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Si ritiene che nella palinodia di Socrate sia racchiusa l'autentica dottrina dell'amore di Platone nel Fedro, che è presentata in contrasto con ciò che si è affermato nei discorsi precedenti. Viene mantenuta la tesi per cui eros è una forma di follia, ma si precisa che è una forma di mania divina, una follia che colpisce chi si innamora per volontà degli dei stessi. Nei discorsi che sono stati pronunciati fino a questo momento l'accostamento di eros ad una sorta di follia era considerato un aspetto negativo, un elemento in grado di privare l'innamorato della padronanza di sé, fondamentale per mettere al primo posto il bene dell'altro, ma Socrate precisa:

Non è vero il discorso che invita a concedere le proprie grazie a chi non ama quando è presente chi ama, perché quest'ultimo sarebbe folle, mentre l'altro è assennato. Certo, sarebbe detto bene, se la follia fosse un male soltanto. Ma i beni più grandi ci vengono dalla follia, dalla follia che ci è elargita per dono divino (Fedro, 244a).

Il primo passo che fa Socrate, quindi, è mostrare che esistono forme di follia di cui la stessa tradizione riconosce il valore positivo. Vi è la mania profetica, la mantica, con cui la profetessa di Delfi, le sacerdotesse dell'oracolo di Dodona e gli indovini in generale emettono, mentre sono divinamente posseduti, (Fedro, 244b-c) responsi a cui il mondo greco attribuisce una eccezionale autorità. Vi è poi l'oionistica, la follia iniziatico-rituale, purificatrice, capace di guarire con preghiere e riti sacri, forme dannose di follia stessa (Fedro, 244d-e). Infine, l'ultimo tipo di follia positiva che Socrate rammenta è la mania poetica, ispirata dalle Muse: i poeti della tradizione orale legittimano la loro grandezza in nome della follia che impadronendosi di loro permette di ricevere ispirazione direttamente dagli dei (Fedro, 245a).

Come queste forme di mania sono un dono prezioso, in quanto offrono all'uomo la possibilità di attingere alla sfera del divino, allo stesso modo anche eros può essere una forma di follia positiva. A sostegno di questa tesi viene introdotta una questione fondamentale già centrale nell'Alcibiade I, quella della natura dell'uomo. Nel Fedro, come nell'Alcibiade I, Socrate afferma la priorità della conoscenza di se stessi: quando Fedro, prima di leggere il discorso di Lisia, aveva cercato di affrontare una discussione riguardo ad un mito legato al bellissimo luogo in cui i due si trovano a passeggiare, il filosofo gli aveva risposto:

io di tempo per queste cose non ne ho, e la causa, mio caro, è questa. Non sono neppure capace di conoscere me stesso, come prescrive l'iscrizione di Delfi: ignorando questo, mi sembra allora

ridicolo indagare cose che mi sono estranee. Perciò le lascio da parte, credendo a quello che di esse si tramanda; e intanto, come dicevo, indago non loro ma me stesso (Fedro, 229e-230a).

Prima di procedere con il suo secondo discorso su eros, quindi, Socrate si esprime a proposito della natura dell'anima. Nell'Alcibiade I è stato detto che l'essenza dell'uomo è la sua anima, ma non sono state specificate né le sue caratteristiche, né in che modo essa stia in relazione al corpo.

La tradizione omerica aveva elaborato il concetto di anima come soffio vitale che anima il corpo e sopravvive alla morte dell'individuo. L'immortalità dell'anima è sostenuta anche dal pensiero pitagorico e da quello orfico, accomunati dalla credenza che essa debba reincarnarsi più volte, al fine di espiare una qualche colpa originaria e recuperare la sua purezza divina. Sassi fa notare che è da questa visione orfico-pitagorica che deriva la nozione dell'anima come soggetto intellettuale e morale, pensata come la parte più nobile dell'individuo. Il pensiero di Socrate è indubbiamente influenzato da questa concezione, ma si distacca dal contesto religioso di origine per fondarsi su «un piano che potremmo definire “laico”, sul quale il valore dell'anima, intesa essenzialmente come ragione, si misura all'interno della prassi morale a prescindere da ogni promessa di immortalità e salvezza»64. È per l'appunto Platone a riprendere invece l'aspetto metafisico del pensiero sull'anima, sostenendo sia nel Fedone che nel Fedro che sia possibile conoscere la verità attraverso la reminiscenza, ovvero il ricordo della contemplazione delle Idee, risalente ad un momento di esistenza che precede l'incarnazione.

Nel Fedro, che qui più c'interessa, viene affrontato il tema dell'incarnazione dell'anima nel corpo, unitamente alla questione della sua immortalità. A questo proposito avremo modo di prendere in considerazione la dottrina dell'anima presentata nella

Repubblica, ma per quanto concerne il Fedro, Platone affronta, in un primo momento, la questione dell'immortalità dell'anima in termini logico-argomentativi, sostenendo che, poiché l'anima è ciò che muove se stessa (una tesi assunta come vera, piuttosto che dimostrata) ne segue che non può perire: ciò che muove se stesso può farlo solo in quanto non ottiene il principio del movimento da qualcosa di esterno a sé, ma lo contiene già al suo interno. Dunque, poiché tale principio del movimento non è generato da altro e non si può per sua natura arrestare, ne segue che l'anima, che è ciò che sempre muove se stessa, è immortale (Fedro 245 c-d).

Rilevante al nostro proposito è lo sviluppo, che segue, dell'immagine della “biga alata”, il racconto con cui Platone descrive ciò a cui somiglia l'anima umana e offre la possibilità di capire con facilità la sua natura e le parti che la compongono. La pariglia alata, infatti, è costituita da un lato dall'auriga, che si trova alla guida del carro, e che simboleggia la ragione, e dall'altro dai due cavalli che trainano la biga, uno bianco e uno nero, di cui solamente il primo è di buona razza. Essi rappresentano le altre due parti che sono presenti nell'anima insieme alla ragione, rispettivamente quella irascibile o animosa, e quella passionale. Come vedremo nel dettaglio più avanti, il cavallo bianco obbedisce più facilmente alla ragione, mentre quello nero è più difficile da domare.

Socrate afferma che c'è una condizione originaria in cui l'anima, composta così come abbiamo visto, è dotata di ali grazie alle quali «ascende alle altezze del cielo e governa l'intero cosmo» (Fedro, 246c), muovendosi insieme agli dei. In questo stato disincarnato è possibile per l'anima contemplare le realtà immutabili, le Idee, quelle stesse entità alla cui comprensione era finalizzata la scala amoris del Simposio. Qui nel Fedro Socrate parla delle Idee definendole «l'essere che veramente è tale, privo di colore, privo di forma, che non si può toccare, che solo il pilota dell'anima, l'intelletto, può contemplare, e che è

l'oggetto proprio del genere della vera conoscenza» (Fedro 247c-d). L'anima ha la possibilità di trovarsi in questo «luogo al di sopra dell'universo» (Fedro 247c) solamente nel suo stato disincarnato. L'incarnazione, infatti, avviene una volta “perdute le ali” a causa della lotta con le altre anime nel tentativo di salire più in alto e nutrirsi il più possibile della verità.

È all'ala in particolare che è destinato il nutrimento presente nel “prato” della “pianura della verità” (Fedro, 248b). Socrate afferma che l'ala è la parte dell'anima che partecipa al divino più delle altre (Fedro, 246d), e che, anche una volta perduta, può ricrescere se si trova ad essere opportunamente nutrita. La crescita dell'ala è favorita da tutto ciò che, presso la realtà terrena, possiede qualità affini al divino: ciò che è bello, buono, sapiente, e così via.

A proposito degli dei, insieme ai quali l'anima umana disincarnata compie il suo percorso celeste contemplando la verità, Socrate spiega che la loro anima si differenzia da quella degli uomini poiché possiede entrambi i cavalli di buona razza. (Nel caso della caduta delle anime umane sulla terra, il cavallo nero, che non è di buona razza, trascina la biga verso il basso). Perciò, durante la vita ultraterrena l'anima umana cerca di «seguire il dio e farsi simile a lui» (Fedro, 248a), ovvero cerca di contemplare il più possibile le Idee. Riguardo all'attività degli dei presso il regno sovraceleste, Socrate offre una chiara descrizione:

E allora la ragione divina, che si nutre di intelligenza e conoscenza pura, e ogni anima a cui sta a cuore ricevere ciò che le è proprio, per tutto il tempo che guarda l'essere lo ama e contemplando la verità trova il suo nutrimento e la sua gioia, fino a quando la rivoluzione circolare non lo riconduce allo stesso punto. Durante la rivoluzione v e d e la Giustizia, vede la Temperanza, vede la Conoscenza, non quella soggetta al divenire e neppure quella che è diversa in ciascuno dei diversi oggetti che noi chiamiamo enti, ma la conoscenza che è vera conoscenza della vera realtà (Fedro,

247d).

Vediamo che gli dei contemplano le Idee “per tutto il tempo” e non lottano tra loro per conquistare la possibilità di vedere più a lungo la verità, come fanno invece le anime umane. In questo passo torna di nuovo la metafora del nutrimento, che abbiamo visto essere stata utilizzata anche nei discorsi che hanno preceduto la palinodia socratica e che, come abbiamo visto, lascia emergere il contrasto tra il nutrimento come assimilazione che emergeva nel primo discorso socratico e quello che viene descritto qui: ci si può nutrire della verità senza che essa venga consumata, senza toglierla ad altri, quindi senza che ci sia bisogno di intraprendere una lotta per accaparrarsene un po'. Si tratta di una consapevolezza che gli uomini, a differenza degli dei, non possiedono, e, per questa ragione, si trovano a lottare tra loro e cadere nel mondo terreno. Vi sono però delle anime che prima di incarnarsi sono riuscite a contemplare la verità più di altre, e un'anima del genere attecchisce «nel seme di un uomo che diventerà amante della sapienza, amante del bello, devoto alle Muse e vero amante» (Fedro, 248d). Si accosta qui per la prima volta il filosofo al “vero amante”. C'è uno stretto legame tra il tempo che l'anima ha potuto impiegare nella contemplazione delle Idee e il modo in cui l'individuo si relaziona con eros, ovvero il modo in cui ama la persona oggetto del suo amore.

È per questo che la trattazione di temi come l'immortalità dell'anima e il mondo delle Idee va intesa come una digressione propedeutica a una piena comprensione dell'eros: per comprendere l'esperienza amorosa dobbiamo comprendere chi siamo veramente, e questo non è possibile se non mettiamo la nostra dimensione terrena in relazione con quella metafisica.