parole socratiche, insieme ad altri aspetti scomodi della sua attività filosofica che direttamente coinvolgevano i politici ateniesi, è indubbiamente alla base della condanna a morte di Socrate, accusato di corrompere i giovani insegnando dottrine che favorivano il disordine sociale e di non credere negli dei della città, tentando di introdurne di nuovi. In effetti, i suoi concittadini non potevano percepire il suo invito a rimettere in discussione i valori, i loro modi di agire, a prendersi cura di se stessi, se non come un taglio con le abitudini e le convenzioni della vita di tutti i giorni, con il mondo che era loro familiare4. Nell’Apologia Socrate non fornisce alcuna ragione teorica per spiegare perché egli costringa se stesso e gli altri ad esaminare la propria vita, accontentandosi di dire che questa è la missione affidatagli dal dio e che «una vita che non metta se stessa alla prova, non è degna di essere vissuta». (Apol. 38a)

3. Eros e vergogna nella confutazione socratica

Dal punto di vista del metodo utilizzato da Socrate abbiamo un procedimento di tipo “dialettico”, che vede la messa in opera dell'elenchos, o confutazione, che procede per domande e risposte, alla ricerca di definizioni il più possibile veritiere dei vari oggetti in questione, spesso concetti e valori morali. Già a partire da Omero il sostantivo elenchos indicava l'atto di “mettere alla prova un individuo” e verificare la correttezza della sua condotta morale.5 Oltre a non fornire risposte esaurienti, il metodo confutatorio abbatte le certezze e dimostra l'infondatezza di ciò che dava senso e struttura al modo di vivere che l'interlocutore aveva prima di intraprendere il dialogo con Socrate. La situazione

4 Cfr. Pierre Hadot, Qu'est-ce que la philosophie antique?, trad. it. di Elena Giovannelli, Torino, Einaudi, 2010 (1995), p. 38.

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contraddittoria in cui si trova colui che viene interrogato da Socrate, sia durante il dialogo che alla fine, è la famosa condizione di “aporia” per cui non si riesce a trovare una definizione esaustiva, una verità definitiva che possa risolvere efficacemente il problema posto in principio. Il riconoscimento del proprio “non sapere” da parte dell'interlocutore è però considerato un punto di partenza, una condizione feconda da cui poter intraprendere un'autentica ricerca, proprio perché favorisce lo sguardo dell'individuo verso la propria anima, là dove risiedono i valori più profondi su cui ha basato la sua vita. Ciò che interessa a Socrate, infatti, è l'aderenza delle parole del suo interlocutore al proprio comportamento, ed è proprio questa connessione che favorisce gli effetti “terapeutici” dell'elenchos. Socrate, al fine di favorire nell'interlocutore una sorta di “purificazione” dalle false opinioni, utilizza un processo che sembra agire tanto sui ragionamenti quanto sulle emozioni dell'individuo. A proposito dell'effetto che le parole socratiche hanno sullo stato emotivo di chi le ascolta, è utile fare riferimento al Simposio, dove Alcibiade accosta Socrate al satiro Marsia, proprio perché è capace, con i suoi discorsi, di ammaliare e stordire come fa un satiro con la sua musica. Il giovane afferma:

Io stesso, amici miei, se non rischiassi di passare per completamente ubriaco, vi racconterei sotto giuramento le impressioni che ho ricevuto e ricevo tutt'ora dai suoi discorsi. Quando ascolto, il cuore mi balza in petto più che ai coribanti e per le sue parole le lacrime mi colano giù, e vedo che moltissimi altri subiscono i medesimi effetti. Udendo Pericle e altri valenti oratori, io credevo che parlassero bene, ma non ricevevo nessuna impressione del genere, e l'anima non mi tumultuava né soffriva di sentirsi in uno stato di schiavitù, ma più volte questo Marsia mi ha messo in una condizione tale da credere che la vita non fosse degna per me di essere vissuta nello stato in cui mi trovo ora (Symp. 215d-e).

In questo passo possiamo vedere come l'elenchos socratico riesca a persuadere l'interlocutore suscitando un certo sconvolgimento emotivo. Si può parlare in questo senso

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di un effetto “magico” delle parole socratiche, che sarebbero in grado di generare virtù agendo ad un livello emotivo e pre-razionale. Menone, nell'omonimo dialogo, dice a Socrate: «Anche ora, almeno questo mi pare, mi fai la magia, mi streghi – insomma m'incanti, così che io sono pieno di dubbi» (Men. 80a).

Nell'Alcibiade I l'elenchos verte su quegli argomenti di cui Alcibiade deve avere padronanza per poter consigliare gli Ateniesi quando si troverà in assemblea. Poiché il giovane, in linea con il suo carattere orgoglioso, è convinto di possedere mirabili doti, Socrate lo interroga per verificare la solidità delle sue competenze in proposito. Il primo punto su cui i due concordano è questo: affinché Alcibiade possa dare i propri consigli riguardo a qualche cosa, è necessario che egli ne possieda una competenza maggiore rispetto a quella di coloro che si suppone dovrebbero ascoltarlo. Il giovane è convinto di essere più competente degli altri riguardo alle questioni di Stato, ma quando Socrate lo interroga a proposito di che cosa sia “meglio” a proposito del fare o non fare la guerra, Alcibiade non sa rispondere e Socrate gli fa notare quanto questo sia vergognoso:

Ma è vergognoso! Se uno, mentre stai parlando e dando consigli sostenendo che questo è meglio di quello, in questo particolare momento e in una certa quantità, ti chiedesse: “Alcibiade, cosa intendi per meglio?”, tu sapresti rispondere che meglio è ciò che è più salutare, anche se non hai assolutamente la pretesa di essere un medico. Ma su quello che pretendi di conoscere in modo sistematico e su cui ti alzerai a dare consigli da persona competente, se ti si interroga su questo e non sai rispondere, non ti vergogni? O non ti sembra cosa su cui ci si debba vergognare? (Alc.I, 108e-109a)

Alcibiade non può non riconoscere di trovarsi in una situazione di ignoranza proprio in quegli ambiti in cui aveva fermamente ritenuto di essere più competente della massa, ed è così costretto ad ammettere che tale condizione è vergognosa. Socrate fa leva sulla vergogna che Alcibiade proverebbe se, in ambito pubblico, si rivelasse incompetente sulle

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questioni decisive per il bene della polis.

Il risvolto morale della confutazione è presente anche là dove, come in questo caso, essa riguarda il complesso di competenze dell'interlocutore, poiché fa appello alla «congruenza fra l'esibizione di virtù della persona interrogata e la sua virtù reale»6. La vergogna, in particolare, è un'emozione che svolge un ruolo decisivo per innescare un cambiamento interiore, alla quale Socrate ricorre anche più avanti nel dialogo, portando Alcibiade ad ammettere: «Per gli dèi, Socrate, quello che dico non lo so nemmeno io, e sto rischiando di trovarmi da un pezzo, e senza accorgermene, in una situazione molto, molto vergognosa» (Alc. I, 127d). A questa affermazione di Alcibiade Socrate risponde rincuorandolo: «Ma devi farti coraggio! Se ti fossi accorto a cinquant'anni di essere in questa situazione, allora sarebbe stato un problema per te metterti a pensare a te stesso. Adesso invece sei nell'età giusta per rendertene conto» (Alc. I, 127d-e). Con queste parole Socrate cerca di mostrare il positivo utilizzo della vergogna che il giovane sta provando: egli ha la possibilità di porre rimedio alla sua ignoranza, creando così le condizioni tali per cui non è più costretto a provare tale emozione.

Questi passi mostrano che la vergogna costituisce di fatto la molla emotiva che è in grado di portare l'individuo ad una conversione del proprio modo di vivere. Affinché sia efficace, deve riguardare i punti deboli dell'individuo, che nel caso di Alcibiade sono legati alla sete di onori e alla sua ambizione di fare carriera politica. Questi sono i desideri che, al momento presente, sono capaci di muovere Alcibiade all'azione, ed è quindi su di essi che è necessario far presa. Immaginando la propria vergogna nel caso in cui la sua competenza venga smentita durante l'assemblea, situazione che Alcibiade si figura come

6 Cfr. Maria Michela Sassi, Con Alcibiade: l'emergere del tema socratico della coscienza nel Simposio e

nell'Alcibiade primo, in Società, Natura, Storia: studi in onore di Lorenzo Calabi, a cura di Andrea

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sempre più plausibile via via che Socrate lo confuta, il giovane è spinto a guardare se stesso in modo critico, avviando quel processo che potrà poi convertirsi nella “cura di sé” volta a sviluppare la virtù. Siamo di fronte ad un tipo di vergogna legato tanto al “perdere la faccia” di fronte ad una comunità quanto al non soddisfare le aspettative del proprio amante. All'interno della relazione dialogica ma anche erotica tra Socrate e Alcibiade, eros e vergogna si intrecciano favorendo lo spostamento dello sguardo dell'individuo verso il proprio mondo interiore. Paul Woodruff distingue tre tipi di vergogna all'interno dei dialoghi platonici aggiungendo a questi due un terzo, che è quello solipsistico, dato dalla consapevolezza del soggetto di aver tradito valori esclusivamente suoi. Quest'ultimo non è eteronomo come i precedenti ed è a suo avviso l'unico ad avere un decisivo risvolto morale7. Riprenderemo più avanti questa tesi, cercandone un'eventuale conferma nell'analisi del rapporto tra vergogna e cura di sé.

4. Il rapporto educativo tra eros e paideia

Abbiamo visto che la confutazione socratica conduce Alcibiade a prendere consapevolezza della propria ignoranza. Per Socrate ci sono due tipi di ignoranza: quella che consiste nella consapevolezza di non sapere e quella che invece è propria di chi crede di sapere ciò che in realtà non sa. Di queste due la forma peggiore è la seconda, in quanto chi è consapevole di non sapere è consapevole anche del fatto che è per lui conveniente affidarsi ad altri più competenti di lui sulle questioni che non conosce. Socrate fa l'esempio del timoniere: «E se ti trovassi a navigare su una nave, forse esprimeresti le tue opinioni su come va manovrato

7 Cfr. M. M. Sassi, Socrate: persuasione ed emozione, prefazione a Presi per incantamento, di Gabriele Flamigni, Pisa, Edizioni ETS, 2017, p. XVIII.

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il timone, se in dentro o in fuori, e ti smarriresti perché non ne hai cognizioni, oppure saresti tranquillo nell'affidarti al timoniere?» (Alc. I, 117c-d). Alcibiade risponde che si affiderebbe al timoniere, e Socrate lo rincuora dicendogli che chi si comporta così non sbaglia, ovvero che qualcuno che si affida a chi è più sapiente di lui non cade in errore. Così aggiunge che se a sbagliare non sono «quelli che sanno, né quelli che, tra gli ignoranti, sanno di esserlo, non possono essere altri che quelli che non sanno ma pensano di sapere» (Alc. I, 118a).

Alcibiade fa parte di questi ultimi, quindi ha dentro di sé il peggior tipo di ignoranza, almeno fino al momento in cui non ne diviene consapevole. Socrate si esprime in maniera chiara nei suoi confronti:

Ahi, povero Alcibiade, che dolore! Io stento a chiamarlo per nome, ma dato che ci troviamo qui noi due soli, vale la pena di dirlo. Tu, amico carissimo, convivi con la più profonda ignoranza; è un'accusa, questa, che le tue stesse parole, tu stesso ti lanci. Perciò ti butti nella vita politica prima di esservi stato educato (Alc. I, 118b).

Questo passaggio segna il confine tra la cosiddetta pars destruens e quella che può essere definita pars construens: una volta abbattute le certezze di Alcibiade, Socrate ha creato terreno fertile per la fase paideutica, costruttiva, del dialogo. Il giovane è passato dalla forma di ignoranza inconsapevole a quella consapevole, e può così evitare non solo di compiere errori e danneggiare se stesso e i suoi concittadini, ma può dare inizio ad un percorso interiore che gli permetta di allontanarsi progressivamente sempre di più dalla sua condizione di ignoranza.

Avvilito nel suo orgoglio, Alcibiade si rassegna ad ascoltare e, forse, accettare quanto Socrate può dirgli a proposito del giusto e dell'utile, quegli argomenti su cui si era rivelato incompetente. Assumendo tale atteggiamento, tuttavia, egli dimostra di credere

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che sia possibile imparare tali questioni mediante il solo ascolto. Non è questo il metodo che Socrate intende utilizzare, consapevole che, affinché l'anima di Alcibiade vada incontro ad un cambiamento, è necessario che ogni verità, con le relative implicazioni sia logiche che morali, siano opera di Alcibiade stesso. Questo è ciò che sta alla base del modello socratico di educazione: essa non consiste nel riempire un recipiente vuoto, ma nell'aiutare l'allievo a portare alla luce conoscenze che possiede già dentro di sé. È opportuno rammentare qui le parole significative formulate a questo proposito nel Simposio, quando Agatone lo invita a stendersi di fianco a lui in modo da poter attingere alla sua sapienza anche solo toccandolo:

Sarebbe bello, Agatone, se la sapienza fosse qualcosa che può scorrere, al semplice contatto, dal più pieno al più vuoto di noi, come attraverso un filo di lana l'acqua scorre dalla tazza più colma a quella più vuota. Ma se anche la sapienza è cosiffatta, in tal caso è un vero onore per me stare sdraiato accanto a te: così, credo, mi colmerai di copiosa e splendida sapienza (Symp. 175d-e).

La conoscenza non può essere trasferita come si trasferisce l'acqua dal recipiente più pieno a quello più vuoto: ad opera dell'interrogare socratico, Alcibiade non è chiamato a trasformare la sua ignoranza in un pieno sapere per un semplice travaso di nozioni, così da rimanere nelle condizioni in cui si trova, ma a modificare se stesso. Questo è un punto fondamentale per il suo apprendimento, che deve provenire, appunto, dall'interno piuttosto che dall'esterno.

L'affermazione che l'ignoranza non è un “vuoto di contenuti” dell’anima e il sapere non è il riempimento di questo vuoto, ma sapere e ignoranza sono due stati dell’anima, va di pari passo con l’affermazione di Socrate che l’educazione avviene attraverso l'allenamento, come per un atleta (Alc.I, 119c): l'allenamento di un atleta non è volto solamente a renderlo più veloce e più forte, ma, insieme alle tecniche che acquisisce, lo

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porta a far proprio un modo di comportarsi quotidiano ben preciso. Non basta, infatti, che egli vinca una singola gara, poiché se vuole davvero essere il migliore deve adottare un certo stile di vita, vale a dire cambiare radicalmente il suo modo di vivere.

Socrate si rivolge ad Alcibiade dicendogli: «rispondimi dunque e se non sentirai te stesso dire che il giusto e l’utile sono la stessa cosa, non credere a nessun altro» (Alc. I, 114 e). In questo modo, quando più avanti durante il loro dialogo Alcibiade lo accusa di tenere tutto il discorso da solo, Socrate può fargli notare, senza il rischio di essere contraddetto, che lui è semplicemente il domandante, e che di fatto è Alcibiade quello che dà le risposte. Il giovane si rende così conto che le affermazioni a cui i due giungono di volta in volta sono frutto di riflessioni a cui anch'egli ha preso parte e su cui ha concordato.

Ad un certo punto del dialogo Socrate compie una mossa cruciale, nel momento in cui si pone sullo stesso piano di Alcibiade, sostenendo di essere anch'egli nelle condizioni di dover ricevere un'educazione. Gli dice: «Dobbiamo consigliarci insieme sul modo che ci consenta di diventare migliori il più possibile» (Alc. I, 124b-c). Si tratta di un atteggiamento che Socrate può assumere grazie al tipo di relazione erotica presente tra i due. Benché il Socrate di Platone sia una figura umana e non divina, un filosofo che, amante della saggezza quale è, la ricerca in quanto non ne è in pieno possesso, noi sappiamo che Alcibiade e Socrate non si trovano esattamente sullo stesso piano, e che Alcibiade ha ancora molta strada da percorrere prima di raggiungere il livello di saggezza posseduto da Socrate. Anthony Hooper ha visto in questo passo il tentativo di Socrate di instaurare con Alcibiade un tipo di relazione particolarmente funzionale per il miglioramento della sua anima, definendola “a doppio ruolo”8: in essa viene meno la

8 Cfr. Anthony Hooper, The Dual-Role Philosophers: An Exploration of a Failed Relationship, in Marguerite Johnson, Harold Tarrant, Alcibiades and the Socratic Lover-Educator, London, Bristol Classical Press, 2012, p. 107.

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classica asimmetria amante-amato e si instaura una certa “reciprocità erotica” in cui entrambe le parti si comportano come se fossero sia gli amanti che gli amati.

In questo tipo di relazione i due “amanti” costruiscono uno spazio sociale di condivisione in cui sono stimolati in direzione di un sempre più elevato modo di essere. Questa interpretazione ci mostra il legame presente tra eros e la cura di sé: all'interno della relazione amorosa è possibile favorire quelle condizioni tali che l'anima di chi è coinvolto si dispone a un miglioramento dell'anima.

5. Eros e cura di sé

Dopo che Socrate ha convinto Alcibiade della necessità per entrambi di migliorarsi, occorre capire come sia possibile nei fatti prendersi cura di se stessi. Gli domanda:

Allora cosa vuol dire “prendersi cura di se stessi”? Perché c’è rischio che a volte, senza accorgercene, non ci prendiamo cura di noi stessi, pur credendo di farlo. E quando è che un uomo lo fa? Quando si preoccupa delle proprie cose? È allora che si prende cura di se stesso? (Alc. I 127e-128a)

Il tentativo di rispondere a questi interrogativi occupa numerose pagine all'interno del dialogo, e parte dalla distinzione tra la cura di noi stessi e la cura di ciò che ci appartiene attraverso un paragone tecnico: quando ci prendiamo cura delle calzature, per esempio, non ci prendiamo cura dei piedi, ma di ciò che attiene ai piedi, mentre dei piedi ci prendiamo cura esclusivamente con la ginnastica. Socrate afferma chiaramente che «l'arte con cui ci si cura di noi stessi e quella con cui ci si cura delle proprie cose non coincidono» (Alc. I, 128d). Proseguendo su questa linea si giunge ad affermare la necessità di conoscere ciò di cui bisogna prenderci cura: Socrate sostiene che, così come senza conoscere le calzature

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non possiamo conoscere quale sia l'arte che le rende migliori, allo stesso modo senza sapere chi siamo noi stessi non possiamo conoscere l'arte che ci rende migliori (Alc. I, 128e). Il paragone tecnico viene ripreso per argomentare che se calzolaio e citaredo sono diversi dalle mani e dagli occhi di cui si servono per eseguire il loro lavoro, lo strumento è sempre diverso da colui che lo usa, né il citaredo né il calzolaio possono essere identificati con le parti del loro corpo. Ma se non possiamo identificare l'uomo con il suo corpo, occorre domandarsi: «Che cosa è mai l’uomo?» (Alc. I, 129e).

Alcibiade non sa rispondere a questa domanda, ma la riflessione fatta a proposito della differenza tra lo strumento e colui che se ne serve rende quasi obbligata la risposta: «è colui che si serve del proprio corpo [...] Esiste qualcos'altro che si serve del corpo se non l’anima?» (Alc. I, 129e-130a).

L'unica alternativa è che l'uomo sia l'insieme di corpo e anima, ma Socrate conclude che non può essere neanche tale l'unione, perché se una delle due parti non partecipa al governo del corpo, ed è evidente che il corpo non può comandare se stesso, l'insieme di tali parti non è in grado di essere al comando. La conseguenza di questa riflessione è che l'uomo non può che essere la sua anima.

Ricollegando questa importante conquista con il punto da cui i due erano partiti, Socrate conclude che colui che ci prescrive il “conosci te stesso” ci ordina di conoscere la nostra anima (Alc. I, 130e). Socrate si riferisce qui all'iscrizione gnōthi sautón presente sul tempio di Apollo a Delfi, di cui dice: «Sospetto cosa significhi e che cosa ci voglia effettivamente consigliare quella iscrizione, e te lo dirò. Probabilmente non si può trovare da nessuna parte un modello di ciò, tranne che, unicamente, nella vita» (Alc. I, 132d). Il motto delfico, originariamente concepito come esortazione a riconoscere i limiti della condizione umana di fronte al dio, viene rivisitato nell'Alcibiade I in chiave di invito alla

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conoscenza di sé.

La tesi che vede l'essenza dell'uomo nella sua anima ha come conseguenza che chi si occupa del proprio corpo ha cura di cose che lo riguardano, ma non di se stesso. A maggior ragione chi si cura dei soldi, ad esempio, si cura di qualcosa che è ancora più lontano da ciò che lo riguarda. Lo stesso discorso vale per l'amore: chi ama il corpo di Alcibiade non ama Alcibiade, ma qualcosa che gli appartiene: chi lo ama veramente è colui che è innamorato della sua anima. Sulla base di questo, Socrate fa notare ad Alcibiade come il proprio amore per lui sia l'unico vero e autentico amore che qualcuno abbia mai provato nei suoi confronti (Alc. I, 131 c-d). Gli altri suoi corteggiatori, infatti, se ne sono andati non appena la sua bellezza ha cominciato a sfiorire, mentre Socrate è rimasto, in quanto innamorato di ciò che veramente lui è, cioè della sua anima. In questo senso spiega ad Alcibiade che, se desidera continuare ad essere amato da lui, deve impegnarsi ad essere “il più bello possibile” (Alc. I, 131d) nella propria anima, perché è essa che costituisce l'oggetto del suo amore. È adesso, a suo avviso, che Alcibiade comincia a fiorire, proprio perché egli non si identifica con il suo corpo, che sta sfiorendo, ma con la sua anima, di cui ha appena ammesso di volersi prendere cura.

Vediamo emergere nuovamente il legame fondamentale tra eros e cura di sé: il sentimento erotico che per sua natura porta a compiacere la persona amata conduce, in una relazione basata sull'amore filosofico, a volgere l'attenzione alla propria anima, mossi dal desiderio di migliorarla il più possibile. Possiamo ricollegare questo invito di Socrate ad essere “il più bello possibile” nella propria anima con la riflessione sulla vergogna che abbiamo fatto precedentemente: esso fa pensare alla vergogna che l'individuo proverebbe nel caso in cui deludesse le aspettative dell'amante. Una testimonianza più chiara di come questo aspetto caratterizzi la relazione tra Socrate e Alcibiade emerge nelle battute finali

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del Simposio. Queste sono le parole che Alcibiade pronuncia in riferimento a Socrate:

E sono tuttora consapevole che, se solo volessi porgere l'orecchio, non resisterei ma subirei i medesimi effetti. In realtà mi costringe a riconoscere che, pur con tutte le manchevolezze che mi affliggono, continuo a trascurare me stesso per occuparmi degli affari degli Ateniesi. Perciò io mi costringo a turarmi le orecchie e fuggo via come dalle Sirene, per non restare seduto qui ed invecchiare accanto a lui. Soltanto al cospetto di quest'uomo ho sperimentato una sensazione che nessuno crederebbe che io possa provare: vergognarmi di fronte a qualcuno; e io provo vergogna solo di fronte a lui, appunto. Sono consapevole di non poter contestare il dovere di fare ciò che lui mi raccomanda, e d'altra parte di essere sopraffatto dagli onori che mi vengono dalle masse non appena mi allontano da lui. Così lo sfuggo, lo scanso, e quando lo vedo mi vergogno per ciò su cui ci eravamo accordati. E non di rado sarei contento di vederlo scomparire dalla terra; ma se così accadesse, so che ne soffrirei ancora di più. Così non so proprio che fare di quest'uomo (Symp. 216a-c).

Possiamo notare che Alcibiade è portato a guardarsi dentro e a riconoscere la necessità di prendersi cura di se stesso soprattutto a causa dell'effetto che suscita in lui la vicinanza di Socrate. Si tratta di un processo che avviene a partire dal livello dell'emotività, in cui eros fa da protagonista e la vergogna svolge la funzione decisiva nel favorire la svolta introspettiva. Nel caso di Alcibiade tale svolta non pare però aver aperto a quel processo di conoscenza di sé che, come vediamo nell'Alcibiade I, è indispensabile per convertire il proprio modo di vita: il giovane si allontana da Socrate proprio per evitare di avvertire questa esigenza interiore e continuare a godere degli onori delle masse. La vergogna provata da Alcibiade è presente solo ed esclusivamente quando si trova in vicinanza di Socrate, ma svanisce quando se ne allontana, proprio per la sua volontà di sfuggirle. Per riprendere la distinzione fatta da Woodruff a proposito dei tre tipi di vergogna, questo passo sembra confermare la sua tesi che solamente una vergogna interiorizzata, per così dire solipsistica, porta con sé un reale ed effettivo cambiamento a

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livello morale. Sarebbe proprio questa la mossa cruciale che Alcibiade si rifiuta di fare: non trasforma la consapevolezza acquisita grazie a Socrate in un reale ed effettivo lavoro su se stesso, non attuando quella cura di sé che dipende solamente da un suo atto di volontà. L'insuccesso del tentativo socratico di convertire Alcibiade alla filosofia, che ci viene rivelato nel Simposio, non è presente nell'Alcibiade I, in cui sembra che il giovane sia invece intenzionato a compiere questo passo decisivo. Sono le parole che Socrate pronuncia alla fine del dialogo che lasciano trasparire tutte le sue perplessità: «Il mio desiderio sarebbe che tu arrivassi fino in fondo: ma ho paura. Non che non abbia fiducia nella tua disposizione naturale; il fatto è che vedo la forza dello Stato, e temo che entrambi possiamo esserne sopraffatti» (Alc. I, 135e).

6. Alcibiade: una natura filosofica?9

È possibile individuare un interessante confronto tra la descrizione di Alcibiade e quella della “natura filosofica” delineata da Platone nella Repubblica. Socrate teme che le buone intenzioni di Alcibiade possano venire meno nel momento in cui entri in gioco la forza dello Stato. Platone riprenderà il tema dell'influenza dello Stato sulle anime dei cittadini all'interno della Repubblica, in cui cercherà di spiegare quale possa essere lo Stato ideale retto da filosofi, gli unici saggi e capaci di garantire la giustizia. Nel suo tentativo di teorizzare tale società ideale Platone spiega quali siano le caratteristiche psichiche degli individui naturalmente predisposti a diventare filosofi, in modo da riconoscerli e educarli nel modo più opportuno. Gli individui che possiedono tale natura vivono alimentati dalla

9 Questo paragrafo prende spunto da riflessioni presenti in C. Pacini, Alcibiade tra letteratura e storia (http://amsdottorato.unibo.it/2090/1/Pacini_Costanza_TESI.pdf, 10/02/2018), pp.146-147.

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ricerca della verità, hanno un carattere equilibrato, sono dotati di coraggio, magnanimità, prontezza nell’apprendere e buona memoria (Resp. 490c). Qualora tali nature “filosofiche” ricevano una buona educazione, possono facilmente conquistare la vera virtù. Tuttavia, vi sono molte ragioni per cui una natura del genere può corrompersi e trasformarsi, crescendo, in quella di un individuo peggiore addirittura di coloro che per natura sono mediocri. Socrate infatti spiega che «il male è opposto più al bene che a ciò che non è bene» (Resp. 491d), vale a dire che le anime più grandi sono capaci delle più grandi virtù come dei più grandi vizi. Per esempio, a causa della loro temperanza e magnanimità essi possono facilmente perdersi nel compiacere gli altri, oppure possono essere distratti da fattori come bellezza, ricchezza, o parentele potenti nello Stato, e altri simili.

Tutto questo può accadere se tali nature vengono educate in maniera errata, secondo i valori e gli esempi sbagliati. Un'anima dotata in una società corrotta è come un buon seme gettato in un suolo avverso, cresce storcendo la propria natura, perde le sue virtù e finisce per risultare peggiore delle nature mediocri. Una natura mediocre infatti non farà mai nulla di importante, mentre una natura rara come quella filosofica è capace di grandi beni come di grandi mali. L'anima per Platone ha una grande capacità assimilativa ed è per questo che egli attribuisce molta importanza alle circostanze e all'ambiente in cui essa si trova a crescere. Tali nature filosofiche diventano, infatti, facilmente vittime di cattivi educatori: può trattarsi di sofisti abituati a persuadere le folle con i loro discorsi, o di profittatori che tentano di sfruttare le doti eccezionali di tali individui in vista di interessi personali, facendoli inorgoglire ed allontanare dalla filosofia. Privati di una corretta educazione, essi diventano arroganti e finiscono per credere di poter dominare i vari popoli, rischiando facilmente di diventare tiranni: «E da codesti uomini si sviluppano sia coloro che causano i mali maggiori agli stati e ai privati, sia coloro che causano i maggiori beni, se la corrente

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così li trascina» (Resp. 495b).

Platone pensa che nessun insegnamento privato possa resistere all'influenza negativa della società, a meno che non si verifichi un intervento divino. Questa è la ragione per cui, nella Repubblica, il filosofo propone una riforma radicale della società stessa. Tale progetto è indubbiamente legato alla sfiducia nei confronti di quello stato che aveva condannato a morte Socrate, colui che per Platone (e anche per l'oracolo di Delfi) era “il più saggio di tutti”.

Platone si preoccupa di attribuire la responsabilità del fallimento educativo di Socrate nei confronti di Alcibiade interamente al giovane, al suo fuggire dalla “cura di se stesso” e al suo lasciarsi influenzare, appunto, dalla brama degli onori politici. Alla fine del dialogo, come emerge dal passo citato, Socrate sembra riconoscere la physis eccezionale di Alcibiade, perciò possiamo pensare che il filosofo abbia veramente individuato in Alcibiade una natura filosofica così come ci viene descritta nella Repubblica, cioè che abbia riscontrato la presenza di quelle qualità che, se correttamente educate, gli avrebbero permesso di diventare un uomo politico “illuminato”, in grado di essere veramente utile alla città. Questo spiegherebbe l'attaccamento e il così appassionato e speranzoso amore nei suoi confronti.

7. Eros e conoscenza di sé

Tornando all'Alcibiade I, questo dialogo si conferma in ogni caso il primo testo filosofico in cui si parla della conoscenza e cura di sé come essenza stessa dell'esistenza umana, e questa caratteristica ha favorito l'originale interpretazione di Michel Foucault in L'hermeneutique du sujet: egli vede nell'Alcibiade I il testo che inaugura filosoficamente la

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questione del soggetto. Ci troviamo per la prima volta nella storia della filosofia di fronte ad un testo che affronta il tema dell'oggettivazione dell'individuo nei confronti di se stesso: egli si vede come materia su cui agire e apportare miglioramenti10.

Abbiamo visto che secondo Socrate prendersi cura di sé è un processo che richiede prima di tutto la conoscenza di sé11. Per spiegare come questa conoscenza possa avvenire Socrate introduce la celebre analogia dello specchio: se l'uomo fosse un occhio, per vedere se stesso dovrebbe guardare in uno specchio o in qualcosa di simile; in particolare, dovrebbe guardare in un altro occhio, in quanto potrebbe vedere un suo riflesso nella pupilla, che ne è la parte migliore. Così come è possibile per un occhio rispecchiarsi in un altro occhio, la nostra anima può trovare in un'altra anima uno specchio che le permetta di vedere se stessa:

L’anima, se vuole arrivare a conoscere se stessa, deve guardare fisso in un’altra anima, e in particolare a quella parte di essa nella quale dimora la virtù dell’anima, cioè la saggezza, oppure deve guardare a qualcos'altro al quale questa parte dell'anima possa per caso rassomigliare [...] Possiamo dire che c'è una parte dell'anima più divina di quella nella quale dimorano le funzioni della conoscenza e del pensiero? […] questa parte dell’anima ha somiglianza col divino; chi fissa lo sguardo su di essa ha piena conoscenza del divino, intelletto e pensiero, e così potrà avere anche completa conoscenza di se stesso (Alc. I, 133b-c).

È in questo rispecchiarsi, nel riconoscimento di una dimensione comune di sapere e di virtù tra due anime, che avviene la conoscenza di sé. Questa, quindi, avviene per via indiretta tramite un oggetto che svolge il ruolo dello specchio, che non è altro che un'anima simile alla nostra, in particolare la parte migliore di quell'anima, che è quella in cui risiede

10 Cfr. Sassi, Indagine su Socrate, cit. p. 129. 11 Vedi supra, p. 21.

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la virtù. La virtù, cioè la saggezza, risiede per Socrate in quella parte dell'anima in cui dimorano le funzioni della conoscenza e del pensiero. Secondo queste parole il rapporto interpersonale, che implica il dialogo tra due anime, è un passaggio fondamentale che permette all'individuo di prendere consapevolezza del proprio sapere o non sapere.

Il fatto che la “conversione su di sé”, il portare lo sguardo verso la propria interiorità, avvenga attraverso la presenza di un'altra persona, in questo caso l'amante, potrebbe farci pensare che essa costituisca essenzialmente uno strumento funzionale all'avvio di tale processo. Questa riflessione ha portato Victoria Wohl ad offrire un'interpretazione narcisistica12 dell'eros presentato nell'Alcibiade I: secondo la studiosa, l'amante non vede la divinità dell'anima dell'altro, ma vede ed è invitato a vedere la propria divinità riflessa in essa. In altre parole, l'occhio che guarda la pupilla di un altro occhio per vedere se stesso, di fatto non vede l'occhio che sta guardando, e neanche la pupilla, ma se stesso. Allo stesso modo, un'anima che guarda in un'altra anima non vede l'altro, ma il riflesso di sé. Wohl insiste su questo aspetto narcisistico e conclude che l'altro diviene irrilevante, in quanto la sua autonomia e alterità sono funzionali al suo essere specchio: è come se l'altro scomparisse nello sguardo amorevole che il filosofo ha nei confronti di se stesso.

Se, per quanto riguarda la conoscenza di sé, tale interpretazione ci offre una prospettiva interessante, essa si concilia più difficilmente con le considerazioni svolte già sopra13 a proposito della cura di sé: i complessi aspetti del rapporto tra la relazione erotica e la cura di sé che emerge nell'Alcibiade I (si veda in particolare il coinvolgimento emotivo presente all'interno della relazione “a doppio ruolo”), rende difficile pensare all'altro come a qualcuno che diviene, anche se in un secondo momento, irrilevante. Basandoci

12 Cfr. Victoria Wohl, The Eye of the Beloved: Opsis and Eros in Socratic Pedagogy, in Marguerite Johnson, Harold Tarrant, Alcibiades and the Socratic Lover-Educator, London, Bristol Classical Press, 2012, p. 46.

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sull'interpretazione di Hooper siamo piuttosto portati a pensare che, oltre a creare il contesto per un possibile rispecchiamento dell'anima dell'amante in quella dell'amato, eros offra le condizioni per l'avvio di un comune percorso di crescita e di cura di sé, che riguarda allo stesso modo entrambi gli individui coinvolti e che, per progredire, si nutre della fecondità della relazione stessa. In questo senso, il processo di conoscenza e cura di sé non prevede la presenza dell'altro come un semplice punto di partenza, ma come elemento essenziale per un progredire comune e per il mantenimento dello stato emotivo ottimale per realizzare il cambiamento interiore.

Un altro aspetto da prendere in considerazione e che è stato oggetto di dibattito è quello del riferimento al divino presente nel passo citato: François Renaud, in un suo articolo, riduce la maggioranza delle interpretazioni che ne sono state date a due di segno opposto, una delle quali è “teocentrica” e l'altra “antropocentrica”.

L'interpretazione teocentrica, secondo la quale la conoscenza dell'anima è direttamente legata a dio, fa leva sia sul passo appena citato che su un altro successivo in cui Socrate dichiara che: «con lo sguardo fisso in dio, avremo in lui lo specchio più bello in cui si riflettono le cose umane che mirano alla virtù dell'anima, e così nel modo migliore potremo vedere e conoscere anche noi stessi» (Alc. I, 133c). Chi sostiene l'inautenticità dell'Alcibiade I ne vede una prova in questo passo, poiché l'idea di un dio che illumina l'anima sarebbe più neoplatonica che platonica, e in ogni caso non socratica14. Se il passo di 133c è in realtà ritenuto un'interpolazione anche da parte dei difensori dell'autenticità del dialogo, in quanto non presente nei manoscritti platonici15, nel contesto si ritrovano altri riferimenti al divino che permettono agli esponenti dell'interpretazione teocentrica di

14 Cfr. Renaud, op. cit. p. 231.

15 Cfr. Platone, Alcibiade primo Alcibiade secondo, introduzione di Graziano Arrighetti, traduzione e note di Donatella Puliga, Milano, BUR, 2015, p.151.

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sostenere che non solo la conoscenza dell'anima è legata a dio, ma coincide con quella di dio. A questo proposito Renaud precisa però che l'anima è detta “simile” al dio, non coincidente con esso: «Dio, o il dio, non è semplicemente il “divino in noi”, ma è altro e deve essere inteso come superiore a noi, dunque come trascendente»16.

L'altra interpretazione, quella antropocentrica, ponendo in secondo piano il riferimento al divino, sostiene invece la centralità della necessità del dialogo con gli altri come ciò che permette l'introspezione diretta e la coscienza immediata di se stessi. Sassi fa notare che:

Il richiamo al “divino” su cui fissare lo sguardo (anche in 134d) può fungere semplicemente da caratterizzazione di quella componente più nobile dell’anima umana che è la facoltà di pensiero [...] Quel che più conta è che nel complesso il discorso appare sostenuto da una concezione “umanistica” o “dialettica”: l’accento cade sull’interazione tra individui le cui capacità cognitive si rispecchiano reciprocamente, così da destare e alimentare pensieri creativi17.

Di fatto, l'interpretazione antropocentrica si sposa meglio con le caratteristiche del rapporto erotico che abbiamo visto emergere in questo dialogo, in cui l'eros socratico ha una natura tendenzialmente orizzontale: l'ampio coinvolgimento sia intellettuale che emotivo degli individui in questione favorisce il loro progresso morale attraverso un processo di introspezione che non chiama in causa in maniera determinante una dimensione ulteriore e trascendente. Eros svolge la sua funzione fondamentale creando le condizioni ottimali per un radicale cambiamento interiore, come abbiamo visto analizzandone il rapporto con la conoscenza e la cura di sé, muovendosi sul piano umano dell'emotività.

16 Renaud, op. cit. p. 232.

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Nel prossimo capitolo cercheremo di capire come questo e gli altri aspetti dell'eros socratico siano stati assorbiti e rielaborati da Platone, e lo faremo basandoci sui dialoghi del Fedro e del Simposio, nei quali emerge quella che è ritenuta la dottrina platonica dell'eros.

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2. IL SIMPOSIO:

DALLA CONOSCENZA DI SÉ ALLA CONOSCENZA DEL BELLO

1. Eros nei dialoghi platonici della maturità

Analizzando l'Alcibiade I abbiamo mostrato che l'eros socratico può essere visto come un mezzo che permette la conoscenza di se stessi, favorendo quel particolare tipo di relazione che invita gli individui ad assumere uno sguardo introspettivo. Tale conoscenza si lega naturalmente alla cura di sé, in quanto comporta la consapevolezza della necessità di migliorare le condizioni della propria anima. Nel Simposio e nel Fedro viene mantenuto il ruolo di eros, ma l'oggetto della conoscenza cambia, poiché questi due dialoghi presentano al loro interno elementi propri della ricca filosofia platonica, che rispetto a quella socratica è caratterizzata da riferimenti ontologici che gettano una luce diversa sia sul concetto di eros che su quello di conoscenza.

Nell'Alcibiade I ci viene detto che l'essenza dell'uomo è la sua anima, ma non ci è stato detto come questa anima sia strutturata e come si possa nei fatti prendersene cura. Tali aspetti vengono approfonditi in questi dialoghi, dove eros è fondato filosoficamente come via che il filosofo ha da percorrere per conquistare la sapienza. Eros diviene fondamentalmente “mediatore” tra due mondi, dotato della capacità di elevare l'anima dal mondo sensibile, dell'apparenza, a quello vero e reale delle Idee, dove si possono cogliere le verità che permettono al filosofo di vivere una vita basata sull'autenticità. Questa attenzione per il “modo di vivere” è un elemento che Platone riprende dal maestro: l'elevazione dell'anima che il filosofo è capace di realizzare attraverso la contemplazione

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delle Idee è ciò che gli permette di vivere una vita degna di essere vissuta, di vivere “bene”. La stessa forma della produzione letteraria di Platone, il dialogo, può essere vista in continuità con il dialogare che caratterizzava l'attività socratica, forse un modo per cercare di suscitare nel lettore l'effetto che Socrate aveva sui suoi interlocutori.

Vedremo che il processo di conoscenza di sé che in Socrate avveniva sul piano umano, in Platone diviene un percorso che porta l'individuo verso l'alto, verso una realtà trascendente, dimora della verità e delle realtà immutabili, la cui comprensione è fondamentale per il filosofo. La funzione decisiva che l'eros socratico svolgeva dal punto di vista della conoscenza di sé permane all'interno della filosofia platonica, in cui il raggiungimento del mondo delle Idee favorisce la riscoperta della propria vera natura, e quindi in questo senso conoscenza di se stessi e di ciò che si è realmente. Entrambi i percorsi filosofici hanno come scopo uno stato di comprensione che permette di vivere una vita degna di essere vissuta, poiché basata sulla verità.

Analizzando l'attività filosofica di Socrate, abbiamo sottolineato nel primo capitolo il ruolo decisivo delle emozioni nel processo di confutazione18. Abbiamo visto che il metodo d'indagine socratico non giunge di fatto ad una definizione stabile dei concetti che si propone di indagare, ma conduce ad un'aporia che trasforma l'indagine intellettuale in uno sguardo interiore e nel riconoscimento di una dimensione di sapere e virtù posseduta in comune con un altro individuo. Il valore positivo dell'elenchos socratico va rintracciato nella sua realizzazione sul piano etico e pratico19, nella cura di sé, nella purificazione dall'errore realizzabile attraverso la contraddizione e la vergogna rispetto alla propria insufficienza intellettuale. Lo scopo finale dell'attività filosofica di Socrate era condurre

18 Vedi supra, pp. 12-16.

19 Cfr. L. Candiotto, Nous e phren: conoscenza intellettuale, razionalità discorsiva e saggezza erotica in

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l'interlocutore a scoprire dentro di sé la saggezza. Tale saggezza (phronesis) socratica è tanto una forma di conoscenza quanto una pratica, un esercizio che si concretizza nella cura dell'anima. Questa svolta introspettiva favorita da eros e il suo legame con la cura attenuano l'intellettualismo etico socratico. Inoltre, l'elemento erotico che vi sottende costituisce un significativo dato di continuità tra saggezza socratica e dialettica platonica.

La novità di Platone risiede nell'invenzione dell'oggetto intellettuale che realizza a livello ontologico l'universale socratico e nell'attribuzione della centralità conoscitiva al nous, la facoltà razionale capace di cogliere tale realtà intelligibile. Inoltre, si fa strada una più complessa teoria dell'anima. Entrambe le filosofie prevedono una svolta conoscitiva: una la ottiene attraverso l'aporia, l'altra attraverso la noesis. Entrambe le filosofie prevedono una cura dell'anima: da un lato si prevede una svolta introspettiva volta a riscoprire la saggezza interiore, dall'altro si chiama in causa una realtà trascendente, sede della verità, che può essere colta elevando la propria anima verso l'alto.

L'eros socratico viene ripreso ed inserito da Platone nella propria filosofia con la funzione di impulso emotivo che dispone l'anima nelle condizioni di poter contemplare le Idee. Nell'individuo che compie l'ascesa, così come per l'individuo che scopre la propria dimensione interiore di verità e saggezza, il coinvolgimento emotivo favorito da eros costituisce il punto di partenza del percorso che conduce al miglioramento dell'anima.

2. Il Simposio

Il Simposio è uno dei due dialoghi erotici che Platone scrive nel periodo della maturità, intorno al 380 a.C., nel quale compaiono elementi peculiari della sua filosofia, che ne mostrano il distacco rispetto a quella socratica. L'elemento più importante, come

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abbiamo già accennato, è l'introduzione di un Bello ideale, più precisamente il riferimento alle Idee. Platone rivisita il concetto di eros alla luce della peculiare dimensione ontologica che caratterizza la sua filosofia: egli l'ha in mente quando presenta, nel Simposio, per la prima volta, la sua dottrina erotica. Questo dialogo è l'unico che ruota intorno ad eros come unico tema centrale, dato che il Fedro, l'altro principale dialogo erotico di Platone, intreccia ad esso altri temi, come la retorica e l'immortalità dell'anima, che, anche se collegati ad esso, vi assumono una loro autonomia tematica.

Dal punto di vista drammatico, tutti i personaggi si trovano riuniti attorno ad un banchetto a casa di uno dei protagonisti, il poeta Agatone, di cui viene così celebrata la vittoria nell'agone tragico in occasione delle feste Lenee. In particolare, Platone mette in scena la parte finale del banchetto, il “simposio” appunto, in cui i presenti erano soliti bere e discutere insieme su argomenti di vario genere, e in questo caso l'argomento scelto è eros.

La struttura compositiva del Simposio sembra agevolare il lettore nella comprensione della concezione platonica dell'eros, poiché presenta una prima parte in cui cinque personaggi, ognuno a rappresentazione di un diverso aspetto della cultura ateniese, espongono in stile encomiastico le loro teorie su eros, e una parte successiva in cui Socrate prende la parola e, riprendendo e smentendo le precedenti teorie, espone la sua “verità” sull'amore. Non abbiamo, quindi, un dialogo strutturato con brevi domande e risposte in tipico stile socratico, ma troviamo per lo più discorsi lunghi pronunciati dai diversi protagonisti. Ognuno dei discorsi che precedono quello socratico abitua il lettore alla riflessione sul tema dell'amore e anticipa spunti utili alla comprensione della teoria poi esposta da Socrate, che si fa in questo caso portavoce della dottrina erotica di Platone.

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sua riflessione autonoma, ma, come la riproposizione di un insegnamento ricevuto da una sacerdotessa, Diotima, che in un momento precedente si sarebbe preoccupata di istruire Socrate sulle questioni erotiche. Si tratta di una mossa che Platone compie probabilmente per attribuire una maggiore credibilità alla dottrina presentata, dato che una sacerdotessa è una figura la cui sapienza viene direttamente ricondotta a qualcosa di divino, più alto e perfetto.

3. Eros platonico e tradizione

Come abbiamo detto, la teoria erotica di Platone si pone sulla scia del pensiero socratico. Tuttavia, Platone vede l'eros presente nella relazione d'amore tra due individui come un aspetto particolare di un più generale eros, che egli definisce come desiderio di possedere il bene e possederlo per sempre (Symp. 206a). Come abbiamo anticipato, prima di far esporre la sua visione erotica per bocca di Socrate, Platone fa presentare cinque discorsi di elogio nei confronti di eros da esponenti dei vari campi del sapere contemporaneo. Passiamo velocemente in rassegna gli aspetti di tali discorsi che sono in qualche modo connessi con la nostra indagine sul collegamento tra eros e conoscenza.

Nel primo discorso, quello di Fedro (Symp. 178a-180b), che riporta la voce della morale tradizionale, vediamo che prima di tutto amore è un dio, e ritroviamo quegli elementi caratteristici delle relazioni pederastiche diffuse ad Atene a cui abbiamo fatto riferimento nel primo capitolo20 per contestualizzare la figura di Socrate come amante-filosofo:

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Ciò che deve servire da guida per tutta l'esistenza agli uomini che intendono vivere degnamente, né la parentela è in grado di installarlo né gli onori né la ricchezza né altra cosa alcuna se non l’amore. E cosa intendo con questo? Vergogna di fronte a ciò che è brutto, aspirazione alle cose belle, senza le quali né città né individuo possono compiere imprese nobili e grandi. Affermo anzi che un uomo innamorato, se fosse colto a commettere un’azione riprovevole oppure subirla senza reagire per mancanza di coraggio, non si cruccerebbe di essere visto da suo padre o dai suoi amici o da chiunque altro quanto dal suo amato. E possiamo notare che lo stesso vale per l’amato, che sente vergogna soprattutto di fronte all’amante, se lo si scopre immischiato in qualcosa di brutto. Così se si potesse fare in modo che una città o un esercito fossero esclusivamente composti di amanti e di amati, si realizzerebbe il miglior governo possibile in quanto essi si asterrebbero da qualsiasi azione riprovevole e gareggerebbero in reciproca emulazione; e combattendo gli uni accanto agli altri, anche in pochi avrebbero la meglio, oserei dire, su tutta l'umanità (Symp. 178c-179a).

Nelle parole di Fedro viene sottolineata la capacità di eros di aiutare gli uomini a vivere in maniera onorevole, attraverso il particolare rapporto di educazione e guida che si instaura tra amante e amato. Il nucleo del suo discorso è costituito dalle conseguenze etiche, ovvero dagli effetti buoni e utili che eros produce su coloro che sono coinvolti nella relazione amorosa. La consapevolezza di essere sotto lo sguardo del proprio amante, da un lato ispira azioni coraggiose e onorevoli, dall'altro porta entrambi i membri del rapporto ad astenersi dal compiere azioni che li potrebbero far vergognare. Nella società greca, ciò che conta è la visibilità dell'azione, che viene ritenuta virtuosa in base a parametri di giudizio condivisi dalla comunità.

Le parole che Fedro pronuncia a proposito della funzione fondamentale della vergogna ci riportano alle riflessioni che abbiamo fatto nel primo capitolo a proposito del ruolo di tale emozione nella confutazione socratica, e mostrano che all'interno della tradizione greca vi era una certa consapevolezza del forte legame presente tra eros e

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