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Iconografia fotografia dell'opera La Figlia di Iorio

VI. LUOGHI E PERCEZIONI VISIVE: L'INFLUENZA DELLA FOTOGRAFIA

6.3 Iconografia fotografia dell'opera La Figlia di Iorio

È ben noto come la stesura dell'opera dannunziana La Figlia di Iorio avvenne in un tempo molto breve, «tra il 18 luglio e il 29 agosto 1903, le date estreme»133 sono «vergate dallo scrittore

129 M.MIRAGLIA, Francesco Paolo Michetti fotografo, cit. i, p.36.

130 Ibidem. 131 Ibidem. 132 Ibidem.

sul frontespizio dell'autografo»134. Tuttavia «a monte del componimento testuale si dipana […] una

lunga “gestazione mentale” che trova il suo punto di origine nell'ormai lontanissimo 1881, l'anno dell'Esposizione milanese d'arte».135 Qui il pittore abruzzese Francesco Paolo Michetti espose la

prima versione di un quadro da lui realizzato, poi intitolato La figlia di Iorio, come la successiva e conseguente opera dannunziana realizzata circa venti anni dopo. La tela raffigurava «una giovane donna in cammino, davanti a un gruppo di uomini sdraiati sull'erba: sentimenti di scherno, di ammaliato stupore e di passionale concupiscenza si leggevano sui volti rusticani».136

Se ne evince, prendendo in considerazione da una parte l'omonimia delle due opere d'arte (l'una pittorica, l'altra letteraria), dall'altra parte le parole con cui d'Annunzio si rivolge a Michetti per comunicargli la compiuta esecuzione dell'opera:

queste settimane d'estate resteranno memorabili per me. Non avevo mai lavorato con tanta violenza e non avevo mai sentito il mio spirito in comunione così forte con la terra. Quest'opera vive dentro di me da anni, oscura. Non ti ricordi? La tua Figlia di Iorio fece la prima apparizione or è più di vent'anni […].137

una vicinanza e soprattutto una forte implicazione da parte del dipinto michettiano sull'immaginario artistico-estetico e soprattutto letterario di d'Annunzio.

Tuttavia è necessario sottolineare come l'ispirazione e l'idea che condusse il Vate al compimento dell'opera non derivi soltanto dall'esame più o meno approfondito del quadro michettiano, ma si inserisca in un lungo processo di studio collaborativo tra i due amici che vede le sue tappe principali nell'osservazione di specifici e originari tratti, costumi, soggetti umani, tradizioni che ben delineano il carattere profondo dell'Abruzzo contadino sul finire del secolo.

L'atteggiamento michettiano di analisi complessa e attenta della realtà aiutarono sicuramente

134 R.BERTALOZZI, Prefazione, cit., p.XLVI

135 Ibidem. 136 Ibidem. 137 Ibidem.

d'Annunzio nella “scelta” di tutte le possibili e auspicabili fonti iconiche per la realizzazione dell'opera. Come già emerso, il pittore, non tralasciando mai dettagli, ma nutrendosi proprio di questi, sapeva fotografare e immortalare soggetti umani o naturali con grande perspicacia. Non è un caso, poi, che l'anno dell'Esposizione milanese coincida con l'inizio ininterrotto e costante dell'attività fotografica michettiana e con il soggiorno di d'Annunzio presso la dimora del Michetti a Francavilla al Mare.

È questo il periodo in cui i due fraterni amici ebbero l'occasione di percorrere la loro regione natia, «dando avvio a quell'attività di reportage»,138 alla ricerca di un mondo sconosciuto, arcaico,

detentore di antiche tradizioni popolari e di superstizione. A tal proposito sono interessanti le parole del Barbella, con le quali lo scultore, riferendosi al vivido carattere michettiano, ricorda l'amicizia, la vicinanza di intenti e i “viaggi esplorativi” in Abruzzo con il pittore e con d'Annunzio:

si fissò di andare alla festa a Casal Bordino dove in una chiesa in aperta campagna vanno i fedeli in tante comitive per ringraziare il Santo che fu benigno a salvarli e aiutarli. I pellegrinaggi bellissimi da tutte le parti dell'Abruzzo concorrono. Michetti, d'Annunzio e io partimmo all'alba da Pescara per prendere il treno che conduce la grande popolazione. Avevamo macchine fotografiche per fare gli studi di costume. Michetti già pensava al Volto e d'Annunzio prendeva appunti per fare un libro...139

Le parole dello scultore sono un'autentica testimonianza dell'interesse michettiano e dannunziano per la fotografia, il Barbella, infatti, evidenzia un dettaglio (forse tralasciabile, bensì non omesso) che segnala con forza l'utilizzo e la completa fruizione della macchina fotografica. La dichiarazione mette, quindi, in risalto l'influenza e il peso che ebbero sia i viaggi tra le tradizioni popolari e contadine dell'Abruzzo sia le fonti fotografico-iconografiche derivanti da questi.

Richiami lirici per la propria terra erano già apparsi sulla «Tribuna Illustrata» nel maggio

138 M.MIRAGLIA, Francesco Paolo Michetti fotografo, cit., p.29.

1893:

Qui è tutta la nostra razza, rappresentata nelle grandi linee della sua struttura fisica e della sua struttura morale: la vivace antica razza d'Abruzzi, così gagliarda, così pensosa, così canora intorno alla sua montagna materna d'onde scendono in perenni fiumi all'Adriatico la poesia delle leggende e l'acqua delle nevi. Qui sono le immagini eterne della gioja e del dolore di nostra gente sotto il cielo pregato con selvaggia fede su la terra lavorata con pazienza secolare. Qui passano lungo il mare pacifico all'alba le vaste greggi condotte da pastori solenni e grandiosi come patriarchi, a simiglianza delle migrazioni primordiali. […] Tutti i drammi e tutti gli idillii, tutte le immagini della gioja e del dolore di nostra gente sono qui come in un visibile poema. E in ognuno di questi esseri l'artefice lascia intraveder un'anima senza limiti, il mistero delle sensazioni confuse, la profondità della vita inconsapevole, le meraviglie del sogno involontario ereditato.140

Gli itinerari esplorativi nelle campagne abruzzesi portano d'Annunzio a sperimentare un'amplissima commistione tra arte figurativa e letteratura, acquisendo così una profonda cognizione del potere icastico e incisivo delle fonti iconografiche con cui prese contatto.

Le immagini scattate dal Michetti e raffiguranti la popolazione abruzzese, immortalata nei suoi più autentici costumi e nelle sue più vere tradizioni, costituiscono un'importante bagaglio per la comprensione del fenomeno culturale in cui ebbe origine La Figlia di Iorio. D'Annunzio ne costituisce un autorevole interprete, affermandosi come punto di riferimento per la lettura e la comprensione di fenomeni folkloristico-rituali, dai quali scaturì indubbiamente il fondo mitico della nota tragedia pastorale.

Se la tela michettiana del 1881 costituisce la prima vera inspirazione per il Vate, saranno tuttavia le tele successive (quelle del 1893 e quella del 1895) a presentarsi come evidenti tracce di

un lavoro preparatorio complesso e multiforme molto anteriore alla stesura del testo.

Come già emerso, Michetti non rese mai evidente la sua attività fotografia, ma non perciò è utile ritenere che la fotografia non abbia avuto per lui un'importanza fondamentale. Al contrario l'attività fotografica determinò l'instaurarsi di un profondo interesse per l'indagine pura e schietta di un popolo ancora decisamente legato a riti primitivi e ai più istintuali comportamenti. È quanto si comprende osservando le tele del 1893, presentate dal Michetti per la prima volta presso l'Esposizione di Roma, ricche di particolari che ben denotano il carattere primitivo e violento della sua terra natia. Lo dichiara d'Annunzio stesso, in riferimento ai quadri michettiani, in un articolo su «La Tribuna Illustrata» del maggio 1893 dove scrive:

qui gli uomini accesi da una brama inestinguibile seguono a torme la femmina bella e possente che emana dal suo corpo una malìa sconosciuta; e si battono a colpi di falce, tra le biche gigantesche, in un tramonto sanguigno al cui lume si fan più nere e più tragiche le loro ombre sul suolo raso. […] Qui la vergine esangue, liberata da una fattura d'amore, dopo aver veduta la faccia della Morte, va a sciogliere un voto in compagnia con il suo parentado che porta il dono della cera; e il gracile fantasma bianco, in mezzo alle belle femmine feconde, in mezzo agli agricoltori adusti e nodosi, passa quasi aereo nella luce del meriggio, sotto l'azzurro inesorabile, lungo la messe alta lunga e infinita.141

Leggendo attentamente il testo della «Tribuna» e afferrando all'interno di questo quell'alone mitico-favoloso che caratterizzerà il testo della tragedia dannunziana si comprende che c'è una fittissima rete di connessione tra quanto l'autore vede e percepisce dai viaggi e quanto Michetti, abile fotografo e pittore, immortala.

Se ne evince che la creazione dell'opera dannunziana scaturisce da un'attenta e complessa

attività di studio e da un altrettanto difficile ricerca di elementi fotografabili, carichi di un altissimo valore simbolico. Sussiste, quindi, una simbiosi profonda tra la riflessione teorica e la prassi pittorico-fotografica, che si dipana negli atti creativi di una composizione letteraria che unisce in sé originalità, profondità, meditazione, iconografia, drammaticità e credibilità psicologica.

Le fotografie del Michetti scattate nell'Abruzzo più vero e selvaggio sottendono un potente legame con la pittura. Questo non significa che Michetti fotografasse e poi riproducesse i soggetti su tela, ma, com'è evidente per il ciclo di quadri de La Figlia di Iorio, fotografando riusciva a penetrare profondamente in quell'alone ibrido, posto tra reale e irreale, tra vero e non vero, tra vita e morte, a cui la fotografia è predisposta e a cui tende la tragedia dannunziana.

È in questa profondità fotografico-iconografia che risiede il legame stretto tra le tele michettiane e l'opera dannunziana. Eppure, «in un''intervista fatta al poeta nel 1921 e raccolta da Filippo Surico nel volume Ora luminosa. Le mie conversazioni letterarie con Gabriele d'Annunzio, si può leggere un'inedita testimonianza».142 Durante il colloquio, infatti, lo scrittore nega e scioglie

ogni legame con l'esperienza pittorica del Michetti per «ricondurre la prima idea della Figlia di

Iorio a un episodio tutto reale».143 Il poeta dichiara apertamente:

Michetti non mi ispirò, con la sua famosa tela, la tragedia. C'è un precedente. Io ero con il mio divino fratello Ciccio in un paesetto d'Abruzzo, chiamato Tocco Casauria, dove, appunto, era nato l'amico, il pittore dal magico pennello. Ebbene, tutti e due, d'improvviso, vedemmo irrompere nella piazzetta una donna urlante, scarmigliata, giovane e formosa, inseguita da una torma, di mietitori imbestialiti dal sole, dal vino e dalla lussuria. La scena ci impressionò vivamente: Michetti fermò l'attimo nella sua tela ch'è un capolavoro; ed io elaborai nel mio spirito, per anni, quanto avevo veduto su quella piazzetta: e infine scrissi la tragedia.144

142 R.BERTALOZZI, Prefazione, cit., p.LI.

143 Ibidem. 144 Ibidem.

Con queste parole d'Annunzio non nega la vicinanza a Michetti, tuttavia, non riconduce alla pittura michettiana, alla tela del 1895, il peso dell'influenza e dell'ispirazione utile alla realizzazione della tragedia. È come se il poeta prendesse le distanze dalla pittura dell'amico, ma non da Michetti, verso il quale dichiara il suo debito culturale anche nella dedica del Trionfo della morte. Egli piuttosto riconduce l'episodio da cui è scaturita l'idea del testo a un fatto reale, a un qualcosa di visto e immortalato.

Lo afferma d'Annunzio stesso, «Michetti fermò l'attimo»,145 riconoscendo all'amico la capacità

di fissare l'istante prezioso prima attraverso una prassi di cui, non a caso, non si fa menzione (la fotografia), poi attraverso la conseguente esecuzione pittorica. Lo ribadisce qualche riga sotto quando afferma: «elaborai nel mio spirito, per anni, quanto avevo veduto su quella piazzetta»,146

l'elaborazione mentale dell'episodio fa pensare alla necessaria presenza di un documento, presumibilmente fotografico, a cui il poeta fece riferimento e da cui ricavò quella profondità linguistico-poetica ben visibile nel testo letterario. Perciò l'esperienza visivo-fotografica che entrambi gli artisti condussero nelle terre d'Abruzzo è sottolineata da d'Annunzio tra le più strette pieghe del colloquio. È come se il poeta riconoscesse a se stesso e a Michetti un vivida consapevolezza e conoscenza fotografica, atta per l'uno alla realizzazione della tela pittorica, per l'altro alla produzione del capolavoro letterario.

Quello che d'Annunzio vuole comunicare con questa dichiarazione non è tanto una presa di distanza dalla pittura michettiana (in moltissime altre interviste lo scrittore riconosce il merito della primogenitura all'amico) quanto la sottolineatura di una prassi, consistente in precisi itinerari volti alla scoperta di contorni folkloristico-rituali (come quello dell'incantata citato proprio nel colloquio) e nella pratica fotografica.

Il poeta non parla mai direttamente di fotografia, ma lascia presumere come l'ispirazione derivi da un approfondito studio visivo-fotografico e iconografico che non risiede tanto nell'analisi di un

145 R.BERTALOZZI, Prefazione, cit., p.LI.

preciso momento immortalato, ma nella considerazione di diversi documenti fotografici, contenuti nel segreto archivio michettiano, le peculiarità dei quali crearono le basi fondamentali e profonde per la scrittura. Perciò è innegabile che il poeta riconosca all'amico pittore e fotografo l'impegno culturale e artistico, quell'«esperienza di tanti anni e il lungo nutrimento»147 da lui elargiti, utili a

«fissare i tipi, a determinare i luoghi, a trovare le fogge».148 In merito sono alquanto interessanti le

considerazioni apportate da Marina Miraglia in Francesco Paolo Michetti fotografo:

non è un caso dunque che d'Annunzio si sia rivolto al Michetti per l'allestimento scenico della prima rappresentazione della Figlia di Iorio [1904] a Milano. […] Anche in quest'occassione la fotografia fu di grande aiuto al Michetti; le parole di D'Annunzio «l'esperienza di tanti anni e il lungo nutrimento», al di là di un evidente richiamo alla Figlia di Iorio del Michetti, implicano un preciso riferimento all'archivio fotografico dell'amico. I costumi e i tipi fissati sono quasi un calco di quelli vagheggiati per ben dodici anni per La Figlia di Iorio ed accuratamente inventariati dal Michetti nel suo archivio segreto. Il costume di Mila di Codro, il cui personaggio fu interpretato da Irma Gramatica, è invece identico a quello fissato fotograficamente sulla terrazza dello studio di Roma, quando Michetti preparava Le serpi.149

Si conferma in questo modo quanto già affermato: la fotografia costituisce il vero fondamento dell'opera dannunziana. Grazie, infatti, al potere di penetrare in quella “seconda realtà”, in quell'alone in cui si confondono vita e morte, il tangibile e l'intangibile, il concreto e l'astratto, la fotografia riesce a separare i soggetti naturali o umani dal flusso ininterrotto, incessante e continuo della vita, mostrandone i loro lati più nascosti e più veri. È proprio la fotografia e il suo linguaggio stretto e profondo che permettono a d'Annunzio una totale e intrinseca analisi dei soggetti.

147 M.MIRAGLIA, Francesco Paolo Michetti fotografo, cit., p.38.

148 Ididem. 149 Ibidem.

VII. PROSPETTIVE FOTOGRAFICHE: INTROSPEZIONE E DESIDERIO DI