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Linguaggio e funzione della fotografia nell'esperienza letteraria e artistica di Gabriele d'Annunzio.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA

MAGISTRALE

IN

I

TALIANISTICA

Tesi di laurea

Linguaggio e funzione della fotografia

nell'esperienza letteraria e artistica di Gabriele

d'Annunzio.

Relatore Candidato

Prof. Marcello Ciccuto Elisa Bambini

Contro-relatore

Prof. Alberto Casadei

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INDICE GENERALE

INTRODUZIONE ...1

I. LA NASCITA DI UNA NUOVA ARTE ...6

1.1 Breve storia della fotografia ...6

1.2 Giudizi discordanti: il disprezzo di Charles Baudelaire e la considerazione della fotografia come arte ...9

1.3 I cambiamenti nello statuto dell'arte secondo Walter Benjamin ...12

II. L'ESPERIENZA FOTOGRAFICA DEI VERISTI ITALIANI:...16

2.1 Il lato perturbante degli scatti fotografici di Capuana ...17

2.2 Punti di vista sul reale: Verga e la fotografia ...20

2.3 Elementi architettonici e delimitazione spaziale. Soggettività e oggettività nella rappresentazione fotografica di De Roberto ...23

III. LA FOTOGRAFIA COME SGUARDO SUL MONDO ...28

3.1 Tra oggettività e soggettività: fotografia e letteratura ...28

3.2 L'immagine come la scrittura: fissazione di significati ...31

IV. LA DOPPIA NATURA FOTOGRAFICA. PARVENZE E ASSENZE NEL RITRATTO FOTOGRAFICO...36

4.1 Visibile e invisibile fotografico...36

4.2 La mania del ritratto ...38

4.3“Il segreto fotografico”: realtà o illusione di realtà? ...41

4.4 Fotografia e morte...43

V. L'ARTE E LA FOTOGRAFIA NELLA VITA E NELL'OPERA DANNUNZIANA...45

5.1 D'Annunzio e la concezione dell'arte...45

5.2 Buio o luce? L'interesse dannunziano per la fotografia...50

VI. LUOGHI E PERCEZIONI VISIVE: L'INFLUENZA DELLA FOTOGRAFIA DI MICHETTI NELLA SCRITTURA TRAGICA DI GABRIELE D'ANNUNZIO...54

6.1 Francesco Paolo Michetti: tra pittura e fotografia ...54

6.2 D'Annunzio e Michetti: familiarità fotografica...58

6.3 Iconografia fotografia dell'opera La Figlia di Iorio ...62

VII. PROSPETTIVE FOTOGRAFICHE: INTROSPEZIONE E DESIDERIO DI PROTAGONISMO...70

7.1 La fotografia come narrazione di sé...70

7.2 Iconografia fotografica e interiorità psicologica...72

7.3 La fotografia e il valore dell'immagine ...76

VIII. VISIBILITA' FOTOGRAFICA. GABRIELE D'ANNUNZIO NEI RITRATTI DEL VAIS ...80

8.1 Il fotografo prediletto: Mario Nunes Vais ...80

8.2 Ritratti dannunziani: il potere rappresentativo della fotografia del Vais ...86

IX. D'ANNUNZIO NELLA ROMA DI FINE OTTOCENTO E NELLA FOTOGRAFIA DEL CONTE PRIMOLI ...91

9.1 Il conte Giuseppe Primoli: biografia e fotografia ...91

9.2 D'Annunzio e il conte Primoli nella Roma di fine Ottocento ...95

9.3 Gli scatti al d'Annunzio e la fotografia “reportage” del Primoli...98 BIBLIOGRAFIA...102

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INTRODUZIONE

L'invenzione della fotografia crea per l'uomo moderno grandi innovazioni nel modo di vedere, rappresentare e comprendere il mondo circostante. Il nuovo mezzo fotografico, utile a percepire in modo tutto nuovo la realtà, è in grado di istituire rapporti diretti tra uomo e mondo, modificandone irrevocabilmente la concreta conoscenza. Perciò la considerazione della fotografia come mezzo meccanico che immortala la realtà circostante soltanto come appare ai nostri occhi è un falso stereotipo. Benché questa falsa credenza sia stata generata negli anni appena successivi alla nascita dei primi apparecchi e per molto tempo sia rimasta radicata nelle convinzioni di molti, è chiaro che fotografare non significa semplicemente riprodurre il reale tale e quale, ma lo scatto implica una transizione al di là dell'asse del tempo e un'esplorazione della realtà.

È, quindi, sia dall'attenta analisi delle esperienze dei numerosi artisti appassionati per curiosità o per interesse scientifico-estetico alla fotografia sia dalla valutazione delle controversie riguardanti la considerazione e l'affermazione artistica del nuovo mezzo, che si evince che nella totale e perfetta somiglianza con il reale non risiede la vera natura dello scatto. La fotografia come nuova arte non si limita alla documentazione oggettiva del mondo, ma si volge piuttosto alla raffigurazione di un mondo “altro” che ingloba dentro di sé elementi del reale e particelle di una realtà nascosta, segreta e impalpabile, coincidente con l'altra faccia del visibile. Questa potenzialità avvicina il linguaggio fotografico (che combina reale e irreale) all'eloquenza poetica, ai modi di procedere della scrittura, che in ugual maniera determinano la fissazione di significati a partire non solo da uno sguardo completo sul reale, ma anche dalla considerazione delle apparenze più intime del mondo e della natura umana.

È per questa complessa natura introspettiva che l'interesse per la fotografia non coinvolge solo gli artisti più aperti alle innovazioni e alle avanguardie del nuovo secolo, ma anche molti intellettuali che scoprono nello scatto un modo tutto nuovo per indagare e rappresentare la realtà circostante. Il moderno apparecchio, adibito alla fissazione di immagini, muove la passione di molti

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scrittori, tra i quali i veristi italiani che utilizzano la fotografia per penetrare nell'intimità del mondo dando vita a un'ampia riflessione sull'esistenza dell'uomo e sulla tangibilità della natura. Tuttavia l'autore che meglio sa coniugare fotografia e linguaggio poetico-letterario è, a mio avviso, d'Annunzio, il quale, grazie alla versatilità insita nella sua complessa personalità, è riuscito più di ogni altro a penetrare nelle pieghe più segrete del reale attraverso esperienze iconografico-fotografiche risultate poi essenziali alla creazione di opere letterarie di altissimo valore.

È in quest'ottica che nel presente lavoro si dimostra come la fotografia non sia mezzo artistico, ma essa stessa un'arte. Si indagano a questo scopo i rapporti che intercorrono tra l'innovativo linguaggio fotografico e gli interessi artistico-iconografici dannunziani con l'obiettivo di dare prova, attraverso l'esperienza fotografica di d'Annunzio, della capacità della fotografia di essere supporto e motivo decisivo all'apertura di nuovi itinerari di esplorazione visivo-ontologica del reale e della natura circostante.

La prima parte di questa tesi comprende quattro capitoli e si presenta come una sorta di percorso filosofico-teorico che, muovendo dalla delucidazione delle fasi principali della genesi della fotografia, arriva a dimostrare la natura illusoria del rapporto tra fotografia e realtà.

Il primo capitolo prende avvio dall'esposizione degli eventi principali che hanno costituito il terreno su cui la fotografia è nata e si è sviluppata e termina con la dichiarazione, costruita a partire dalle principali affermazioni di Walter Benjamin, dell'artisticità insista nello scatto fotografico. Le parole di disistima per la fotografia espresse da Charles Baudelaire aprono, invece, il secondo capitolo, nel quale attraverso la delineazione e la confutazione delle controverse affermazioni neganti la natura artistica del mezzo fotografico si procede alla descrizione e all'analisi delle esperienze fotografiche dei veristi italiani (in particolare Capuana, Verga e De Roberto). È dall'interesse di questi autori che emerge chiaramente la potenzialità esplorativa della fotografia, capace di immortalare il visibile non solo superficialmente, ma anche e soprattutto interiormente, palesando in questo modo tutto quell'alone invisibile che si cela nella pura superficialità delle cose.

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Il terzo capitolo, fermo su queste considerazioni, arriva a dimostrare come, nel suo presupporre una complessa relazione tra esteriorità e interiorità del referente posto di fronte all'obiettivo, la fotografia si faccia linguaggio e assuma le caratteristiche più intime della scrittura. Si dimostra a tal proposito come l'atto fotografico conceda visibilità alla natura celata, occulta e intima del reale determinando in questo modo il manifestarsi del lato perturbante delle cose. Il quarto capitolo prende vita da queste considerazioni ed esamina uno dei “rituali” fotografici più diffusi tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, quello di farsi ritrarre. A partire dalla considerazione del ritratto fotografico come il più evidente segnale dell'attitudine di estrapolare dall'apparenza l'essenza nascosta del mondo, si giunge a dimostrare la natura “sconvolgente” della fotografia, copia del reale e al tempo stesso sua falsificazione.

La seconda parte di questi tesi è suddivisa in cinque capitoli (dal capitolo 5 al capitolo 9), articolati come la ricostruzione di un percorso artistico-letterario concentrato sulla presa in considerazione dell'attitudine dannunziana all'apertura alla più moderne innovazioni e alle più eterogenee manifestazioni artistiche. La dimostrazione, sviluppata nella parte precedente dello scritto, dell'artisticità insita nel linguaggio fotografico, permette in questa seconda parte di analizzare sia l'approccio che un eclettico autore come d'Annunzio dimostra nei confronti della fotografia sia la congiunzione che ne istituisce con la letteratura.

Il capitolo quinto prende le mosse a partire dalla delineazione degli aspetti costituenti la considerazione dell'arte e delle sue manifestazioni secondo le linee principali del pensiero dannunziano. Si ripercorrono, infatti, i nuclei essenziali della sua ideologia, con ampi riferimenti anche ad alcune opere, utili alla delineazione di un'idea di arte che non solo ben si confà e si apre alle innovazioni (come la fotografia), ma si muove sugli stessi criteri. L'avvicinamento alla nuova arte e al suo complesso linguaggio, come dimostrato nel sesto capitolo, è per d'Annunzio determinato e sotto certi aspetti condizionato dallo stretto legame familiare e artistico con l'amico Francesco Paolo Michetti. Pittore e fotografo di grande talento, Michetti seppe usare la fotografia

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non con un intento documentaristico, ma con propositi ben più ampi, volti all'indagine stretta e intima del mondo e della natura umana. Insegnò a d'Annunzio ad apprezzare il nuovo mezzo non solo come strumento, ma anche come complesso codice espressivo utile all'indagine e alla comprensione della realtà, non solo quella visibile, ma anche e sopratutto quella più nascosta e intrinseca. Gli studi iconografici che i due amici realizzarono sul territorio abruzzese costituirono il primo vero stimolo alla scrittura di un'opera quale La Figlia di Iorio. L'analisi minuziosa del mondo circostante permise, infatti, a d'Annunzio la più completa ed esclusiva cognizione di quell'alone arcano, enigmatico e oscuro che si cela nella visibilità del mondo e che è ben espresso nell'opera sopraddetta. L'interesse dannunziano per la fotografia si esplica secondo due diverse modalità: da una parte l'autore si avvicina al nuovo mezzo con la curiosità e l'impegno di chi desidera conoscere la realtà circostante nei suoi più sottili dettagli, dall'altra parte sembra farne un uso all'apparenza meno impegnato, come dimostrato nel settimo capitolo. Autore moderno e aperto alle innovazioni il Vate consegna al nuovo mezzo il compito di veicolare l'immagine di sé nella convinzione che la fotografia permetta di esaudire tutti i più eccentrici desideri di ostentazione, di fama e di popolarità. Tuttavia, la congiunzione di questi contrapposti interessi per le potenzialità del nuovo mezzo fotografico si esplicano nei rapporti che d'Annunzio tiene con due personalità ben note nel “mondo della fotografia”: Mario Nunes Vais e il conte Giuseppe Primoli. Dai rapporti fotografici con il Vais, precisati nell'ottavo capitolo, si comprende come l'interesse fotografico, pur manifestandosi in atteggiamenti di poco conto, anzi spesso superficiali (attenzione alle pose, desiderio di farsi ritrarre ecc.) sia in realtà carico di un peso artistico-estetico notevole. Benché le richieste di farsi immortalare in numerosi ritratti ci lascino pensare a una superficiale voglia di esaudire la personale brama di protagonismo, in realtà si comprende che d'Annunzio è sempre ben consapevole delle potenzialità della fotografia ed è convinto che proprio nel ritratto fotografico si esplichi perfettamente la natura vera e doppia dello scatto. Lo stesso vale per gli scatti, analizzati nel nono e ultimo capitolo, effettuati all'autore da Giuseppe Primoli nella Roma di fine Ottocento. Nonostante

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l'attitudine di Gégé di fronte al mezzo fotografico sia complessivamente contraria a quella del Vais, l'obiettivo di entrambi è puntato alla comprensione e alla concezione della realtà non in modo superficiale, ma in modo profondo e complesso.

È chiaro, quindi, che dall'esperienza iconografico-fotografica dannunziana, sia quella che coinvolge direttamente l'autore immortalato in numerosissimi scatti sia quella che l'autore pratica in modo più consapevole e serio con l'amico Michetti, emerge la consapevolezza che il nuovo mezzo non sia limitato alla realizzazione di una copia perfetta del mondo e alla documentazione oggettiva della realtà, ma sia carico di una potenzialità artistica volta all'indagine stretta e intrinseca della natura e del mondo circostante. Pertanto l'attitudine con cui d'Annunzio si avvicina alla fotografia è l'evidente conferma di quanto dimostrato nella prima parte di questo scritto: la fotografia non è uno strumento, ma è un'arte nuova dotata di principi simili a quelli della scrittura e del linguaggio e perciò adibita all'indagine completa e complessa sul mondo. La prima parte di questa tesi trova quindi la sua conferma pratica nella seconda parte dello scritto e in particolare nell'esperienza di un autore del calibro di d'Annunzio. Egli, infatti, riesce a far emergere la ricchezza e la potenzialità artistica dell'immagine fotografica grazie a una consapevolezza estetica predisposta all'apertura e alla conoscenza di un linguaggio così innovativo quale quello della fotografia. D'Annunzio riesce a trasformare l'ampia iconografia fotografica con cui viene in contatto, in virtù di molti aspetti complessi che riguardano da una parte la sua personalità ben disposta allo sviluppo dell'interesse artistico-fotografico e dall'altra la sua naturale predisposizione letteraria, volta prima di tutto a criteri di indagine sul mondo proporzionati al nuovo linguaggio fotografico. Personalità, letteratura, linguaggio poetico, iconografia, studio sulla realtà sono gli aspetti principali della disposizione dannunziana allo scatto, ma anche i nuclei fondanti della cognizione profonda della fotografia come arte.

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I. LA NASCITA DI UNA NUOVA ARTE

1.1 Breve storia della fotografia

La nascita della tecnica di riproduzione fotografica modificò profondamente le modalità di percezione e immaginazione dell'uomo moderno. Nella cultura occidentale avvenne qualcosa di molto simile all'invenzione della stampa, un cambiamento radicale che investì il modo di concepire lo spazio, il tempo, la memoria e soprattutto l'immagine.

La fotografia nasce ufficialmente il 7 gennaio 1839, quando l'astronomo François Arago illustrò all'Accademia delle Scienze di Parigi l'invenzione del dagherrotipo, un procedimento fotografico che prende il nome dal suo inventore Louis Jacques Mandé Daguerre. Si trattava di un nuovo modo di fissare le immagini, la cui realizzazione era assicurata da diverse operazioni che presupponevano l'utilizzo di una lastra di rame sulla quale era applicato uno strato di argento sensibilizzato alla luce con vapori di iodio. Tuttavia la data è una convenzione, visto che lo studio della luce e l'interesse per gli effetti ottici risale a tempi molto antichi: già Aristotele nel IV secolo a.C. osservava la proiezione capovolta degli oggetti posti di fronte a un piccolo foro realizzato su una scatola chiusa. Quindi, se i principi fondamentali su cui si basa la fotografia erano noti da tempo, a determinarne l'invenzione fu però la combinazione tra la capacità della luce di proiettare un'immagine all'interno di una camera oscura – strumento familiare ad artisti e scienziati fin dal Cinquecento – e la tendenza, scoperta nel Settecento, di certe sostanze chimiche ad annerire se esposte alla luce.

Infatti, fu proprio nel XVIII secolo che si intensificarono le sperimentazioni: numerosissime furono le prove che miravano a ottenere immagini su carta attraverso l'uso di elementari camere ottiche. Si trattava di tentativi empirici generati dalla convergenza di risultati teorico-pratici ottenuti nel campo dell'ottica e della chimica (sostanze fotosensibili). Tra i principali esperimenti sono da citare quelli di Schulze che in Germania osservava la foto-reazione dell'argento e in Inghilterra quelli di Thomas Wedgewood, il quale, basandosi su specifiche ricerche chimiche, sensibilizzava i

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fogli di carta con i sali di argento e la luce solare. In tal modo intuì che dove i raggi solari colpivano il foglio, la sostanza chimica si anneriva, mentre rimaneva chiara laddove il supporto cartaceo era coperto da altri oggetti. A causa della salute cagionevole non poté proseguire gli studi definiti incompleti dall'amico Sir Humphry Davy che nel 1802 sul Journal of Royal Istitution of Great Britain sottolineò la mancanza di stabilizzazione delle sue immagini, destinate a perdere rapidamente il contrasto chiaro/scuro se mantenute alla luce solare. Ciò pose un limite enorme ai suoi esperimenti: le immagini si potevano osservare solo al buio.

Nel 1822 il francese Nicéphore Niepce approfondì gli studi orientando le sue ricerche alla scoperta di una sostanza chimica sensibile alla luce, ma allo stesso tempo capace di mantenere il risultato nel tempo. Così iniziò a produrre immagini attraverso lastre di peltro imbevute in una soluzione di bitume, un tipo di asfalto solubile all'olio di lavanda, che esposto per lungo tempo alla luce si induriva. Questa procedimento chiamato “eliografia” condusse il suo inventore, quattro anni dopo la sua scoperta, alla realizzazione di quella che è considerata la prima fotografia: la Veduta

alla finestra di Le Gras.

A partire dal 1834, in Inghilterra William Henry Fox Talbot concepiva la tecnica del disegno fotogenico, definita poi calotipia, un procedimento fotografico che permetteva la produzione di immagini con il metodo del positivo/negativo. Egli, rifacendosi agli esperimenti di Wegdwood, sensibilizzava, immergendole in una soluzione di sale e nitrato di argento, carte da lettera, sulle quali appoggiava piccoli oggetti come foglie, piume o pizzi: sul foglio compariva il negativo dell'oggetto. Solo più tardi intuì, utilizzando un secondo foglio, in trasparenza, come trasformare quel negativo in positivo.

Colto di sorpresa dalla presentazione del dagherrotipo, alla fine del gennaio 1839 lo studioso si affrettò a presentare, in risposta all'annuncio di Arago, la sua invenzione alla Royal Istitution di Londra e in una conferenza alla Royal Society il 31 gennaio dello stesso anno rivendicò la paternità dell'invenzione della fotografia attribuita a Daguerre.

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Agli incessanti esperimenti e agli sforzi sostenuti per il riconoscimento e il perfezionamento del progetto, tra il 1844 e il 1846, Talbot unì la pubblicazione del primo libro di teoria fotografica,

The Pencil of Nature, nel quale un'introduzione tecnica e brevi testi a carattere colloquiale

accompagnavano ventiquattro calotipi raffiguranti architetture, nature morte, primi piani e scene di vita quotidiana. Il libro, oltre a illustrare nel dettaglio il procedimento, avvalorava le convinzioni dello studioso persuaso che la “matita” della natura fosse in grado di generare opere superiori a quelle di qualunque artista, pertanto le ventiquattro immagini rappresentate altro non sono che i prodotti del sole.

La storia della fotografia non inizia e non finisce con l'annuncio ufficiale del 1839, è chiaro che si tratta di un itinerario lungo e complesso che scaturisce da secoli di ricerche ed è frutto dell'interesse di numerosi studiosi ed esperti che tutt'oggi si dibattono per il perfezionamento della tecnica. Si comprende bene, risalendo anche all'etimologia greca “scrittura di luce”, che la fotografia è molto più di una tecnica, di uno strumento meccanico, è prima di tutto un “linguaggio” articolato capace di catturare non solo la verisimiglianza del reale, ma la sua vera essenza, quel reale e irreale che fanno parte di tutto il circostante. Allora la sua storia diventa l'insieme delle tappe di una genesi che ha mutato il modo di vedere il mondo, di comprenderlo e di entrare in contatto con esso.

Che questa complessità non sia stata immediatamente percepita dal mondo intellettuale è evidente dal fatto che i primi tentativi di avvicinamento alla fotografia furono principalmente tecnici piuttosto che creativi. Molti studiosi e ricercatori furono spinti a brevettare nuovi metodi, a rivendicare l'invenzione di apparecchi per la produzione di immagini. Forte fu l'impatto emotivo generato dall'acquisita possibilità di ottenere e possedere una esatta riproduzione del reale.

La fotografia sembrava risolvere le difficoltà di una rappresentazione grafica veloce e corretta nella prospettiva e nei dettagli, inoltre la facilità d'uso favorì la diffusione del nuovo strumento.

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incalzante, consentendo progressivi ampliamenti delle possibilità espressive del nuovo mezzo; in quegli anni, nonostante i dibattiti sul suo valore, la fotografia si affermò come uno dei miti di massa dell'Ottocento. La macchina, capace di fissare ogni attimo del divenire, forniva al nascente positivismo un grande archivio di fatti e creava il mito della verità fotografica.

Una serie di invenzioni avevano posto il mondo della macchina al centro della realtà sociale, in un contesto economico-culturale che stava assumendo un aspetto del tutto nuovo. Tra il 1776, anno in cui venne utilizzata per la prima volta la macchina a vapore nella produzione industriale, e il 1839, anno di presentazione della dagherrotipia, il mondo era mutato e si era arricchito di nuove scoperte. La fotografia partecipava insomma alla sostituzione del meccanico all'umano e poneva la cultura in cui era nata di fronte a una grande contraddizione: il rapporto tra tecnologia e creatività. Da una lato la macchina e la tecnologia erano al centro di molte preoccupazioni anche esistenziali, dall'altro lato fonte di grande entusiasmo, tanto che la fotografia non mancò di suscitare curiosità, meraviglia, ma anche inquietudine.

È chiaro che la letteratura, temendo la perdita del proprio potere assoluto di sguardo sul mondo e sul reale, non rimase estranea a una rivoluzione di questo tipo; infatti, è quasi impossibile trovare nella produzione letteraria dell'Ottocento un romanzo in cui non si faccia riferimento a un'istantanea per rievocare il passato, per rinforzare una descrizione, per documentare fatti accaduti o, al contrario, per evocare l'inesprimibile e il soprannaturale.

1.2 Giudizi discordanti: il disprezzo di Charles Baudelaire e la considerazione della

fotografia come arte

Il nuovo mezzo scatena immediatamente reazioni opposte nella comunità degli artisti. Gli entusiasti ne riconoscono il valore estetico, ma anche la funzione rivoluzionaria di documentare con esattezza la realtà. Considerata un magnifico segnale del progresso, un prodigio, una nuova tecnica artistica e un manufatto incomparabile a qualsiasi altra opera d'arte, «la scoperta della fotografia che alcuni ritengono un fatto esteriore e tecnico, ha mutato profondamente il costume degli uomini,

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forse più di qualunque altra scienza».1 I detrattori ritengono invece quello della fotografia un

processo puramente meccanico e vedono con ostilità la sua apparente sovrapposizione alla pittura e alla scrittura.

Contro l'entusiasmo di Arago si levava la condanna sulla nuova tecnica fotografica riconosciuta come «un plagio della natura da parte dell'ottica»2 e si contrapponeva il giudizio

sfavorevole di alcuni artisti, tra i quali Paul Delaroche, persuaso che la nascita della fotografia avesse provocato la morte della pittura. In linea con la sentenza di Flaubert convinto che la nuova tecnica avrebbe preso il posto della pittura, emergevano i continui dubbi sul valore della nuova tecnica fotografica. Charles Baudelaire, acerrimo nemico alla fotografia, vedeva in essa un'evidente manifestazione della massificazione e dell'industrializzazione dell'arte e più in generale della cultura:

È sorta in questi deplorevoli giorni una nuova industria che ha contribuito non poco a distruggere ciò che di divino restava dello spirito francese. È noto che la folla idolatra richiedeva un ideale degno di sé conforme alla propria natura […]. Un Dio vindice ha esaudito i voti di questa moltitudine. Daguerre fu il suo Messia. E allora essa disse tra sé: «giacché la fotografia ci dà tutte le garanzie d'esattezza che si possono desiderare (credono questo gli insensati) l'arte è la fotografia». Una follia, uno straordinario fanatismo si impadronì di questi nuovi adoratori del sole […]. Di lì a poco migliaia di occhi avidi si inchinarono sui buchi degli stereotipi come sugli abbaini dell'infinito. L'amore dell'osceno, naturalmente vivo nel cuore dell'uomo quanto l'amore di sé, non lasciò sfuggire un'occasione così bella per soddisfarsi […]. Poiché l'industria fotografica era il rifugio di tutti i pittori mancati, scarsamente dotati o troppo pigri per compiere i loro studi, questa frenesia universale aveva non solo il carattere dell'accecamento e dell'imbecillità, ma anche il colore di una vendetta […] l'industria, facendo irruzione

1 GUIDO PIOVENE, Il valore dell'attimo, in Gli scrittori e la fotografia, a cura di Diego Mormorio, Roma, Editori

Riuniti, 1988, p.31.

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nell'arte, ne diviene la più mortale nemica e la confusione delle funzioni fa sì che nessuna sia compiuta a dovere. La poesia e il progresso sono due ambizioni che si odiano d'un odio istintivo, e, quando s'incontrano sulla stessa strada, bisogna che uno dei due serva l'altro. Se si concede alla fotografia di sostituire l'arte […], essa presto la soppianterà […]. Bisogna dunque che essa torni al suo vero compito, quello di essere la serva delle scienze e delle arti […].3

Relegata da Baudelaire a serva delle arti maggiori, la fotografia rientra in quella spinta diffusa nella modernità verso l'oscenità e la stoltezza e diviene così un mezzo insidioso, una falsificazione totale del reale, una mostruosa alterazione della natura, un'ignobile barbarie. L'istantanea, la fissazione in eterno di un attimo fuggente porta l'uomo a distogliere l'attenzione dalle forme più autentiche di arte: la fotografia diviene la forma di concorrenza alla pittura e alla letteratura. Caratterizzata solo da facilità di realizzazione e mancanza di ispirazione è il rifugio di pittori mancati, di chi è privo di talento ed è simbolo di vacuità e inettitudine, poiché non richiede a chi la pratica quelle capacità mentali e ideali che invece caratterizzano il vero artista.

Il disprezzo verso il nuovo mezzo rientrava nell'acquisita consapevolezza che la fotografia producesse immagini attraverso gesti puramente meccanici, escludendo quindi totalmente e definitivamente il tocco e la sensibilità dell'artista. D'altronde, mentre il pittore deve pensare a lungo prima di portare sulla tela i colori e le forme, mentre lo scrittore prima di dedicarsi alla scrittura deve afferrare gli ambigui significati del reale e mutarli nella propria mente dandogli una forma percettibile e linguistica, il fotografo lavora nell'immediatezza creativa. Il semplice gesto, lo scatto veloce del dagherrotipista trasferisce meccanicamente sulla lastra o sulla pellicola una copia della realtà.

Nell'invettiva contro la fotografia si avverte la convinzione, ancora viva agli inizi del XIX secolo, che l'arte è ciò che ci permette di accedere alla natura così come essa è, di conoscerla non

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superficialmente, ma idealmente, ovvero di coglierne e apprezzarne l'infinita grandezza e magnificenza. Denunciando la dilagante confusione tra bello e reale, Baudelaire constata con amarezza la tendenza a ricercare non il bello, ma il vero, provocando così il dissolvimento dell'immaginazione. Egli è convinto che la società e gli artisti francesi siano stati attratti dalla ricerca del vero oggettivo, dimenticando quanto l'intangibile, l'invisibile, l'onirico siano gli elementi portanti del reale. Quindi la fotografia, replica esatta e impassibile del vero, altro non è che l'opposto dell'arte e «se le è concesso di sconfinare nella sfera dell'impalpabile e dell'immaginario, in tutto quello che vale soltanto perché l'uomo vi infonde qualcosa della propria anima, allora siamo perduti».4

1.3 I cambiamenti nello statuto dell'arte secondo Walter Benjamin

È proprio nell'ottica di questo idealismo artistico e della fede nel primato della mente che nasce il disgusto per la fotografia, capace di offrire a un pubblico assetato di dettagli la possibilità di produrre immagini fedeli e veritiere, ma prive di un'autentica valenza artistica. L'atto fotografico, infatti, è considerato dai più veementi detrattori un gesto deformante, destinato a cogliere solo il frammentario e il meccanico e non la magnificenza del circostante. L'immaterialità della pellicola fotografica finisce per contrapporsi alla materialità delle pennellate del pittore e all'incessante lavorio della scrittura. Nemico alla capacità umana di immaginazione, lo scatto non fa che appiattire le dimensioni spaziali, ritagliare in modo spesso casuale la realtà rappresentata, fissare e irrigidire movimenti e azioni.

Gli echi della polemica baudelairiana rimandano a un generale odio per la società di massa, a un generale senso di decadimento e alla consapevolezza che «l'industria, ovvero la possibilità di una riproducibilità e sostituibilità infinite, è ciò che ossessiona l'arte, che la abita, la minaccia e la circoscrive».5 A preoccupare maggiormente è, infatti, la possibilità di una riproduzione seriale e

meccanica dei prodotti fotografici, sinonimo di mancanza di pregevolezza e di valore artistico.

4 C.BAUDELAIRE, Il pubblico moderno e la fotografia, cit., p.24.

5 REGIS DURAND, Quale storia (quali storie) della fotografia, in AA.VV, Letteratura e fotografia, numero

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Ammettere l'artisticità come peculiarità insita nella fotografia non è possibile, poiché è ancora diffusa l'idea che l'arte pura si presenti come un evento unico e astratto, irripetibile e universale. Il prodotto fotografico non è considerato come un unicum estetico, perché l'apparecchio può produrre copie perfette, identiche l'una all'altra. Pertanto generare prodotti uguali significa produrre forme prive di quella peculiarità e sensibilità, che invece caratterizzava i manufatti dei pittori e degli scrittori. Si spiega, allora, l'attribuzione della paternità dell'invenzione della fotografia a Daguerre e non a Talbot: il dagherrotipo produceva una copia unica e irriproducibile, quindi carica di valore artistico e più vicina a un'opera pittorica tradizionale rispetto al talbotipo che invece generava una sola immagine negativa dalla quale potevano essere prodotte infinite stampe positive.

È chiaro, allora, che la possibilità concreta di produrre infinite copie inficiava il valore artistico della fotografia.

L'idea di unicum come garanzia di artisticità e di valore inizia a vacillare con il famoso saggio di Walter Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica. Qui l'autore in un'ottica del tutto nuova mostra una radicale apertura all'ingresso dell'industria e della tecnologia nel mondo dell'arte. Sovvertendo alcune posizioni precedentemente sostenute, dichiara che l'introduzione di nuovi metodi per produrre, riprodurre e diffondere a livello di massa i manufatti artistici ha radicalmente modificato l'atteggiamento verso l'arte. Benjamin, partendo dalla convinzione che

l'opera d'arte è sempre stata riproducibile. Una cosa fatta dagli uomini ha sempre potuto essere rifatta da uomini. Simili riproduzioni venivano realizzate dagli allievi per esercitarsi nell'arte, dai maestri per diffondere le opere, infine da terzi semplicemente avidi di guadagni. La riproducibilità tecnica dell'opera d'arte è qualcosa di nuovo che si afferma nella storia a intermittenza, a ondate spesso lontane l'una dall'altra, e tuttavia con una crescente intensità6

sostiene che la riproduzione intesa come imitazione manuale è sempre stata parte integrante

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della pratica artistica; al contrario, la riproducibilità tecnica, inaugurata dall'avvento della fotografia, è un fatto del tutto nuovo che determina il superamento dell'idea di unicità artistica.

Con l'invenzione della fotografia la riproducibilità del visibile attinge a una dimensione nuova, velocizzandosi e svincolandosi completamente dal condizionamento della manualità. Si afferma, infatti, il primato dell'occhio sulla mano rendendo possibile un processo di riproduzione figurativa capace di seguire la velocità della parola.

Rovesciando dialetticamente la critica baudelairiana, l'autore riflette sul profondo mutamento che risiede nel diverso rapporto con cui la riproduzione manuale e quella tecnica si misurano con l'autorità e l'autenticità dell'opera d'arte. La riproduzione tecnicamente perfetta della fotografia modifica lo statuto stesso dell'opera d'arte. Mentre in passato il valore del manufatto artistico era misurato dalla sua unicità, dal suo esistere solo nell'«hic et nunc»7, nella modernità l'opera, da

evento irripetibile, si trasforma attraverso la moltiplicazione delle produzioni. Nella riproduzione fotografica viene a mancare proprio quell'«hic et nunc»8, che rendeva l'opera d'arte unica e

autentica: «l'hic et nunc dell'originale costituisce il concetto della sua autenticità»9. L'arte in questo

modo perde «l'aura»10, ovvero quell'alone immateriale fatto di affetto e di immaginario,

quell'indicibile e inesprimibile a cui Baudealaire legava la pittura.

La riproducibilità e la serialità sono determinanti per l'uscita dell'arte dalla sfera della sacralità, luogo di conservazione e difesa dell'aura: l'arte non è più collocata in un universo sovrumano, non è più qualcosa di intoccabile, ma si intreccia con la vita umana in ogni sua possibile manifestazione. La riproduzione, infatti, elimina il particolare, l'evento unico, favorendone la quantità e modificandone sia la collocazione dell'opera nei confronti della tradizione sia il rapporto tra valore culturale e valore espositivo. Mentre il valore culturale era centrato sulla spiritualità, sul concetto che l'opera esistesse anche al di là della possibilità che fosse visibile, il valore espositivo permette

7 W.BENJAMIN, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p.22.

8 Ibidem. 9 Ibidem. 10 Ibidem.

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una maggiore fruizione dell'arte. Ne scaturisce un processo di democratizzazione volto a trasformare radicalmente il rapporto tra pubblico e oggetto d'arte: i prodotti artistici hanno più esponibilità, sono cioè più vicini al pubblico, tanto che ne determinano «un cambiamento qualitativo della sua natura»11. Cambiano le modalità di diffusione e fruizione dell'arte a tal punto

che gli oggetti artistici divengono più accessibili al pubblico e a sua volta l'arte, trasformando il suo modo di concedersi al mondo, si accosta maggiormente agli uomini.

La fotografia è la prima forma di arte in cui è visibile la dissoluzione del valore culturale in favore dell'esponibilità, poiché essa costituisce un prezioso strumento di indagine artistica capace sia di fornire più precise e accurate vie di accesso al reale sia una più immediata ed economica via di diffusione dell'arte. L'obiettivo fotografico può fare luce su aspetti irraggiungibili, può svelare dettagli dimenticati: la fotografia diviene compatibile con l'arte quando si accorda con gli intenti conoscitivi che tentano di comprenderla, trasformandosi in sostegno ai canali percettivi umani.

La macchina, anche quella fotografica, si fa strumento e supporto per la creazione artistica ed essa stessa si carica di artisticità. Ciò significa che l'autenticità dell'opera d'arte non risiede più nell'unicum come strumento di demarcazione artistica, poiché l'arte può sorgere all'interno di esso o al di fuori di esso, ed è misurata nella profonda sintesi che in essa risiede tra uomo e mondo. Ne consegue l'avvicinamento dell'arte alle masse e al tempo stesso la modifica dello statuto dell'esperienza estetica, che da estatica si fa distratta.12

Per concludere Benjamin, annunciando la perdita dell'aura insita nell'opera d'arte invita a prendere atto di un necessario cambiamento estetico. Egli arriva a dimostrare che la riproduzione seriale non comporta una perdita qualitativa dell'arte, ma spinge a un'esperienza laica e antiestetizzante, lontana dalla sacralità estetica classica.

11 W.BENJAMIN, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p.28.

12 L'etimologia dei due termini estatica e distratta permette di comprendere a fondo la modifica estetica auspicata da Walter Benjamin: estatica viene dal latino ex-traho, ovvero trarre fuori, mettere in chiaro, rivelare, tirare su; mentre distratta viene dal latino dis-traho che significa separare, dividere, distrarre. Benjamin, infatti, riconosce nell'epoca moderna il passaggio da un'attitudine estetica improntata su un atteggiamento concentrato e volto alla comprensione intima e profonda dell'immensità e della sublimità dell'arte a una modalità di comprensione dell'arte non più personale e interiore, ma collettiva e perciò disattenta.

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II. L'ESPERIENZA FOTOGRAFICA DEI VERISTI ITALIANI

L'arte, mutando i suoi obiettivi, rinnova il suo linguaggio e attraverso nuove tecniche come la fotografia concede sia la possibilità di vedere la realtà sotto vari punti di vista sia una più attenta percezione ottica del mondo. A tal proposito diviene allora interessante riflettere, muovendo proprio dall'interpretazione di Benjamin che valuta la fotografia nell'intreccio dei cambiamenti ideologici che caratterizzano la modernità, sul rapporto tra immagine fotografata e documento realistico. Prima ancora di diventare linguaggio autonomo e specifico della realtà e di ciò che in essa si nasconde, la fotografia risponde all'esigenza di indagare sul reale e diviene strumento di analisi sul mondo. Nutrendosi proprio di quelle qualità che Baudelaire dichiarava estranee al prodotto artistico, lo scatto si fa prova indiscussa dell'esistenza della realtà.

Pertanto, lo scrittore francese Emile Zola sostiene che «non si può dire di avere visto a fondo nessuna cosa fintanto che non ne sia fatta una fotografia: questa rivela un'infinità di particolari che altrimenti passerebbero inosservati, e che nella maggior parte dei casi non potrebbero essere visti distintamente»13. La fotografia, considerata come modalità meccanica di rappresentazione della

realtà, appariva come mero strumento capace di indagare perfettamente il reale, sul quale il naturalismo di Zola pretendeva un dominio e un controllo quasi totalitario.

Nasceva la cultura dell'immagine e, allo stesso tempo, la consapevolezza che la fotografia avesse un'ampia capacità di creare coscienza del mondo, garantendone inizialmente una percezione esclusivamente oggettiva e impersonale. Più tardi, allargando i confini ristretti di una visione puramente informativa ed esplicativa, emerse la cognizione della fotografia come strumento gnoseologico del mondo finalizzato ad afferrare il particolare nel generale, il singolo nel tutto.

Questa tendenza, seppur ancora in maniera tenue, si avverte negli scrittori italiani veristi, come Luigi Capuana, Giovanni Verga e Federico De Roberto.

Se è vero che per questi scrittori la fotografia rappresentò prima di tutto un diletto, è altrettanto

13 Dall'intervista concessa a The Photo-Minature, 21 dicembre 1900: si cita in traduzione, Introduzione, in Gli scrittori

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vero che i loro scatti vanno molto al di là del semplice dato descrittivo, superando l'oggettiva rappresentazione documentaristica del mondo. Infatti, analizzando a fondo il loro approccio al nuovo mezzo ci rendiamo conto che la fotografia è tutt'altro che confinata a una semplice appendice biografica, ma diviene mezzo per penetrare nelle dinamiche psicologiche e soggettive dell'uomo. Questo non significa che le loro immagini siano prodotte come riflesso della scrittura, ma piuttosto si deve pensare alla loro attività fotografica come apertura di una spazio riflessivo, da cui prenderà vita, a inizio del secolo successivo, una sorta di linguaggio esistenziale.

2.1 Il lato perturbante degli scatti fotografici di Capuana

Data la sua personalità eclettica e l'attitudine all'apertura verso le più composite manifestazioni artistiche spetta il ruolo di iniziatore a Capuana, che intratteneva rapporti con molti scrittori, soprattutto stranieri, alcuni dei quali particolarmente attivi nel campo fotografico. Con Emile Zola, infatti, riuscì a costruire una solida amicizia, oltre che un sodalizio letterario, che trovò nel condiviso interesse per la fotografia le più solide basi. Infatti, quando il caposcuola del naturalismo francese giunse in Italia nel 1894 per ultimare il libro, intitolato Roma, ebbe contatti stretti con Capuana, il quale oltre a fornirgli una serie di ritratti di donne italiane, lo immortalò in diversi scatti con la consorte.

La sensibilità dello scrittore verista nei confronti del nuovo mezzo fotografico nasce probabilmente nel soggiorno fiorentino del 1864. Non è un caso che Firenze divenga la sede della Società Fotografica Italiana nel 1889. In questo dinamico contesto culturale personalità autorevoli nel campo della scienza e fotografi professionisti, come Carlo Brogi e Vittorio Alinari, crearono le basi oltre che le circostanze per l'interesse e la ricettività verso l'arte fotografica. Pertanto, tornato in Sicilia nel 1880, Capuana allestisce uno studio fotografico che denomina Grande Atelier

Fotografico in Mineo diretto dal Prof. Luigi Capuana, «un vero e proprio bazar di provette, aggeggi

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consentivano di intervenire in tutte le fasi del lavoro fotografico»,14 un autentico laboratorio di

sperimentazione di vari generi, dal ritratto fotografico agli scatti di natura morta.

L'autore non collega mai direttamente attività letteraria e diletto fotografico: nessuno dei suoi saggi tratta di fotografia dal punto di vista teorico né tanto meno estetico e la fotografia è tenuta lontana dalla mimesis letteraria. Tuttavia, elabora i suoi scatti usando gli stessi artifici e allestendo le stesse finzioni che emergono dalla sua produzione letteraria caricandoli spesso di un sottile umorismo. In quest'ottica sono interessanti due autoscatti: l'uno del 1887 nel quale Capuana si immortala su una poltrona fingendosi ambiguamente morto; l'altro del 1903 in cui si fotografa disteso su un letto con gli occhi al cielo e pallido come un defunto. Questi bizzarri scatti danno vita a una sorta di paradosso che unisce istanze veriste ed esigenze quasi metafisiche. Come può, infatti, un morto fotografare se stesso?

Fotografarsi privo di vita significa, per Capuana, immortalare l'unico vero istante di verità: la morte. In questo modo, la fotografia ben lontana dalla semplice funzione documentaristica, denota una tendenza verso il mistero, l'inconoscibile e l'invisibile.

Se ne evince che la fotografia per Capuana fu certamente momento di svago e piacere, ma non per questo va pensata come elemento immobile, senza sviluppo e completamente separata sia dalla complessità dei suoi lavori letterari sia dalla versatilità della sua personalità. Non è un caso che nella novella A una bruna del 1897 l'autore rievochi tramite il protagonista Giorgio*** (suo alter ego) l'autoscatto “funebre” realizzato una decina di anni prima.15 Alla reazione irritata e impaurita

della donna di fronte al profetico ritratto, il protagonista rivela l'ossessiva attrazione verso quel

14 Guardare oltre. Letteratura, fotografia e altri territori, a cura di Silvia Albertazzi e Ferdinando Amignoni, Roma, Meltemi, 2008, p.16.

15 A tal proposito, si cita il testo LUIGI CAPUANA, A una bruna, in Fausto Bragia e altre novelle, Catania, Giannotta, 1897, p.206: «Che pace immensa! Che serenità soave! La mia solitudine si popola di ricordi, di visioni, di romanticherie[...]. Ho deciso di vivere, di terminar di vivere a questo modo, sognando, fantasticando; e, arrivata l'ora di andarmene a quello che chiamano l'altro mondo, mi parrà di entrarvi più naturalmente, senza stacco, senza salto: mezzo ci sono di già.

L'altro mondo! È la mia vivissima curiosità. Esiste? Non esiste? Confesso francamente di non saperne nulla. Se non esiste, mi sento anticipatamente rassegnato a dormire per tutta l'eternità. Se esiste, ne avrò un gran piacere […].

Come mi addormenterò per l'altro sogno? Ho voluto averne un'idea e mi sono fatto fotografare da morto, con il capo abbandonato sui cuscini, con gli occhi stravolti e la bocca semiaperta […].

Voi mi avete sgridato per quel ritratto, quand'ebbi la infelice idea di mandarvene una copia: vi pare una fanciullaggine, una stramberia, una posa; ne aveste paura e ribrezzo […].

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mondo altro fantasticato nella posa della foto e nella sua immaginazione.

In questo modo si comprende che la fotografia è per Capuana uno spazio che coinvolge multiformi interessi, che si delinea in specifici tratti per lo più a carattere spiritico/funebre e asseconda un complessivo orientamento umorale vincolato alle più profonde qualità esistenziali dell'autore stesso. Pertanto, la fotografia sembra definirsi in un'alternanza tra momenti di esaltazione e momenti di frustrazione come l'autore lascia capire in una lettera a Verga del 23 luglio 1886 dove scrive: «per darti un'idea del mio stato […], ti dirò che non ho avuto neppure l'idea di occuparmi più di fotografia. Ogni cosa è abbandonata nell'atelier e coperta di polvere».16

Quindi, non solo pura esteriorità e indagine incorruttibile del mondo, ma espressione di istanze personali e ontologiche.

Diventa allora chiaro che per Capuana fotografare non significa soltanto cogliere sistematicamente il reale, ma l'indagine sul mondo, che il mezzo fotografico necessariamente implica, diviene per lui il tentativo di dare aspetto visivo a quell'alone spiritico, ricercato costantemente, come già emerso, anche nella scrittura. Egli, infatti, indaga la realtà «secondo un'ottica scientista»,17 che tenta di immortalare non solo il visibile, ma anche le apparenze nascoste

e metapsichiche. Sono significative a questo proposito due fotografie scattate dall'autore stesso: la prima immortala il corpicino di una bambina morta, che si credeva impossessata dagli spiriti, accompagnata da una didascalia dove Capuana scrive: «Beppina Poggi dominata da Spirito dalla sera del Sabato 27 Agosto fino il giorno 30 di detto mese – 1864 – Firenze – Piazza S.a Caterina e via dell'Agnello, 1».18 L'annotazione assume i connotati di una vera e propria descrizione nel

tentativo di conferire all'immagine stessa un aspetto memoriale. È evidente la volontà di penetrare nelle viscere del pensiero e della coscienza.

La seconda fotografia è un chiaro esempio di tentativo di materializzazione di uno spirito effettuato da Capuana con la camera oscura. L'ipotesi è che l'autore abbia effettuato l'esperimento

16 Carteggio Verga-Capuana, a cura di Gino Raya, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1984, p.255. 17 Guardare oltre. Letteratura, fotografia e altri territori, cit., p.16.

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spiritico nella volontà di conferire a esso uno spessore esistenziale. L'immagine amorfa, sfumata e opaca, nera e triste è una reale e visibile materializzazione di quella tensione tra vita e morte, tra sogno e oltretomba che attraversa costantemente la scrittura di Capuana e in generale l'esistenza umana.

Perciò l'autore, pur nella consapevolezza che il nuovo mezzo possiede ampie capacità di documentazione e indagine sul mondo, smaschera e contatta il lato perturbante e inquietante del potere della fotografia. Riuscendo grazie a un ampio eclettismo intellettuale ad allargare la sua base naturalistica, egli fa della fotografia il luogo di congiuntura tra istanze diverse, realistiche e oggettive da una parte, intime ed esistenziali dall'altra.

2.2 Punti di vista sul reale: Verga e la fotografia

Sulla scorta di Capuana, Verga si avvicina alla fotografia tra il 1877 e il 1878, rimanendo comunque estraneo ai non sempre ortodossi interessi dell'amico. Buona parte della sua produzione è simile a quella di Capuana, occupata da ritratti di amici e familiari e dagli spazi antropici siciliani.

Anche per Verga la fotografia si presenta apparentemente come surrogato alla letteratura, come gioco e diletto, ma, analizzando a fondo il suo approccio al nuovo mezzo, la fotografia per l'autore non è mai priva di quella fisionomia intellettuale che, caratterizzando anche la scrittura letteraria, determina il punto da cui osservare la realtà.

Considerato fotografo da istantanea, Verga non nutre interesse per i processi di elaborazione dell'immagine, infatti, la sua pratica fotografica si esplica maggiormente dietro l'obiettivo fotografico: nella predilezione per alcuni tipi di soggetti, nella scelta dell'illuminazione e dell'angolatura. La fotografia verghiana si concentra essenzialmente sullo sguardo ed esprime un approccio diretto con la realtà, non condizionato da alcun intervento personale dell'autore.

Perciò il linguaggio fotografico verghiano è stato erroneamente valutato da buona parte della critica come estremamente semplice ed essenziale, Andrea Nemiz in Capuana, Verga, De Roberto

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Un linguaggio fotografico molto elementare quasi ridotto alla essenzialità, Verga sembra limitarsi ad una rappresentazione oggettiva del soggetto fotografico, senza far pesare i suoi stati d'animo. Partecipa […], ma non usa artifici, finzioni, trucchi (come Capuana). La produzione fotografica di Verga sembra tutta caratterizzata dalla necessità di fissare ora un paesaggio, ora un volto, ora un gruppo, escludendo intromissioni e violazioni alla realtà fotografata che non siano quelle dell'obiettivo. Un'analisi approssimata potrebbe addirittura far nascere il sospetto di superficialità, o di scarso entusiasmo, nell'uso della macchina fotografica da parte dello scrittore […]. Le stesse indicazioni didascaliche, stringate, prive di elementi di fantasia, […] danno un'idea dell'essenzialità nel lavoro di ripresa e, soprattutto, di pura documentazione.19

Tuttavia, lontano anche lui da esigenze esclusivamente veristico-documentarie, l'autore si interessa ben poco agli aspetti professionali e tecnici dell'atto del fotografare e all'elaborazione dell'immagine in fase di sviluppo, dimostrando una personale attitudine al mezzo fotografico.

Verga si concentra principalmente sulla realizzazione di ritratti a singole persone o gruppi, con uno stile che si dimostra spesso scabro e poco convenzionale. Infatti, egli scatta fotografie che «si distinguono [...] in modo sensibile dalla pratica di Capuana, o di De Roberto, o di altri […] che danno sullo scorcio del secolo un contributo determinante all'esplorazione delle possibilità del linguaggio fotografico»20. La diversità risiede sia nell'imperizia tecnica più volte dimostrata

dall'autore sia negli intenti che convergono su una personale linea di ricerca tesa alla realizzazione di ritratti dotati di una «straordinaria forza espressiva».21 Non allestendo mai uno studio fotografico,

Verga non si preoccupa di cercare sfondi adeguati, ma realizza spesso le foto attraverso la messa in scena di un soggetto con alle spalle «muri scrostati, affreschi sbiaditi e mezzi staccati, pavimenti

19 A.NEMIZ, Capuana, Verga, De Roberto fotografi, cit, p.61.

20 IRENE GAMBACORTI, Ritratti verghiani, in Anna Dolfi, Letteratura & Fotografia, Roma, Carocci, 2007, p.155.

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sporchi»,22 sottolineando un'attenzione esclusiva per la figura umana e per la sua espressività. I

soggetti, infatti, sono ritratti nei luoghi della loro esistenza quotidiana, in abiti da lavoro, tanto che «è come se alle persone fosse chiesto di fermarsi un attimo e guardare l'obiettivo».23

È vero che a un primo sguardo l'attitudine verghiana al mezzo fotografico sembra rivelare una funzione prevalentemente documentaristica e una tendenza alla sola indagine realistica del mondo e dell'uomo, ma andando più a fondo è facile rendersi conto che l'autore proprio attraverso quell'occhio anonimo (sia di narratore, sia di fotografo) si accosta al reale con una finalità lontana dal semplice ricalco. In Verga, infatti, è evidente l'instaurazione di «un'esperienza estetica al sodo dell'esperienza sensoriale»24. La fotografia, così come la scrittura disincantata e pura, genera una

sorta di sguardo crudele che analizza il reale da una prospettiva molto profonda.

È evidente quindi che la complessità degli intenti fotografici ben spiega l'influenza della fotografia sui modi della rappresentazione letteraria. La ricerca sulle potenzialità espressive del mezzo fotografico va di pari passo con la ricerca letteraria, tanto che gli esperimenti fotografici hanno contribuito all'accentuazione dell'aspetto iconico della scrittura verghiana nel Mastro-don

Gesualdo. La ricerca fotografica diviene così un modo per andare oltre i limiti della scrittura nello sforzo di cogliere l'enigma dell'individuo, che Verga all'alba

del Novecento non aveva ancora i mezzi per analizzare: l'interesse si concentra tutto nel cogliere dai volti, dalle fattezze fisiche la verità di una condizione umana, o diciamo addirittura il segno di un destino. Le fotografie costituirebbero testimonianze mute di una realtà che appariva priva di senso nelle sue articolazioni sociali, ma conservava un significato inesauribile di verità racchiuso nella concretezza inscindibile delle singole persone […]. La fotografia gli permetteva di raffigurarla […], sintetizzando in un'immagine la somma di circostanze ambientali e di esperienze particolari di cui è improntato un individuo.25

22 I.GAMBACORTI, Ritratti verghiani, cit., p.157.

23 Ivi, p.166.

24 MARCELLO CICCUTO, Le immagini “avverse” alla storia (scheda per Verga fotografo), in «Italianistica», XXXVI,

2007, 1-2, p.130.

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La fotografia si avvia in questo modo alla determinazione di una profonda trasformazione percettiva dello spazio, del tempo, dell'uomo e del mondo. Se è vero che Verga fotografa i soggetti così come essi sono non sottoponendoli a trasformazioni o artifici in fase di sviluppo, è altrettanto vero che per le sue fotografie non si può parlare semplicemente di ricalco e di puro realismo. Lo scatto verghiano, declinando la realtà in tanti segni visivi, distrugge proprio quella pura funzione documentaristica, di cui è accusato, e si carica di un'infinita molteplicità di punti vista sul reale. Diventa allora significativo quanto scrive Irene Giambacorti in Ritratti verghiani:

La ricerca sul linguaggio gestuale, volto a rivelare la verità dei sentimenti dei personaggi davanti alla crisi della comunicazione verbale sancita nel romanzo, con la parola falsata e mortificata dall'equivoco, dalla doppiezza, dal chiacchiericcio inconcludente, sarebbe potenziata dalla scoperta sempre più consapevole della fotografia. La scrittura recupererebbe e ingrandirebbe “fotograficamente” il particolare ancora significativo.26

Ben lungi dall'affermare la teoria di Nemiz che vede una scissione tra fotografia e letteratura, si comprende allora che in Verga la foto diventa modo per ripercorre i luoghi della sua narrativa e per determinare la genesi di una sorta di racconto per immagini. Questo non significa che la fotografia sia per lui supporto letterario, configurandosi essa stessa come esperienza estetica, lo scatto diviene mezzo autonomo di ricerca, di comunicazione e di espressione.

2.3 Elementi architettonici e delimitazione spaziale. Soggettività e oggettività nella

rappresentazione fotografica di De Roberto

Lo scrittore verista, che rappresenta un punto privilegiato di osservazione per analizzare i rapporti tra fotografia e letteratura, è sicuramente Federico De Roberto. Personalità eclettica e multiforme, l'autore, definendosi ironicamente «apprendista»27, si avvicina alla fotografia all'età di

vent'anni grazie alla mediazione dell'amico Verga e ai buoni consigli di Capuana. Tuttavia, «a

26 I.GAMBACORTI, Ritratti verghiani, cit., p.182.

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differenza dei due amici scrittori, nonché maestri di fotografia, De Roberto si inserì, però, nella attività fotografica con deciso impegno professionale, accostandola concretamente al lavoro di giornalista».28

L'appartenenza alla corrente verista dovrebbe, per ragioni storiche e culturali, indurlo a considerare la macchina fotografia come semplice strumento di indagine realistica e obiettiva del mondo. Inoltre, dato che «gran parte dell'opera fotografica dello scrittore è, tuttavia, almeno sinora, dispersa e nessun originale, o quasi, è arrivato sino a noi»29 ad eccezione di un corpus costituito da

immagini che hanno abbellito l'articolo giornalistico dedicato alla festa di San Silvestro da Troina e la guida Randazzo e la valle dell'Alcantara, è facile supporre, dato anche il carattere illustrativo di queste immagini, un uso della fotografia in funzione esclusivamente documentaristica.

È chiaro che De Roberto si piega, almeno in parte, ad alcuni imperativi veristi, in primo luogo quando mette in scena il paesaggio romantico costituito da vestigia medievali e cittadelle arroccate. Nonostante questi presupposti (l'enunciazione verista e i vincoli imposti dal genere della “guida”) non è possibile però concordare con la tesi di Leonardo Sciascia, il quale sostiene che «nato vent'anni dopo, Federico De Roberto, non giocò, non si “diletto”: asetticamente si servì della fotografia. Se ne fece un ausilio, con buon mestiere, al suo mestiere di giornalista, di storico».30

Benché le condizioni e le circostanze sembrino, almeno apparentemente, limitare l'autore a un approccio esclusivamente realistico-oggettivo, la neutralità e l'imparzialità dell'immagine è sempre inficiata da un atteggiamento soggettivo e da un evidente legame tra opera narrativa, I Viceré, e la produzione fotografica derobertiana.

Pertanto:

narrativa e fotografia mostrano due preoccupazioni comuni: dal punto di vista dell'enunciato, sviluppano entrambe la materia del potere attraverso una particolare configurazione dello spazio, mentre dal punto di vista dell'enunciazione offrono spunti per indagare le

28 A.NEMIZ, Capuana, Verga, De Roberto fotografi, cit., p.103.

29 Ibidem.

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modalità della visione e della rappresentazione della realtà derobertiane.31

Così il nesso tra fotografia e letteratura si esplica in modo inequivocabile nell'accostamento tra due opere derobertiane: I Vicerè e la guida Randazzo e la Valle dell'Alcantara, pubblicata nel 1909 presso l'Istituto di Arti Grafiche di Bergamo e corredata da un apparato di fotografie di cui settanta scattate da De Roberto stesso. In entrambe le opere emergono particolari simili derivanti dall'attenzione dell'autore per gli elementi architettonici, che «risultano essere figure strutturanti dell'immaginario derobertiano».32

La guida è, infatti, dominata dall'interesse per le figure liminari che assumono valore ideologico e culturale: «possono separare e unire, segnare l'inclusione e l'esclusione, distinguere l'interno dall'esterno, permettere il passaggio o costruire un ostacolo, sono al tempo stesso entrata e uscita, spesso assumono un valore iniziatico».33 La predilezione per gli elementi strutturali, come

porte e finestre, va ricercata sia nel valore simbolico sotteso che rimanda a un sistema di potere (tema prediletto dall'autore) sia, dal punto di vista enunciativo, nel riferimento alla natura dell'atto fotografico vero e proprio.

Nell'antica cittadella siciliana di Randazzo e nei suoi dintorni, De Roberto fotografa porte e finestre come forme materiali e visibili della gerarchizzazione sociale e del potere dominante. Nondimeno la descrizione delle residenze della famiglia degli Uzeda ne I Viceré si esplica inizialmente nell'esposizione della struttura degli ingressi. Ricordiamo a questo proposito la rappresentazione dell'entrata della casa Francalanza a partire proprio dalla porta di ingresso:

Giuseppe dinanzi al portone, trastullava il suo bambino, cullandolo tra le braccia, mostrandogli lo scudo marmoreo infisso al sommo dell'arco, la rastrelliera inchiodata al muro del vestibolo, dove, ai tempi antichi, i lanzi del principe appendevano le

31 MICHELA TOPPIANO, La configurazione dello spazio nella narrativa e nella fotografia di Federico De Roberto, in

A.DOLFI, Letteratura e Fotografia, I, cit., pp.208-209.

32 Ibidem. 33 Ibidem.

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alabarde[...]34

Ne emerge che la configurazione del potere ne I Viceré si muove sulle medesime coordinate che De Roberto usa per la descrizione del paesaggio di Randazzo: delimitazione degli spazi da parte degli elementi architettonici e costruzione di un rapporto verticale che crea una strutturazione gerarchica della società e dell'autorità. Se nel palazzo degli Uzeda la finestra è il luogo di delimitazione tra esterno e interno, la porta carica su di sé non solo la dialettica dentro/fuori, ma diviene anche limite invalicabile, spazio privato e isolato, luogo inaccessibile predisposto a linea di demarcazione delle differenze sociali e contrassegno dell'esclusività del potere.

Gli elementi architettonici, delimitando e ritagliando porzioni di spazio, non solo definiscono le forme dell'autorità locale, ma riproducono anche la selezione stessa effettuata al momento dell'inquadratura fotografica e impongono uno scorcio che allude alle tecniche di inquadratura e di angolazione. La scelta di rappresentare spazi architettonici si carica così di una prospettiva conoscitiva che condiziona lo sguardo. «La connotazione in senso conoscitivo di porte e di finestre […] finisce per includere una problematica gnoseologica più vasta»,35 perciò, la conoscenza si

compie attraverso la mediazione di simboli architettonici che escludono e al tempo stesso includono la rappresentazione di una realtà.

Quindi, De Roberto nella descrizione di un oggetto o di un luogo non si limita alla rappresentazione, ma, iscrivendo la soggettività nella realtà rappresentata, delinea sia i contraccolpi che la stessa soggettività riceve dall'osservazione del reale sia la modificazione che il mondo stesso subisce di fronte allo sguardo. Perciò fotografia e narrativa «lungi dall'essere due pratiche estranee l'una all'altra, rivelano una solidarietà sorprendente [...]»,36 poiché entrambe favoriscono un rapporto

nuovo con la realtà: non più solo esperienza estetica, ma spostamento dell'interesse dall'oggetto allo sguardo sull'oggetto stesso.

Analizzando l'attitudine con cui gli scrittori veristi si approcciano alla fotografia, si comprende

34 FEDERICO DE ROBERTO, I Viceré, in Romanzi, novelle e saggi, a cura di Carlo Alberto Madrignani, Milano,

Mondadori, 1984, p.413.

35 M.TOPPIANO, La configurazione dello spazio nella narrativa e nella fotografia di Federico De Roberto, cit., p.225.

(29)

che lo scatto fotografico non è una semplice riproduzione della realtà, ma diviene mezzo con il quale gli autori intendono far emergere quel lato non manifesto del reale, trasmettendo al tempo stesso le loro percezioni e le loro sensazioni. Perciò «è senza dubbio vero che il romanzo realista ottocentesco fu il primo, certo sull'onda della vasta popolarità e diffusione della fotografia, a trasformare un certo tipo di informazione visiva, riconoscibile negli oggetti del mondo circostante, in un modo di vedere».37

Gli autori veristi, dilettandosi a scovare il dettaglio nascosto del reale, aprono una prospettiva nuova per il mezzo fotografico: la fotografia è al tempo stesso «oggetto di visione»38 e arte dello

sguardo.

L'occhio meccanico puntato sulla realtà non si limita, infatti, a registrare la superficie piatta delle cose, ma coglie il profondo e l'intrinseco nascosto nel reale. Ne deriva che la fotografia consente di «esplorare scientificamente l'irreale, l'invisibile, il paranormale»,39 poiché instaura con

la realtà una connessione tutt'altro che superficiale e oggettiva. Lo scatto, infatti, non solo esplica un'identità con l'oggetto rappresentato, ma ne «raccoglie i raggi invisibili»,40 conferisce cioè

visibilità allo strato più nascosto del mondo.

Ne consegue che il presupposto da cui prende avvio l'indagine dei rapporti tra fotografia e letteratura deve necessariamente tenere conto da una parte della pretesa oggettività ed equivalenza tra immagine e realtà attribuita al mezzo fotografico nei primi decenni della sua invenzione, dall'altra parte dell'aspetto performante e dell'autonoma manifestazione sensibile della realtà che caratterizzano il concetto di immagine.

37 SILVIA ALBERTAZZI, Letteratura e fotografia, Roma, Carocci, 2017, p.75.

38 Ivi, p.79.

39 ROBERTO DE ROMANIS, Scrivere con la luce. Fotografia e letteratura tra Otto e Novecento, in AA.VV, Letteratura e

fotografia, cit., p.22.

(30)

III. LA FOTOGRAFIA COME SGUARDO SUL MONDO

3.1 Tra oggettività e soggettività: fotografia e letteratura

L'attenta valutazione dei modi con cui gli scrittori veristi usano il nuovo mezzo evidenzia un approccio fotografico che non muove da un interesse esterno, biografico e fine a se stesso, ma permette di ottenere nuovi modelli di rappresentazione della realtà, nuove soggettività e più profonde percezioni dello spazio e del tempo. Perciò se è vero che l'oggettività è parte integrante della loro attività letteraria e del loro diletto fotografico, è innegabile che il mito dell'oggettività fotografica si frantuma tra le pagine dei loro scritti. La fotografia diventa sguardo, soprattutto in De Roberto, capace di isolare e offrire una realtà nascosta, parziale e limitata.

L'input verista e soprattutto il Modernismo del primo Novecento sanciscono, infatti, la presa di coscienza che lo scatto crea nuovi rapporti tra uomo e realtà: la fotografia inizia a mutarsi in linguaggio e diventa fondamentale per «la descrizione di un mondo – naturale, ma soprattutto individuale – che va perdendo la sua presunzione di integrità e totalità».41

Ne deriva che la fotografia si presenta come esperienza in cui da una parte si innesta la scelta individuale e soggettiva dell'autore-fotografo e dall'altra parte emerge quel lato nascosto del reale che la considerazione oggettiva della stessa escluderebbe a priori. Pertanto la foto, caricandosi di un valore gnoseologico pari a quello della scrittura, esplica una realtà diversa da quella del mondo esterno: l'obiettivo riprende aspetti che solo in parte mostrano il reale tale e quale a come appare in natura. Lontana dall'essere calco e sostituto rappresentativo del mondo, la fotografia, mutando «i modi stessi del rapporto del soggetto con la realtà»42 e influendo in particolare sull'interiorità e sulla

percettibilità umana, «impone un nuovo modo di guardare la realtà».43

Quindi se l'invenzione del nuovo mezzo ha provocato effetti duraturi sui modi della rappresentazione e della conoscenza del mondo e della realtà, è innegabile che la letteratura,

41 S.ALBERTAZZI, Letteratura e fotografia, cit., p.81.

42 REMO CESERANI, L'impatto della tecnica fotografica su alcuni procedimenti dell'immaginario letterario

contemporaneo, in AA.VV, Letteratura e fotografia, cit. p.53.

(31)

aspirando a quel pieno dominio sul reale a cui tende anche la fotografia, non sia rimasta estranea al potere del nuovo mezzo. Infatti, la letteratura tematizza la foto per metterne in luce «le incongruenze, il non detto, ciò che sta dietro e oltre l'inquadratura»,44 la fotografia a sua volta

influenza la letteratura non solo come «tema attraverso il quale narrativa e poesia riflettono sul reale, sul visibile e sull'invisibile»,45 ma anche come spazio di riflessione sull'essenza e sulla

manifestazione sensibile della realtà. Quindi, allo stesso modo in cui la letteratura ricorre alla fotografia, quest'ultima incontra frequentemente il testo influenzando le modalità della scrittura stessa.

Alla luce di queste considerazioni diventano significative le parole di Remo Ceserani che scrive

c'è stata, da parte di molti scrittori della modernità, un'attenzione intensa e profonda per le tecniche e i modi della riproduzione fotografica, fino a lasciarsene invadere l'immaginazione, influenzare i modi di percezione della memoria e della realtà interiore ed esteriore, le pratiche di cattura ed esorcizzazione di parti e dettagli del mondo, le tecniche stesse della descrizione e della ricreazione letteraria. Negli scrittori della letteratura postmoderna, poi, quella della fotografia è una presenza invadente e quasi ossessiva e i procedimenti della tecnica fotografica sono stati molto frequentemente tematizzati.46

Si comprende allora che fotografia e letteratura, creando tra loro rapporti biunivoci e scambievoli, si condizionano e si completano a vicenda. Intercorrono, infatti, tra immagine fotografica e parola narrativo/poetica numerose implicazioni che rendono i due linguaggi tra loro affini. La fotografia, godendo di una propria “sintassi”, rinnova la scrittura e crea le strutture visivo/linguistiche necessarie alla genesi narrativa.

L'analisi dei rapporti tra letteratura e fotografia allora prende avvio dai già citati dibattiti sul

44 S.ALBERTAZZI, Letteratura e fotografia, cit., p.8.

45 Ibidem.

46 R.CESERANI, L'impatto della tecnica fotografica su alcuni procedimenti dell'immaginario letterario contemporaneo,

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