spunto di Aristofane, affermando che «Amore è in primo luogo amore di qualcosa, e in secondo luogo amore di ciò di cui si ha mancanza» (Symp. 200e). Quando proviamo un desiderio, infatti, proviamo necessariamente desiderio di qualcosa, e questo qualcosa, per essere desiderato, dev'essere un oggetto che ancora non possediamo. L'unico modo in cui possiamo desiderare qualcosa che già possediamo è il desiderio di continuare a possedere quel medesimo oggetto nel tempo, cioè possederlo per sempre, e vedremo tra poco che Socrate rifletterà sulla questione per cui questo “per sempre” si sposa male con la natura mortale dell'essere umano.
Con un breve “botta e risposta” Agatone e Socrate hanno quindi concordato che eros è desiderio di qualcosa che non si possiede, e sulla base di questo Socrate può subito dimostrare ad Agatone che eros non è né buono né bello (Symp. 201c), come invece lui aveva sostenuto, perché non potrebbe altrimenti essere né desiderio di possedere il bene, né desiderio nei confronti della bellezza. Agatone non riesce a controbattere a queste affermazioni di Socrate, e, dopo essere stato così confutato lascia la parola a Socrate, che a sua volta introduce la figura di Diotima, la sacerdotessa che lo avrebbe iniziato alle questioni d'amore, ricordando che gli argomenti che ha utilizzato per confutare Agatone sono gli stessi che la sacerdotessa ha utilizzato un tempo nei suoi confronti, dopo che Socrate stesso aveva pronunciato a proposito di eros un discorso più o meno simile a quello di Agatone. Diotima è una sacerdotessa di Mantinea la cui esistenza è molto probabilmente fittizia, una figura nata dalla penna di Platone per rivestire il ruolo di un'autorità superiore come portavoce della propria teoria. Essendo una profetessa, infatti, è possibile attribuirle un tipo di saggezza divina. È dalla conversazione avuta con Diotima riportata da Socrate, che emerge la teoria platonica dell'amore.
bello. Tuttavia, la sacerdotessa corregge Socrate quando replica che eros sarebbe allora brutto e cattivo, rivelandogli che si tratta di una figura intermedia. Egli non è un dio, come il filosofo pensava, ma un demone, un essere dotato di una natura sia umana che divina (Symp. 202e). Questa natura demonica gli permette di situarsi in una posizione intermedia tra uomini e dei, con la particolare funzione
di interprete e di messaggero degli uomini agli dei e dagli dei agli uomini: trasmette le preghiere e i sacrifici degli uni, e da parte degli altri i comandi e la restituzione di favori per i sacrifici ricevuti; e poiché sta nel mezzo fra dei e uomini, colma lo spazio intermedio in modo che l'insieme resti saldamente connesso in tutte le sue parti. Nella sfera del demonico si svolge tutta la pratica divinatoria e l'arte dei sacerdoti in relazione ai sacrifici e alle iniziazioni e agli incantesimi e a ogni genere di profezie e di magia. Gli dei non hanno contatti con gli uomini, ma attraverso il demonico si realizza ogni rapporto e ogni colloquio degli dei con gli uomini, desti o addormentati. […] Di questi dèmoni ce ne sono molti e svariati, e Amore è uno di essi (Symp. 202e-203a).
La funzione di intermediario di eros emergerà più specificamente più avanti, quando verranno delineate le tappe dell'ascesa che può condurre il filosofo dal mondo terreno a quello ideale: eros è proprio ciò che favorisce via via il progredire dell'iniziato in questo percorso. Inoltre, eros è metaforicamente accostato proprio alla figura del filosofo: anch'egli si trova in una situazione intermedia tra la sapienza e l'ignoranza, sempre desideroso di saggezza, il cui pieno possesso è però qualcosa di riservato esclusivamente agli dei. In questo senso il filosofo si trova in una continua tensione verso il raggiungimento di una condizione sempre più perfetta, che, tuttavia, non può raggiungere.
Per spiegare ancora meglio la natura di eros, Platone ricorre ad una narrazione mitica della sua discendenza: egli venne concepito durante il banchetto organizzato per festeggiare la nascita di Afrodite grazie all'unione tra Poro, il cui nome sta per “espediente” o “ingegno”, e Penia, che indica “povertà”. Tale unione è avvenuta per
volontà di Penia, che, vedendo Poro addormentato sul prato, ubriaco per aver bevuto troppo nettare, ne approfittò per distendersi accanto a lui e concepire eros. Il fatto che eros sia stato concepito il giorno della nascita di Afrodite spiega perché sia ritenuto un suo seguace, e la bellezza di Afrodite è considerata ciò che rende eros “amante del bello”. Vediamo anche che eros eredita dai genitori delle precise caratteristiche:
Perciò, in quanto figlio di Poro e Penia, Amore si trova in questa condizione: in primo luogo è sempre povero e tutt'altro che tenero e bello, come invece ritengono i più, anzi è aspro, incolto, sempre scalzo e senza casa, e si sdraia sulla terra nuda, dormendo all'aperto davanti alle porte e per le strade secondo la natura di sua madre, e sempre accompagnato dall'indigenza, invece per parte di padre insidia i belli e i virtuosi, in quanto è coraggioso e ardito e veemente, e cacciatore astuto, sempre pronto a tessere intrighi, avido di sapienza, ricco di risorse, e per tutta la vita innamorato del sapere, mago ingegnoso e incantatore e sofista; e non è nato né immortale né mortale […] non è mai né povero né ricco, e d'altra parte sta in mezzo fra la sapienza e l'ignoranza (Symp. 203c-e).
Vediamo così che da Poro eros ottiene l'intelligenza e da Penia uno stato connaturato di mancanza: una mancanza che abbiamo visto essere all'origine del desiderio erotico sia per Aristofane che per Socrate.
La tesi di Aristofane, oltre ad essere ripresa, è però anche confutata:
E c'è chi dice che coloro che amano vanno in cerca della metà di se stessi; ma io dico che l'amore non è amore né della parte né dell'intero, nel caso che, amico mio, non sia effettivamente un bene, dato che gli uomini si lasciano tagliare volentieri e piedi e mani, se si avvedono che le loro membra sono mal ridotte. Non ciò che gli è proprio, credo, ognuno ama, a meno che uno non definisca il bene come “proprio” e “personale”, e il male come “estraneo”. In realtà gli uomini non amano che il bene (Symp. 205d-206a).
Identificare eros come desiderio di completezza non esaurisce il modo in cui gli individui amano, non è qualcosa di universale: capita che si decida di rinunciare a parti del
proprio corpo perché malate e dannose per noi, andando contro il desiderio di interezza, di completezza. In un'acuta analisi di questo passo Fussi sottolinea che queste considerazioni rimandano alla distinzione tra il desiderare qualcosa sulla base del piacere che si pensa di trarne o del dolore da cui ci si crede di poter liberare, e il volere qualcosa perché lo riteniamo un bene29. Si tratta di una distinzione strettamente legata alla tripartizione dell'anima che peraltro nel Simposio non viene ancora teorizzata in maniera chiara e completa. Piuttosto va fatto riferimento ad un passo del Gorgia in cui si sostiene che la maggior parte della gente, di fronte alla scelta tra un medico che propone cure dolorose ma benefiche e un cuoco che propone cibi appetitosi ma dannosi, non sarebbe pronta a scegliere la prima alternativa. Questo mostra un conflitto tra una parte dell'anima, l'epithymia (che ci occuperemo più avanti di descrivere nel dettaglio), che ritiene essere un bene qualunque oggetto si trova a desiderare, e il logistikon, la parte razionale, che invece è in grado di discernere che cosa sia realmente bene e perseguirlo. Riguardo alla maggior parte degli uomini Aristofane probabilmente non aveva del tutto torto a definire eros come desiderio di completezza, ma l'argomentazione di Socrate mostra che la sua definizione non copre tutti i casi di eros30.
Per Platone, il ricongiungimento con ciò che ci manca avviene con la conquista della verità, con la contemplazione delle Idee, che, una volta raggiunta, consente di agire secondo virtù e saggezza. L. A. Kosman ha approfondito questo aspetto, sottolineando che possiamo vedere “ciò di cui si è carenti” come la nostra vera natura, il nostro vero sé. Dalla riflessione dello studioso emerge che la spinta erotica che caratterizza gli esseri umani non è altro che il desiderio che ogni cosa diventi ciò che è: “il mio sé è quel che sono, ma che
29 Cfr. A. Fussi, Tempo, desiderio, generazione. Diotima e Aristofane nel Simposio di Platone, in Rivista di
storia della Filosofia, 2008, p.14.
allo stesso tempo non sono, è ciò che aspiro a diventare”31. Kosman fa notare che il nostro non essere il nostro vero sé è causato dalla caduta nel mondo, dalla separazione tra realtà e apparenza, tra mondo delle Idee e mondo delle manifestazioni sensibili. Seguendo questo ragionamento siamo invitati a riconoscere eros come quella spinta divina che ci volge in direzione della nostra vera natura che, a causa della nostra costituzione umana, ci è in qualche modo lontana, non ci appartiene più pienamente. Inoltre, noi cerchiamo di ottenere ciò di cui siamo carenti, tanto quanto invitiamo l'altro a fare lo stesso: eros è ciò con cui vediamo l'altro non solo per come è, ma per ciò che può essere, e lo invitiamo a prendersi cura di sé.
Questa interpretazione richiama alla mente il passo dell'Alcibiade I in cui Socrate spiega ad Alcibiade che, se desidera che egli lo ami e resti al suo fianco, occorre che si occupi di sé e che sia il più bello possibile nella sua anima32. Abbiamo visto l'importanza, a questo scopo, della volontà di Socrate di intraprendere un percorso di crescita insieme ad Alcibiade. Possiamo vedere l'esortazione a “prendersi cura della propria anima” come un invito a recuperare la dimensione più autentica della propria anima. Molto probabilmente Platone ha accolto nella sua filosofia questo aspetto di collegamento dell'eros con la verità, identificando la funzione più propria dell'amore proprio nella mediazione tra mondo sensibile e mondo ideale, in cui la contemplazione di quest'ultimo non sarebbe altro che il conoscere o, come potremmo dire alla luce della teoria della anamnesi presente nel Fedro di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo, un “riconoscere” quella dimensione corrispondente alla vera natura della nostra anima e di ciò che siamo.
31 Cfr. L. A. Kosman, Platonic Love, in W. H. Werkmeister (ed.) Facets of Plato's philosophy, Van Gorcum, Assen/Amsterdam, 1976, p. 60.