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V. L'ARTE E LA FOTOGRAFIA NELLA VITA E NELL'OPERA DANNUNZIANA

5.1 D'Annunzio e la concezione dell'arte

Raffinato cultore dell'estetismo ed esponente del decadentismo italiano e internazionale, Gabriele d'Annunzio, fu uno degli scrittori italiani che mostrò più di ogni altro una personalità eclettica e versatile. Fin dalla gioventù i suoi interessi furono molteplici, tanto che lo scrittore si avvicinò con coinvolgimento e passione a numerose forme di arte. Si mostrò, infatti, capace di comprendere e assimilare «prestissimo tutto quello che c'era da apprendere e vi associò la sua intraprendenza, il suo gusto nativo della sorpresa e della stravaganza, il suo fascino mondano di homo novus, dilettante di esperienze e di avventure».90

La genialità e il talento che lo contraddistinsero fecero di lui un letterato, un autentico poeta moderno dotato di un'amplissima apertura mentale che gli permise di combinare generi, forme letterarie e artistiche diverse, antico e moderno, vita e opera d'arte. La sensibilità del d'Annunzio appare in un altro segno inequivocabile della sua modernità, per lui, infatti, «non contano soltanto i libri, ma anche le cacce a cavallo, i duelli, i raids, le imprese sportive, gli amori teatrali [...]».91

Egli è un autentico esteta, capace di farsi promotore di un modello di sensibilità alta e inimitabile. Rifiutando la mediocrità borghese, l'autore accetta, come sola e unica regola di vita, il bello. Ne deriva che, disprezzate le cose grigie, disumane, disperse e «assunta così quale principio unico di verità, la religione della bellezza»,92 d'Annunzio crei le condizioni per la nascita di un

nuovo modello di vita volto al rifiuto di ogni forma di irrazionalità e di volgarità.

Ezio Raimondi, in merito, riporta quanto d'Annunzio scriveva in una lettera privata:

io ho, per temperamento, per istinto – confessava – il bisogno del superfluo. L'educazione estetica del mio spirito mi trascina irresistibilmente al desiderio e all'acquisizione di cose belle. Io avrei

90 EZIO RAIMONDI, Gabriele d'Annunzio, in Storia della letteratura italiana (dir. da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno),

Garzanti, Milano, 2001, p.7. 91 Ididem.

potuto benissimo vivere in una casa moderata, sedere in seggiole di Vienna, mangiare in piatti comuni, camminare su un tappeto di fabbrica nazionale, prendere il thè in una tazza di tre soldi, soffiarmi il naso con fazzoletti da due lire alla mezza dozzina, portare camicie di Schostall o di Longoni. Invece, fatalmente, ho voluto divani, stoffe preziose, tappeti di Persia, piatti giapponesi, bronzi, avori, ninnoli, tutte quelle cose inutili e belle che io amo con una passione profonda e rovinosa...93

La raffinatezza estrema, l'acuta sensibilità per la bellezza in tutte le sue forme e l'audacia sono le componenti fondamentali di una personalità “nuova”, desiderosa di protagonismo, di avventure galanti e di tendenze irrazionalistiche ed estetizzanti. È proprio da questo abbandono al vigore dei sensi che l'autore si dichiara libero dallo scrupolo e pronto a lasciarsi stimolare dalla bellezza e dalla magnificenza di ogni tipo di arte, partecipando così al dinamismo e all'energia del mondo e della vita.

Il protagonista del Piacere, Andrea Sperelli, alter ego dannunziano, è il più significativo esempio di aristocratico che incarna perfettamente l'ideologia estetica dannunziana: egli modella la sua vita secondo tendenze che puntano alla ricercatezza e alla preziosità degli oggetti. Lasciandosi guidare dal fluire delle sensazioni, egli vive la propria vita come un'opera d'arte.

Tuttavia la conclusione del romanzo determinerà il fallimento del progetto estetico: Andrea Sperelli, perdendo la sincerità, il dominio di sé e la capacità di agire senza ambivalenze, non riesce più a godere dei piaceri inseguiti.

Si afferma in questo modo il mito del superuomo derivante dalla «scoperta del pensiero di Nietzsche, serpeggiante nel finale del Trionfo della morte e più manifesto nel nuovo romanzo Le

vergini delle rocce (1895)»,94 che «segna una svolta nello svolgimento dell'arte dannunziana».95 Il

93 E.RAIMONDI, Gabriele d'Annunzio, cit., p.10.

94 RAFFAELLA BERTALOZZI, Prefazione, in Gabriele D'Annunzio, La figlia di Iorio, Garzanti, Milano, 1995, p.X.

superuomo, «affrancato da ogni morale convenzionale»,96 è proiettato verso la gestualità pura ed

eroica e la sua esperienza «dà al d'Annunzio la rivelazione definitiva di se stesso».97 L'energia e

l'istinto che avevano creato fin dalle novelle di Terra vergine un forte fascino sulla personalità dannunziana, superano l'ambito sensitivo e trovano sistemazione in una concezione generale del mondo e della vita.

«Ciò che d'Annunzio scopre in Nietzsche è una mitologia dell'istinto, un repertorio di gesti e di convinzioni che permettono al dandy di trasformarsi in superuomo»,98 di mutarsi in una creatura

protesa ad un assoluto godimento dei sensi e dell'ebrezza della vita e capace di agire sotto l'impulso della volontà di dominio. In merito sono interessanti le parole, riportate da Ezio Raimondi, con cui Julien Benda ritrae d'Annunzio:

c'erano in lui – osserva infatti il Benda – due personaggi: da una parte l'uomo in palcoscenico, che faceva il proprio mestiere scrupolosamente; dall'altra, l'uomo dell'intimità, che con qualcuno trovava inutile il proprio istrionismo e liberandosene diveniva semplice e affascinante. Ciò che mi colpiva era la facilità con cui d'Annunzio si spostava dall'uno all'altro […]. D'Annunzio è uno degli uomini che mi ha fatto sentire di più come la cultura possa entrare nel profondo della midolla. Ciò che negli altri è ornamento diviene, in nature con la sua, addirittura la vita. Lo si vede per la sua cultura letteraria; ma era lo stesso anche per quella musicale, che non era meno estesa e seria, e s'integrava altrettanto bene al suo essere: e così dicasi per quella figurativa […]. La cosa che mi stupiva di più di questo iperromantico era la gravità di cui era capace. Il suo raccoglimento, la sua attenzione dinanzi a quanto trovasse degno di uno sguardo avevano dell'impressionante.99

È chiaro che la personalità dannunziana mostra in sé delle contraddizioni, risolte il più delle

96 Ibidem.

97 E.RAIMONDI, Gabriele d'Annunzio, cit., p.49.

98 Ivi, p.17. 99 Ivi, pp.3-4.

volte facendo coincidere l'arte con la vita, il privato e il pubblico, la bellezza e la merce, facendo della propria esistenza e delle proprie opere esibizione e spettacolo.

D'Annunzio, infatti, annullando ogni limitatezza sia morale che artistica, fornisce attraverso la figura del superuomo al poeta-esteta ottocentesco una dimensione sociale dell'arte, auspicando un rapporto con il pubblico e con il mercato in termini di successo. In questo modo l'autore dà vita a una radicale fusione tra realtà oggettiva e soggetto, tra vita e arte. A tal proposito egli stesso in uno degli articoli sul caso Wagner sulla «Tribuna» del 1893 scriveva che vi era un legame e una rispondenza costante tra i fatti della vita reale e le finzioni che l'arte produce.

Perciò, identificando arte e vita l'arista-superuomo diventa capace di imporsi alle masse attraverso il dominio e la manipolazione culturale, la creazione di miti e di modelli di vita. Il superuomo dannunziano subordina, infatti, tutto al progetto della propria affermazione, egli concepisce la natura, il mondo e la donna come oggetti di possesso.

Tuttavia, nonostante la componente superomistica attraversi tutta l'opera dannunziana e si presenti grandiosa negli obiettivi, rivela una natura velleitaria. Nel suo bisogno di conquista della totalità e dell'onnipotenza dell'io sconta la continua presenza di un senso di morte e di annullamento. È in questo modo che si spiegano, peraltro, le continue oscillazioni tra pulsioni vitalistiche tendenti al bello, una forme artistiche alte e preziose e continui ripiegamenti, rinnegamenti della pienezza di vita e sostanziali tendenze alla morte. Nel diario autobiografico,

Libro segreto, d'Annunzio «accantonata la maschera della finzione romanzesca, conclude: la vita

conosce un solo destino, esercita un solo ufficio: è soltanto intesa a perpetuarsi e a moltiplicarsi. Non v'è scopo, non v'è meta, non fine è nell'Universo [...]».100

Ne deriva che, in una visione puramente nichilistica, l'autore si trovi «d'accordo con il profeta di Zarathustra nell'attribuire all'arte […] il ruolo unico di uno stimolo vitale, che si afferma come valore supremo dell'uomo».101 D'Annunzio, convito che l'arte nasca come rifiuto della volgarità e 100 E.RAIMONDI, Gabriele d'Annunzio, cit., p.50.

dell'industrialismo borghese (sentiti come poli negativi e contrappunti alla sua personale visione artistica tendente alle cose belle, rare e di alta cultura) «non sfugge il bovarismo che fermenta nel cuore delle masse».102 Anzi, «anche se egli considera la letteratura di consumo […] come un

prodotto di corruzione rispetto all'arte illustre, è chiaro che il fenomeno ha per lui un significato decisivo, in quanto indica una direzione lungo la quale deve muoversi lo scrittore in armonia con lo spirito del proprio tempo».103 Ezio Raimondi, riportando anche alcune parole che d'Annunzio

pronunciò nel colloquio con l'Ojetti, scrive:

«esprimendo con più forza e con più lucidità quel che la natura esprime oscuratamente, rappresentando con la maggior possibile esattezza verbale i più complessi fenomeni interiori per rendere visibili i loro rapporti nascosti, decomponendo gli elementi per organare nuove forme e...scoprendo nelle rappresentazioni le analogie che collegano l'una all'altra», assimili i modi analitici della scienza sul piano di una più alta unità organica. Per questa via, precisa poi l'intervista, la letteratura potrà procedere oltre «il fondo diffuso di una sensibilità rischiarata dai cinque sensi normali» e si affiderà a «strani sensi intermedi» le cui «percezioni sottilissime» riveleranno un mondo sconosciuto e colmo di «misteri» che non conservano più nulla di soprannaturale e tuttavia conferiscono un significato profondo ai «piccoli fatti dell'esistenza». Ciò vuol dire che «l'antropomorfismo» non è scomparso, ma si è «spiritualizzato»: l'universo acquista ora, infatti, «l'espressione di un volto vivente su cui passano i più tenui riflessi della vita interiore», mentre le cose diventano «simboli dei sentimenti» e aiutano l'uomo, posto di nuovo in comunione con il meraviglioso a «scoprire il mistero che chiude in se stesso».104

È chiaro che si tratta di una sorta di “professione di poetica” in cui d'Annunzio si slancia verso una visione mitica del reale. Accanto alla celebrazione del viaggio in Grecia, luogo di incontro tra

102 E.RAIMONDI, Gabriele d'Annunzio, cit., p.47.

103 Ibidem. 104 Ivi., pp.47-48.

natura primitiva e storia letteraria, l'autore annuncia la resurrezione del dio Pan, simbolo della vita cosmica e dell'esistenza attiva e gloriosa. Ne deriva un mutamento nel rapporto con il mondo e con la natura, desunta da Nietzsche come «semplice divenire, flusso e riflusso di una materia perenne abitata dal nulla».105

Il vincolo uomo-natura assume la forma dell'identificazione panica e si manifesta nello scambio metamorfico di apparenze e nel «flusso ritmico di figurazioni vitali».106 Alla ricerca di un

mito che riconceda l'illusione di gesti, movimenti, figurazioni utili alla riappropriazione della totalità e dell'originalità del mondo, d'Annunzio risveglia una sorta di «demone mimetico»107.

Nella fusione panica con la natura il poeta scioglie e rappresenta la natura del mito, sperimentando così una compiuta fusione mistica con il tutto. L'immedesimazione dell'io nella natura ne determina la sua scomparsa, il soggetto si dissolve nella natura, perdendo la propria storicità per divenire mito o paesaggio.