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Iconografia fotografica e interiorità psicologica

VII. PROSPETTIVE FOTOGRAFICHE: INTROSPEZIONE E DESIDERIO DI PROTAGONISMO

7.2 Iconografia fotografica e interiorità psicologica

I modi e i comportamenti di cui d'Annunzio si avvale per entrare in contatto con i nuovi mezzi tecnologici a lui contemporanei, sono alquanto originali, talentuosi e per certi aspetti geniali e anticipatori. La macchina fotografica, come già sottolineato, serve a d'Annunzio per creare una potente visibilità su di sé, concedendo al grande pubblico l'immagine di una sorta di “divo”, di esteta che si propone nella sua perfezione all'altrui imitazione.

È chiaro che un'attitudine di questo tipo derivi dalla radicata e intima consapevolezza che l'essenza fotografica sia capace di consegnare esternamente, trasformandola in immagine, la propria identità sia quella visibile, sia quella più profonda e nascosta. Tuttavia, nonostante il linguaggio fotografico risulti come complessa unione tra aspetto referenziale-connotativo e segreta intimità, soltanto l'esteriorità, il corpo appunto, si presenta, almeno al primo sguardo, sulla pellicola fotografica. Perciò d'Annunzio, benché viva una costante dialettica tra teatralizzazione di sé e

indispensabile naturalezza, si convince che per consegnare agli altri una perfetta immagine di sé (esteriore e allo stesso tempo interiore) è necessario studiare e usare il proprio corpo come luogo dove ascrivere la propria storia e il proprio immaginario.

A tal proposito Maria Giulia Dondero in Iconografia dannunziana: il corpo «esposto» in

fotografia, scrive:

[…] il corpo è per D'Annunzio il luogo di esercizio, una palestra, del sentire e dei gusti più raffinati (pensiamo alla gastronomia, alla sensualità voluttuosa, ma anche al corpo in quanto luogo di sperimentazione della moda, luogo dell'esercizio fisico in cui si tenta di superare se stessi, luogo del rischio, del vitalismo e della perversione), ma il corpo è anche in un certo senso un qualcosa di «invincibile», ciò che agisce al di là di noi, della nostra coscienza e delle nostre decisioni (pensiamo all'emozione, alla malattia, alla morte: luogo insomma dell'innocenza, dell'autenticità del sentire e del soffrire). Luogo dell'esperire per eccellenza: da una parte luogo della sperimentazione, luogo di cui si può divenire letteralmente esperti, dall'altra luogo indomabile, che può sorprenderci.151

Il corpo allora non è soltanto ciò «che si manifesta in quanto sé-idem e sé-ipse»,152 cioè materia

in se stessa, «ma è anche carne, cioè Me, centro di referenza e di ancoraggio del proprio corpo, quella parte del corpo e dell'identità della quale si danno solo parziali traduzioni mediante le manifestazioni del corpo proprio».153 Si comprende allora che in fotografia esiste una profonda

connessione tra la figura come espressione di un'istanza personale, intima e profonda e il corpo come pura esteriorità, come materia, «costituito da un'istanza sé-idem (permanenza del carattere identitario) e da un'istanza sé-ipse (differenziazione identitaria mediante narrativizzazione)».154

Nella complessità di queste considerazioni si fa strada l'idea che, nonostante sulla pellicola

151 MARIA GIULIA DONDERO, Iconografia dannunziana: il corpo «esposto» in fotografia, in D'Annunzio come

personaggio nell'immaginario italiano ed europeo (1938-2008), a cura di Luciano Curreri, Bruxelles, P.I.E. Peter

Lang, 2008, p.162. 152 Ibidem.

153 Ibidem. 154 Ibidem.

figuri un corpo, non è dato per scontato che quell'immagine rappresenti l'esteriorità e la concreta visibilità superficiale e apparente di un essere umano. Nella maggior pare dei casi emerge piuttosto agli occhi dell'osservatore una forte profondità che va molto al di là della semplice disposizione di quel corpo di fronte all'obiettivo fotografico. Si conferma in questo modo il carattere perturbante della fotografia, il suo essere non mezzo, ma linguaggio che unisce in sé visibilità e impercettibilità esteriore e interiore.

In merito risulta interessante quanto scrive Maria Giulia Dondero:

lo sguardo del personaggio fotografato e la disposizione del suo corpo ci dicono qualcosa sul modo che il personaggio ha di concepire se stesso e i suoi osservatori, e del modo in cui il fotografo stesso concepisce il soggetto da fotografare (e la sua stessa arte). Attraverso l'immagine fotografica possiamo studiare quale coscienza di sé e quale coscienza della fenomenologia del proprio corpo ha il personaggio che si mette in posa. Ma non per questo il risultato fotografico è forzatamente «trasparente» rispetto alle intenzioni del personaggio fotografato, né a quelle del fotografo. […] La foto può cioè costituire persino la sorpresa dell'auto-porgersi; anche se il personaggio è sempre messo in posa, la foto può sorprendere un'altra modulazione del corpo rispetto a quella che si sta ossessivamente ostendendo.155

Questo aspetto è ben evidente, come emerge dall'analisi operata dalla Dondero, in due fotografie messe in scena da d'Annunzio per la divulgazione di due sue opere. La prima risale al 1896 ed è uno scatto di Giuseppe Primoli per le Le vergini delle rocce, apparso poi sulla rivista «Convito» e sul frontespizio della versione francese del romanzo. La seconda invece è una foto scattata da Nathalie Barney che mette in scena la lirica dannunziana Stabat Nuda Aestas.

In entrambe le fotografie il corpo ha uno stretto legame con il paesaggio, tuttavia, analizzando

e osservando attentamente gli scatti si nota come la connessione uomo-natura è nelle due fotografie decisamente opposta. Nella foto scattata dal Primoli il corpo sembra assumere un aspetto statuario, che ben si lega all'idea immobilizzante già espressa nel titolo dell'opera a cui lo scatto rimanda; nella seconda fotografia, invece, il «corpo è niente affatto statuario, roccioso, compatto: piuttosto è un corpo diffuso».156 Come dichiara la Dondero: «la differenza tra questi due corpi non riguarda

quella, riscontrabile banalmente a livello figurativo».157 Si comprende allora che il corpo riprodotto

in fotografia ingloba qui aspetti profondi che toccano l'intimità della natura e della psicologia umana nel suo presentarsi nell'ambiente circostante.

Le due fotografie ben esemplificano il complesso linguaggio sottostante al funzionamento della fotografia. A un primo sguardo mentre i corpi statuari della Composizione fotografica a Villa

Medici – alla base della scalinata del tempio dell'Amore – per Le vergini delle Rocce di Gabriele d'Annunzio, restano «un sistema chiuso in sé, impenetrabile rispetto all'estensionalità del

paesaggio»,158 il corpo “alcionico” si fa «marina, pineta, vento, ma sopratutto luce»159, determinando

una congiunzione panica tra visibile esteriorità (quello che la Dondero chiama esterocettivo) ed interiorità nascosta (quello che la Dondero definisce interocettivo).

Con queste due fotografie siamo di fronte alla visualizzazione di due diverse funzioni dell'involucro corporale: una è contenitiva dell'interocettivo, l'altra si presenta come membrana permeabile tra interocettivo ed esterocettivo, come se il corpo fosse costituito di straordinari involucri successivi attraverso i quali l'interocettivo si traduce nell'esterocettivo e viceversa. L'indiscernibilità tra interocettivo ed esterocettivo ci fa cogliere in questo corpo una propriocezione vertiginosa.160

156 M.G.DONDERO, Iconografia dannunziana: il corpo «esposto» in fotografia, cit., p.165.

157 Ibidem. 158 Ibidem. 159 Ibidem. 160 Ivi, p.166.

Ne emerge che corpo e fotografia sembrano declinazioni di una fonte comune dalla quale entrambe si generano come due linguaggi estremamente complessi e multiformi. Ogni gesto espressivo, ogni visibilità corporale o iconografico-fotografica è il luogo di una duplicità insita nello sguardo che sa leggere dentro la luce, il corpo e la forma per giungere a una comprensione più profonda che va al di là dell'apparenza referenziale.

Questo aspetto di trapasso da pura esteriorità a figurazione introspettiva è ben evidente anche nelle numerose fotografie scattate al d'Annunzio, in cui l'autore presentandosi in un atteggiamento decisamente plastico, scultoreo, perfetto, comunica molto di più di una semplice immobilità. Infatti, ben consapevole di questo carattere “doppio” della fotografia, d'Annunzio, lasciandosi fotografare, dona al pubblico una sorta di «iconografia allargata del suo personaggio».161

È indubbio allora che il mondo dell'immagine vive una sorta di transitorietà che si muove costantemente tra rappresentazione, copia, ritratto e spettro, ombra, idea, astrattezza.

Si comprende a questo punto non solo l'esistenza di uno stretto legame tra corpo visibile, psicologia interiore e fotografia, ma anche la presenza di una spinta primordiale dello scatto e dell'immagine fotografica alla parola vera, autentica e poetica. Fotografia, corpo e visibilità danno vita a una rappresentazione che unisce in sé concreto e astratto, visibile e invisibile, reale e irreale. Nel ritratto fotografico la fotografia trova l'espressione più autentica della sua “doppia natura”, mostrandosi come calco perfetto del reale nella precisa raffigurazione dei tratti umani e come complesso linguaggio che scava nella profondità del reale per individuare le traccie di un'esistenza altra che l'apparenza referenziale non mostra.

L'obiettivo fotografico allora si fa occhio che come quello del poeta è capace di vedere al di là del dato puramente visivo ed è desideroso di infrangere la barriera del reale per giungere alla comprensione dell'“oscurità” e dell'intimità nascosta nel dato iconografico.