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LA DIFFERENZIAZIONE DEI DETENUTI PER RAGIONI DI SICUREZZA Tra deficit di legalità e (persistente) refrattarietà alle garanzie fondamentali

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Università di Pisa

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

LA DIFFERENZIAZIONE DEI DETENUTI

PER RAGIONI DI SICUREZZA

Tra deficit di legalità e (persistente) refrattarietà alle garanzie fondamentali

Il Relatore

Chiar.mo Prof. Luca Bresciani

Il Candidato

Elena Pezzano

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INDICE

Premessa ... 1

CAPITOLO I

L’EVOLUZIONE NORMATIVA DELLA SICUREZZA NELLA LEGGE SULL’ORDINAMENTO PENITENZIARIO

1. La legge n. 354 del 1975: una svolta nel sistema penitenziario... 5 2. Le criticità della legge sull’ordinamento penitenziario... 9 3. La carente regolamentazione della problematica della sicurezza in carcere……….. 14

3.1 La differenziazione dei detenuti nella legge sull’ordinamento penitenziario……... 14 3.2 (segue) La specializzazione degli istituti in rapporto alle esigenze di

trattamento e alle esigenze di sicurezza... 20 3.3 L’art. 90 o.p.: la provvisoria sospensione delle regole di trattamento e degli istituti penitenziari... 23 3.4 La creazione delle “carceri speciali” ... 27 4. 4. La legge Gozzini: l’abrogazione dell’art. 90 o.p. e l’introduzione del regime di sorveglianza particolare... 34 5. Gli interventi della legislazione antimafia nell'ambito penitenziario all’inizio degli anni Novanta: gli articoli 4-bis e 41-bis comma 2 o.p... 39

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CAPITOLO II

I REGIMI DETENTIVI DI RIGORE

1. I regimi detentivi di rigore nella nel sistema del Consiglio d’Europa.. 46

1.1 Le Raccomandazioni del Consiglio d’Europa in tema di detenzione………... 46

1.2 La Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali... 49

1.3 Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti... 56

2. I regimi detentivi di rigore nella legge italiana... 60

2.1 Il regime di sorveglianza particolare... 60

2.1.1 I presupposti del regime... 60

2.1.2 Il procedimento applicativo... 66

2.1.3 La durata del regime e il suo contenuto... 68

2.1.4 Il reclamo nei confronti del provvedimento di instaurazione o di proroga... 73

2.2 La sospensione delle ordinarie regole di trattamento (art. 41-bis comma 2 o.p.)... 77

2.2.1 La nascita e l’evoluzione normativa dell’art. 41-bis comma 2 o.p... 77

2.2.2 I destinatari e i presupposti del regime... 82

2.2.3 Il procedimento applicativo... 86

2.2.4 La durata, la proroga e la revoca del regime... 90

2.2.5 Il contenuto del regime speciale... 94

2.2.6 La tutela giurisdizionale: il reclamo... 106

2.2.7 Il circuito per i detenuti 41-bis e le c.d. aree riservate…... 115

2.3 La giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo sul regime 41-bis o.p...117

2.3.1 La compatibilità del “carcere duro” con il divieto di trattamenti inumani o degradanti: l’art. 3 della Cedu…… 117

2.3.2 L’art. 8 della Cedu: il rispetto della vita privata e familiare e della corrispondenza... 121

2.3.3 Il reclamo ex art. 41-bis comma 2-quienquies o.p. e la compatibilità con gli artt. 6 e 13 della Cedu... 123

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CAPITOLO III

I CIRCUITI PENITENZIARI. LA DIFFERENZIAZIONE DEI

DETENUTI OPERATA DALL’AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA

1. La suddivisione in circuiti... 128 1.1 La classificazione operata dalla circolare del 1993 e l’introduzione del circuito Alta Sicurezza... 132 1.2 Il circuito ad Elevato Indice di Vigilanza Cautelativa………….. 137 1.3 La circolare del 2007: nuovi criteri per effettuare l’inserimento dei ristretti nel circuito Alta Sicurezza... 140 1.4 La nuova organizzazione del circuito Alta Sicurezza... 143 2. La procedura di classificazione e di declassificazione e la circolare del 2015... 145 3. La mancanza di una tutela giurisdizionale... 149 3.1 Il circuito E.I.V. e la violazione dell’art. 6 della Cedu... 153

CAPITOLO IV

CONCLUSIONI. PROSPETTIVE DI RIFORMA

1. Premessa... 157 2. Il fallimento del regime di sorveglianza particolare e la

valorizzazione delle sezioni di massima sicurezza... 158 3. I circuiti penitenziari, tra prassi amministrative e mancanza di tutela giurisdizionale... 163 4. La natura giuridica del regime detentivo speciale ex art. 41-bis comma 2: una questione (ancora) aperta... 172

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PREMESSA

Il presupposto da cui prende le mosse questo lavoro è la constatazione che la questione della sicurezza è di centrale importanza nella disciplina penitenziaria: carcere e sicurezza sono due termini in «rapporto simbiotico indissolubile»1. All’interno del carcere, vi sono determinati detenuti che generano un rischio maggiore per sicurezza rispetto a quello ordinario. Si può trattare di detenuti che abbiano adottato comportamenti che pongono una minaccia per la sicurezza interna al carcere ovvero di detenuti la cui pericolosità si desume dalla gravità del titolo di reato e dai persistenti collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza. In entrambi i casi, la soluzione data dagli ordinamenti penitenziari è quella di prevedere una differenziazione dei detenuti sulla base del livello di sicurezza richiesto.

In Italia, la legge penitenziaria n. 354 del 1975 ha avuto il merito di regolamentare per la prima volta a livello legislativo la condizione dei soggetti sottoposti all’esecuzione, ma ha trascurato la problematica della sicurezza penitenziaria, rinnegando l’esistenza di detenuti refrattari a un trattamento riabilitativo e addirittura pericolosi2. Questa lacuna portò alla nascita del c.d. “carcere speciale”, un regime differenziato che veniva applicato in determinate sezioni o istituti penitenziari attraverso l’emanazione

1 N. DE RIENZO, Il regime sospensivo previsto dal secondo comma dell'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario: una rilettura del sistema della sicurezza, in A.

PRESUTTI (a cura di), Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, Milano, 1994, p. 129

2 T. PADOVANI, Il regime di sorveglianza particolare: ordine e sicurezza negli istituti penitenziari all'approdo della legalità, in V. GREVI (a cura di), L'ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza (1986-93), Padova, 1994 p. 151

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di decreti legislativi di emergenza, gestito unicamente a livello amministrativo. L’assegnazione dei detenuti agli istituti e sezioni di massima sicurezza avveniva senza alcun controllo da parte del magistrato di sorveglianza: tutto era nelle mani dell’amministrazione penitenziaria che nei fatti aveva la possibilità di determinare un diverso contenuto alla pena stabilità da giudice, una pena diversa perché più afflittiva e che non rispecchiava i contenuti previsti dalla legge n. 354, in quanto improntata a soddisfare le sole ragioni di sicurezza, a discapito di tutto il resto. Si dovette aspettare la novella del 1986 per l’introduzione legislativa di nuovi strumenti per tutelare la sicurezza, primo fra tutti il regime di sorveglianza particolare. Il suddetto regime, disciplinato agli artt. 14-bis e seguenti, è stato introdotto con lo specifico intento di risolvere la problematica della carceri speciali. Nonostante ciò, avremmo modo di vedere come il regime di sorveglianza particolare non riuscirà a sostituire le sezioni e gli istituti di massima sicurezza, in quanto questo regime ad personam si andrà semplicemente ad affiancare alla massima sicurezza, che rimarrà uno strumento in mano all’Amministrazione penitenziaria. Sempre la legge n. 663/1986 ha introdotto la facoltà, in capo al Ministro della Giustizia, di sospendere le ordinarie regole di trattamento ex art. 41-bis o.p.: la disposizione inizialmente prevedeva solo un primo comma e poteva essere utilizzata in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza. Con l’emergenza mafiosa degli anni Novanta è stato introdotto un secondo comma, il c.d. “carcere duro”, i cui destinatari sono tendenzialmente detenuti inseriti stabilmente in organizzazioni criminali. Il regime di “carcere duro” è stato introdotto per

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rispondere a esigenze di sicurezza esterne al carcere, in quanto è applicato in presenza di «gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica» con la finalità di recidere i collegamenti dell’interessato con l’organizzazione criminale di appartenenza. In dottrina questo regime è tuttora bersaglio di numerose critiche, a partire dalla scelta di attribuire la competenza ad applicarlo al Ministro della Giustizia piuttosto che a un organo giurisdizionale, fino ad arrivare alla rigidità delle soluzioni normative, che è sempre stata giustificata da ragioni di sicurezza e prevenzione3. Parte della dottrina, però, sostiene che il regime di rigore sia stato introdotto anche come deterrente nei confronti degli associati ancora in libertà4: la sospensione di determinate regole trattamentali non sembra essere giustificabile dall’effettiva capacità di impedire i legami con l’associazione di appartenenza ma sembra rendere semplicemente più dura l’esecuzione della pena5. In secondo luogo, suscita perplessità il fatto che il provvedimento di sospensione viene tendenzialmente reiterato per un numero di anni così alto tale da non rendere credibile la permanenza di significativi rapporti con l’organizzazione criminale esterna. Tutto ciò è ancora più allarmante se si considera che l’applicazione del regime speciale viene immediatamente sospesa nei confronti di coloro che decidono di collaborare con la giustizia6, come se il fine ultimo dell’istituto sia quello

3 M. PAVARINI, Il “carcere duro” tra efficacia e legittimità. Opinioni a confronto, in Criminalia, 2007, p. 265

4 M. CANEPA, L’ordinamento penitenziario e la normativa restrittiva del 191-1992, in Quaderni del CSM, n. 80, 1995, p. 141

5 M. PAVARINI, op. cit., p. 265

6 L. BRESCIANI, Commento al comma 25 dell'art. 2 legge 15 luglio 2009, n. 94, in G.

DE FRANCESCO, A. GARGANI, D. MANZIONE, A. PERTICI (a cura di),

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4 di «sciogliere le lingue»7.

Del resto, nel nostro ordinamento, il ricorso a uno dei due regimi di rigore previsti a livello legislativo – il regime di sorveglianza particolare e il regime di “carcere duro” – «non costituisce il passaggio obbligato»8 per instaurare una differenziazione dei detenuti per motivi di sicurezza, potendo l’Amministrazione Penitenziaria assegnare i detenuti giudicati pericolosi nei c.d. circuiti Alta Sicurezza, disciplinati da circolari del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Non pochi dubbi ha suscitato la differenziazione operata dall’Amministrazione attraverso i circuiti: si tratterà di capire se questa forma di differenziazione si sostanzi in un regime detentivo differente da quello ordinario, in quanto sono previste speciali regole di trattamento ovvero se questa differenziazione consista in una semplice ripartizione dei detenuti in categorie senza andare a incidere sul regime trattamentale, come sostiene la stessa Amministrazione penitenziaria. Ciò che si teme è che l’amministrazione utilizzi la differenziazione in circuiti per aggirare quelle tutele e garanzie previste a livello legislativo per la gestione di detenuti che richiedono un maggiore grado di sicurezza.

7 M. PAVARINI, op. cit., p. 265

8 F. DELLA CASA, voce Ordinamento penitenziario, in Enciclopedia Diritto, Annali,

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CAPITOLO I

L’EVOLUZIONE NORMATIVA DELLA SICUREZZA

NELLA LEGGE SULL’ORDINAMENTO

PENITENZIARIO

SOMMARIO: 1. La legge n. 354 del 1975: una svolta nel sistema penitenziario - 2. Le criticità della legge sull’ordinamento penitenziario - 3. La carente regolamentazione della problematica della sicurezza in carcere - 3.1 La differenziazione dei detenuti nella legge sull’ordinamento penitenziario - 3.2 (segue) La specializzazione degli istituti in rapporto alle esigenze di trattamento e alle esigenze di sicurezza - 3.3 L’art. 90 o.p.: la provvisoria sospensione delle regole di trattamento e degli istituti penitenziari - 3.4 La creazione delle “carceri speciali” - 4. La legge Gozzini: l’abrogazione dell’art. 90 o.p. e l’introduzione del regime di sorveglianza particolare - 5. Gli interventi della legislazione antimafia nell'ambito penitenziario all’inizio degli anni Novanta: gli articoli 4-bis e 41-bis comma 2 o.p

1. La legge n. 354 del 1975: una svolta nel sistema penitenziario

Il 26 luglio del 1975 viene emanata la legge n. 354, “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”.

E’ la prima volta che la materia che attiene agli aspetti applicativi delle misure privative e limitative della libertà e alla condizione dei soggetti sottoposti all’esecuzione viene regolata con legge. Prima di questa legge, infatti, il settore penitenziario era stato disciplinato da corpi normativi di

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carattere esclusivamente regolamentare. I regolamenti erano stati emessi nell’ambito della potestà esecutiva e nessuno di essi aveva, pertanto, forza di legge1. Si tratta quindi della prima legge organica in ambito penitenziario.

La legge n. 354 segna uno spartiacque, una svolta nel sistema penitenziario. La riforma ha infatti introdotto novità di particolare rilievo, non solo con riguardo all’ordinamento penitenziario in senso proprio, e cioè all’organizzazione e alla gestione degli istituti dove si eseguono le misure penali privative della libertà, ma anche per quanto riguarda lo status dei detenuti, le misure alternative alla carcerazione gli organi giudiziari nonché il personale di servizio sociale e di educazione operanti nel corso dell'esecuzione2.

Nei regolamenti penitenziari che si erano susseguiti – l’ultimo dei quali il regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena approvato con R.D. 18 giugno 1931, firmato dal guardasigilli Rocco – il detenuto entrava in considerazione in quanto oggetto della disciplina della condotta e come destinatario di attività amministrative3. Al contrario, nell’ordinamento penitenziario delineato dalla legge di riforma il detenuto è collocato al centro della disciplina sin dall'art. 1 che prevede che il trattamento penitenziario debba essere conforme ad umanità e debba assicurare il rispetto della dignità della persona.

1 G. DI GENNARO, M. BONOMO, R. BREDA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano, 1976, p. 5

2 G. DI GENNARO, La gestazione della riforma, in Rassegna penitenziaria e criminologica, n. 2-3, 2005, p. 15

3 G. LA GRECA, La riforma penitenziaria del 1975 e la sua attuazione in Rassegna penitenziaria e criminologica, n. 2-3, 2005, p. 38

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Si abbandona la vecchia logica della depersonalizzazione e, per la prima volta, la figura del detenuto “persona” viene posta al centro dell’esecuzione penitenziaria, nella prospettiva della sua possibile rieducazione. Il detenuto diviene il protagonista dell’esecuzione penitenziaria, non più mero segmento all’interno del quadro organizzativo dell’amministrazione con le sue esigenze di ordine e disciplina come invece era nella concezione autoritaria del guardasigilli Rocco. La fase esecutiva ruota intorno al detenuto e al suo trattamento finalizzato al reinserimento nella società4.

Questa nuovo modo di concepire la fase esecutiva trova il suo fondamento nell’art. 27 della Costituzione. Dopo quasi trent’anni dall’entrata in vigore del testo costituzionale, il legislatore cerca di adempiere ai principi, fino a quel momento rimasti lettera morta, sanciti dall’art. 27 comma 3 Cost.: il principio dell’umanizzazione della pene e la finalità rieducativa cui le pene stesse devono necessariamente tendere.

Il legislatore muta l’idea guida che era stata alla base del trattamento del detenuto fino ad allora e che emergeva dalle regolamentazioni precedenti: il carcere non deve essere più inteso come luogo di segregazione e di allontanamento dalla società, bensì come momento che si pone come obiettivo la rieducazione e il reinserimento dell’individuo. Si cerca di abbandonare la concezione retributiva e polifunzionale della pena per fare

4 V. GREVI, Dritti dei detenuti e trattamento penitenziario a cinque anni dalla riforma,

in V. GREVI (a cura di), Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, Bologna, 1981, p. 7

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spazio a una visione rieducazionale della stessa5. La strada era stata aperta dalla Corte Costituzionale che con la sentenza n. 204 del 4 luglio 1974 sulla liberazione condizionale, aveva posto in rilievo, per la prima volta, le conseguenze che debbono essere tratte dall’esistenza del principio secondo cui le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato»: il fine rieducativo deve trovare, proprio in sede esecutiva, il momento elettivo per la sua realizzazione6.

Oltre che conformarsi alla Costituzione, la legge n. 354 risponde alle indicazioni contenute nelle “regole minime per il trattamento dei detenuti” adottate dall’Assemblea generale dell’O.N.U. nel 1955 e confermate successivamente in sede di Consiglio d’Europa. Le Regole Minime, pur non avendo il carattere di strumento giuridico internazionale, e quindi non essendo vincolanti per gli ordinamenti interni dei paesi che le hanno accettate, hanno tuttavia una innegabile forza morale perché la grande maggioranza dei paesi moderni, tra cui l’Italia, ha con la sua adesione manifestato un preciso impegno di rispetto ai principi che vi sono contenuti7.

L’art. 1 o.p. è rubricato «trattamento e rieducazione» e specifica le finalità del trattamento penitenziario: deve essere conforme a umanità e, nei confronti dei condannati e degli internati, deve essere attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti, al fine del reinserimento sociale di ciascuno. Per questi soggetti, il

5 E. FASSONE, T. BASILE, G. TUCCILLO, La riforma penitenziaria (commento teorico pratico alla l. 663/1986), Napoli, 1987, p. 4

6 M. CASTALDO, La rieducazione tra realtà penitenziaria e misure alternative, Napoli,

2001, p. 43

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trattamento penitenziario è, dunque, «strumento dell’opera di rieducazione»8. Il trattamento degli imputati, invece, deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva, in aderenza al precetto costituzionale9. Sarebbe stato illegittimo prevedere la rieducazione nei confronti degli imputati, il legislatore ha quindi previsto un trattamento anche per l’imputato ma senza presunzione di un bisogno di rieducazione10.

La principale caratteristica del trattamento penitenziario è che deve essere individualizzato, cioè rispondente ai particolari bisogni ci ciascun soggetto11. Attraverso l’osservazione scientifica della personalità del detenuto – condannato o internato – vengono formulate indicazioni in merito al trattamento da effettuare ed è compilato il relativo programma dell’esecuzione.

Anche il regolamento di esecuzione, D.P.R. 29 aprile 1976 n. 431, individua la finalità del trattamento dei condannati e degli internati nella rieducazione, intesa come processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale.

2. Le criticità della legge sull’ordinamento penitenziario

L’impatto rivoluzionario della legge n. 354 si rivelerà in parte solo apparente e, soprattutto nei primi anni, molto circoscritto.

8 Cass. Pen. Sez 1, 21 settembre 1977 9Art. 27 comma 2 Cost.

10 G. DI GENNARO, M. BONOMO, R. BREDA, op. cit., p. 34

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Prima di tutto, c’è da considerare il tortuoso iter parlamentare che portò all’approvazione della legge sull’ordinamento penitenziario. L'emanazione della legge fu la conclusione di una vicenda quasi trentennale, che iniziò nel 1947 con la decisione del Ministro Tupini di costituire una “Commissione di studio per la riforma del regolamento carcerario”, e continuò con numerosi disegni di legge, gli ultime due presentati dal guardasigilli Gonella nel 1968 e, successivamente, nel 197212. Il disegno di legge del 1968 venne additato come in continuità con la logica e l’impalcatura del regolamento Rocco del 193113, mentre l’ultimo disegno di legge del 1972, che da cui poi sfocerà la legge n. 354, verrà molto modificato in sede parlamentare, facendo compiere alla riforma un deciso balzo in avanti. Le modifiche apportate non scalfirono però l’impianto tradizionalista del disegno di legge iniziale, e il risultato fu che la riforma penitenziaria presentava un quadro contraddittorio, tra momenti di rottura e momenti di continuità con la regolamentazione precedente. Dal punta di vista strutturale, la legge n. 354 del 1975 è costruita su due titoli, che Neppi Modona definisce le «due anime della riforma»14: il primo titolo è dedicato al “trattamento penitenziario” e il secondo è dedicato alle “disposizioni relative all’organizzazione penitenziaria”. Nel primo titolo vi sono i principi

12 G. DI GENNARO, La gestazione della riforma, cit., p. 30

13 G. NEPPI MODONA, Vecchio e nuovo nella riforma dell’ordinamento penitenziario,

in M. CAPPELLETTO, A. LOMBROSO (a cura di), Carcere e società, Venezia, 1976, p. 64

14 «le due anime della riforma: vecchia organizzazione e nuovo trattamento», così G.

NEPPI MODONA, Per la difesa della riforma penitenziaria: potenziamento delle

misure alternative e nuovi compiti degli enti locali in V. GREVI (a cura di), Alternative alla detenzione e riforma penitenziaria, Bologna, 1982, p. 279

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innovativi della riforma, vi sono gli istituti ove si è concentrata l’attenzione del legislatore. Il secondo titolo, relativo all’organizzazione penitenziaria, riflette, invece, la tradizione: le strutture organizzative sono centralizzate, tutto è controllato dall’amministrazione centrale e la vita carceraria è regolamentata nel minimo dettaglio. La conseguenza di questo atteggiamento è la massima spersonalizzazione del detenuto che è privato di ogni sfera di riservatezza e si percepisce come un oggetto. Il detenuto regredisce fino a uno stadio infantile, in quanto qualsiasi aspetto del suo vivere viene regolamentato e lui non ha alcuna possibilità di scelta, deve solo obbedire e rispettare ciò che gli viene ordinato. Sempre in quest’ottica di spersonalizzazione del detenuto, l’art. 71 della legge prevedrebbe l’uso della divisa, ma in questo caso la consuetudine ha prevalso in positivo, e si è preferito optare per indumenti civili

All’entrata in vigore della riforma, Neppi Modona ci diceva che: «si sarebbe tentati di dire che il Senato, di fronte alla drammatica urgenza di recuperare il ritardo di almeno un ventennio e di dare una risposta alle attese della società democratica, non abbia avuto il tempo di completare il suo lavoro, creando nella prima parte della legge un sistema veramente innovativo, senza avere poi la possibilità di completarlo e di renderlo operante sul terreno delle strutture organizzative15».

In secondo luogo, si rileva che la nuova legge penitenziaria viene emanata in un contesto in cui vige ancora un Codice Penale e un Codice di

15 G. NEPPI MODONA, Vecchio e nuovo nella riforma dell’ordinamento penitenziario,

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Procedura Penale risalenti al ventennio fascista. In realtà nel periodo in cui venne discussa e approvata la riforma penitenziaria si stavano discutendo alcune riforme generali dell’ordinamento penale, sia per quanto riguarda l’ambito procedurale, sia per quello penale. Vi erano, dunque, le premesse per impostare un discorso organico e sistematico che toccasse contestualmente i tre settori fondamentali dell'ordinamento penale, ma alla fine solo la riforma penitenziaria ebbe uno sbocco legislativo16. La conseguenza fu che la legge penitenziaria si trovò priva di tutta una serie di riforme di sostegno che ne avrebbero permesso l’attuazione concreta. Se, sulla carta, la nuova legge penitenziaria aveva un respiro innovatore, la sua attuazione è risultata carente a causa di un ordinamento e un sistema non al passo con le novità previste dalla legge stessa – è evidente che riformare il carcere senza toccare il sistema delle sanzioni e il processo penale crea disfunzioni e contraddizioni all'interno dell’ordinamento. Vi fu un inevitabile contrasto tra lo spirito innovativo della legge del 1975 ispirata alla funzione rieducatrice della pena e al principio della presunzione di non colpevolezza, e un ordinamento penale che attribuiva alla pena una funzione diversa da quella rieducatrice, in cui la sanzione privilegiata e irrinunciabile era la pena detentiva più tradizionale e la carcerazione preventiva era considerata una cautela da impiegarsi normalmente quasi quale strumento di pena anticipata17.

La nuova legge penitenziaria prevedeva una maggiore tutela

16 G. NEPPI MODONA, Per la difesa della riforma penitenziaria, cit., p. 274

17 V. GREVI, Dritti dei detenuti e trattamento penitenziario a cinque anni dalla riforma,

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dell’individuo che si contrappose con il carattere repressivo nei confronti della criminalità che avevano le legge penali emanate in quegli anni, quali la legge sui sequestri e sulle rapine, quella sulle armi, quella anti-droga. Vennero aggravate le pene per alcuni reati, aumentati i termini della carcerazioni preventiva, introdotti divieti per la concessione della libertà provvisoria per i reati più gravi. Vediamo che a seconda del momento in cui ci si riferisce – giudizio o esecuzione – il soggetto destinatario dell’intervento normativo penale, è considerato in maniera diversa. La normativa penitenziaria ha come destinatario un soggetto a cui proporre un trattamento risocializzante; la normativa penale, invece, ha un forte componente repressiva. In realtà, anche nella stessa legge sull’ordinamento penitenziario troviamo delle norme in contrasto con questa idea della pena finalizzata alla risocializzazione: ad esempio l’art. 47 o.p. vietava l’affidamento al servizio sociale per gli autori di rapine, estorsioni e sequestri di persona18.

L’irrigidimento generale dell’ordinamento penale non fu l’unico motivo che impedì il decollo della riforma. Mancavano i mezzi materiali per poter attuare le nuove disposizioni: non c’erano le strutture idonee per supportare le nuove esigenze introdotte dalle legge, ci fu un ritardo nella predisposizione dei nuovi organici giudiziari per la ristrutturazione della magistratura di sorveglianza, non era stato predisposto un apparato organizzativo esterno al carcere capace di avviare un reale processo di reinserimento sociale. Questo è confermato dal rinvio dell’entrata in vigore

18 L. STORTONI, Libertà e diritti del detenuto nel nuovo ordinamento carcerario, in F.

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di alcuni istituti, tra cui la semilibertà, l’affidamento in prova. Inoltre, cosa forse più importante, il legislatore non si preoccupò di predisporre degli strumenti per di qualificare e formare gli operatori penitenziari a un modo di operare conforme alle nuove finalità della riforma – la struttura organizzativa dell’ordinamento penitenziario rimase ancorata agli antichi schemi di gestione centralizzati e non corrispondenti con l’ideologia della legge19.

3. La carente regolamentazione della problematica della sicurezza in carcere

3.1 La differenziazione dei detenuti nella legge sull’ordinamento penitenziario

Come avevamo già anticipato, una delle più grandi problematiche della normativa penitenziaria del 1975 riguarda il non aver regolamentato in maniera esauriente la tematica della sicurezza all’interno del carcere, con particolare riguardando alla differenziazione all’interno delle carceri per ragioni di sicurezza. L’immagine che emerge dai novanta articoli della legge di riforma del 1975 è quella di una esecuzione penitenziaria omogenea, ossia per tutti indifferenziata20: nella legge balza agli occhi una stridente contraddizione tra l’affermata individualizzazione del trattamento e l’indifferenziato livellamento verso il basso di tutti i detenuti21.

19 I. CAPPELLI, Il carcere controriformato, in AA. VV., Il carcere dopo le riforme,

Milano, 1978, pp. 12-13

20 L. DAGA, Differenziazione dei detenuti e degli istituti, in Incontro del C.S.M. con i magistrati di sorveglianza: incontro di studio e documentazione per i magistrati (Grottaferrata, 11, 12 e 13 novembre 1983), Roma, 1985, p. 73

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E’ pacifico ritenere che i soggetti detenuti in carcere si esprimono in diversi gradi di pericolosità, rendendo così necessarie risposte differenziate22: ci sono determinati soggetti che richiedono delle cautele e delle modalità di detenzione specifiche ai livelli di pericolosità che manifestano.

Questo aspetto della differenziazione del trattamento dei detenuti si ricollega alla problematica della sicurezza. Per sicurezza negli istituti penitenziari si intende non la sola esigenza di impedire evasioni, ma rientrano nel concetto di sicurezza sia l’incolumità fisica e psichica dei detenuti, sia condizioni di vita tollerabili per i reclusi e per i custodi, che impediscano il sorgere e radicarsi di tensioni dalle quali scaturiscano violenze e illegittimità; infine, assicurare che la detenzione corrisponda ai suoi fini determinati dalla legge, e per l’esecuzione della pena il fine si identifica con la rieducazione del detenuto per agevolarne il reingresso sociale23. La sicurezza è «un’elemento intrinseco all’istituzione carceraria assunta nel suo insieme»24, è un concetto che rileva rispetto a tutti gli istituti carcerari e nei confronti della totalità della popolazione reclusa. La sicurezza non è un concetto unitario ma contiene due profili diversi: la sicurezza esterna – cioè quegli strumenti e misure predisposte al fine di assicurare la effettività dell’esecuzione della pena e di evitare la possibile elusione della stessa – e la sicurezza interna –

22 R. MERANI, Il rapporto con il sistema penitenziario. I vari circuiti penitenziari: a) La sicurezza accentuata, in Quaderni del CSM, n. 80, 1995, p. 272

23 M. GENGHINI, Relazione su “Sicurezza degli istituti penitenziari. Diritti soggettivi ed interessi legittimi dei detenuti”, in Consiglio superiore della magistratura, Incontro di studio e documentazione per i magistrati dal titolo: Diritto penitenziario e misure alternative (25-30 marzo 1979), a cura del C.S.M., Roma, 1979, p. 88

24 F. PASI, Sicurezza degli istituti e trattamento penitenziario, in Incontro del C.S.M. con i magistrati di sorveglianza: incontro di studio e documentazione per i magistrati (Grottaferrata, 11, 12 e 13 novembre 1983), Roma, 1985, p. 106

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cioè l’insieme delle condizioni che impediscono che si verifichino aggressione agli operatori penitenziario o sopraffazioni nei confronti dei detenuti25.

La legge del 1975 sembra non riconoscere l’effettiva esistenza della problema della sicurezza all’interno del carcere26. Il legislatore ha posto forse troppa fiducia nelle prospettive di recupero e reinserimento sociale dei detenuto, non prevedendo un rifiuto del trattamento da parte dei destinatari dello stesso27; la legge, infatti, ha preso la scelta di non procedere alla definizione di “detenuto pericoloso”, riducendo il problema a un marginale ambito di intervento amministrativo con la previsione dell’art. 9028. Una conferma ci viene data dall’art. 1 o.p. che solo al terzo comma, dopo aver ampiamente parlato delle finalità del trattamento penitenziario, si preoccupa di specificare che: «negli istituti devono essere mantenuti l'ordine e la disciplina», sempre quindi evitando il termine “sicurezza”. Sarebbe stato più appropriato riconoscere l’esistenza del problema sicurezza in modo da «delinearne i termini, descriverne la portata, specificare che cosa, quanto e come può essere sacrificato alle esigenze di sicurezza»29.

E’ una costante comune a tutti gli ordinamenti l’esigenza di prevedere una specializzazione degli istituti penitenziari (o di sezioni di essi) in funzione

25 F. PASI, op. cit., p. 106

26 G. TAMBURINO, La sicurezza nel quadro del regime penitenziario. Ipotesi introduttive, in Consiglio superiore della magistratura, Incontro di studio e documentazione per i magistrati dal titolo: Diritto penitenziario e misure alternative (25-30 marzo 1979), p. 115

27 C. SANTINELLI, sub art. 64 ord. pen., in F. DELLA CASA, G. GIOSTRA, Ordinamento penitenziario commentato, Padova, 2015, p. 782

28 Vedi infra par. 3.3

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anche delle esigenze di ordine e di sicurezza e, di conseguenza, dell’individuazione di soggetti a cui sottoporre tale regime30. Le stesse Regole minime dell’O.N.U. nel 1955 hanno affrontato tale questione: all’art. 63 prevedono che i detenuti siano classificati in gruppi e che sia preferibile collocare ciascun gruppo in uno stabilimento dove possa ricevere il trattamento necessario; questi stabilimenti non dovrebbero avere la stessa sicurezza per tutti i gruppi, ma sarebbe desiderabile prevedere più gradi di sicurezza secondo le necessità dei vari gruppi31.

Del resto, la necessità di garantire l’ordine e la sicurezza negli istituti penitenziari attraverso la differenziazione dei detenuti non pare entrare in rotta di collisione con la volontà riformatrice della legge penitenziaria del 1975; l’idea degli istituti di massima sicurezza «non adombra una surrettizia reviviscenza delle antiche carceri di rigore o di punizione», a patto che il carcere di sicurezza, sia un carcere di «massima legalità»32 e quindi più di tutti, sia sottoposto al controllo della magistratura di sorveglianza.

Il fatto è, però, che il legislatore italiano del 1975 non affronta con tale chiarezza la problematica della differenziazione dei detenuti. Rispetto alla disciplina precedente, la legge n. 364 si distacca notevolmente dal regolamento carcerario del 1931 in cui detenuti erano classificati in base a

30 T. PADOVANI, Ordine e sicurezza negli istituti penitenziari, in V. GREVI (a cura

di), Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, Bologna, 1981, p. 293

31 Nel 2015, la Commissione delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e la giustizia penale ha adottato la nuova versione degli Standard minimi per il trattamento penitenziario dei detenuti (le c.d. Mandela Rules). Alla regola n. 89 è prevista la

classificazione e il raggruppamento dei detenuti in diverse categorie, e la regola conferma la disciplina prevista nel documento precedente.

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rigide tipologie legali. Il regolamento Rocco si ispirava ai «modelli ottocenteschi ispirati al mito ossessivo di un legislatore penitenziario illimitatamente capace di tradurre in formule legale i diversi presupposti, mezzi e modi della finalità rieducativa assegnata all’esecuzione penale»33. I detenuti venivano differenziati sulla base di parametri desunti da una serie di elementi oggettivi: la specie legale di pena o di misura, l’età, l’elemento psicologico del reato commesso, il comportamento del detenuto in ambito penitenziario, le forme di pericolosità e altri ancora. Inoltre, la scelta del tipo di struttura a cui era assegnato o trasferito il detenuto competeva all’autorità giudiziaria che verificava la corrispondenza tra gli elementi di valutazione normativa del detenuto e l’istituto destinato a riceverlo, dunque la discrezionalità dell’amministrazione penitenziaria non trovava spazio. Corollario della classificazione legale adottata dal regolamento era il fatto che ogni istituto era caratterizzato da una struttura organizzativa e funzionale tendenzialmente rigida34.

Dunque, il regolamento Rocco era caratterizzato dalla tendenza a eccedere nella classificazione degli istituti penitenziari – anche se è necessario dire che questa “smania classificatoria” rimase per larga parte sulla carta, senza trovare riscontro nella realtà carceraria del paese35. Al contrario, il legislatore del 1975 ha voluto abbandonare questa rigida tipizzazione legale degli istituti penitenziari e, conseguentemente, dei detenuti, mantenendo solo

33 T. PADOVANI, op. cit., p. 298 34 T. PADOVANI, op. cit., p. 299

35 F. DELLA CASA, sub art. 59 ord. penit., in F. DELLA CASA, G. GIOSTRA, Ordinamento penitenziario commentato, Padova, 2015, p. 758

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una generale distinzione degli istituti per adulti in: istituti per la custodia cautelare, istituti per l’esecuzione delle pene, istituti per l’esecuzione delle misure di sicurezza, centri di osservazione (art. 59 o.p.). Ulteriormente gli istituti per l’esecuzione delle pene si distinguono in case di arresto e in case di reclusione e gli istituti per l’esecuzione delle misure di sicurezza di distinguono in colonie agricole, case di lavoro, case di cura e di custodia, ospedali psichiatrici giudiziari. Si tratta di una distinzione di base che si uniformava alle sanzioni previste dal codice penale e dalla quale quindi il legislatore non poteva prescindere. Nella legge non vi è cenno alla predisposizioni di istituti o sezioni all’accoglimento di soggetti “pericolosi”.

Alcuni, in dottrina36, all’indomani dell’entrata in vigore nel 1976 del Regolamento di esecuzione della legge 354/1975, rintracciarono il fondamento normativo degli istituti di speciali di sicurezza nell’art. 32 reg. esec., quasi come se il legislatore si fosse reso conto dell’errore fatto un anno prima con la legge dell’ordinamento e avesse sopperito inserendo una norma di fonte regolamentare che prevede la possibilità di istituire carceri speciali37. L’art. 32 reg. esec. prevedeva che «i detenuti e gli internati, che abbiano un comportamento che richiede particolari cautele, anche per la tutela dei compagni da possibili aggressioni o sopraffazioni, sono assegnati ad appositi istituti o sezioni dove sia più agevole adottare le suddette cautele.» La norma è sicuramente lacunosa e carente di garanzie per numerosi aspetti: niente dice

36 L. STORTONI, op. cit., p. 47; I. CAPPELLI, op. cit., p. 29; S. SENESE, Conclusioni,

in AA. VV., Il carcere dopo le riforme, Milano, 1978, p. 184

37 A. BERNASCONI, La sicurezza penitenziaria: prospettiva storico-sociologica e profili normativi, Milano, 1991, p. 104

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infatti a proposito dei criteri di selezione individuale di detenuti da destinare a queste sezioni o stabilimenti; il numero degli istituti sezioni; la non esclusione di tali detenuti dall’ordinario trattamento38. Secondo Padovani, però, indipendentemente dalle eventuali critiche, l’art. 32 non può costituire di per sé la fonte della diversificazione degli istituti, in quanto la disposizione non disciplina espressamente gli stabilimenti differenziati, ma si limita a presupporli, disciplinando espressamente solo la problematica dell’assegnazione agli stessi39. Resta il fatto che, la creazione delle carceri di massima sicurezza non può essere lasciata alle disposizioni di una norma regolamentare40.

3.2 (segue) La specializzazione degli istituti in rapporto alle esigenze di trattamento e alle esigenze di sicurezza

Riprendiamo allora la legge, e vediamo che, oltre alla banale classificazioni degli istituti prevista all’art. 69 o.p., il legislatore rimette ogni ulteriore differenziazione a criteri operativi riferiti alle esigenze del trattamento41. In effetti, l’art. 64 o.p. stabilisce che i singoli istituti devono essere organizzati con caratteristiche differenziate in relazione a: la posizione giuridica dei detenuti e degli internati; la necessità di trattamento individuale e di gruppo42. E’ soltanto questo secondo l’elemento veramente significativo

38 I. CAPPELLI, op. cit., p. 29 39 T. PADOVANI, op. cit., p. 295

40 A. BERNASCONI, op. cit., pp.104-105

41 G. DI GENNARO, M. BONOMO, R. BREDA, op. cit., p. 258

42 «I singoli istituti devono essere organizzati con caratteristiche differenziate in

relazione alla posizione giuridica dei detenuti e degli internati e alle necessità di trattamento individuale o di gruppo degli stessi.»

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del processo di specializzazione degli istituti, come si evince anche dal D.P.R. 431/1976, che, all’art. 102 richiama – quali parametri a cui tale specializzazione deve orientarsi – i criteri di cui al secondo comma dell’art. 14 della legge 354. L’art. 14 o.p. disciplina che l’assegnazione ai singoli istituti e il raggruppamento nelle sezioni devono essere disposti con particolare riguardo alla possibilità di procedere a un trattamento rieducativo comune e all’esigenza di evitare influenze nocive reciproche, e, inoltre, ai criteri contenuti all’art. 42 comma 1 e 2 o.p. A sua volta, l’art. 42 o.p. prevede che i trasferimenti dei detenuti devono essere subordinati a gravi e comprovati motivi di sicurezza, esigenze dell’istituto, motivi di giustizia, di salute, di studio e familiari. Questa serie di rinvii a catena crea non pochi problemi per quanto riguarda la ricostruzione sistematica dei criteri effettivamente utilizzabili nel processo di specializzazione degli istituti. In dottrina43 si è arrivati a escludere che possano assurgere a momenti organizzativi i motivi di famiglia o di giustizia, nonché i motivi di salute e di studio, come pure l’esigenza di prevenire influenze negative reciproche. In definitiva, si arriva alla conclusione che restano solo due parametri di riferimento per l’organizzazione degli istituti per l’esecuzione: le necessità trattamentali e i motivi di sicurezza.

Per quanto riguarda il primo parametro, il collegamento tra il trattamento rieducativo e l’organizzazione interna degli istituti è una delle novità salienti della legge penitenziaria, la quale tuttavia, omette di fornire

43 Cfr. T. PADOVANI, Istituti penitenziari, in «Novissimo Digesto Italiano»,

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indicazioni precise sulle implicazioni concrete che ne derivano. La legge individua all’art. 15 comma 1, gli elementi del trattamento: l'istruzione, il lavoro, la religione, le attività culturali, ricreative e sportive; e indica la finalità del trattamento rappresentata dal reinserimento sociale dei detenuti. La precisazione dei criteri della specializzazione fondata sulle esigenze del trattamento, però, non può essere effettuata a priori sul piano legislativo o regolamentare e, infatti, il compito di impartire le direttive organizzative del trattamento, e di conseguenza degli istituti, è rimesso alle valutazioni discrezionali dell’amministrazione penitenziaria44. Qui è l’ulteriore differenza con il regolamento Rocco: la mancanza di un accertamento giudiziale dei presupposti per l’assegnazione o il trasferimento dei detenuti, il detenuto è consegnato nelle mani dell’amministrazione penitenziaria, non è necessario il controllo di un giudice. La specializzazione degli istituti è, quindi, rimessa a valutazioni discrezionali dell’amministrazione penitenziaria che opera sulla base delle esigenze concrete del trattamento dei detenuti, quali emergono dall’osservazione scientifica della loro personalità. La fisionomia organizzativa e funzionale di un singolo istituto non dipende più da rigidi parametri precostituiti ma dalla direttive dell’amministrazione penitenziaria emanate per soddisfare le esigenze poste dal trattamento e dal regolamento interno emanato sulla base di tali direttive.

L’altro parametro sul quale poggia la specializzazione degli istituti è rappresentato dalle esigenze di sicurezza. Com’è noto, l’art. 102 comma 1

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o.p. del D.P.R. n. 431 rinvia, per la determinazione dei criteri di differenziazione tra gli istituti, all’art. 14 comma 2 della legge n. 354 che, a sua volta, rinvia all’art. 42 comma 1 e 2, riguardate i trasferimenti dei detenuti che devono essere subordinati, tra le altre cose, «a gravi e comprovati motivi di sicurezza». Attraverso i rinvii a catena, concludiamo che gli istituti per l’esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza possono essere organizzati in modo da corrispondere a ragioni di sicurezza attraverso le valutazioni dell’amministrazione penitenziaria45. L’indeterminatezza di questa disciplina si è tradotta nell’impossibilità di definire quali siano i detenuti pericolosi e la conseguenza è stata quella delegare alla discrezionalità amministrativa l’interno meccanismo dell’organizzazione degli istituti sulla base di esigenze di ordine e sicurezza, e quindi di regimi detentivi differenziati di sicurezza. «Ma [un regime di carcere di sicurezza] comporta, inevitabilmente, forme di limitazione della libertà personale e controlli superiori a quella della detenzione ordinaria, e quindi si tratta di una modalità restrittiva della libertà la cui disciplina non dovrebbe essere sottratta alla garanzia costituzionale stabilita all’art. 13 comma 2 Cost. ed essere quindi prevista in termini legalmente definiti46».

3.3 L’art. 90 o.p.: la provvisoria sospensione delle regole di trattamento e degli istituti penitenziari

L’unica norma che tratta apertamente della problematica della

45 T. PADOVANI, Istituti penitenziari, cit., p. 466 46 T. PADOVANI, Istituti penitenziari, cit., p. 466

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sicurezza è l’art. 90 o.p., appunto rubricato “esigenze di sicurezza”. Si tratta di una norma di chiusura della legge sull’ordinamento penitenziario: in caso di normalità, sono applicate le norme della legge e del regolamento e solo quando ricorrono «gravi e eccezionali motivi di ordine e sicurezza», il Ministro di Grazia e Giustizia ha la facoltà di sospendere l’applicazione di alcune di queste disposizioni, in uno o più istituti determinati. Si trattava quindi di una disposizione eccezionale che però risultava carente di tassatività e per questo rischiava di essere soggetta ad abusi: stante alla lettera della norma, infatti, la sospensione poteva riguardare qualsiasi regola di trattamento o istituto che il Ministro ritenesse potesse porsi in contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza. Il provvedimento sospensivo avrebbe dovuto avere una durata «strettamente necessaria», predeterminata dal ministro, e cioè fino a quando non fossero state ristabilite le “normali” esigenze di ordine e sicurezza (in contrapposizione con le “gravi” esigenze di ordine e sicurezza a cui fa riferimento la norma)47. La disposizione non delimitava in modo sufficientemente preciso l’oggetto del provvedimento sospensivo ma un primo limite fu trovato dalla dottrina che fu fin da subito concorde nell’escludere l’operatività della sospensione nei confronti di quelle regole o di quegli istituti diretti a soddisfare bisogni primari connessi a un diritto costituzionalmente protetto indipendentemente dallo stato di detenzione48. Questo primo limite viene detto di carattere esterno mentre un

47 L. CESARIS, sub art. 90 ord. penit., in F. DELLA CASA, G. GIOSTRA, Ordinamento penitenziario commentato, Padova, 2015, p. 1074

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secondo limite dipende dalla funzione stessa del provvedimento: potranno essere sospesi soltanto quegli aspetti del trattamento penitenziario che, in relazione alla specifica situazione degli stabilimenti considerati, non risultino obbiettivamente compatibili con l’ordine e la sicurezza49. Nonostante ciò, l’art. 90 o.p. è una disposizione che dà un ampio potere al governo, in contrasto con lo spirito innovativo della riforma del 1975.

La formulazione approssimativa dell’art. 90 o.p. è dovuta anche al fatto che la norma non era prevista nel disegno di legge inziale presentato al senato ma venne introdotto, insieme a altre modifiche, nel passaggio successivo alla camera; il testo così emendato ritornò poi al senato che si limitò a prendere atto dei cambiamenti apportati dai deputati50.

In dottrina è stato rilevato come l’art. 90 o.p. presenti numerosi profili di incostituzionalità51. In primo luogo vi è l’evidente evasione dai principi di stretta legalità e determinatezza. Per l’estrema vaghezza della formulazione la norma viene giudicata «estremamente pericolosa, non solo per la genericità dei presupposti del potere ministeriale e per la mancanza di precise indicazioni sulle regole di trattamento e sugli istituti di cui può essere sospesa l’applicazione, ma soprattutto perché attribuisce al potere esecutivo la possibilità di sospendere, senza alcun controllo parlamentare, l’applicazione di una legge52». Poi abbiamo il contrasto con l’art. 101 comma 2 Cost. - «i giudici sono soggetti solo alla legge» – in quanto la decisione del ministro

49 T. PADOVANI, Ordine e sicurezza negli istituti penitenziari, cit., p. 289 50 A. BERNASCONI, op. cit., p. 91

51 A. BERNASCONI, op. cit., p. 96

52 G. NEPPI MODONA, L. VIOLANTE, Poteri dello stato e sistema penale, Torino,

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della giustizia può vanificare le scelte compiute in tema di trattamento del magistrato di sorveglianza. Inoltre, è come se un potere non giudiziario decidesse un ulteriore aggravamento della detenzione, e quindi un’ulteriore restrizione della libertà personale e questo sarebbe in contrasto con l’art. 13 comma 2 Cost. che non ammette “forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Relativamente a questo aspetto, l’art. 90 o.p. sarebbe in contrasto anche con l’art. 25 comma 2 Cost., che prevede la riserva di legge in materia penale, e questa deve intendersi estesa anche alla fase dell’esecuzione. Infine, se l’ordine del ministro sospende il trattamento rieducativo, vi sarebbe contrasto con l’art. 27 comma 3 Cost., cioè con l’umanità e la finalità rieducativa della pena che potrebbe andare persa.

La collocazione sistematica dell’art. 90 o.p., a chiusura del sistema, quasi come una «valvola di sicurezza»53, sembra voler dire che l’ordine e la sicurezza siano le finalità sovrane dell’ordinamento penitenziario, in quanto ad esse possono essere sacrificate tutte le altre esigenze carcerarie54. Questo fatto, però, è in contraddizione con una legge che per le situazioni ordinarie non si era affatto preoccupata di definire i limiti delle esigenze di ordine e sicurezza.

Quel che è certo è che l’art. 90 o.p. consegna un potere notevole al

53 L. STORTONI, op. cit., p. 59

54 E. CARLETTI, Carcerati e carcerieri: tutti carcerati, in fondo, in F. BRICOLA (a

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Ministro di Grazia e Giustizia. Potere di cui si temeva un uso improprio: vi era la «preoccupazione che potesse essere utilizzato come strumento di risposta “ordinaria”, contrabbandando per gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza le persistenti carenze dell’istituzione penitenziaria ed il suo mancato adeguamento organizzativo e funzionale ai principi della riforma55». In realtà, il timore di un uso improprio dell’art. 90 o.p. appare eccessivo alla luce di una valutazione sistematica: i contorni tracciati dalla legge penitenziaria per le esigenze di ordine e di sicurezza in situazioni di normalità sono tanto labili e sfuggenti da consentire soluzioni del tutto analoghe a quelle dell’art. 90 o.p., senza nemmeno l’assunzione di responsabilità derivante dal ricorso a questa disposizione56. Ed è ciò che poi effettivamente sarebbe accaduto con la creazione delle carceri di massima sicurezza, istituite con il D.M. 4 maggio 1977, il quale attribuiva ad un ufficiale generale dell'arma dei carabinieri il «coordinamento dei servizi di sicurezza esterna degli istituti indicati con provvedimento del Ministro di Grazia e Giustizia di concerto con il Ministro dell’Interno57.

3.4 La creazione delle “carceri speciali”

Il D.M. del 1977 si inserisce in un contesto di forte allarme sociale, caratterizzato da ripetuti episodi di evasione commessi da soggetti appartenenti alle frange del terrorismo, ma anche da alcuni detenuti comuni

55 T. PADOVANI, Ordine e sicurezza negli istituti penitenziari, cit., p. 290 56 T. PADOVANI, Ordine e sicurezza negli istituti penitenziari, cit., pp. 290-291 57 L. CESARIS, op. cit., p. 1074

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che si univano ai primi in un fronte unico per protestare contro la condizioni delle carceri italiane58. L’estate del 1976 fu contraddistinta da dure manifestazioni dei detenuti per il miglioramento delle loro condizioni di vita e da proteste degli agenti di custodia contro questa situazione59.

In risposta a questa situazione di emergenza, il 4 maggio del 1977 viene predisposto il Decreto Interministeriale Bonifacio-Lattanzio-Cossiga che muove dalla considerazione «che il grave fenomeno delle evasioni delle carceri pregiudica il mantenimento dell’ordine pubblico». Il decreto fissa un proprio termine di efficacia («fino a quando non sarà disponibile un adeguato numero di istituti penitenziari rispondenti ai requisiti stabiliti dalla legge 26 luglio 1975 n. 354, e comunque fino al 31 dicembre 1980»60), e quindi sembra ammettere l’eccezionalità della misura atta solo a garantire la sicurezza degli istituti; vedremo, però, come i risultati ottenuti con l’intervento del decreto saranno permanenti61.

Viene affidato il coordinamento del servizio di sicurezza esterna di determinati istituti penitenziari a un ufficiale generale dei carabinieri, Alberto Dalla Chiesa62. Dalla esigenza di tutela della mera sicurezza esterna degli istituti designati, come effettivamente prevede il decreto, ben presto si passa

58 R. MERANI, op. cit., p. 279 59 E. CARLETTI, op. cit., pp. 177-178

60 «Fino a quando non sarà disponibile un adeguato numero di istituti penitenziari

rispondenti ai requisiti stabiliti dalla legge 26 luglio 1975 n. 354, e comunque fino al 31 dicembre 1980, al coordinamento degli istituti penitenziari, indicanti con provvedimento del Ministro per la grazia e la giustizia, di concerto con i Ministri della difesa e dell'interno, è preposto un ufficiale generale dei carabinieri, nominato con decreto dal Ministro della difesa.»

61 A. BERNASCONI, op. cit., p. 105 62 I. CAPPELLI, op. cit., p. 22

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a un’azione che coinvolge anche la sicurezza interna63. Il decreto, infatti, specificando le competenze del generale, prevede che questi possa visitare tutti gli istituti penitenziari e debba essere informato da tutti i direttori delle disposizioni adottate per il mantenimento della sicurezza, dell'ordine e della disciplina all'interno degli istituti, e sulla base di tali comunicazioni, possa rivolgere al Ministro di Grazia e Giustizia proposte e richieste dirette ad assicurare l'adozione di misure che garantiscano la sicurezza negli istituti.

Per risolvere il problema della sicurezza nelle carceri, il generale individuò alcuni istituti penitenziari in cui instaurare un regime di detenzione speciale e a cui destinare i detenuti ritenuti più pericolosi: ecco che assistiamo alla nascita del carcere di massima sicurezza. Già a metà luglio del 1977, in cinque istituti penitenziari vengono fatti sfollare i vecchi ospiti per essere pronti a accogliere i detenuti ritenuti pericolosi: «non solo delinquenti comuni e politici più pericolosi, ma anche coloro che nelle prigioni hanno svolto o svolgono opera sobillatrice o si siano resi colpevoli di sequestri di guardie carceraria», dicono dal ministero64. Le prime carceri speciali sono quindi: Favignana, Asinara, Cuneo, Fossombrone e Trani, ma presto se ne aggiungeranno altre.

L’istituzione delle carceri speciali ha creato una profonda diversità nell’esecuzione delle pene: con l’istituzione delle carceri e delle sezioni speciali, si lascia all’autorità amministrativa la possibilità di determinare un

63 T. PADOVANI, Ordine e sicurezza negli istituti penitenziari, cit., p. 307 64 I. CAPPELLI, op. cit., p. 23

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diverso contenuto alla pena stabilita dal giudice65. E’ come se il tipo di pena venisse deciso in momento successivo alla comminazione del giudice, perché, nei fatti, è proprio in questo che si traduceva l’assegnazione in un carcere di massima sicurezza: una pena diversa in quanto più afflittiva e che non rispecchia i contenuti previsti dalla legge n. 354, in quanto improntata a soddisfare le sole ragioni di sicurezza, a discapito di tutto il resto.

Il carcere speciale nasce per rispondere a un’esigenza di sicurezza riconosciuta anche dalla dottrina ma «non può trasformarsi in luogo di segregazione e di isolamento per i singoli; le norme dell’ordinamento penitenziario valgono per ogni detenuto e così pure gli elementari diritti della persona umana»66. Ciò che accadrà nella realtà non farà fede a questa premessa, l’utilizzo di questo strumento non fu idoneo a rispondere alla carenza legislativa consistente nella mancata previsione di un carcere differenziato per soggetti che presentavano elementi di pericolosità. Nella sua visita ai primi cinque istituti speciali, Cappelli67 ci riporta le condizioni in cui vivevano i detenuti ivi ospitati: è estraneo ogni controllo del magistrato di sorveglianza sulla destinazione dei detenuti al regime speciale; la condizione dei familiari è tragica: la destinazione dei singoli detenuti è disposta senza alcun riguardo al luogo di residenza; è assente qualsiasi forma di trattamento; vi è una evidente disparità di trattamento sia rispetto ai detenuti “comuni”, sia tra gli stesi istituti speciali (basti pensare agli istituti facilmente raggiungibili

65 M. PAVARINI, Lo scambio penitenziario: manifesto e latente nella flessibilità della pena in fase esecutiva, Bologna, 1996, p. 238

66 G. CONSO, Le carceri speciali (purché non si trasformino in luoghi di segregazione),

in Stampa Sera, 29 agosto 1977

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su terraferma rispetto agli istituti situati sule isole); il regime è sostanzialmente perpetuo isolamento, consistente nella privazione di qualsiasi attività in comune; infine, è innegabile l’obiettiva funzione deterrente nei confronti degli altri detenuti68. L’attuazione del sistema differenziato è avvenuta a discapito dei principi che avevano reso così innovativa la riforma dell’ordinamento penitenziario: l’umanizzazione della pena e la finalità rieducativa della stessa.

L’aspetto più sconcertante della situazione fu l’assoluta mancanza dell’indicazione dei criteri di assegnazione dei detenuti agli istituti di massima sicurezza e di conseguenza il fatto che questa assegnazione avvenisse senza alcun controllo da parte del magistrato di sorveglianza. E’ vero che l’art. 32 del regolamento di esecuzione prevede l’assegnazione ad appositi istituti dei detenuti che richiedono particolari cautele ma questa misura, per essere legittima, presuppone la previa individuazione dei detenuti secondo criteri di pericolosità, da accertare in forme e modi obbiettivi e controllabili69. Si è creata la categoria dei detenuti differenziati senza stabilire gli elementi in base ai quale avviene la differenziazione70.

Va osservato, inoltre, che il soggetto detenuto in un istituto ove vige il decreto ministeriale di attuazione dell’art. 90 o.p., se trasferito ad altro istituto, continuava a essere classificato come detenuto differenziato e pertanto nei suoi confronti si manteneva concretamente vigore il decreto

68 I. CAPPELLI, op. cit., p. 29; A. BERNASCONI, op. cit., p. 109-110 69 S. SENESE, op. cit., p. 184

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ministeriale che lo riguardava. Di fatto, il decreto che, seppure nella forma riguardava un istituto o una sezione del carcere, nella sostanza seguiva i singoli soggetti, che si portano dietro l’art. 90 o.p. ovunque vengano trasferiti71.

Una precisione importate è che, nel periodo che va dal maggio del 1977 al marzo 1978, la differenziazione nella massima sicurezza «è vissuta senza l’applicazione dell’art. 90»72. Il passaggio successivo del Ministro sarà quello di fare ricorso all’art. 90 o.p. che, come sappiamo, gli consentiva di sospendere l’applicazione di determinate regole della legge n. 354 quando ricorrano gravi e eccezionali motivi di sicurezza. Il Ministro della giustizia fu costretto a ricorrere all’uso dell’art. 90 o.p. per mascherare l’evidente situazione di illegalità del nuovo regime di massima sicurezza che si era andato a creare; l’utilizzazione della disposizione eccezionale serviva per porre a fondamento delle scelte governative di differenziazione dei detenuti una norma di rango legislativo e non la sola discrezionalità amministrativa73. Ma l’art. 90 o.p. era uno strumento creato per fronteggiare una situazione emergenziale, privo di capacità di selezione delle esigenze di sicurezza e prevenzione che si intendeva assicurare; la sua applicazione era generalizzata e non consentita di operare scelte differenziate ma si applicava uniformemente a tutti i detenuti ristretti in un istituto o sezione74.

71 A. GERINI, S. MERLO, Profili di costituzionalità dell’art. 90, in Incontro del C.S.M. con i magistrati di sorveglianza: incontro di studio e documentazione per i magistrati (Grottaferrata, 11, 12 e 13 novembre 1983), Roma, 1985, p. 102

72 Trib. Sorveglianza Firenze, ordinanza 25 marzo 1987 73 A. BERNASCONI, op. cit., p. 110

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Negli istituti considerati di massima sicurezza si iniziò a disporre, ogni volta con decreti di attuazione dell’art. 90 o.p., la sospensione di talune disposizioni dell’ordinamento penitenziario. Nel marzo del 1978 si provvide inizialmente alla sola sottoposizione a visto di controllo della corrispondenza dei detenuti ristretti nelle carceri di massima sicurezza75. Successivamente, nel periodo che va dal 1982 al 1984 vi fu un proliferare di decreti attuativi dell’art. 90 o.p. che sospesero l’applicazione di un notevole numero di istituti e regole di trattamento: l’area di applicazione dell’art. 90 o.p., fino al 31 ottobre 1984 riguardava 18 istituti e un migliaio di persone76.

Con la fine del 1984, il regime di massima sicurezza comincia a cambiare77 e l'articolo 90 o.p. veniva in questo momento applicato nelle situazioni che effettivamente esigevano particolare attenzione.

Non vi furono più decreti emessi ai sensi dell’art. 90 o.p., ma non venne meno l’esigenza della differenziazione del trattamento dei detenuti, scopo che continuò a essere perseguito tramite l’utilizzo di circolari78. Quindi, non più decreti di attuazione dell’art. 90 o.p., ma circolari amministrative (cambia il nome ma non la sostanza). La circolare del 31 ottobre 1984 della Direzione Generale dei Detenuti espresse il convincimento che «l’amministrazione penitenziaria possa essere in grado di garantire l’ordine, la tranquillità e la sicurezza degli istituti»; nei fatti nacque il circuito degli “ex-differenziati”, che non era altro se non il vecchio circuito della massima

75 R. MERANI, op. cit., p. 280 76 R. MERANI, op. cit., p. 280

77 G. LA GRECA, Novità nel regime «di massima sicurezza» negli istituti penitenziari,

in Legislazione penale, 1985, p. 303

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sicurezza che semplicemente mutò nome79, razionalizzato e stabilizzato indipendentemente dall’uso dell’art. 90 o.p..

4. La legge Gozzini: l’abrogazione dell’art. 90 o.p. e l’introduzione del regime di sorveglianza particolare

Arrivati a questo punto possiamo sostenere che uno dei punti deboli della legge di riforma del 1975 sia stata la presunzione di omogeneità dei detenuti, che si traduce nel non aver previsto una differenziazione dei detenuti sulla base di esigenze di ordine e sicurezza. Abbiamo visto come la realtà carceraria abbia imposto la necessità di ricorrere a una differenziazione tra i detenuti; una differenziazione che è stata attuata attraverso decreti di attuazione dell’art. 90 o.p.. e circolari amministrative da parte del Ministero della giustizia e che, nei contenuti, non ha rispettato le garanzie poste a tutela dei detenuti previste dalla stessa legge dell’ordinamento penitenziario80.

La legge 10 ottobre 1986, n. 66381 è frutto dell’esperienza maturata nel decennio trascorso dall’approvazione della riforma del 1975 e uno dei suoi obiettivi fu proprio quello di superare la concezione unitaria del trattamento dei detenuti. Il legislatore perseguirà questo scopo attraverso due linee guida: da un verso, ampliando la possibilità di ricorrere all’utilizzo di misure alternative alla detenzione, introducendo istituti quali la detenzione domiciliare, la semilibertà e la liberazione anticipata; dall’altro, introducendo

79 R. MERANI, op. cit., pp. 281-282

80 E. FASSONE, T. BASILE, G. TUCCILLO, op. cit., p. 11

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una nuova disposizione da utilizzare in situazioni eccezionali di emergenza82 e prevedendo un regime di detenzione particolare per i detenuti ritenuti pericolosi – quest’ultimo è l’aspetto che interessa al nostro elaborato. Vedremo come la legge Gozzini cercherà di assoggettare pienamente il regime dell’esecuzione penitenziaria ai principi di riserva di legge e di determinatezza, con particolare riguardo alla sottoposizione dei detenuti a un trattamento più severo di quello “ordinario”83.

Il tentativo è quello di ovviare a quella prassi di diversificazione del regime penitenziario dei detenuti sulla base delle sole valutazioni dell’amministrazione penitenziaria che aveva condotto alla creazione di carceri e sezioni speciali, a sicurezza rafforzata, sottratti al controllo giurisdizionale e svincolati da precise indicazioni legislative84. Questo scopo viene perseguito, prima di tutto, con la creazione dell’istituto della sorveglianza particolare, alla quale possono essere sottoposti i detenuti sulla base di presupposti legislativamente predeterminati. L’introduzione dell’istituto della sorveglianza particolare affronta il problema della differenziazione dei detenuti per ragioni di sicurezza in una dimensione individuale. Vedremo, invece, che l’introduzione del nuovo art. 41-bis o.p., e la contestuale abrogazione dell’art. 90 o.p., cercherà di affrontare questo problema in una dimensione collettiva85.

82 Data la volontà di abrogare l’art. 90 o.p.

83 G. FLORA, Considerazioni introduttive, in G. FLORA (a cura di), Le nuove norme sull'ordinamento penitenziario: L. 10 ottobre 1986, n. 663, Milano, 1987, p. 2

84 L. R. RUSSO, La sorveglianza particolare e la regolamentazione della sospensione delle normali regole del trattamento, in G. FLORA (a cura di), Le nuove norme sull'ordinamento penitenziario: L. 10 ottobre 1986, n. 663, Milano, 1987, p. 20

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L’art. 1 della legge n. 663 introduce l’art. 14-bis o.p. che individua le categorie dei detenuti assoggettabili al regime di sorveglianza particolare86. E’ questa una tipica espressione della ratio garantista sottesa alla normativa di riforma: si può essere assoggettati al regime speciale solo quando ricorrano in concreto i presupposti di pericolosità descritti dal legislatore87. Si tratta di atteggiamenti di singoli detenuti idonei a compromettere la sicurezza e l’ordine negli istituti, ovvero a impedire con violenza o minaccia le attività degli altri detenuti, od ancora ad avvalersi dello stato di soggezione di questi ultimi nei loro confronti. Possiamo dire che la legge Gozzini ha sostanzialmente enucleato la figura del detenuto “pericoloso” sotto il profilo penitenziario e ha previsto un apposito regime a cui assoggettare i soggetti che presentano queste caratteristiche88.

Abbiamo detto che il legislatore dell’1986 affronta il problema della differenziazione dei detenuti anche in una dimensione collettiva, prima di tutto abrogando l’art. 90 o.p., disposizione abusata negli anni successivi all’emanazione della legge dell’ordinamento penitenziario. Contestualmente, l’art. 10 della legge Gozzini introduce l’art. 41-bis o.p.89, che ricalca i

86 «possono essere sottoposti a regime di sorveglianza particolare [...] i condannati, gli

internati e gli imputati che: a) che con i loro comportamenti compromettono la sicurezza ovvero turbano l'ordine negli istituti; b) che con la violenza o minaccia impediscono le attività degli altri detenuti o internati; c) che nella vita penitenziaria si avvalgono dello stato di soggezione degli altri detenuti nei loro confronti»

87 L. R. RUSSO, op. cit., p. 27

88 V. GREVI, Scelte di politica penitenziaria e ideologie del trattamento nella l. 10 ottobre 1986 n. 663, in V. GREVI (a cura di) L'ordinamento penitenziario dopo la riforma: L. 10 ottobre 1986, n. 663, Padova, 1988, pp. 7-8

89 «In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il Ministro di

grazia e giustizia ha facoltà di sospendere nell'istituto interessato o in parte di esso l'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l'ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto.»

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