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COMPLICANZE ENDOCRINOLOGICHE NEL FOLLOW UP A LUNGO TERMINE DEI PAZIENTI SOTTOPOSTI A TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI EMATOPOIETICHE IN ETÀ PEDIATRICA

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Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia Direttore Prof. Gaetano Pierpaolo Privitera

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Facoltà di Medicina e Chirurgia

CORSO DI LAUREA IN MEDICINA E CHIRURGIA

COMPLICANZE ENDOCRINOLOGICHE TARDIVE

NEL FOLLOW UP A LUNGO TERMINE DEI PAZIENTI

SOTTOPOSTI A TRAPIANTO DI CELLULE

STAMINALI EMATOPOIETICHE IN ETÀ PEDIATRICA

CANDIDATA

Francesca Paoletti

RELATORE

Dott.ssa Sayla Bernasconi

CORRELATORE

Dott. Silvano Bertelloni

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INDICE

INTRODUZIONE ... 1

1 - IL TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI EMATOPOIETICHE ... 5

1.1 - CENNI STORICI E QUADRO ATTUALE ... 6

1.2 - LE CELLULE STAMINALI ... 12

1.3 - I TIPI DI TRAPIANTO ... 16

1.4 - IL TRAPIANTO E L’ATTECHIMENTO ... 19

1.5 - IL CONCETTO CHIMERA ... 21

1.6 - IL SISTEMA HLA E LE COMPLICAZIONI IMMUNOLOGICHE ... 22

1.7 – IL DECORSO POST-TRAPIANTO E LE COMPLICANZE ... 25

1.8 - IL TRAPIANTO NELL’ETÀ PEDIATRICA ... 31

2 - IL CONDIZIONAMENTO PRE-TRAPIANTO ... 35

2.1 - PROGRESSI E CAMBIAMENTI NEL REGIME DI CONDIZIONAMENTO ... 36

2.2 - FARMACI CHEMIOTERAPICI ... 42

2.3 - TOTAL BODY IRRADIATION (T.B.I.) ... 44

COMPLICANZE DELLA TBI ... 49

3 - COMPLICANZE ENDOCRINE A LUNGO TERMINE IN SEGUITO ALLE RADIO-CHEMIOTERAPIE E AL TCSE ... 53

3.1- ANOMALIE NELLA CRESCITA E RIDUZIONE NELLA SECREZIONE DEL GH ... 58

FISIOPATOLOGIA ... 59

RUOLO DELLA RADIOTERAPIA ... 61

RUOLO DELLA CHEMIOTERAPIA ... 64

RUOLO DEL TCSE E DEL REGIME DI CONDIZIOMENTO ... 64

ALTRI DISTURBI ENDOCRINI CHE INTERFERISCONO CON LA CRESCITA .... 67

FOLLOW UP E TERAPIA ORMONALE SOSTITUTIVA ... 67

3.2 - DIFUNZIONE GONADICA E INFERTILITA’ ... 70

FISIOPATOLOGIA ... 71

PUBERTÀ PRECOCE CENTRALE ... 74

IPOGONADISMO IPOGONADOTROPO ... 75

IPOGONADISMO IPERGONADOTROPO PER INSUFFICIENZA TESTICOLARE 76 IPOGONADISMO IPERGONADOTROPO PER INSUFFICIENZA OVARICA ... 79

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FOLLOW UP E TERAPIA ORMONALE SOSTITUTIVA ... 81

IPERPROLATTINEMIA ... 82

DANNO RADIO-INDOTTO NELLO SVILUPPO DEL SENO IN FASE PREPUBERALE ... 82

3.3 - ALTERAZIONI FUNZIONALI E STRUTTURALI DELLA TIROIDE ... 83

ANOMALIE NELLA FUNZIONALITÀ TIROIDEA ... 85

NODULI TIROIDEI E CANCRO DELLA TIROIDE ... 88

3.4 - DANNO SURRENALICO e DEFICIT DI CORTICOTRPINE... 90

3.5 - ALTRI DISTURBI ENDOCRINI ... 92

DENSITÀ OSSEA E RISCHIO OSTEOPOROSI ... 92

SOVRAPPESO, OBESITÀ e DISORDINI DELL’ OMEOSTASI GLUCIDICA ... 95

SINDROME METABOLICA ... 96

5- L’ESPERIENZA DEL CENTRO ... 98

5.1 - OBIETTIVO DELLA TESI ... 98

5.2 - PAZIENTI ... 99

5.3 - METODI ... 104

5.4 – RISULTATI ... 106

VALUTAZIONE AUXOLOGICA NEL SOTTOGRUPPO A ... 106

VALUTAZIONE DELLA FUNZIONALITÀ GONADICA ... 113

VALUTAZIONE DELLA FUNZIONALITÀ TIROIDEA ... 115

COMPLICANZE NON ENDOCRINE ... 122

6 – CONCLUSIONI ... 124

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INTRODUZIONE

Poche sono le terapie che hanno inciso così profondamente sulla storia naturale di molte patologie così come è stato per il trapianto di cellule staminali ematopoietiche (TCSE). Nel corso della sua evoluzione, infatti, il trapianto ha apportato due cambiamenti importanti: ha sensibilmente modificato le prospettive di sopravvivenza di pazienti affetti da malattie candidate, in molti casi, ad un esito inevitabilmente infausto, ad esempio le leucemie acute e croniche e le aplasie midollari, e ha sostanzialmente migliorato la qualità di vita di pazienti con patologie le quali, pur non essendo gravate da una prognosi sfavorevole nel breve termine, sono causa di gravi morbilità per il paziente, come ad esempio l’anemia a cellule falciformi e la talassemia major1.

Si può dunque considerare il trapianto di cellule staminali ematopoietiche come una vera rivoluzione terapeutica tutt’oggi in continua evoluzione grazie alle continue ed innovative scoperte scientifiche nei vari campi di applicazione della medicina, le quali trovano il loro maggior sviluppo e impiego nel campo della pediatria. È proprio l’età pediatrica che offre lo scenario più ampio nell’impiego del trapianto di cellule staminali ematopoietiche.

Affianco alle indicazioni trapiantologiche largamente consolidate nella pratica clinica riguardanti le emopatie maligne, sono molte le patologie genetiche che, in età pediatrica, possono beneficiare del trapianto. Esso può essere proposto sia nell’ottica di una terapia salvavita, come avviene ad esempio per l’anemia aplastica costituzionale di Fanconi, sia in prospettiva di un miglioramento della qualità di vita del bambino, ad esempio del bambino talassemico.

Nel corso degli ultimi 40 anni, i progressi scientifici nell’esecuzione del trapianto, con un ampliamento nel tipo di donatori e di sorgenti delle cellule staminali, e i costanti miglioramenti riguardo le terapie di supporto e i regimi di condizionamento hanno permesso di ampliare l’offerta del trattamento trapiantologico a un numero sempre crescente di soggetti. Parallelamente all’incremento nel numero di trapianti di CSE effettuati, che cresce di anno in anno, gli stessi progressi terapeutici si sono evoluti nel ridurre la mortalità legata direttamente o indirettamente al trapianto, garantendo così una crescente aspettativa di vita nel paziente che deve sottoporsi a questo tipo di terapia.

In particolare sono i regimi di condizionamento meno tossici, che precedono il trapianto, e le migliori terapie di supporto, offerte ai pazienti nell'immediato periodo che segue il trapianto,

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che hanno portato oggi a tassi di sopravvivenza che superano il 70% per coloro che sopravvivono i primi 2 anni dopo il TCSE2.

Tuttavia, se da una parte i protocolli onco-ematologici sono stati continuamente modificati al fine di massimizzare la sopravvivenza dell’individuo che necessita di tali terapie, dall’altra parte, però, è necessario sapere che la guarigione stessa ha un costo.

L’elevato tasso di sopravvivenza dei bambini e adolescenti che raggiungono l’età adulta dopo essere stati sottoposti a TCSE in età pediatrica è affiancato da un altrettanto elevato rischio d’insorgenza di significativi eventi avversi tardivi correlati ai trattamenti medici cui sono stati sottoposti. Risulta così essenziale un’attenta valutazione nei benefici derivanti dall’aumento del tasso di guarigione e una conoscenza delle conseguenze mediche delle terapie che vanno a inficiare sullo stato di salute del soggetto.

Una volta che il paziente supera le fasi critiche post trapianto, più fortemente correlate ad un rischio di mortalità, si può considerare ‘guarito’ rispetto alla patologia di base che ha richiesto il trapianto di CSE. Tuttacia, la cura o il pieno controllo della patologia non si accompagnano necessariamente alla piena salute dell’individuo. Le terapie radio-chemioterapiche cui è stato sottoposto il soggetto possono aver inciso più o meno profondamente sul suo organismo. I pazienti in seguito a TCSE vanno così a costituire un particolare gruppo di pazienti in cui è estremamente frequente l’insorgenza di complicanze tardive che si possono sviluppare a distanza di mesi o anni dal trapianto.

L’interesse nei confronti questo tipo di complicanze è cresciuto negli ultimi decenni dal momento che i successi onco-ematologici e il conseguente incremento della sopravvivenza dei bambini sottoposti al TCSE hanno permesso la creazione di una particolare categoria di pazienti che necessita di specifiche attenzioni.

È dimostrato che le persone guarite a seguito di un trapianto di cellule staminali ematopoietiche hanno un rischio particolarmente elevato di complicanze tardive avverse, con più del 90% delle persone che soffrono di almeno una patologia cronica e più del 70% che ne presentano almeno tre3. È stata stimata un’incidenza del 59% per le condizioni di salute croniche nei sopravvissuti a 10 anni dal trapianto; mentre, per le condizioni di salute gravi o potenzialmente mortali o la morte a causa della complicanza cronica, l'incidenza a 10 anni dal trapianto è circa del 35%. Nei pazienti che, in seguito al trapianto, sviluppano

graft-versus-host disease cronica (cGVHD), la probabilità di sviluppare complicanze gravi è 5 volte

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Molti farmaci citotossici sono notoriamente associati a specifici eventi avversi tardivi e la radioterapia può causare danni ad organi o tessuti coinvolti nel campo d’irradiazione.

Sono però i pazienti sottoposti a irradiazione corporea totale (TBI) ad avere il maggiore rischio di tossicità tardiva e l’associazione con dosaggi elevati di chemioterapia costituisce un ulteriore fattore di rischio. Tuttavia, non sono trascurabili nemmeno i danni addizionali e le potenziali sinergie negative derivanti da numerosi altri fattori, quali i trattamenti cui è stato sottoposto il paziente prima del trapianto, lo sviluppo di complicazioni dopo il trapianto e la somministrazione di farmaci per la terapia di supporto, in particolare quelli necessari in caso di GvHD cronica.

Lo spettro delle sequele tardive è molto ampio e comprende una tossicità estesa a molti organi, come ad esempio a cuore e polmoni, e un aumento del rischio di morte precoce. Include, inoltre, la compromissione della crescita, la possibilità di sviluppare deficit endocrini e infertilità, l’eventualità d’insorgenza di seconde neoplasie maligne4 .

Tra le patologie che possono con più frequenza svilupparsi, un ampio capitolo è occupato dalle complicanze endocrinologiche a lungo termine a seguito del TCSE. Tali complicanze risultano particolarmente importanti in ambito pediatrico, dove possono andare a inficiare in maniera significativa sulla crescita e sullo sviluppo sia fisico che psicologico dei bambini. Le complicanze endocrine includono le disfunzioni dell’ipotalamo, dell’ipofisi, della tiroide e delle gonadi, le malattie delle ossa e i disordini del metabolismo.

Il rischio relativo nello sviluppo di questi eventi avversi è condizionato dalla condizione patologica sottostante e dai trattamenti precedenti al TCSE utilizzati nei confronti della patologia, dal sesso e dall’età del paziente al momento del trattamento, dal dosaggio cumulativo e dallo schema dei trattamenti radio-chemioterapici utilizzati nel regime preparatorio al TCSE. La radioterapia e la chemioterapia cui viene sottoposto il bambino aumentano notevolmente il rischio di complicazioni endocrine; in particolare un ruolo principe nell’insorgenza delle anomalie endocrine è svolto dalla irradiazione corporea totale (TBI), dai farmaci radiomimetici (busulfano), e dagli agenti alchilanti.

Sono innumerevoli gli studi che si sono susseguiti nel tempo nel descrivere il tipo di disfunzione a carico del sistema endocrino, le anomalie nell’accrescimento e alterazioni che possono avvenire nello sviluppo puberale del bambino; tali quadri patologici potranno inoltre andare a costituire ulteriori problematiche una volta che il bambino avrà raggiunto l’età adulta.

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Ad oggi, infatti, obiettivo primario del TCSE non è solamente garantire una prospettiva di vita al paziente, obiettivo ormai consolidato, ma offrire le migliori condizioni di sopravvivenza del paziente attraverso l’impiego sempre più ampio di trattamenti non mieloablativi e un’attenzione crescente verso il monitoraggio e la prevenzione delle complicanze che possono insorgere in seguito al trapianto e correlato ad esso. È proprio nella valutazione e nel trattamento delle complicanze che possono insorgere nei pazienti trattati con trapianto di cellule staminali ematopoietiche che si inserisce il ruolo del follow up a lungo termine, costruito ad personam per rispecchiare le reali necessità di ogni singolo paziente. Di fronte alla continua crescita della popolazione di coloro che sono guariti e che raggiungono l’età adulta dopo essere stati esposti al TCSE in età pediatrica, è fondamentale che il sistema sanitario sia sempre più consapevole dei problemi che possono concernere questo particolare gruppo di pazienti. L’obiettivo è assicurare che ogni persona sottoposta a TCSE in età pediatrica possa ricevere un’assistenza a lungo termine ottimale e personalizzata.

La presente tesi si propone di analizzare le complicanze a lungo termine in ambito endocrinologico che possono essere sviluppate dai pazienti sottoposti a TCSE in età pediatrica. I dati sono ottenuti prendono in esame la casistica di pazienti pediatrici sottoposti a TCSE dal 2004 al 2014 con particolari criteri di eleggibilità e al successivo follow up endocrinologico presso il reparto di Oncoematologia pediatrica dell’Università degli Studi di Pisa.

Di questa classe di pazienti sarà osservata la crescita staturo-ponderale, la funzionalità tiroidea e gonadica sulla base dei più ampi studi riportati in letteratura. In particolari i risultati saranno valutati in relazione alle terapie effettuate nel regime di condizionamento precedente al TCSE, con un confronto tra le complicanze sviluppatesi in seguito a regimi di condizionamento comprendenti o meno la TBI. Particolare attenzione verrà data al ruolo della TBI nell’esito della procedura trapiantologica e al contempo ne sarà evidenziato il potenziale tossico sull’organismo in crescita del paziente in età pediatrica. Centrale risulta il ruolo del follow up nel monitorare la crescita e lo sviluppo del bambino e nell’individuare precocemente l’insorgenza di anomalie e disfunzioni endocrine, ma non solo, che possono svilupparsi negli anni che fanno seguito al trapianto in tutti i pazienti a lungo sopravviventi al TCSE.

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1 - IL TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI

EMATOPOIETICHE

Con il termine trapianto di cellule staminali ematopoietiche (TCSE) si identifica la procedura medica che consiste nell’infusione, per via sistemica, di cellule ematopoietiche progenitrici, prelevate da un donatore compatibile o dal paziente stesso.

Come per ogni altro tipo di trapianto, anche il TCSE viene effettuato con lo scopo di sostituire un organo malato; tuttavia, in questo caso, non si tratta di un singolo organo, ma di un tessuto che ha la caratteristica di essere distribuito in tutte le ossa, sedi di midollo ematopoietico. Per tale motivo i termini trapianto di cellule staminali emopoietiche (TCSE) e trapianto di midollo osseo (TMO) risultano equivalenti. Obiettivo del trapianto di cellule staminali è sconfiggere la malattia di base del ricevente, rendendone possibile la guarigione. Il trasferimento delle cellule staminali dal donatore al ricevente ha lo scopo di fornire, al soggetto che le riceve, una popolazione di cellule staminali sane con la capacità di differenziarsi nelle cellule ematiche, così da poter sostituire i progenitori del sangue e gli elementi cellulari deficitari e/o patologici dell'ospite. In questo modo, il midollo osseo del paziente viene totalmente sostituito con quello del donatore e, con esso, vi è la possibilità di ristabilire una corretta emato e/o linfopoiesi. La funzione delle cellule staminali ematopoietiche, nell’ambito della procedura trapiantologica, è dunque quella di commissionare il sistema immunitario dell’individuo. La sostituzione del midollo osseo del paziente, evidentemente danneggiato, con un midollo osseo sano è resa possibile dalla somministrazione di trattamento chemioterapico antiblastico o radio-chemioterapico a dosi sovramassimali e con effetto mieloablativo, prima dell’infusione delle CSE. Tale fase di preparazione viene chiamata “regime di condizionamento” ed è al termine di questa che può avvenire l’infusione delle cellule staminali emopoietiche del donatore al soggetto ricevente.

Le cellule staminali vengono infuse nel ricevente attraverso una vena periferica e, attraverso la circolazione sanguigna, hanno poi la capacità di raggiungere gli spazi midollari dove andranno a dar vita nuovamente al midollo osseo durante il processo definito “homing”.

In base al tipo di donatore e alla sorgente delle cellule staminali ematopoietiche da trapiantare nel ricevente, possono essere distinti diversi tipi di trapianto. Le cellule staminali possono essere ottenute sia dal midollo osseo che da altre fonti, quali il sangue periferico e il cordone ombelicale. Il donatore può essere familiare o non consanguineo, nel caso del trapianto allogenico, oppure può essere il paziente stesso, nel caso del trapianto autologo.

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1.1 - CENNI STORICI E QUADRO ATTUALE

Risale al 1891 il primo tentativo di impiego di midollo osseo nel trattamento di una patologia ematologica, quando Brown-Sequard somministrò midollo rosso per via orale a un paziente affetto da leucemia acuta. Successivamente furono segnalati altri sporadici tentativi, che si devono considerare più che pionieristici, fino al 1939, anno in cui venne eseguita la prima infusione endovenosa di midollo osseo. In quello stesso anno fu, infatti, pubblicato su Annals

of Internal Medicine il caso di un paziente affetto da aplasia midollare trattato con infusione

endovenosa di midollo ottenuto dal fratello5.

Tuttavia sono stati gli studi di Jacobson e coll.6 nel 1951 ad aprire l’epoca della moderna trapiantologia: questi prima osservarono che l’aplasia midollare nei topi irradiati poteva essere reversibile schermando la milza; poi dimostrarono che i topi potevano guarire da un’irradiazione mortale se le aree emopoietiche del loro femore venivano schermate. In seguito si osservò che topi, in cui erano state somministrate dosi potenzialmente letali di radiazioni, risultavano protetti da un’infusione di midollo; e nel 1952 Lorenz e coll.7 dimostrarono che la guarigione era dovuta alle cellule contenute nel midollo trapiantato. In seguito a questi primi tentativi di trapianto di midollo osseo, i problemi più gravi che i clinici si trovarono ad affrontare furono quelli immunologici del rigetto e della reazione del trapianto contro l’ospite, descritta per la prima volta nell’uomo da Mathè e coll.8. Per questo motivo, fino alla fine degli anni ’60, furono effettuate poche decine di trapianti di midollo, con risultati scoraggianti in termini di sopravvivenza; le cause erano principalmente dovute al mancato attecchimento dell’emopoiesi del donatore, alla malattia del trapianto contro l’ospite (GvHD - Graft-versus-Host Disease) data dall’aggressione delle cellule T linfocitarie del donatore verso i tessuti del ricevente riconosciuti come non-self, e alla recidiva della leucemia9. Una parte fondamentale del lavoro sullo sviluppo del trapianto di midollo osseo fu poi svolta da Donall Thomas, premio Nobel per la Medicina nel 1990, che utilizzò il cane come modello sperimentale per sviluppare schemi efficaci di irradiazione “total body” e introdusse il metotrexato come mezzo per prevenire la GVHD10.

I progressi tecnici e la caratterizzazione del sistema di istocompatibilità (HLA) hanno definitivamente aperto la strada a una nuova era trapiantologica che, sulla base delle nuove conoscenze scientifiche, ha permesso la realizzazione del primo trapianto di midollo osseo in un paziente affetto dalla sindrome di Wiskott-Aldrich, esperienza pubblicata da Bach e coll.11 nel 1968.

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Nel corso dei quarant’anni che sono trascorsi dai primi trapianti di cellule staminali ematopoietiche, grazie a moltissime scoperte innovative nei diversi campi della medicina, la tecnica trapiantologica è progressivamente migliorata assumendo i connotati di una vera e propria rivoluzione terapeutica che deve ancora portare a termine tutto il suo percorso. Ancora oggi, i maggiori successi e le più ampie indicazioni per questo tipo di trapianto rimangono elettivamente di pertinenza pediatrica1.

Per molti anni, l’applicabilità del trapianto di cellule staminali ematopoietiche è stata largamente condizionata dalla disponibilità di un donatore familiare; l’unico donatore di cellule staminali impiegato era un fratello o una sorella HLA-compatibile.

Nelle ultime due decadi, tuttavia, gli straordinari risultati clinici ottenuti negli anni grazie al trapianto hanno dato impulso alla ricerca di tecniche innovative che consentono di offrire questa possibilità terapeutica anche a quei pazienti che non hanno a disposizione, nella fratria o al di fuori di essa, un donatore HLA-compatibile.

Per coloro che non potevano disporre di un donatore familiare, sono dunque stati largamente impiegati donatori adulti da registro, utilizzando sia midollo osseo che cellule staminali ematopoietiche da sangue periferico.

L’impiego di unità di sangue cordonale come fonte di cellule staminali ha permesso di migliorare ulteriormente la risposta alle esigenze trapiantologiche.

Più recentemente, inoltre, il trapianto da un donatore familiare parzialmente compatibile è diventato una possibile alternativa; ciò è stato reso possibile grazie all’implementazione di nuove strategie di manipolazione del trapianto e all’osservazione che l’infusione di ciclofosfamide nei giorni immediatamente successivi al trapianto aiuta a prevenire l’insorgenza delle complicanze immuno-mediate correlate all’allotrapianto.

Negli ultimi anni, si è assistito allo sviluppo di strategie di immunoterapia adottiva, basate sull’infusione di linfociti T patogeno-specifici, così come sull’infusione di linfociti T trasdotti con recettori chimerici in grado di riconoscere specificamente particolari antigeni tumore-associati. Questo tipo di linfociti anti-tumore rappresentano oggi una sorta di rivoluzione nell’allotrapianto, in particolare nel trattamento di quei pazienti affetti da tumori non responsivi a terapie citostatiche convenzionali9.

Il trapianto allogenico rappresenta ormai una procedura terapeutica consolidata nel trattamento di numerose emopatie sistemiche, sia neoplastiche che non neoplastiche, in pazienti di età <60 anni.

Tuttavia, la possibilità di reperire un donatore HLA-compatibile nell’ambito familiare è circa il 30%, e tale probabilità può essere estesa anche ad un ulteriore 10% dei casi se vengono

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inclusi i donatori familiari incompatibili per un solo locus. Per il 70% circa dei pazienti, eleggibili per un trapianto di cellule staminali allogeniche, rimarrebbe pertanto preclusa la possibilità di usufruire di tale procedura terapeutica5.

A partire dai primi anni ‘70, l’istituzione di Registri di Midollo Osseo per il trattamento di quei pazienti che non avevano a disposizione un donatore HLA-compatibile all’interno del nucleo familiare, ha reso possibile l’accesso alla procedura trapiantologica ad un numero sempre crescente di soggetti attraverso l’impiego di donatori non consanguinei.

La disponibilità di donatori volontari di cellule staminali da midollo osseo reperibili nell’ambito dei Registri Internazionali dei donatori di midollo (Bone Marrow Donor

Worldwide) ha permesso di rispondere alla richiesta di un ulteriore 40% dei pazienti5.

Oggi, i Registri, collegati tra loro in rete, annoverano oltre 20.000.000 di potenziali donatori, cui vanno sommate le oltre 600.000 unità di sangue cordonale in tutto il mondo adeguatamente caratterizzate, in termini immunogenetici e di contenuto cellulare, e criopreservate9. Tuttavia, il tempo per la ricerca di un donatore volontario nei registri è mediamente di circa 4-6 mesi, spesso troppo lungo per le esigenze cliniche del paziente. Agli inizi degli anni ‘90, periodo in cui si è sviluppata la ricerca e il trapianto da donatori non consanguinei, questo tipo di procedura trapiantologica era gravata da un alto rischio di mortalità trapianto-correlata, dovuta principalmente dall’aumentata incidenza e dalla severità delle complicanze immunologiche del trapianto stesso e dal ritardo nella ricostruzione immunologica in seguito al trapianto12. Nel tempo si è assistito a un netto miglioramento nei risultati ottenuti nel trapianto di cellule staminali ematopoietiche da donatore non consanguineo, i quali sono ad oggi del tutto comparabili con il trapianto effettuato da donatore familiare HLA-compatibile13. Tale miglioramento è stato reso possibile grazie ad una più accurata selezione del donatore e al passaggio dalle tecniche sierologiche di tipizzazione HLA a quelle allelico-molecolari in grado di ottenere una precisa caratterizzazione immunogenica per i loci HLA di classe I e II.

Nonostante l’ulteriore possibilità di impiegare nel trapianto le cellule staminali ematopoietiche di donatori non consanguinei, esiste comunque una quota di pazienti per i quali non è possibile identificare un donatore HLA-compatibile. Per questi pazienti la possibilità è quella di impiegare nel trapianto donatori familiari HLA-parzialemmente compatibili (trapianto aploidentico)14; in tale tipo di TCSE si rende però necessaria la procedura di deplezione linfocitaria del trapianto al fine di scongiurare lo sviluppo di quadri gravi di malattia del trpianto contro l’ospite (GvHD), quasi sempre fatali. La rimozione dei linfociti T del donatore viene a compromettere la componente mediata dall’immunità adottiva

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dell’effetto immunologico del trapianto. Tuttavia, la selezione di donatori con potenziale alloreattività per le cellule Natural Killer rispetto ai target leucemici del ricevente, può, almeno in parte, compensare la perdita dell’effetto GvL mediato dai T-linfociti14,15.

Dopo i primi tre casi di successo di trapianto allogenico di cellule ematopoietiche nel 1968, più di 800.000 pazienti hanno ricevuto un trapianto allogenico o autologo e oggi la pratica trapiantologica è impiegata in tutto il mondo per più di 60.000 pazienti ogni anno16.

Rispetto ai primi anni ’70 dello scorso secolo, la mortalità durante i primi 100 giorni dopo il trapianto è diminuita grazie ai cambiamenti nei criteri di selezione, ai regimi di condizionamento pre-trapianto meno tossici e ai miglioramenti nella prevenzione e nella gestione della GvHD e delle infezioni16.

In seguito al trapianto, la maggior parte dei casi morte si verifica entro i 2 anni dalla procedura, come risultato della ripresa di malattia, della GvHD acuta o cronica, delle infezioni o di altre cause legate alla tossicità acuta o subacuta del trapianto stesso17; la ripresa di malattia rimane la causa predominante di mortalità nei primi 1-2 anni dopo il trapianto18. Tuttavia, grazie ai progressi nelle tecniche di trapianto e nelle terapia di supporto, nel corso degli ultimi quattro decenni è notevolmente migliorata la sopravvivenza a lungo termine dei pazienti sottoposti a trapianto autologo o allogenico di cellule staminali ematopoietiche, incrementando il numero dei sopravvissuti al TCSE.

Nella Tabella 1 sono raccolti i dati di ampi studi svolti recentemente, i quali vanno a indagare i tassi di sopravvivenza a lungo termine in seguito al trapianto di cellule staminali ematopoietiche.

Nel 1999, l’analisi degli studi basati sui dati del CIBMTR (Center for International Blood &

MarrowTransplanr research) avevano stimato una sopravvivenza media del 89% a 5 anni

dopo il trapianto. La ripresa della leucemia era la prima causa di morte per i pazienti trapiantati per tale patologia di base; invece, nei pazienti affetti da SSA e trattati con il trapianto, la mortalità avveniva, nella stragrande maggioranza dei casi, in seguito alla GvHD cronica. Studi più recenti hanno invece stimato il tasso di sopravvivenza a 10 e 20 anni in seguito al trapianto.

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Tabella 1 Dati sopravvivenza a lungo termine nei pazienti trattati con TCSE 18.

Gli studi di Wingard e coll.17 hanno dimostrato una probabilità di sopravvivenza a 10 anni dopo il TCSE pari a: 84% per LMA; 84% per LLA; 80% per MDS; 84% per il linfoma e il 92% per SAA (Figura 1).

Figura 1 Percentuali di sopravvivenza nei diversi gruppi di pazienti esposti a TCSE e da almeno due anni fuori

terapia, suddivisi sulla base della patologia di base. I pazienti sono stati trattati con trapianto allogenico e regimi

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Per i pazienti sottoposti a trapianto per tumori maligni, l'incidenza di recidiva a 10 anni è del 10% per LMA, 9% per LLA, 10% per MDS, 6% per il linfoma; mentre la mortalità non correlata alla ripresa di malattia è tra il 9% e il 12%.

La ripresa di malattia rimane la causa più comune di morte tra i pazienti con una patologia maligna (41% di tutte le morti); la GvHD cronica, l'infezione, le tossicità d’organo e i secondi tumori sono le altre frequenti cause di morte nei pazienti trattati con TCSE in seguito ad neoplasia maligna. Nei pazienti sottoposti a trapianto per SAA, le più frequenti cause di morte rimangono ancora la GvHD, le infezioni, le tossicità d'organo e i secondi tumori17.

Gli studi di Martin e coll. hanno invece valutato la sopravvivenza a 20 anni dopo il trapianto di cellule staminali ematopoietiche ed è risultata in media dell’80,4%.

Il tasso di mortalità previsto per almeno 30 anni dopo il trapianto, nei pazienti trapiantati è rimasto tra le quattro e le nove volte superiore rispetto alla popolazione generale, ottenendo una stima della speranza di vita inferiore del 30% rispetto a quella della popolazione generale, indipendentemente dall'età corrente. Le principali cause dell’aumento della mortalità sono attribuite ai secondi tumori e alla ripresa di malattia, seguite dalle infezioni, dalla

graft-versus-host cronica malattia e dalle cardio-respiratorie16.

Dunque, dopo 5 anni dal TCSE, i pazienti sopravvissuti che non hanno presentato ripresa di malattia hanno un'alta probabilità di sopravvivenza, tuttavia l'aspettativa di vita dei pazienti trapiantati non torna comunque ad essere la stessa della popolazione generale.

I sopravvissuti al trapianto di cellule staminali sono una categoria di pazienti in costante aumento e, rispetto alla popolazione generale ha un rischio aumentato di sviluppare una serie di complicanze che possono causare notevole morbilità e mortalità, compromettendo così la loro qualità della vita. Le complicanze tardive che si sviluppano in coloro che sono stati esposti al trapianto di cellule staminali ematopoietiche hanno suscitato notevole interesse negli ultimi decenni e sono tutt’oggi argomento di molti studi.

Il crescente numero di questa classe pazienti richiede una sorveglianza continua riguardo le complicanze tardive che posso sviluppare anche dopo molti anni dal TCSE. Gli studi sono volti da una parte nel valutare i vari fattori pre-, peri- e post-trapianto che possono inficiare a lungo termine sulla salute del paziente; mentre dall’altra l’attenzione verte sullo screening, sulla diagnosi precoce e sul trattamento tempestivo delle complicanze tardive, come tumori secondari, infezioni tardive e tossicità d'organo.

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1.2 - LE CELLULE STAMINALI

Le cellule staminali sono le “cellule madri” dell’organismo, ossia cellule indifferenziate che hanno la peculiarità di proliferare e nello stesso tempo di differenziarsi nelle cellule specializzate dei diversi organi e tessuti. Le cellule specializzate sono deputate ad adempiere una funzione specifica; al contrario, le cellule staminali rimangono indifferenziate fin quando non interviene un segnale tale da indurle a svilupparsi in cellule con una ben definita funzione. Inoltre, la cellula staminale non è presente solo a livello midollare o nel sangue periferico di un individuo, ma è rappresentata in numerosi altri tessuti; da essa derivano, infatti, i macrofagi degli alveoli polmonari, le cellule del Kupffer del fegato, gli osteoclasti, le cellule del Langherans della cute, le cellule microgliari del cervello e, come dimostrato del tutto recentemente, anche le cellule muscolari striate5.

Quando si esegue un trapianto allogenico in un ricevente sottoposto a regime ablativo, le cellule staminali trapiantate danno origine a tutte le discendenze emopoietiche, inclusa la linea dei monociti come precursori dei macrofagi tissutali che si trovano a livello polmonare, cutaneo o epatico. Di fatto quindi il trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche può essere considerato un trapianto sistemico5.

In tutte le malattie del midollo osseo, siano esse di natura neoplastica (ad esempio le leucemie acute e croniche, il mieloma, le mielodisplasie), non neoplastica (come l’aplasia midollare) o congenita (per esempio la talassemia e l’anemia di Fanconi), il difetto di base, ossia la noxa patogena, colpisce sempre la cellula staminale emopoietica (CSE). Tale cellula ha due importantissime proprietà: da un lato deve maturare nel microambiente midollare e dare origine alle tre linee cellulari normali (globuli rossi, globuli bianchi e piastrine) e, dall’altro, deve rigenerare se stessa, mantenendo così il sistema sempre attivo.

La cellula staminale emopoietica, all’interno del midollo osseo, è una cellula non ancora differenziata, pluripotente, capostipite di tutti gli elementi fondamentali del sangue: globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. Si tratta di un tipo di cellula in grado di proliferare mantenendo intatta la potenzialità di replicarsi: è capace infatti di riprodurre se stessa, e contemporaneamente, produrre cellule figlie che, attraverso successivi processi di differenziazione e maturazione, daranno origine agli elementi maturi. Queste cellule staminali sono contenute in prevalenza nell’interno del midollo osseo, ma possono essere presenti anche nel sangue periferico, quando viene effettuata una opportuna stimolazione farmacologica, e nel sangue del cordone ombelicale.

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Le cellule staminali ematopoietiche possono essere prelevate dal midollo osseo, localizzato nella parte interna delle ossa. Il prelievo, detto anche espianto di midollo, viene effettuato attraverso aspirazioni midollari multiple dalle creste iliache posteriori in anestesia generale o epidurale. La procedura è identica a quella effettuata durante un semplice aspirato midollare con la differenza che la quantità di sangue midollare prelevato, con molte punture, è superiore (circa 3-5 ml per ogni aspirazione). La quantità totale di sangue midollare che vieni prelevata a fini trapiantologici è pari a circa 10-15 ml/kg di peso corporeo del ricevente, sempre nel rispetto del peso corporeo del donatore.

Per anni, l’unica sorgente di cellule staminali ematopoietiche impiegata è stata il midollo osseo. È stato poi dimostrato che le cellule staminali ematopoietiche possono essere mobilizzate nel sangue periferico; ciò ha trovato un largo impiego nel trapianto autologo. Negli ultimi anni, infatti, la maggior parte dei TCSE autologhi è stata realizzata mediate l’utilizzo di CSE dal sangue periferico, dopo che è stata effettuata un opportuna terapia mobilizzante. In questo caso, associando la ciclofosfamide a fattori di crescita per i globuli bianchi, è possibile far passare le cellule staminali emopoietiche nel sangue circolante, così da poter essere prelevate con una o più sedute di leucoaferesi. In condizioni normali, le cellule staminali presenti nel sangue periferico rappresentano appena lo 0,1% delle cellule circolanti; è pertanto necessario che, nei giorni che precedono la raccolta, il donatore sia sottoposto ad un protocollo di mobilizzazione al fine di incrementare il numero di cellule progenitrici circolanti nel sangue. Nel caso del trapianto autologo, la mobilitazione delle cellule staminali del paziente stesso è generalmente costituita da un ciclo di chemioterapia ad alte, dosi associata alla somministrazione di un fattore di crescita stimolante la produzione dei globuli bianchi (G-CSF). La chemioterapia provoca una temporanea aplasia profonda e, nel momento della ripresa midollare, per un breve periodo di 24-48 ore, passano in circolo una quantità elevata di progenitori emopoietici che possono essere prelevati. Una volta prelevate le cellule staminali, esse vengono criopreservate fino al momento dell’infusione. Nel caso del trapianto allogenico con cellule staminali provenienti da sangue periferico, la mobilizzazione dei progenitori emopoietici del donatore sano avviene solo attraverso l’impiego del fattore di crescita, somministrato per 4-5 giorni consecutivi. Allo stesso modo, subito dopo la mobilitazione, vengono poi prelevate le cellule staminali ematopoietiche dal sangue periferico del donatore e reinfuse nel paziente ricevente.

La larga diffusione nell’impiego dei progenitori del sangue periferico deriva principalmente dall’accelerata ricostruzione granulocitaria e piastrinica post-trapianto rispetto a quanto

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osservabile con l’impiego del midollo osseo. Al contrario, non vi sono evidenze di miglioramento nell’outcome finale o di una riduzione del rischio di ricaduta nel caso di TCSE per una neoplasia maligna poiché è stata dimostrata la possibilità che alcune cellule maligne clonogeniche contaminino la raccolta delle cellule staminali ematopoietiche del sangue periferico.

L’altra sorgente di cellule staminali ematopoietiche è rappresentata dal cordone ombelicale. Il prelievo di sangue cordonale avviene, senza alcun rischio per la mamma o per il bambino, al termine del parto, poco prima del secondamento, quando il bambino è nato ed il cordone è già stato reciso. Dopo il taglio del cordone ombelicale, un operatore esperto preleva con un ago dalla vena ombelicale il sangue rimasto nel cordone e nella placenta; affinché sia utilizzabile a fini trapiantologici, la quantità di sangue prelevata deve essere di almeno 60 ml. Sul sangue prelevato vengono poi effettuati una serie di test di qualificazione biologica e dei controlli microbiologici di sterilità e, se valutato idoneo, l’unità viene congelata e criopreservata. Il sangue cordonale contiene un numero elevato di cellule ematopoietiche e una quota significativa, maggiore anche rispetto al midollo osseo, di progenitori ematopoietici immaturi. Nella valutazione della ricostruzione del reservoire emopoietico nei pazienti pediatrici trattati con TCSE, l’impiego del sangue cordonale ha dimostrato un netto vantaggio rispetto all’impiego di sangue dal midollo osseo, confermando così la maggiore staminalità delle cellule ematopoietiche presenti nel sangue cordonale19. Inoltre, il sangue cordonale risulta particolarmente interessante nell’ambito del trapianto, per le caratteristiche immunologiche di immaturità e di scarsa o assente pregressa esperienza antigenica dei linfociti in esso contenuti; infatti, è stata osservata una riduzione dell’incidenza della GvHD acuta e cronica in seguito al trapianto da cordone ombelicale ed è stata valutata la possibilità di effettuare il trapianto anche in caso di non perfetta compatibilità HLA tra donatore e ricevente20. Molti studi hanno ad oggi dimostrato che il trapianto di cellule staminali effettuato per pazienti pediatrici da sangue cordonale porta a risultati equiparabili a quelli ottenuti in seguito a trapianto di cellule staminali midollari sia per i trapianti da donatore familiare che per i trapianti da donatore non consanguineo21,22.

Il numero finito di cellule progenitrici emopoietiche contenute in una singola unità di sangue placentale rappresenta il limite maggiore nell’impiego del trapianto da questa sorgente di cellule staminali, soprattutto per i pazienti di rilevante peso corporeo.

Il rischio di complicanze fatali correlate a questi tipo di trapianto è infatti inversamente proporzionale al numero di cellule infuse. L’opportunità di trapiantare due unità cordonali

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nello stesso individuo, la capacità di espandere le cellule staminali del sangue cordonale o la possibilità di una diretta iniezione intraossea dei progenitori ematopoietici cordonali rende possibile l’ipotesi di un impiego più ampio di questo tipo di sorgente di CSE anche per il trapianto in pazienti adolescenti con peso corporeo maggiore di 40-50 Kg.

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1.3 - I TIPI DI TRAPIANTO

In base al tipo di donatore il trapianto viene definito come autologo (autotrapianto), singenico od allogenico (allotrapianto).

Nel trapianto autologo, o autotrapianto, il paziente funge da donatore di se stesso. Vengono prelevati dal midollo o dal sangue periferico del paziente, nelle fasi di remissione della malattia e prima del trattamento mieloablativo, i progenitori emopoietici che vengono poi ripuliti, sottoposti ad un processo di criopreservazione e successivamente reinfusi. In questo tipo di trapianto non può verificarsi alcuna graft versus host disease (GvHD) e alcun effetto

graft versus leukaemia (GvL), quindi le probabilità di recidiva sono superiori rispetto alle

situazioni in cui si utilizza il midollo allogenico.

Il principale limite del trapianto autologo è che le cellule staminali che vengono raccolte e poi reinfuse, appartengono al paziente stesso e possono essere contaminate dalla malattia e quindi, una volta ricostituito il midollo, vi può essere una recidiva dovuta anche alla infusione di cellule malate. Per ridurre il più possibile la contaminazione tumorale delle cellule staminali raccolte per il trapianto, sono state elaborate tecniche di “purging”, una sorta di pulizia farmacologica o immunologica che, in laboratorio, va a distruggere le cellule staminali ematopoietiche malate o seleziona quelle sane da reinfondere. Si tratta di procedure molto complesse che a volte determinano la distruzione anche di parte delle cellule staminali ematopoietiche sane; possono essere applicate solo in alcune patologie e casi particolari e non garantiscono comunque la completa eliminazione delle cellule malate. Molteplici sono state le tecniche di purging messe a punto nel tentativo di eliminare le cellule tumorali contaminanti dal materiale da autotrapiantare, tuttavia è estremamente difficile capire quanto l’eventuale recidiva dipenda dalle cellule tumorali trapiantate e quanto dalla mancanza dell’effetto graft

versus leukaemia.

Nel trapianto singenico, il ricevente e il donatore sono gemelli HLA-identici (monozigoti). Dal momento che il ricevente non riconosce il midollo donato come estraneo, anche in questo caso non si verifica alcuna graft versus host disease e pertanto dal midollo trapiantato non deriva alcun effetto antileucemico.

Nel trapianto allogenico, invece, le cellule staminali ematopoietiche da infondere prelevate dal donatore sono geneticamente diverse da quelle del paziente; in tal caso, il trapianto è possibile solo in presenza di un elevato grado di compatibilità tra donatore e ricevente. Il soggetto esposto al trapianto è dunque un ricevente HLA-compatibile ma geneticamente

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diverso rispetto al donatore; solitamente è un consanguineo, un fratello o una sorella che abbiano un corredo HLA (Uman Leukocite Antigens) identico. L’analisi della compatibilità genetica tra donatore e ricevente viene valutata attraverso la caratterizzazione dei geni appartenenti al sistema HLA attraverso il prelievo sanguigno di donatore e ricevente.

Tuttavia, grazie alle innovazioni trapiantologiche sviluppatesi negli ultimi anni, per coloro che non dispongono di un donatore compatibile tra la fratria, un’alternativa possibile è rappresentata dai donatori volontari non consanguinei (Unrelated Donors, UD) compatibili o parzialmente compatibili (Matched Unrelated Donors, MUD, o Mis-Matched Unrelated

Donors, MMUD), oppure da familiari parzialmente compatibili (aploidentici) e da cellule

staminali ottenute da cordone ombelicale.

Contrariamente ai tipi di trapianto precedentemente descritti, in queste procedure trapiantologiche da donatore non HLA-identico, si prevede un certo grado di graft-versus-host

disease (GvHD) ed è necessario che il ricevente si sottoponga ad una terapia

immunosoppressiva. Il risultato finale oncologico dipende non solo dal condizionamento pre-trapianto ma anche dall’eradicazione di malattia svolta dalla Graft versus Tumor, ossia dall’azione antitumorale o antileucemica (GvL) dei linfociti T del donatore che diminuisce la probabilità che si verifichi una recidiva di malattia.

Nell’allotrapianto sussiste il problema della compatibilità, necessario affinché il trapianto riesca. Il successo del TCSE allogenico dipende dalla realizzazione di tre fattori principali:

- la scomparsa totale del compartimento di cellule staminali totipotenti del paziente per mezzo di una chemio-radioterapia pre-trapianto (detta di “condizionamento”) il più possibile eradicante per “creare spazio”;

- il superamento, ai fini dell’attecchimento, della barriera immunologica rappresentata dalle cellule immunocompetenti del paziente che sono responsabili del rigetto;

- il superamento della barriera immunologica, rappresentata dalle cellule immunocompetenti attive del donatore presenti nella sospensione di cellule staminali infuse, responsabili della malattia del trapianto contro l’ospite (GvHD).

È evidente come il pre-requisito di fondamentale importanza per il successo del trapianto allogenico sia che il ricevente e il donatore abbiano un sistema HLA il più possibile simile, in modo da limitare il rischio di rigetto (i linfociti del paziente distruggono le cellule del donatore) e la malattia del trapianto contro l’ospite (i linfociti del donatore aggrediscono i tessuti del ricevente provocando il quadro della cosiddetta GVHD). Quindi, nel trapianto di cellule staminali allogeniche, a differenza di qualunque altro tipo di trapianto, la barriera

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immunologica da superare è doppia: del ricevente verso donatore (rigetto) e del donatore verso ricevente (GVHD).

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1.4 - IL TRAPIANTO E L’ATTECHIMENTO

Il TCSE è una complessa procedura terapeutica che si svolge in due fasi:

1- il condizionamento, ossia l’eradicazione completa del midollo e del sistema immunologico del ricevente mediante dosi sopraletali di chemioterapia e/o radioterapia;

2- il ripristino delle normali funzioni emopoietiche mediante l’infusione di cellule staminali rese disponibili da un idoneo donatore sano o dal paziente stesso.

La terapia di condizionamento, che viene eseguita nella settimana antecedente il trapianto, deve indurre la mieloablazione allo scopo di “creare spazio” nelle lacune midollari, ottenendo, se possibile, l’eradicazione della malattia di base, e deve inoltre eliminare, o quanto meno ridurre drasticamente, le difese immunologiche del ricevente al fine di permettere l’attecchimento delle nuove cellule staminali e impedirne il rigetto. Senza la terapia di condizionamento, il TCSE non avrebbe modo di essere portato a termine.

Il regime di condizionamento al trapianto varia in basi ai vari protocolli impiegati nel trattamento delle diverse patologie ed è costituito dall’associazione di più farmaci chemioterapiaci o dall’associazione di radio e chemioterapia. Negli anni sono stati proposti e impiegati innumerevoli schemi di trattamento pre-trapianto, dei quali è stato valutato l’effetto tossico per il soggetto esposto a tali terapie. Le complicanze correlate ai regimi di condizionamento e l’evoluzione verso l’impiego di schemi terapautici pre-trapianto meno tossici sono descritti in seguito.

Il risultato immediato della terapia di condizionamento è che, già dopo alcuni giorni, il paziente entra in una fase di aplasia. Il valore dei leucociti scende rapidamente a zero, e lo stesso andamento è osservato pure per l’emoglobina e per le piastrine.

Una volta completata la terapia di condizionamento e una volta raccolte le CSE, il paziente è pronto per ricevere le nuove cellule staminali, siano esse cellule staminali proprie, nel caso del trapianto autologo, o di un donatore sano, nel caso del trapianto allogenico. Avviene dunque il trapianto vero e proprio, che consiste nell’infusione delle cellule staminali ematopoietiche attraverso il torrente circolatorio. Di norma il giorno del trapianto viene indicato come giorno 0. La trasfusione delle cellule staminali nel ricevente ha come obiettivo primario quello di trasferire le cellule staminali infuse in tutte le normali sedi di midollo osseo.

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Esse, infatti, attraverso la circolazione sanguigna, raggiungono le sedi midollari e migrano nelle lacune ossee che la terapia di condizionamento ha reso pronte a riceverle.

Per effetto della terapia di condizionamento, il midollo del ricevente è infatti ormai totalmente impoverito e pronto ad accogliere le cellule staminali infuse. Esse impiegano mediamente 2 settimane per maturare e dare nuove linee cellulari. Pertanto, generalmente dopo 10-15 giorni dal trapianto si comincia progressivamente a registrare l’aumento del valore dei globuli bianchi nel sangue periferico. A seguire, anche i globuli rossi e le piastrine iniziano la risalita. In assenza di complicanze, il recupero ematologico si completa entro 4-6 settimane dal trapianto. Anche se la cellularità midollare incrementa rapidamente dopo circa 2-4 settimane dal trapianto, e morfologicamente sono presenti tutte le componenti emopoietiche, occorrono 6-12 mesi prima che la cellularità ritorni normale.

In ogni caso è importante ricordare come la ripresa emopoietica dopo trapianto di cellule staminali dipenda da più fattori quali la malattia di base, il regime di condizionamento, la profilassi della GVHD, la comparsa di eventuali infezioni virali, come il citomegalovirus e il numero di cellule infuse.

L’attecchimento viene definito dal valore dei polimorfonucleati (PMN) delle piastrine e dei reticolociti a livello del sangue periferico. Convenzionalmente l’attecchimento per la serie granulocitaria è definito dal numero dei PMN, >500/mm3 per almeno tre giorni consecutivi; per le piastrine da una conta superiore a 50 000/mm3; e per la serie rossa da un numero di reticolociti superiore a 25 000/mm3, sempre su tre controlli consecutivi in tre giorni successivi. La perdita dell’attecchimento è definita dalla riduzione dei PMN al di sotto dei 200/mm3 e dalla cellularità midollare <5% dopo il raggiungimento di un normale attecchimento granulocitario5.

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1.5 - IL CONCETTO CHIMERA

La sostituzione del compartimento staminale del paziente con le cellule del donatore determina la convivenza nello stesso individuo del patrimonio genetico dei due soggetti differenti; il ricevente diventa genotipicamente una chimera, termine mutuato dalla mitologia classica che va a definire una creatura con parti anatomiche derivate da diversi individui. L’analisi del chimerismo post-trapianto può essere condotta attraverso l’uso di analisi differenti. Possono essere impiegate le metodiche citogenetiche classiche, che valutano il sesso differente tra donatore e ricevente, i polimorfismi di bandeggio all’analisi cariotipica, l’eventuale presenza nei pazienti con patologie clonali di anomalie citogenetiche caratteristiche; oppure il chimerismo può essere indagato mediante la determinazione dei gruppi eritrocitari o la tipizzazione HLA per i trapianti tra soggetti non identici. Più recentemente sono state adottate delle metodiche di biologia molecolare che, attraverso tecniche di reazione a catena della polimerasi (polymerase chain reaction - PCR), amplificano regioni del genoma umano altamente polimorfiche (quali, ad esempio, variable

number tandem repeats - VNTR). Attraverso queste metodiche, applicabili sia su cellule

midollari che su sangue periferico, è possibile stabilire il grado di chimerismo post-trapianto e seguirne l’andamento nel tempo5.

In base alla persistenza o meno di cellule del ricevente a livello midollare o periferico sono distinti tre possibili stati chimerici differenti. Si parla di:

- assenza di chimerismo, quando la ricostituzione emopoietica è autologa;

- chimerismo completo, in assenza di residuo cellulare emopoietico del paziente;

- chimerismo misto, nel caso in cui vi sia la concomitante presenza di cellule del donatore e di cellule del ricevente.

Il chimerismo emopoietico misto rappresenta la coesistenza dei due sistemi emolinfopoietici HLA-compatibili nel ricevente, realizzatasi grazie all’equilibrio tra due reazioni immunologiche: la reazione da ospite contro trapianto (Host versus Graft) e la reazione da trapianto contro ospite (GvHD). Successivamente all’ottenimento del chimerismo misto, si assiste ad una progressiva sostituzione delle cellule emopoietiche del ricevente con quelle del donatore, con il raggiungimento di un chimerismo completo a favore delle cellule del donatore.

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1.6 - IL SISTEMA HLA E LE COMPLICAZIONI IMMUNOLOGICHE

I geni che, esercitando un effetto primario sulle reazioni umorali e cellulari, determinano la compatibilità tessutale sono raggruppati in un complesso cromosomico denominato complesso maggiore di istocompatibilità (MHC); nell’uomo tale complesso cromosomico viene chiamato Human Leukocyte Antigen e siglato come HLA.

Oggi sono state identificate diverse famiglie di geni HLA, raggruppate in regioni distinte del complesso. Si distinguono: la regione ABC, dove si trovano i geni di classe I; la regione DR, dove sono localizzati i geni di classe II; mentre la regione di classe III che comprende i geni che codificano per alcune frazioni del complemento5.

Il complesso HLA, salvo l’evenienza del crossing over che interviene in circa il 3% dei casi, si trasmette come un blocco unico di informazione genetica, secondo la I legge di Mendell. La combinazione dei geni sullo stesso cromosoma si chiama “aplotipo”; il genotipo consta dei due aplotipi parentali, uno paterno e uno materno, e viene stabilito esclusivamente con l’indagine familiare.

I prodotti dei geni HLA, noti come “antigeni HLA”, presentano le caratteristiche di un polimorfismo molto elevato; ciò comporta un altissimo numero di combinazioni aplotipiche e un numero illimitato di genotipi. Tuttavia, nell’ambito familiare il polimorfismo risulta limitato ed esiste una probabilità di identità HLA in circa il 30% dei fratelli5.

Gli antigeni di classe I sono glicoproteine di membrana, altamente polimorfe, presenti su tutte le cellule nucleate e sulle piastrine, ma la loro espressione varia nei diversi tessuti e nelle differenti categorie di cellule. La massima espressione si ha sui linfociti, dove rappresentano circa l’1% di tutte le proteine di membrana. Dal punto di vista funzionale, gli antigeni di classe I sono antigeni di trapianto che rappresentano il bersaglio per i linfociti citotossici T nelle reazioni di rigetto.

Gli antigeni di classe II hanno, invece, una distribuzione più ristretta. Sono presenti solo su determinate linee cellulari quali i linfociti B, i macrofagi, le cellule dell’epitelio timico, cellule del Langherans, alcuni progenitori delle cellule mieloidi e una certa quota di linfociti T attivati. Gli antigeni di classe II sono essenzialmente coinvolti nelle cooperazioni fra le varie popolazioni di cellule immunocompetenti per la regolazione della risposta immune. I linfociti T, infatti, possono riconoscere un antigene estraneo soltanto se esso forma un complesso con un antigene HLA sulla cellula presentante l’antigene, tipicamente un macrofago.

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La funzione di indurre il riconoscimento di un antigene da parte dei linfociti T è propria degli antigeni di classe II per quanto riguarda la popolazione T4, mentre sarebbe svolta dalle molecole di classe I per la sottopopolazione T8.

Dopo l’infusione di cellule staminali allogeniche possono manifestarsi tre effetti immunomediati: il rigetto, la graft versus host disease (GvHD) e la graft versus leukemia (GvL), o comunque verso le cellule tumorali.

Nel momento in cui le cellule midollari del donatore sono riconosciute come non proprie (non

self), queste cellule vengono attaccate e distrutte dalle cellule immunocompetenti del

ricevente e si instaura così il fenomeno del rigetto. Il rigetto rappresenta un problema maggiore nei trapianti da donatore non familiare o nei trapianti non compatibili. La profonda immunosoppressione indotta dalle alte dosi di radio chemioterapia cui vengono esposti i pazienti prima del trapianto, è necessaria nel ridurre l’incidenza del rigetto nel TCSE allogenico non T-depleto da donatore HLA compatibile all’1-2% dei casi5.

L’effetto GvHD è invece indotto dalla reattività delle cellule immunocompetenti allogeniche contro i tessuti dell’ospite. Inoltre, è ben noto l’effetto immunomediato di reazione del trapianto verso la leucemia (GvL) che interviene in associazione al regime di condizionamento pre-trapianto, nel prevenire la recidiva leucemica.

Numerose sono le evidenze che riconoscono una stretta correlazione tra il fenomeno della GvHD e l’effetto GvL. È ampiamente dimostrato che la probabilità di recidiva leucemica, o comunque neoplasica, risulti significativamente ridotta nei pazienti con GvHD acuta e cronica rispetto ai pazienti che non sviluppano GvHD. Tuttavia, esiste comunque un effetto GvL legato esclusivamente alla natura allogenica del trapianto; è stato infatti osservato che l’incidenza della recidiva leucemica risulta ridotta nei pazienti trapiantati con midollo allogenico anche in assenza di GvHD23.

Non sono ancora perfettamente note le popolazioni cellulari coinvolte nel meccanismo fisiopatologico della GvL e della GvHD. Uno studio ha esaminato le popolazioni linfocitarie dei pazienti con GvHD post-trapianto e ha potuto distinguere tre cloni funzionalmente differenti di linfociti T citotossici: i cloni del donatore diretti sia contro gli antigeni minori del sistema HLA dell’ospite sia contro le cellule leucemiche; i cloni che riconoscono solo i linfociti del sangue periferico dell’ospite ma non le cellule leucemiche; i cloni diretti esclusivamente contro le cellule neoplastiche del paziente.

Questi risultati deporrebbero per la presenza di cellule effettrici, sia distinte che comuni, nell’esprimere le due attività GvL e GvHD24.

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L’azione citotossica antileucemica sembrerebbe espressa da cloni di linfociti T, sia CD4+ che CD8+, ad attività ristretta per gli antigeni di I e di II classe dell’MHC; gli antigeni target potrebbero essere antigeni minori del sistema di istocompatibilità presenti sulle cellule leucemiche, ma anche neo-peptidi prodotti dalle traslocazioni cromosomiche o proteine glicosilate o fosforilate in maniera anomala. È probabile che, responsabili dell’attività GvL, siano anche altre popolazioni cellulari, come ad esempio le cellule natural killer, e alcune citochine5.

Il tentativo di rimuovere i linfociti T dal midollo del donatore (trapianto T depleto) ha nettamente ridotto l’incidenza della GvHD; tuttavia, ha però favorito un aumento significativo della recidiva leucemica.

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1.7 – IL DECORSO POST-TRAPIANTO E LE COMPLICANZE

Si definiscono complicanze precoci quelle che intervengono nei primi 100 giorni post-trapianto; vengono definite tardive quelle complicanze che si manifestano successivamente e possono essere direttamente correlate al trapianto (effetti da GVHD cronica o immunodeficienza) oppure sono dovute all’intensità del regime di condizionamento, anche se molte volte hanno una patogenesi multifattoriale.

COMPLICANZE PRECOCI

Tra le complicanze precoci al TCSE sono comprese la GvHD cronica e il rigetto; possono insorgere precocemente anche alcune tossicità d’organo e frequentemente i pazienti possono essere colpiti da quadri infettivi anche gravi.

Le infezioni, dovute al deficit immunologico che i farmaci e il trapianto stesso inducono, rappresentano una delle complicanze più temibili dopo il trapianto. La neutropenia e il danno alla barriera mucosa indotto dalla radio-chemioterapia di condizionamento rappresentano i fattori di rischio che predispongono il paziente alle infezioni. La durata della neutropenia è variabile, mediamente perdura per 2-3 settimane, e può essere influenzata dal trapianto, dal numero di cellule infuse, dalla profilassi della GVHD, dall’uso di citochine. Il danno alle mucose si estende non solo al cavo orale ma anche a livello gastrointestinale; solitamente è dovuto dal tipo di regime di condizionamento impiegato; alcuni farmaci come, ad esempio, il busulfano, l’etoposide, il melfalan, la citarabina, e la TBI si associano a un danno maggiore e l’impiego del metotrexate per la profilassi della GVHD peggiora il danno alle mucose.

Altri fattori di rischio per le complicanze infettive possono essere rappresentati dall’impiego del CVC, dalla nutrizione parenterale e dalle alterazioni dell’integrità della cute dovute ai ripetuti prelievi del sangue, agli aspirati midollari e alle biopsie ossee e cutanee. Un ulteriore contributo nello sviluppo di complicanze infettive è dato dal periodo di profonda immunosoppressione cui il paziente va incontro, la cui durata e gravità dipendono dal tipo di trapianto, dal grado di incompatibilità donatore-ricevente, dalla T deplezione, dal tipo e dalla durata della profilassi per la GVHD, dalla presenza di infezione da CMV e di GVHD. Il tempo favorisce il normale recupero dell’immunità cellulare e umorale, che risulta più rapido dopo un trapianto da donatore familiare compatibile rispetto alle altre condizioni

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trapiantologiche. Tuttavia, in presenza di GVHD cronica lo stato immunodepressivo del soggetto può persistere per mesi o per anni.

Dal punto di vista eziologico, si possono distinguere varie fasi infettive post-trapianto correlate ai fattori di rischio e ai periodi di rischio. Entro le prime tre settimane dal trapianto, dove il rischio maggiore di sviluppare un infezione è dovuto ala neutropenia associato al danno mucosale, sono frequenti le infezioni batteriche e fungine. Le infezioni da virus erpetico si sviluppano solitamente entro il primo mese, in seguito alla riattivazione del virus latente; entro i primi tre mesi si osserva il maggior numero di infezioni da CMV. Le infezioni da Aspergillo, toxoplasma e P. carinii si osservano nei primi 6 mesi da trapianto o anche più tardivamente se insorge GVHD cronica e persiste il trattamento immunosoppressivo.

Più rare risultano essere le infezioni da adenovirus, rotavirus e da EBV.

Importante è il periodo che fa seguito al terzo mese dopo il trapianto, quando si possono osservare soprattutto infezioni respiratorie da Haemophilus influenzae, Streptococcus pneumoniae e germi capsulati; in questa fase tardiva, le infezioni batteriche, virali o fungine possono insorgere ex novo o per riattivazione di infezioni pregresse. A partire dal sesto mese, sono frequenti anche le infezione causate dal virus della Varicella zoster.

Se le infezioni batteriche sono controllabili, nella maggior parte dei casi, con un’opportuna terapia antibiotica; le infezioni micotiche, in particolare l’aspergillosi, e quelle virali, in particolari le infezioni da riattivazione del CMVe del EBV, possono aprire la strada a pericolose situazioni cliniche per il paziente.

Le complicanze epatiche e intestinali costituiscono una causa considerevole di morbilità post-trapianto. L’incidenza delle complicanze gastrointestinali precoci post-trapianto è rimasta per lo più invariata, nonostante ne sia invece cambiata l’origine. Negli anni ’70 le cause principali di queste complicanze erano la GVHD epatica e intestinale e le infezioni erpetiche; successivamente ci sono stati notevoli miglioramenti nella profilassi anti-GVHD e negli agenti antivirali, per cui le cause principali di complicanze a livello gastrointestinale sono legate all’impiego dei regimi di condizionamento.

Gli effetti tossici legati al regime di condizionamento durante il periodo precoce post-trapianto sono rappresentati da nausea, vomito e anoressia; essi sembrano dovuti soprattutto all’effetto della chemioterapia sui centri del vomito, agli elevati livelli di citochine, alla presenza di mucosite e alla GVHD acuta. Altri fattori che possono contribuire all’insorgenza

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di queste complicanze precoci sono l’impiego degli antibiotici, della nutrizione parenterale (lipidi e alti livelli di glucosio o aminoacidi) e le infezioni virali.

Il regime di condizionamento, la GVHD, gli agenti infettivi, i farmaci impiegati nella profilassi della GVHD, possono favorire l’insorgenza di altre due complicanze precoci quali la mucosite e la diarrea.

Il regime di condizionamento pre-trapianto è inoltre responsabile della malattia veno-occlusiva epatica (VOD), una grave complicanza a carico del fegato che si caratterizza clinicamente per una sindrome che comprende iperbilirubinemia, epatomegalia, sintomatologia dolorosa e ritenzione idrica. La patogenesi della VOD è dovuta a un’obliterazione fibrotica delle venule epatiche terminali e delle vene sublobulari, alla dilatazione e alla fibrosi dei sinusoidi centro lobulari, alla necrosi degli epatociti. La sindrome si può manifestare precocemente ma più frequentemente i segni di laboratorio si manifestano tra il 6° e 7° giorno post-trapianto con picco nei successivi 10 giorni, dopodiché i valori tendono a normalizzarsi5. La mortalità per VOD in base alle diverse casistiche varia dal 3 al 67% e la mortalità entro i primi 100 giorni dipende dalla gravità della sindrome5.

La polmonite da CMV è una delle più temibili complicanze polmonari che si possono sviluppare precocemente, in genere, tra i 70 e i 100 giorni

Si caratterizza per un quadro di compromissione interstiziale evidente a livello radiologico con concomitante dimostrazione della presenza del virus nel liquido del bronco lavaggio; clinicamente il paziente presente febbre, tosse, tachipnea e occasionalmente dolore toracico. Attualmente, grazie all’introduzione di trattamenti preventivi, sia l’insorgenza che la mortalità della polmonite da CMV sono notevolmente ridotte; il trattamento di elezione in caso di sviluppo di tale complicanza è l’impiego del gancyclovir in associazione alle immunoglobuline. Il CMV è il principale responsabile di polmonite interstiziale dopo il trapianto, ma non è l’unico. Tuttavia, solo in un numero limitato di casi è possibile identificare l’agente patogeno causa del quadro polmonare; in tutti gli altri casi si parla la polmonite viene definita idiopatica.

I principali fattori di rischio per la polmonite idiopatica sono il regime di condizionamento, l’età del paziente, l’impiego della TBI, l’uso del metotrexate nella profilassi della GVHD e la GVHD. Nella polmonite idiopatica, i test di funzionalità polmonare evidenziano riduzione dei volumi polmonari e ipossiemia e risulta particolarmente elevata è la mortalità soprattutto per i pazienti che richiedono intubazione meccanica.

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La cistite emorragica rappresenta una grave complicanza precoce post-trapianto. Si manifesta dopo circa 20 giorni dal trapianto e ha una incidenza di circa il 15-25% 5.

I fattori di rischio correlati all’insorgenza della cistite emorragica includono la presenza a livello urinario di papovavirus (BK virus) e adenovirus e l’impiego della ciclofosfamide nel regime di condizionamento pre-trapianto 5.

Nel tentativo di prevenire tale complicanza, al momento del regime di condizionamento pre-trapianto viene impiegata una profilassi per la cistite emorragica che si avvale di regimi di iperdiuresi o di lavaggio vescicale continuo associato o meno al MESNA.

COMPLICANZE TARDIVE

La tossicità tardiva comprende la GVHD cronica che può colpire qualsiasi organo, tessuto o sistema. Le manifestazioni più comuni di tale tossicità sono alterazioni cutanee, quali depigmentazione, assottigliamento, sclerosi e lesioni mucose lichenoidi. Possono insorgere anche disturbi a carico della funzione epatica con sclerosi di vario grado nel contesto del parenchima epatico e del sistema biliare, e vi può essere un aumento di suscettibilità alle infezioni conseguente ad alterazione della funzione immunitaria.

Tuttavia molti dei pazienti che sviluppano GVHD cronica sono relativamente scevri di condizioni invalidanti, se l’assunzione di sostanze immunosoppressive viene instaurata piuttosto precocemente. Una parte di soggetti va, però, incontro a progressione della GVHD nonostante la terapia immunosoppressiva, sviluppando gravi morbidità.

Gli occhi possono essere sede di complicanze tardive post-trapianto sia per effetto della GVHD cronica e per terapia steroidea nel trattamento di essa, sia per infezioni o per sequele dovute al regime di condizionamento, in particolare causate dalla TBI e più raramente dai chemioterapici. La complicanza oculare più frequente è la cataratta che può cominciare a insorgere già dopo un anno dal trapianto. Un’altra complicanza oculare tardiva è la “sindrome degli occhi secchi” per una minore produzione di lacrime in seguito alla radioterapia o la “sindrome SICCA” (tipo Sjögren) da GVHD cronica5. In seguito alla comparsa di GVHD cronica si possono inoltre sviluppare sinechie, ectropion e anche perforazioni corneali; sono stati segnalati anche casi di ostruzione del dotto nasolacrimale.

Come sequele tardive polmonari al trapianto sono stati segnalati sia deficit restrittivi che ostruttivi.

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I pazienti sottoposti a TCSE hanno un rischio più elevato, rispetto alla popolazione generale, di sviluppare tumori solidi. In particolare il rischio è 8.3 volte superiore per quelli che sopravvivono oltre 10 anni dal trapianto5. I tumori più frequentemente osservati sono il melanoma maligno, tumori della cavità buccale, del SNC, della tiroide, del tessuto osseo e del tessuto connettivo. In particolare il rischio di sviluppare un secondo tumore sembra più alto per i pazienti trapiantati in giovane età rispetto. Il fattore di rischio che più degli altri sembra coinvolto nello sviluppo delle seconde neoplasie è la TBI come parte del regime di condizionamento al TCSE; la GVHD cronica e il sesso maschile sembrano correlare con un aumentato rischio di tumori squamocellulari della cavità buccale e della cute 5.

Tra le complicanze intestinali croniche vanno segnalate diarrea e perdita di peso per sindrome da malassorbimento.

La principale complicanza cardiaca tardiva che si può verificare dopo TCSE è una riduzione della contrattilità della fibra miocardica espressa come riduzione della frazione di accorciamento del ventricolo sinistro (FA<30%) o della frazione di eiezione (FE<50%). Per tale motivo, è importante che entrambi i parametri vengano valutati attraverso l’esecuzione dell’ecocardiogramma. La tossicità cardiaca tardiva interessa quei soggetti che hanno ricevuto una dose elevata di antracicline (>250 – 300 mg/m2), e/o una radioterapia erogata o come

total body irradiation (TBI) o sul settore toracico (radioterapia mediastinica). La radioterapia

rimane, per il cuore, il maggiore fattore di rischio per le malattie cardiovascolari che si manifestano come coronopatia, infarto del miocardio, pericarditi e anomalie valvolari.

Nel parenchima renale di alcuni pazienti, dopo la sospensione di sostanze nefrotossiche, quali ciclosporina, antimicotici e antibiotici nefrotossici, si può evidenziare una persistente alterazione della filtrazione glomerulare con danni e/o glomerulari. Queste complicanze renali secondarie alla tossicità di alcuni di questi farmaci utilizzati durante il TCSE, sono espresse come alterazioni dei parametrici di funzionalità renale e generalmente sono reversibili. Pertanto questi pazienti solitamente non richiedono controlli regolari della funzionalità renale. Nei soggetti sottoposti a TCSE, è stata descritta l’insorgenza di disfunzione renale, a comparsa tardiva, con anemia, edema ed ipertensione25,26; in questi pazienti l’associazione di radioterapia e chemioterapia, con sostanze come il melfalan o la ciclofosfamide, può avere un’azione favorente nella comparsa di tali effetti.

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