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Mafia e élites nell'Italia liberale. Il caso Notarbartolo.

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione ... 3

I. Una violenza diffusa. Le pericolose interazioni tra élites e mondo criminale ... 7

1.1 L’origine semantica ... 7

1.1.1 Alle origini della mafia ... 9

1.2 Una difficile gestione dell’ordine pubblico ... 13

1.2.1 La rivolta di Castellamare del Golfo ... 14

1.2.2 La congiura dei pugnalatori ... 17

1.2.3 La rivolta del 1866 a Palermo ... 21

1.3 I provvedimenti di pubblica sicurezza ... 25

1.3.1 La polemica di Diego Tajani ... 27

1.4 L’inchiesta ufficiale ... 33

1.4.1 L’inchiesta privata di Franchetti e Sonnino ... 39

1.5 L’avvento della Sinistra ... 43

II. L’omicidio Notarbartolo. Un delitto di stampo mafioso ... 46

2.1 Italia e Sicilia. Il contesto. ... 46

2.2 Una difficile istruttoria ... 47

2.3 Codronchi e la riapertura dell’istruttoria ... 54

2.4 Il processo di Milano ... 60

2.5 Il ruolo del questore Sangiorgi nel processo Notarbartolo ... 65

2.6 Una luminosa carriera politica: l’ascesa di Raffaele Palizzolo ... 68

2.7 La rivalità tra Notarbartolo e Palizzolo ... 77

2.8 La condanna di Bologna ... 83

2.9 L’assoluzione a Firenze ... 90

III. Che cos’è la mafia? L’Italia scopre la criminalità organizzata siciliana ... 96

3.1 Le reazioni al processo Notarbartolo. Il comitato Pro - Sicilia. ... 96

3.1.1 Le reazioni al processo Notarbartolo. La stampa. ... 100

3.2 Indagini sulla mafia: i lavori di Alongi e Cutrera ... 104

3.3 La polemica politica: i pamphlet di Colajanni e De Felice Giuffrida ... 110

3.4 Le considerazioni di Mosca e l’articolo di Sturzo ... 115

3.5 La mafia nel processo ... 120

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Conclusioni ... 127 Bibliografia ... 130 Testi ... 130 Saggi ... 134 Fonti d’archivio ... 135 Quotidiani ... 135 Appendice A ... 136 Appendice B ... 170 Appendice C ... 172

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Introduzione

Quando si parla di mafia il rischio di cadere in semplificazioni e approssimazioni è elevato. Se si decide poi di non limitare il discorso solamente ad essa e toccare la questione delicata delle relazioni tra criminalità organizzata e classi dirigenti il pericolo della banalizzazione è dietro l’angolo. Negli ultimi anni il rapporto tra mafia e politica è stato trattato ampiamente all’interno del dibattito pubblico. Penso ai risvolti mediatici1 causati dal procedimento giudiziario per associazione a delinquere nei confronti di un ex presidente del consiglio (Giulio Andreotti) o alle discussioni accese sull’esistenza di possibili mandanti politici in relazione alla stragi dei primi anni Novanta. Spesso si è rappresentata la mafia come una diretta emanazione del potere politico, negandole così qualsiasi grado e capacità di autonomia.

In questo elaborato intendo discutere il tema delle relazioni tra élites e mafia siciliana all’interno del contesto italiano di fine Ottocento, a partire dall’omicidio Notarbartolo. Ho usato volutamente il termine élite per evitare il rischio di focalizzare l’analisi limitatamente a coloro che disponevano soltanto di responsabilità di tipo politico - amministrativo, cercando così di adottare una prospettiva più ampia.

L’uccisione di Emanuele Notarbartolo, ex direttore del Banco di Sicilia, avvenne nel febbraio 1893, su una carrozza ferroviaria in transito sulla linea Termini - Palermo. Non si trattava propriamente di un personaggio sconosciuto: la vittima apparteneva a una delle più eminenti famiglie aristocratiche siciliane e figurava tra gli esponenti di spicco della Destra isolana. L’omicidio destò grandi attenzioni e circolarono fin da subito molte voci sui possibili autori dell’efferato assassinio. All’interno dell’opinione pubblica isolana si fece il nome di un importante esponente del notabilato palermitano come possibile mandante: il deputato Raffaele Palizzolo. Egli, con l’aiuto di alcuni esponenti della cosca mafiosa di Villabate (su tutti, Giuseppe Fontana), avrebbe pianificato dettagliatamente l’omicidio nei confronti di Notarbartolo, nemico politico e figura poco gradita all’interno del Banco di Sicilia (Palizzolo era membro del Consiglio di amministrazione dell’istituto creditizio).

1 Cfr. Salvatore Lupo, Che cos’è la mafia? Sciascia e Andreotti, l’antimafia e la politica, Donzelli Editore,

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I familiari della vittima, soprattutto il figlio Leopoldo, erano intenzionati a cercare i rei dell’efferato delitto. Si svolse quindi un complesso iter processuale volto a scovare i colpevoli, conclusosi poi definitivamente senza il raggiungimento di tale obiettivo.

Perché dedicare un intero elaborato all’omicidio Notarbartolo? Ci sono almeno due ragioni che mi hanno spinto a fare ciò.

Innanzitutto, credo che per affrontare il tema delle relazioni tra élites e criminalità esso rappresenti una sorta di cartina al tornasole, spendibile al fine del ragionamento intorno al tema. Inoltre, va menzionata una peculiarità dell’avvenimento, per capire meglio il suo carattere di eccezionalità. Dopo l’omicidio Notarbartolo, la mafia siciliana non ardì colpire così in alto per più di un secolo. L’uccisione dell’ex direttore del Banco di Sicilia è il primo dei “cadaveri eccellenti”2 della mafia siciliana, nonché l’ultimo sino alla morte del procuratore generale Scaglione, avvenuta nel 1969. Dopo quell’anno, in meno di vent’anni si ebbero diversi omicidi eccellenti, nei confronti di magistrati (Terranova, Chinnici, Falcone e Borsellino), politici (La Torre e Mattarella) e funzionari di pubblica sicurezza (Basile, Zucchetto, Montana e Cassarà)3.

La seconda motivazione è legata alla necessità di fare maggiore chiarezza sui fatti che portarono all’omicidio e ai successivi sviluppi processuali. La vicenda Notarbartolo è stata trattata in sede storiografica da alcuni autori, all’interno di brevi saggi o capitoli di opere4. Dato l’eco provocato dalla gravità dell’accaduto, non sono mancate poi opere generaliste, quali miniserie televisive5 o ricostruzioni letterarie6.

2 Non a caso, Emanuele Notarbartolo figura come primo nome nell’elenco delle vittime per mafia del nostro paese, stilato dall’associazione Libera contro le mafie,

http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/03/21/news/il-primo-giorno-di-primavera-nel-ricordo-delle-vittime-delle-mafie-1.254669.

3

La gran parte di questi omicidi rientrava nella strategia militare e di “attacco frontale” allo Stato, intrapresa dai Corleonesi, schieramento dominante di Cosa Nostra all’inizio degli anni Settanta. Ho affrontato questo tema all’interno della mia tesi di laurea triennale, intitolata La seconda guerra di mafia.

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Segnalo Salvatore Lupo, Tra banca e politica in Rivista Meridiana, pp. 119 - 154, saggio rivisitato all’interno del cap. III Guardiani e affaristi di Storia della mafia, Donzelli, Editore, Roma, 2004, pp. 121 - 174. Rimando poi a Francesco Renda, Socialisti e cattolici in Sicilia (1900 - 1904), Caltanissetta - Roma, 1972, pp. 377 - 419; Giuseppe Barone, Egemonie urbane e potere locale (1882 - 1913) in La Sicilia, (a cura d)i M. Aymard e G. Giarrizzo, Torino, 1987, pp. 307 - 319 e Paolo Pezzino, Stato violenza e società: nascita

e sviluppo del paradigma mafioso, ivi, pp. 960 - 966.

Inoltre, due opere non propriamente storiografiche, attendibili nella gran parte dei fatti riportati: Leopoldo Notarbartolo, La città cannibale. Il memoriale Notarbartolo, Novecento, 1994, riedizione di L. Notarbartolo,

Memorie della vita di mio padre, Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, Pistoia, 1949; Rosario Poma, Onorevole Alzatevi!, Arti Grafiche Corradino Mori, 1976.

5 Il delitto Notarbartolo, miniserie trasmessa sulla Rete 2 (ora Rai 2, n.d.r.) della Rai, nel maggio del 1979,

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Su suggerimento del mio relatore Gianluca Fulvetti, ho svolto una ricerca archivistica, incentrata sul materiale processuale attualmente disponibile: i registri delle udienze dei processi di Bologna e Firenze, contenuti nei rispettivi Archivi di Stato cittadini7.

Credo che tale materiale, se integrato con quello che già sappiamo e discusso da storici come Giuseppe Barone, Salvatore Lupo e Paolo Pezzino, possa rivelarsi utile per chiarire alcune questioni. Il materiale consiste nelle deposizioni rilasciate dai testimoni coinvolti nei due dibattimenti giudiziari. Tra i testimoni figuravano uomini politici (sia isolani che nazionali), questori, generali, proprietari terrieri, funzionari di Pubblica Sicurezza e persone legate alla criminalità organizzata.

Nel primo capitolo, intitolato “Una violenza diffusa. Le pericolose interazioni tra élites e mondo criminale”, ho cercato di rintracciare gli elementi che permisero la nascita e lo sviluppo della mafia siciliana. Successivamente, partendo dal periodo unitario, ho sviluppato il tema della “pericolose interazioni”, riportando all’attenzione alcune situazioni di vera e propria cogestione dell’ordine pubblico portato avanti da élites e criminalità organizzata . Alcuni paragrafi del capitolo sono dedicati ai primi tentativi di comprensione del fenomeno mafioso realizzati da organismi ufficiali (Commissione Parlamentare) e iniziative private (l’inchiesta di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino). Nell’ultimo paragrafo, intitolato “L’avvento della Sinistra”, segnalo l’inizio dei primi governi nazionali guidati da esponenti della Sinistra storica, ed il conseguente mutamento degli equilibri geografici del potere, con una maggiore importanza del ruolo esercitato dalle élites meridionali.

Nel secondo capitolo, intitolato “L’omicidio Notarbartolo. Un delitto di stampo mafioso”, ricostruisco il complesso iter processuale dell’omicidio Notarbartolo e indago sulle possibili motivazioni che spinsero Palizzolo a disfarsi dell’ex direttore del Banco di Sicilia. In particolare, grazie ad alcune delle deposizioni che ho avuto modo di consultare, è possibile fornire ulteriori elementi sulle responsabilità avute dal deputato palermitano nel compimento del delitto. Inoltre, ho cercato di ricostruire i principali network criminali

6

Cfr. Sebastiano Vassalli, Il Cigno, Einaudi, Torino, 1993; Gigi Speroni, Il delitto Notarbartolo, Rusconi, Milano, 1993; Filippo Arriva, Il caso Notarbartolo, la Cantinella, Catania, 1994; Paolo Valera, L’assassinio

Notarbartolo, Manni, S. Cesario di Lecce, 2006.

7Archivio di Stato di Bologna, fondo Corte d’Assise di Bologna, Processo contro Palizzolo e altri, registro delle udienze, 10 settembre 1901 - 30 luglio 1902 (d’ora in avanti ASBO, Processo contro Palizzolo e altri); Archivio di Stato di Firenze, fondo Corte d’Assise di Firenze, Processo contro Palizzolo e altri, registro delle udienze, 23 settembre 1903 - 23 luglio 1904 (d’ora in avanti, ASFI, Processo contro Palizzolo e altri).

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facenti capo a Palizzolo o quantomeno connessi a lui. All’interno del capitolo ampio spazio è dedicato alle deposizioni dei testimoni, che accompagnano la narrazione degli eventi e aggiungono preziose informazioni alla ricostruzione dell’omicidio Notarbartolo. Nel terzo capitolo, intitolato “Che cos’è la mafia? L’Italia scopre la criminalità organizzata siciliana”, compio un excursus sulle percezioni che si avevano del fenomeno mafioso nell’Italia di fine Ottocento. I processi dell’omicidio Notarbartolo destarono grande attenzione mediatica in tutta la penisola, favorendo un ampio dibattito pubblico sul tema della mafia. Ho cercato di analizzare e contestualizzare alcuni dei principali scritti pubblicati in questo periodo, redatti perlopiù da uomini politici, intellettuali e funzionari di pubblica sicurezza. Nel paragrafo finale, intitolato “La mafia nel processo”, provo ad analizzare e decostruire alcune delle deposizioni inedite provenienti dai processi, incentrate sulla percezione e concettualizzazione della mafia, formulate dai testimoni stessi.

Partendo dal caso Notarbartolo, sono due gli obiettivi che intendo conseguire all’interno di questo elaborato. Innanzitutto, dimostrare che le relazioni tra élites e criminalità organizzata siciliana si configuravano come una pratica alquanto diffusa nell’Italia liberale. Ritengo opportuno riflettere intorno a tale questione, fornendo nuovi elementi alla discussione. In secondo luogo, porre l’attenzione su come non vi fosse, all’epoca, una piena consapevolezza da parte delle élites (non solo isolane) nel cogliere i pericoli derivanti dall’esistenza stessa di certe interazioni. Si potrebbe obiettare che ci troviamo in un periodo storico dove la percezione di che cosa sia realmente la mafia o i mafiosi è totalmente assente e non vi sono nemmeno tentativi di formulazione sul tema. In realtà non è così: il periodo che va dalla metà alla fine del XIX secolo è forse uno dei momenti più floridi della storia del nostro paese per le discussioni incentrate sulla natura e l’esistenza della mafia.

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I. Una violenza diffusa. Le pericolose interazioni tra

élites

e mondo

criminale.

1.1 L’origine semantica.

All’interno della società siciliana si è parlato quasi sempre di mafia, escludendo forse gli anni ’50 del XX secolo. La qualifica di mafioso o di protettore di mafiosi è stata utilizzata perfino dagli stessi uomini d’onore.

Il termine “mafioso” viene utilizzato per la prima volta nel 1862, in una commedia popolare di grande successo intitolata I mafiosi de la Vicaria, ambientata nel 1854 tra i camorristi detenuti nel carcere di Palermo.

Già nel 1838 il procuratore generale del Re a Trapani Pietro Ulloa si dichiarava convinto dell’esistenza di sette e fratellanze. In un rapporto inviato al Ministero della Giustizia affermava:

Non vi è impiegato in Sicilia che non si sia prostrato al cenno di un prepotente e che non abbia pensato a trarre profitto dal suo ufficio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi delle Fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là è un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di conquistarlo, ora di proteggere un colpevole, ora d’incolpare un innocente. Il popolo è venuto a convezione con i rei (…) Non è possibile introdurre le guardie cittadine a perlustrare le strade; né di trovare testimoni pei reati commessi in pieno giorno”8.

Se vogliamo invece rintracciare il primo utilizzo della parola mafia all’interno di un documento dobbiamo aspettare il 1865. Nell’aprile di quell’anno, infatti, l’allora prefetto di Palermo Filippo Gualtiero utilizzò l’espressione “maffia o associazione malandrinesca”

8

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in un rapporto ufficiale9. Sempre nel 1865, un’altra testimonianza della diffusione del

termine ci viene dal resoconto10 sulla situazione sociale palermitana, redatto dal geografo e

anarchico francese Elisèe Reclus e pubblicato poi l’anno successivo, in una nota rivista transalpina di viaggi. Guidato da un medico piemontese (anche se è lecito pensare a una sorta di espediente letterario), a suo dire molto addentro nel sottobosco criminale, essendo stato incaricato di svolgere un’inchiesta sulle condizioni morali della popolazione palermitana, Reclus conduce i suoi lettori alla scoperta dei “misteri” della città. La descrizione è caratterizzata da una forte diffidenza per la popolazione locale, unita a un senso di totale estraneità, forse ispiratagli dal “suo cicerone”. Un’ambientazione di colori tutta giocata sul contrasto tra l’eredita ellenica, ormai perduta nelle fattezze dei siciliani e quella saracena, invece ben presente, serve a Reclus per delineare l’aspetto che forse interessa maggiormente ai suoi lettori: l’esistenza, a Palermo, di un terribile setta chiamata

Maffia. Reclus raffigura una società segreta gigantesca, che agli inizi del 1865 avrebbe

raccolto ben 5000 affiliati, i cui membri si “impegnarono solidamente a vivere di inganni e di frodi di ogni tipo”. Secondo il geografo francese, la maffia ha una sua lingua segreta, fatta di “semplici segni, di gesti, di sguardi, di contatti fugaci, di parole misteriose: l’incognito le presta tutti i suoi terrori e a volte un colpo di pugnale prova che essa ha i suoi giudici e i suoi tribunali”.

Negli anni sessanta del XIX secolo, la parola cominciò ad essere riportata in diversi dizionari del dialetto siciliano o della lingua italiano. A titolo esemplificativo, citiamo la voce contenuta all’interno del Traina11

Mafia: neologismo per indicare azione, parola o altro di chi vuol fare il bravo: sbaceria, braveria. $ Sicurtà d’animo, apparente ardire: baldanza. $ Atto o detto di persona che suol mostrare più di quel che è: pottata. $ Insolenza, arroganza: tracotanza. $ Alterigia, fasto: spocchia. $ Nome collettivo di tutti i mafiosi (smaferi si chiamano in Toscana) gli

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Cit. in Paolo Alatri, Lotte politiche in Sicilia sotto il governo della Destra (1866 - 1874), Einaudi, Torino, 1954 p. 92.

10Il titolo è La Sicile et l’éruption de l’Etna en 1865: récit de voyage/par M Reclus, Élisée, contenuto nella rivista francese Le Tour Du Monde. Nouveau Journal Des Voyages, Hachette (Paris), 1866. Ho avuto modo di consultare tale rivista grazie al Fulltext disponibile sul portale della Biblioteca Scuola Normale Superiore:

http://primo.sns.it/primo_library/libweb/action/search.do?vid=39PIS_VISTA

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sgherri, e mafia dicono alla miseria, e miseria vera è il credersi il grand’uomo per la sola forza bruta! Ciò che mostra invece gravi brutalità, cioè l’essere gran bestia.

1.1.2 Alle origini della mafia.

Non vi saranno più feudi, e tutte le terre si possederanno in Sicilia come in allodi, conservando però nelle rispettive famiglie l’ordine di successione, che attualmente si gode. Cesseranno ancora le giurisdizioni baronali; e quindi i baroni saranno esenti da tutti i pesi, a cui finora sono stati soggetti per tali diritti feudali. Si aboliranno le investiture, relevi, devoluzioni al fisco, ed ogni altro peso inerente ai feudi, conservando però ogni famiglia i titoli e le onorificenze12

Così recitava il capitolo XI delle basi della costituzione, approvate nella seduta del 18 giugno 1812. Leopoldo Franchetti, già nel 187613, riteneva che fosse questo il passaggio decisivo per l’avvio del processo di “democratizzazione della violenza”, con cui il diritto a usare la forza, prima nelle mani dell’aristocrazia, si trasferiva legalmente nelle mani dello Stato. Rimanendo però materialmente nelle mani dei privati, coinvolgendo sempre nuovi gruppi sociali al di là di ogni gerarchia di ordini o di classi. Si trattava di una spiegazione che non era in grado di reggere ad alcune obiezioni. In particolare alla seguente: perché non si hanno gli stessi effetti sulla parte orientale dell’isola rispetto a quella occidentale (area tradizionale di insediamento mafioso)? Nella Sicilia settecentesca la proprietà privata esisteva già in larga misura, sia nel senso proprio (“allodio”), sia nel senso che i “feudi” erano sostanzialmente gestiti come proprietà private. Dopo la riforma, la parte maggioritaria delle terre feudali, assegnata ai baroni, restava nelle mani degli antichi possessori o entrava in un vero e proprio circuito di compra - vendita. L’effetto del complesso dei provvedimenti pre e post - unitari fu quello di favorire la mercantilizzazione di una quantità rilevante di terre , sia feudali che ecclesiastiche. Oltre a permettere una

12Testo consultato sul portale:

https://www.liberliber.it/mediateca/libri/s/sicilia/costituzione_di_sicilia_1812/pdf/sicilia_costituzione_di_sici lia_1812.pdf

13 All’interno dell’opera “Condizioni politiche e amministrative della Sicilia”. Avremo modo di tornare su questo testo nelle pagine successive.

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maggiore intensificazione colturale, grazie all’abolizione dei diritti promiscui e degli altri gravami causati dall’indebitamento nobiliare. A Ducea di Nelson (Bronte), per esempio, tale processo venne portato avanti dall’amministrazione ducale, attraverso una serie di rivendicazioni giudiziarie e politiche. La reazione delle popolazioni a quelle che sono ritenute “usurpazioni” ducali si svilupparono drammaticamente, in forma di insurrezione nel 1848 e nel 186014. Lupo ha notato come, generalmente, le più violente controversie sullo statuto della proprietà (“i conflitti demanialisti”) si svolsero nella Sicilia Orientale invece che nella parte occidentale, caratterizzata da una struttura più influenzata dal passato “feudale”15. I provvedimenti di inizio ottocento acquistano un preciso significato

se li colleghiamo alla riforma amministrativa borbonica, la quale recepisce anche in Sicilia le istanze del periodo napoleonico, proponendo per la prima volta un’idea moderna di Stato16 È questo il contesto storico in cui possiamo introdurre il tema della mafia. Il mutamento portò all’introduzione di una magistratura professionale e di una polizia. I magistrati venivano spesso tratti dai ranghi delle élites paesane. Come conseguenza di ciò, si assistette alla nascita di un corpo poco incline al rispetto del concetto di impersonalità della legge. La forza pubblica era rappresentata dalla nuova gendarmeria, centralizzata ma scarsamente capace di muoversi tra gruppi e fazioni, tra i banditi e i notabili che li proteggevano; oppure dalle compagnie d’armi, i cui membri erano scelti dai notabili paesani tra i giovani della zona. Il compito a loro affidato non era tanto quello di perseguire i criminali, quanto di recuperare i beni rubati nel loro circondario attraverso delle trattative con i ladri. Molti ritenevano che tra gli uni e gli altri vi fosse un accordo ex ante. A tal proposito, Giovanna Fiume ha osservato

Si instaura così, tra la compagnia, i notabili e la criminalità della zona, una dialettica perversa che garantisce ai possidenti l’incolumità dei beni e la tranquillità sulle proprie terre, attraverso un controllo di tipo molto particolare esercitato dai capitani d’arme sulla criminalità; la prassi della transazione tra la vittima e il ladro, consente alla prima il parziale recupero del bene, al secondo l’impunità e parte della refurtiva; al capitano un

14 Cfr. Salvatore Lupo, Tra centro e periferia. Sui modi dell’aggregazione politica nel Mezzogiorno

contemporanea, in Rivista Meridiana, N.2, 1988.

15Salvatore Lupo, Storia della Mafia, Donzelli Editore, Roma, 2004, p. 82. 16

Cit. in Paolo Pezzino, Una certa reciprocità di favori. Mafia e modernizzazione violenta nella Sicilia

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“premio” per l’opera di mediazione svolta, quasi una onesta sensalìa concordata tra venditore e acquirente di un pubblico affare17.

La polemica di periodo borbonico la ritroveremo successivamente, all’indomani della nascita dello Stato italiano. Quando da un lato troveremo chi propugna una gestione dell’ordine pubblico sostanzialmente extralegale, attraverso le compagnie d’armi prima, i militi a cavallo poi. Dall’altro lato, invece, avremo i fautori di un corpo statale (gendarmi e carabinieri), i quali reputavano il primo sistema disastroso, in quanto veicolo di convergenza tra proprietari e delinquenza. Essi, dopo il 1860, non esiteranno a definire tale sistema con la parola mafia. Nei primi anni del XIX secolo non mancavano discussioni favorevoli all’incitamento dell’assassinio legale e remunerato dei latitanti da parte dei loro compagni18. Possiamo legare pure questo aspetto alla situazione post - unitaria, quando vi saranno frequenti trattative tra banditi, mafiosi e autorità di polizia, destinate spesso a concludersi con l’assassino (illegale, stavolta) di qualche capo malavitoso. Secondo Giovanna Fiume19 vi sono due aspetti da evidenziare all’interno della questione. Innanzitutto, il banditismo rappresentò uno strumento delle lotte di fazione delle nuove élites paesane, una sorta di propaggine delle loro reti clientelari. Tuttavia, è l’affermarsi di una nuova idea di legalità a delegittimare comportamenti tradizionali delle élites locali e dello Stato stesso, mettendo in discussione una “giustizia” collocata a metà strada tra la sfera pubblica e privata.

Tra i membri delle élites paesane si reclutavano i gabellotti (gli affittuari), e gli amministratori delle miniere di zolfo, dei latifondi e degli orti arborati. Essi, nel corso dell’Ottocento pre e post - unitario cercavano di raccogliere la successione dell’aristocrazia ex feudale. Essa gradualmente stava allentando la sua presa sulle campagne isolane, redistribuendo e frazionando, insieme ai propri beni, il proprio potere sociale. Di questo potere sembrava essere condizione la disponibilità di una forza militare. Tale forza sarebbe stata funzionale non solo alla gestione della forza lavoro, ma più in generale alla tutela delle zolfare e delle masserie, nonché alla stessa sicurezza personale dei notabili, talvolta

17

Giovanna Fiume, Le bande armate in Sicilia (1819 - 1849), Violenza e Organizzazione del potere, Palermo, 1984, p. 117.

18 Lupo, Storia della mafia, p. 54. 19 Fiume, Le bande armate, p. 113.

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esposti ai sequestri di persona. Inoltre poteva pure servire nel corso delle numerose faide tra i gruppi clientelari-familiari, i quali costituivano i cosiddetti partiti municipali della Sicilia ottocentesca. Al riguardo, Lupo si è soffermato su una figura tipica di questo modus

operandi: il campiere20. Secondo lo storico esso non si sarebbe differenziato poi così tanto dalle compagnie d’armi, dai militi a cavallo o dalle guardie municipali. Il campiere doveva conservare l’ordine nelle campagne e veniva reclutato (come le altre forze di pubblica sicurezza) tra ex banditi, in grado di intimidire i malintenzionati con argomenti a loro ben comprensibili. Si trattava di persone che all’occorrenza sarebbero state in grado di accordarsi con i malviventi della zona, date le loro conoscenze all’interno del mondo criminale.

Il sopracitato gabellotto, invece, svolgeva una funzione d’ordine e di controllo sociale che andava al di là degli ambiti della grande azienda a coltura estensiva. L’apparato gestito da esso, composto da campieri e sovrastanti, sostituiva le milizie feudali settecentesche, si affiancava a quelle comunali ottocentesche, copriva gli spazi lasciati vuoti, prima dal controllo dello Stato borbonico, poi da quello unitario e liberale. In un testo oramai datato21 Emilio Sereni interpretava la mafia non tanto come un residuo feudale - un’immagine distorta e presente a lungo tra gli studiosi - ma quanto come uno strumento di una borghesia “abortita”, quella dei gabellotti, che nel corso di una lunga disgregazione dell’economia e dei poteri feudali sviluppò una capacità di intimidazione tanto l’alto quanto verso il basso delle gerarchia sociale. Mentre con l’avvio dei primi provvedimenti ottocenteschi si disgregavano i patrimoni della vecchia aristocrazia, le frazioni delle comunità locali tentavano di intercettare i frutti di questa ricchezza, definendoli anche con la violenza, al loro interno o verso l’eterno. Dai comuni, attraverso la gabella, i nuovi ceti dirigenziali ritornavano a influenzare più vasti ambiti geografici. E questo elemento lo ritroveremo con i suoi caratteri tipici nella Sicilia centro - occidentale del XIX secolo.

20 Lupo, Storia della mafia, p. 57. 21

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1.2 Una difficile gestione dell’ordine pubblico.

Abbiamo accennato alla comparsa dei nuovi ceti dirigenziali, in grado di utilizzare la violenza al fine di intercettare i vecchi patrimoni dell’antica aristocrazia, resi “più accessibili”, in un certo senso, dopo i provvedimenti inizio Ottocento. A questo punto è interessante indagare attorno alle forme di commistione instauratesi tra delinquenti, funzionari di pubblica sicurezza e notabili. E alle difficoltà di ordine pubblico provocate da questo reticolato stratificato.

In periodo borbonico si parlava di componende. Una prassi di trattative piuttosto circoscritte tra vittime e autori dei reati, per la restituzione della refurtiva. Esse venivano condotte sotto la supervisione di esponenti della delinquenza, funzionari di pubblica sicurezza o di notabili. All’inizio degli anni quaranta il sottintendente di Termini Puoti descriveva un sistema articolato su tre livelli: esecutori dei reati, mediatori e organizzatori. Quest’ultimi, “(….) restano sulle proprie terre , corrispondono tra loro, regolano le operazioni (…..) ricoverano nelle loro terre gli animali (….), stabiliscono chi deve meritar la morte e chi debba darvi esecuzione“.22

Nel 1838 il magistrato Pietro Calà Ulloa dichiarava che “il popolo è venuto a tacita convenzione coi rei” attraverso “Unioni o fratellanze, specie di sette che dicono partiti”, le quali sarebbero state in grado di realizzare “piccoli governi nel Governo” per le componende. Stando alle parole di Ulloa veniva sottratto all’ordine legale il potere di perseguire i crimini per altre trame contrarie all’esercizio dei pubblici funzionari. Con il termine partito si indicava un problema. Ulloa poi sarà tra i maggiori sostenitori ed esponenti della reazione legittimista. Puoti aggiungeva che “i ladri in Sicilia senza intenderlo sono i mezzi di una rivoluzione e saranno l’istrumento della rivolta di cui ne godrà chi ora li protegge23.

Anche in questo caso si trovano analogie con il successivo periodo postunitario. Lo spessore del fatto criminale che potremmo definire “protomafioso” - prendendo in prestito un termine già usato da Lupo24 - è sollecitato dal timore che l’autorità statale prova nei confronti dell’insubordinazione politica e sociale, delle plebi come dei ceti dirigenti. La

22Fiume, Le bande armate, p. 74. 23Ibid, p. 76.

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differenza, per i funzionari borbonici, stava nel sapere di dover contrastare un processo ben più ampio di mobilitazione politica. In questo caso, più che in quello dello Stato unitario liberale, il malessere sociale, l’emergenza criminale e l’opposizione politica si presentavano come un mix difficilmente indistricabile e interpretabile.

Tra il 1815 e il 1860 i periodi di relativa tranquillità dell’ordine pubblico furono pochi. Si trattava di brevi parentesi, scandite dalle insurrezioni del ’21, del ’48, dall’alternanza delle rivoluzioni e delle restaurazioni. In gran parte dei casi si trattava di sommovimenti antiborbonici portati avanti da una parte consistente della classe dirigente, soprattutto palermitana, capace di adottare in diversi ambiti locali forme di vera e propria guerra civile strisciante. La violenza serviva a garantire nuovi equilibri e definire conflitti politici. Con l’avvento dello Stato unitario la situazione non mutò. Si ebbero diversi episodi insurrezionali e intrisi di violenza. Nei paragrafi successivi né riporterò alla memoria alcuni.

1.2.1 La rivolta di Castellamare del golfo.

Nei primi di gennaio del 1862, nella cittadina di Castellammare del golfo (provincia di Trapani), un migliaio di persone diede vita a una sommossa, passata alla storia come la rivolta contro i cutrara. Con questo termine si indicavano i borghesi o galantuomini che si erano divisi la cutra, “la coperta”, cioè si erano arricchiti impadronendosi delle terre e avevano in mano l’amministrazione comunale. I rivoltosi protestavano contro la leva obbligatoria e il gravame fiscale. In generale, però, erano insoddisfatti per il disagio acuito dalle condizioni misere di vita. È possibile rilevare alcuni elementi comuni tra i rivoltosi, grazie a una ricostruzione ottenuta dagli atti giudiziari (limitatamente agli imputati)25. Gran parte di essi proveniva dal mondo contadino, con una stratificazione piuttosto articolata: braccianti, mezzadri e gabellotti. L’età media è piuttosto alta: il 56,2% degli

25

Cit. in Umberto Santino, La mafia dimenticata. La criminalità organizzata in Sicilia dall’Unità d’Italia ai

(15)

inquisiti apparteneva a classi di età compresa fra i 30 e i 50 anni. Vi sono pure alcune persone che avevano già preso parte ai moti antiborbonici26.

I rivoltosi iniziarono la loro offensiva scagliandosi contro le abitazioni dei cutrara e gli edifici della dogana e del Comune. Tra le loro prime azioni vanno annoverate uccisioni eccellenti, come quella del comandante della Guardia nazionale Francesco Borruso. Successivamente i sommovimenti portarono a una ricerca dell’ordine. I rivoltosi nominarono come capo Pietro Lombardo, il quale accettò tale ruolo a condizione che gli eccidi cessassero. Lombardo era un possidente e aveva ricoperto cariche amministrative in passato. Prima, esercitava un ruolo di tutela dell’incolumità dei cutrara. Ora veniva chiamato dai ribelli con un compito non troppo dissimile. Per sedare la rivolta giunsero a Castellamare un drappello di militi a cavallo e una ventina di soldati provenienti da Alcamo. I ribelli con le armi in pugno furono fucilati sul posto, i restanti giudicati attraverso un processo. Le attività degli inquirenti portarono a cinque condanne a morte, successivamente commutate in lavori forzati a vita , 24 condanne ai lavori forzati e altre pene minori. La rivolta di Castellamare vide lo scontro tra masse povere e benestanti, o, più correttamente, tra due opposte fazioni, dato che tra i rivoltosi erano presenti pure alcune civili27.

Non può sfuggire il nome di Lombardo, che, a giudizio di Salvatore Costanza

Poteva anche non essere un capomafia, nel senso che noi oggi intendiamo, (e, forse, s’intendeva anche allora); ma i sentimenti manifestati al fine di deprimere le animosità contro i cutrara, e soprattutto il comportamento tenuto successivamente, quando fu lui a costruire su trame omertose il “discarico” a favore di molti imputati, ospitando perfino nella sua casa il giudice che istruiva il processo, non lasciano dubbi sul suo efficace ruolo di garante (e connivente) del quadro mafioso castellammarese28.

26

Paolo Pezzino, Il Paradiso abitato dai diavoli. Società, élites, Istituzioni nel Mezzogiorno contemporaneo, Franco Angeli Editore, Milano, 1992, p. 196.

27 Ibid., p. 189

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Il quadro mafioso (piuttosto articolato) è stato ricostruito da Costanza29. Figura chiave

sarebbero stati i membri della famiglia Ferrantelli. Essi erano considerati dalla polizia locale “villici, armigeri, e ladri di abigeato e di componenta”, in grado di esercitare influenze notevoli sulla popolazione. Il capofamiglia Gioacchino Ferrantelli aveva svolto un ruolo di primo piano in precedenti episodi di violenza. Tra il 12 gennaio 1848 e il 14 maggio 1849 a Castellamare del Golfo si verificarono una serie di scontri30. Durante questi avvenimenti, Ferrantelli, “quantunque analfabeta”, diventò comandante della Guardia nazionale ed esercitò funzioni di protezione e di governo del crimine.

“Ebbe l’avvedutezza (di) proteggere i furti che si commettevano fuori il Comune, che lo han reso mediocremente comodo; impedire quelli che si volevano tentare nel paese stesso, e divenne interpositore della violenza del Comitato, e potere civico, e delle vendette private, che finir di esercitare si volevano” 31.

Questo ruolo procurò a lui la stima e la riconoscenza del paese, tanto che molti cittadini sottoscrissero nei suoi confronti un attestato di benemerenza. Negli anni successivi, i Ferrantelli - su incarico della polizia - si occuperanno della ricerca del latitante Melchiorre Valente, assassino di un notabile locale. Risulta interessante leggere il rapporto rilasciato dal comandante della polizia locale al principe di Satriano, uno dei principali notabili della cittadina trapanese.

Presentatisi a me i Ferrantelli, e consegnate le armi (…), freddamente li (sic) ho ingiunto a partire a domicilio forzoso per tre mesi in Ustica; mostratisi ubbidienti, han dichiarato che pentiti, e convinti de’ loro mancamenti commessi, avrebbero voluto rendere de’ Servizj, purché si fossero presi in considerazione, e sonosi offerti. Primo: arrestare Melchiorre Valente, che sarebbero i soli, che potrebbero più facilmente a conseguirlo, sia per la conoscenza de’ luoghi, che per la fiducia che quegli dovrebbe tenere in essi, ma han chiesto impunità che se dovesse avverarsi conflitto non risponderne se lo ammazzassero,

29

Cfr. Salvatore Costanza, La Patria armata, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Corrao Editore, Trapani, 1989.

30Pezzino, Il paradiso abitato dai diavoli, cit., p. 189. 31

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ed io vi ho convenuto perché perdere Valente, od uno de’ Ferrantelli è sempre ottima cosa (….). Secondo: i Ferrantelli si compromettono girare essi per tutti quegli che conoscono tenere le armi conservate, e persuaderli a dissotterrarle e consegnarle al Comune in silenzio, minacciandoli in inadempimento di denunziarli; ho accettato anche questa seconda parte con darle (sic) 48 ore di tempo in cui tacitamente permetterò che si portassero al Comune armi di qualunque natura esse siano, ed avendo riarmati provvisoriamente i Ferrantelli32.

In sostanza veniva appaltato un problema di ordine pubblico a un gruppo di privati. Eseguito con particolare efficacia. Valente venne assassinato e permise sonni tranquilli al comando di polizia. I Ferrantelli riuscirono a cambiare il loro status sociale, arrivando al “vertice della piramide”, rappresentato dai galantuomini.

Il contesto castellamarese ci mostra due aspetti. Da un lato, possiamo notare come la mafia sia una risorsa del conservatorismo sociale, in grado di porre un freno al ribellismo delle masse popolari (è il caso del possidente Lombardo). Dall’altro, possiamo osservare come la mafia sia presente pure tra coloro che, sfruttando certe circostanze, riescono a elevare il proprio status sociale. (è il caso della famiglia Ferrantelli).

1.2.2 La congiura dei pugnalatori.

La sera del 1 ottobre 1862, “fatti orribili funestarono (….) la città di Palermo: una mano di accoltellatori sbucava da diversi punti e quasi nella stessa ora, ed in breve tredici vittime cadevano sotto il coltello dell’assassino”33.

Le ferite riportate dalle vittime furono più o meno gravi e una di esse, Gioacchino Sollimma, morì in poco tempo. Uno dei pugnalatori, Angelo D’Angelo, venne inseguito e catturato dalle guardie di pubblica sicurezza. Riconosciuto come autore del delitto da un vecchio cocchiere, D’Angelo rivelò di essere un informatore della polizia borbonica di Salvatore Maniscalco. Confessando pure i nomi dei suoi complici, quattro dei quali

32

Cit. in Ivi. 33

Paolo Pezzino, La congiura dei pugnalatori: un caso politico - giudiziario alle origini della mafia, Marsilio, Roma, 1992, p. 7.

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anch’essi al servizio di Maniscalco. Nella prosecuzione della narrazione, D’Angelo diceva di aver incontrato un tale Gaetano Castelli (definito “guardiapiazza”34), che gli aveva

proposto di unirsi a lui e ad altri per pugnalare, dietro compenso, alcune persone. A richiesta del D’Angelo su chi finanziasse l’impresa, Castelli fa prima il nome del principe di Giardinelli, poi quello del principe di Sant’Elia. Viene avviata un’inchiesta e le indagini vertono fin da subito sull’opposizione politica cittadina, cioè i rappresentanti del Partito d’azione. Si procedette all’arresto dei suoi membri, tra cui dobbiamo annoverare pure Francesco Starrabba, principe di Giardinelli, anche se verrà rapidamente scagionato dalle accuse. Egli compariva tra i membri del comitato rivoluzionario di Palermo nel 1860 ed aveva partecipato all’impresa dei Mille capeggiata da Garibaldi. Venne completamente lasciato fuori dalle indagini Romualdo Trigona, principe di Sant’Elia. Dirigente di una loggia massonica, capo nominale del partito filogovernativo e senatore del regno, più volte fu delegato dal Re a rappresentarlo in cerimonie pubbliche e religiose.

L’inchiesta fu svolta dal questore Giovanni Bolis, nativo di Bergamo, e il sostituto procuratore piemontese Guido Giacosa. Il processo iniziò l’8 gennaio 1863 e coinvolse solamente gli esecutori (12 persone), D’Angelo compreso. Giacosa sostenne l’accusa. Il procuratore non mostrò dubbi sull’estraneità del principe di Sant’Elia e identificò la personalità degli esecutori, scelti “fra i più miserabili, fra gli operai senza lavoro, fra coloro che consumano il loro tempo, il poco denaro che collo interrotto lavoro possono per avventura guadagnare, nella crapula, nei vizi, nelle bettole, nei bagordi”35.

Il processo si basava esclusivamente sulle rivelazioni di D’Angelo. Possiamo considerarlo come il primo pentito della storia? Mi risulta difficile rispondere in maniera affermativa. Indubbiamente, nella vicenda delittuosa raccontata riecheggiano alcuni aspetti in grado di richiamare la mafia. Tuttavia, le affermazioni di D’Angelo non ebbero particolare valore per l’incriminazione dei mandanti. Il 14 gennaio la Corte emise una sentenza di condanna nei confronti degli esecutori. D’Angelo venne condannato a 20 anni di lavori forzati, mentre tre imputati furono riconosciuti come capi (Gaetano Castelli, Giuseppe Calì e Pasquale Masotto) e condannati a morte.

Nei giorni successivi, avvennero altri ferimenti in città. Alcuni si chiedevano se l’impostazione del processo fosse indirizzata alla ricerca della verità giudiziaria. Il

34Si riferisce a una “guardia privata in grado di proteggere i commercianti di una determinata zona”. 35

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quotidiano “Il Precursore”, organo di informazione legato alla parte più moderata del Partito d’azione, il 21 gennaio scrisse:

Nissuno ha creduto, nissuno crederà mai, che quei tre fossero stati i capi della setta: forse furono i capi delle squadriglie, come asserì D’Angelo, ma anch’essi non ci si presentano che come braccia di esecuzione, la mente direttrice era fuori36.

Secondo il giornale, i giudici ebbero timore di agire nei confronti del principe di Sant’Elia e non si occuparono di una questione, ritenuta centrale: il complotto politico.

“L’indole del misfatto rivelava chiaramente la mano di un partito politico” e tale partito sarebbe stato quello borbonico, interessato a restaurare il precedente regime37.

Si riaprì così il procedimento giudiziario, stavolta all’insegna di una “logica complottista”. Al misfatto avrebbero concorso tutte le forze non governative: il Partito d’azione, gli autonomisti, i borbonici e la Curia. La trama del complotto fu ricostruita grazie al contributo di Orazio Matracia. Arrestato nel corso di una manifestazione a favore di Garibaldi, Matracia, già ex spia borbonica, fu portato in carcere, senza lo svolgimento di un regolare processo. Qui, messo in cella con Castelli (uno dei tre capi condannati), prima dell’esecuzione della sentenza capitale, riuscì a carpirne molte confidenze. Una volta uscito dal carcere, Matracia, assieme ad altre persone, decise di scrivere una serie di relazioni inerenti al complotto. All’interno di queste relazioni riemerge la figura del principe di Sant’Elia, ritenuto dall’accusatore come l’organizzatore di un complotto volto a danneggiare la sicurezza dello Stato. Il procuratore Giacosa, rimase convinto dalle parole di Matracia e procedette all’emissione di 44 mandanti di cattura nei confronti di direttori di giornali, ex ufficiali garibaldini ed esponenti democratici (tra cui il principe di Giardinelli). Vengono effettuate una serie di perquisizioni in alcune abitazioni, tra cui il palazzo di Sant’Elia. Il Senato insorge contro il provvedimento preso nei confronti di un suo membro. Successivamente, Giacosa e il questore Bolis si convincono dell’impossibilità di sostenere, all’interno di un processo, la rappresentazione di un complotto come frutto di tre livelli: i sicari, gli organizzatori e i mandanti. Entrambi decidono di lasciare la Sicilia.

36 Ivi 37

(20)

La vicenda dei pugnalatori offre un elemento che ricorrerà nei successivi decenni della storia dell’Isola. Mi riferisco alla difficoltà dello Stato unitario di garantire il rispetto della legalità e il funzionamento della giustizia. Emerge uno spaccato di realtà in cui abbiamo una parte delle élites incapace di ricercare i veri colpevoli del misfatto. Essa rimaneva perlopiù interessata a scovare degli assassini tra gli strati sociali più bassi, senza fornire un concreto sostegno all’operazione tentata dal procuratore Giacosa.

Pezzino ha scritto:

Giacosa stava scoprendo a proprie spese il carattere discriminatorio della giustizia italiana: allora, in quel processo conclusosi con tre condanne a morte, “tutti applaudirono, il paese se ne rallegrò come di opera santa e giusta, a nissuno venne in capo di accusare di leggerezza e di precipitazione l’opera dell’amministrazione, per la ragione che tutti gli arrestati appartenevano agli infimi strati della Società”: ora egli era criticato ed isolato per “voler mostrare coll’esempio che in uno Stato libero e forte, il santo domma dell’uguaglianza di tutti in faccia alla legge, non era una ipocrisia ma una realtà38.

Va detto però che Pezzino - il quale si è avvalso di fonti archivistiche e ha studiato la vicenda dei pugnalatori con attenzione - non crede al coinvolgimento del principe di Sant’Elia e ritiene che il complotto politico sia stato una montatura poliziesca. Tuttavia, al di là di come siano andate realmente le cose, rimane l’opacità mostrata dalle autorità del giovane Stato unitario, un elemento destinato a ripresentarsi con continuità in altre vicende del contesto isolano.

38

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1.2.3 La rivolta del 1866 a Palermo.

Nella notte tra il 15 e il 16 settembre 1866, bande armate provenienti da Bagheria, Misilmeri e Monreale invasero Palermo, bruciarono il Tribunale, assaltarono la casa dell’allora sindaco Rudinì e tentarono l’assalto al carcere della Vicaria, al Castellammare e al Palazzo reale. I contemporanei parlarono di 20 o 40 mila rivoltosi39.

Tra le forze di pubblica sicurezza vi furono ben 332 caduti. Il numero dei morti tra i ribelli rimane imprecisato. La rivolta fu domata da truppe provenienti dal Continente e giunte per mare in città. Il 22 settembre, il generale Raffaele Cadorna assunse il comando militare e la carica di commissario straordinario, decidendo di istituire lo stato d’assedio. I “moti palermitani” vengono subito interpretati come un’azione clerico/borbonica ai danni dello Stato unitario. Nei rapporti inviati al presidente del consiglio, Cadorna descrive40 la rivolta come frutto di un complotto clerico - borbonico, con protagoniste le bande di malfattori. Il ministro dell’Interno e presidente del consiglio Bettino Ricasoli, nella sua relazione al Parlamento del 22 dicembre 1866, fa esplicito riferimento alla mafia, una sorta di punto di coagulo di una massa pronta a mobilitarsi se trova una guida:

Gli affigliati alla maffia, i malandrini interni, i numerosi refrattari e disertori, aggregati a quello strato esteso e profondo di popolazione irrequieta, pervertita nelle idee e negli istinti, non compongono già un partito politico, ma costituiscono una massa informe di elementi tumultuanti, pronta a rovesciarsi ovunque sia spinta da una mano ardita. È in questo senso che possono a Palermo diventare pericolose le fazioni ostili al Governo, pericolose cioè non per forza sua propria ma sibbene per quella forza sempre disponibile per tutti i partiti e per tutte le violenze che si agita in seno alla popolazione palermitana41.

Secondo Vincenzo Maggiorani, autore di un testo42 uscito quasi in concomitanza con il verificarsi degli avvenimenti, la rivolta sarebbe stata il frutto di una sorta di pervertimento

39

Santino, La mafia dimenticata, cit., p. 80. 40

Ibid., p. 82.

41 Relazione citata in Franco Benigno, La mala setta. Alle origini di mafia e camorra. 1859 - 1878, Einaudi, Torino, 2015, p. 229.

42Vittorio Maggiorani, Il sollevamento della plebe di Palermo e del circondario nel settembre 1866, Stamperia militare, Palermo, 1866.

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della parola “rivoluzione”, identificata con saccheggi, ruberie e omicidi. Le bande, a suo dire, erano le stesse del 1848 e del 1860, ma allora erano guidate dal movimento liberale. Nel 1866 invece c’erano borbonici e clericali. Maggiorani prosegue provando a delineare alcune peculiarità della società palermitana. Una plebe numerosa, scarsità del “mezzo ceto” e una folta nobiltà. Il “mezzo ceto” sarebbe stato diviso al suo interno. La parte alta, colta e progressista. Quella bassa, invece, povera e municipalista. Partecipe, assieme alla plebe, della rivolta del 1866.

“Popolo e plebe si dividono poi in varie categorie secondo il grado di mafia la quale è madre di quell’omertà che è causa precipua della ingovernabilità di questo popolo perché tarpa le ali alla giustizia e assicura l’impunità al delitto”.

Il comportamento omertoso sarebbe codificato da alcune massime: “A chi ti toglie il pane e tu togligli la vita; ciò che nun ti appartiene né mali né beni; quando c’è l’uomo morto deve pensarsi al vivo; la testimonianza è buona finché non noccia al prossimo”.

Essere mafioso sarebbe un connotato in grado di conferire reputazione:

“Un più o meno alto grado di mafia decide di un picciotto fino al punto che se ne tiene gran conto nel trattare i matrimoni! È certo che ad un vero mafioso non mancherà mai da vivere agiatamente e rispettato! (…). Tanto grave è questa calamità della mafia nelle campagne di Palermo che i poveri possidenti di terre sono costretti ad affidarle al più mafioso che si trovi, se vogliono raccogliere i loro prodotti e andare sicuri nei loro giardini”.

In compenso, i proprietari sono soliti “proteggere e garentire quelli tra i loro temuti lavoranti e custodi di terre che son ricercati dalla giustizia per i delitti commessi”. Maggiorani afferma poi che “chiunque dei signori di Palermo si attentasse di accusare i propri o gli altri massari, o anche negasse loro aiuto, ricovero o mezzi di sussistenza, dovrebbe poi emigrare o essere esposto a certa vendetta”.

Inoltre, l’autore si dichiarava convinto che una collaborazione tra proprietari e ceto civile porterebbe a un rapido declino del malandrinaggio, ma “nessuno si fida dell’altro, spirito di unione non c’è che tra i malandrini”43.

43

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Non si discostava molto da queste opinioni Giuseppe Ciotti, direttore del Corriere siciliano ed autore di uno scritto44 sullo stesso tema. A suo avviso, tutto ebbe origine “da un

equivoco: dall’aver voluto cioè sottoporre al regime normale, un paese che versa in eccezionalissime condizioni. Da ciò è derivato che le garanzie della libertà hanno nociuto ai buoni e giovato ai tristi.(…)“45. La rivolta sarebbe stata un “moto eminentemente malandrinesco; i reazionari, gli anarchisti, i clericali lo promossero, ma la sua riuscita si deve soltanto alle condizioni sociali della provincia nostra, né per quanto vi si potesse affaticare, potea la mala setta produrlo altrove”46. Malandrini e plebi vennero guidate da chi aveva interessi a creare disordine:

“Che cosa può essere l’elemento malandrinesco senza una mente che lo diriga, senza un’autorità che lo ordini, senza una borsa che lo paghi? Questa volta, trionfante in modo stabile e irrazionale la rivoluzione, non erano più i liberali che potessero simpatizzare con codeste classi, erano bensì i borbonici, i clericali e gli anarchisti - E se ne giovarono!47

Giacomo Pagano, avvocato e pubblicista, riteneva invece che la causa della rivolta andava ricercata principalmente nel malgoverno. Stati d’assedio, tribunali militari e leggi eccezionali avrebbero creato il terreno fertile per lo scoppio dei moti. E la mafia? Egli la definiva così:

“Mafia dicesi in Sicilia l’elemento malandrinesco, al quale il partito governativo dà concetto e rilievo come ad un partito politico”48.

In sostanza, sarebbe stato il governo ad accentuarne il ruolo e darle una fisionomia che andava oltre all’effettiva realtà.

Nel maggio del 1867 venne istituita una commissione d’inchiesta sulle condizioni morali ed economiche della provincia di Palermo, incaricata di dare un contributo per comprendere meglio la difficile situazione siciliana. Si trattò di una delle prime commissioni d’inchiesta dello Stato Italiano. I lavori furono svolti da sette deputati e

44 Giuseppe Ciotti, I casi di Palermo. Cenni sthttps://www.youtube.com/watch?v=o6fgESp6TQcorici sugli

avvenimenti di settembre 1866, Priulla, Palermo, 1866.

45 Santino, La mafia dimenticata, cit., p. 85. 46Ibid., cit., p. 86.

47Ivi. 48

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senatori: Giuseppe Pisanelli (presidente), Quintino Sella, Emanuele Lucerna di Rorà, Giovanni Bortolucci, Giovanni Battista Tenani, Giorgio Tamajo e Giovanni Fabrizi. Nei verbali della Commissione parlamentare non vi sono molti riferimenti alla mafia, anche se si rivelano interessanti i pochi pareri raccolti sul tema. Filippo Cordova, deputato dal 1861 e titolare di alcuni dicasteri nei primi Ministeri guidati dalla Destra, sosteneva che “bisognerebbe fosse possibile troncare le tradizioni di codesta classe di gente, d codesto genere di malandrinaggio, o meglio distruggerla, disperderla a un tratto” 49.

Non parlava propriamente di mafia, ma si riferiva a una realtà criminale ben presente e influente sul territorio siciliano.

L’ex sindaco di Palermo, Antonio Starabba di Rudinì - figura politica che citeremo spesso all’interno di questo elaborato - sosteneva che la mafia “è potente, forse più di quello che si crede; e in moltissimi casi è impossibile discoprirla e punirla, mancando le prove de’ fatti e delle colpe”50.

Non nascondeva le pecche della politica governative.

“Vi sono stati errori politici come l’ostracismo dato al partito regionista o, e alle istanze autonomistiche o l’insufficienza della azioni di sostegno allo sviluppo. Oltre al fatto di esservi state numerose insufficienze nella gestione dell’ordine pubblico”51.

Di mafia parlava esplicitamente il senatore Nicolò Turrisi Colonna. Al malandrinaggio si associavano giovani

per ispirito di bizzarria - poi vi appartengono veramente per fatti di contrabbando e altri reati commessi. Si ritirano alla campagna e si fanno o si impongono guardiani delle proprietà. Proteggono la proprietà e ne sono protetti, ma restano malandrini. A suo dire “la Mafia fu protetta da’ Signori che se ne valsero nel ’48 52.

49

Atti della Commissione in CPI 1866, cit. in Santino, La mafia dimenticata, p. 89. 50Ivi.

51Relazione cit. in Benigno, La mala setta, p. 206. 52

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La relazione finale della commissione, redatta dal deputato Fabrizi, definiva i moti “l’informe prodotto di una malacontentezza assai estesa e da più cause generata, inasprita dal soffio di partiti diversi, e da fatale coincidenza di circostanze sfavorevoli”53.

Vedendo la conclusione a cui arriva il documento finale, possiamo notare come il problema dell’ordine pubblico e della presenza di forme di malandrinaggio non era stato pienamente compreso dall’inchiesta governativa.

1.3 I provvedimenti di pubblica sicurezza

Roma, 1875. Il governo si apprestava a chiedere al Parlamento l’approvazione di un progetto di legge che consenta all’esecutivo, in caso di necessità, l’applicazione di “provvedimenti di pubblica sicurezza” nei periodi e nelle zone particolarmente caratterizzate da reati e presenza di associazioni di malavitosi. In pratica, il progetto si rivolgeva alla Sicilia, funestata, come abbiamo visto in precedenza, da una lunga serie di eventi delittuosi. Il provvedimento avrebbe autorizzato il Governo a disporre, senza l’approvazione dell’autorità giudiziaria, dell’arresto di sospetti, delle perquisizioni domiciliari e dello scioglimento di associazioni, anche se non propriamente inquadrabili nella fattispecie del codice penale. L’allora presidente del consiglio Minghetti si presentava in aula in condizioni di debolezza. Il progetto era stato già bocciato in commissione, con una relazione del leader dell’opposizione di sinistra Agostino Depretis, ma venne riproposto pressoché immutato. Al di fuori delle aule parlamentari, il provvedimento raccolse il consenso dei vertici militari, favorevoli all’adozione di simili misure. Gran parte dei prefetti, invece, nutre forti dubbi. Uno dei pochi a mostrare entusiasmo è il prefetto di Caltanissetta Fortuzzi, convinto sostenitore del “pervertimento morale di questa popolazione (quella siciliana n.d.r.), per la quale le idee del giusto, dell’onesto e dell’onore sono lettera morta, e che per conseguenza è rapace sanguinaria e superstiziosa”54.

Questo funzionario sosteneva che “i mali della Sicilia, fra cui la mafia”, avevano origini “da sovrapposizioni di razze e da vicende politiche e sociali, che ebbero principio dalla più

53 Ibid., p. 96.

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remota antichità, e che ricordano la dominazione punica, la romana, la bizantina, la saracena, la spagnola”. La mafia sarebbe stata una “cosa incarnata nei costumi ed ereditata col sangue, e si esercitava senza bisogno di norme regolatrici, per istinto”55.

Fortuzzi, secondo l’opposizione, era l’esempio di prefetto uso “a calunniare in massa la popolazione amministrata”56. Tra gli argomenti ritenuti forti, a sostegno della necessità di provvedimenti speciali, vi è il generale declino del numero dei reati nel 1874 - 1875, rispetto al biennio ’71 - 72. Questo dato porta a pensare che il vero carattere eccezionale della situazione siciliana stia nella rappresentanza parlamentare isolana: ben 40 eletti (su 48) provengono dalle file dell’opposizione di sinistra. Assistiamo all’avvicinarsi di uno scontro frontale tra Governo e deputazione isolana, una resa dei conti di un conflitto iniziato nel 1861, a seguito della brutale liquidazione dell’esperienza garibaldina e dell’emarginazione delle forze democratiche. L’esperienza di un quindicennio di governi militari, di negazione delle libertà statutarie e di “piemontizzazione” dell’amministrazione locale indussero l’opposizione a pensare che la proposta di legge del ’75 rappresentasse un tentativo strumentale per rendere la Sicilia filogovernativa. Dal 1860, escludendo alcune brevi interruzioni, l’isola si è trovata sempre sotto regime d’eccezione. L’opposizione riteneva inoltre che sarebbero esistiti già gli strumenti volti a contrastare la criminalità. Ci si riferiva, in particolare, alla legge di sicurezza del ’71, che affidava al governo un certo potere discrezionale. Essa facilitava l’ammonizione, in grado di ovviare alla frequente inaffidabilità dei tribunali e delle giurie isolane. L’ammonizione poteva implicare una condanna, in quanto la contravvenzione portava in prigione o al domicilio coatto. Prendiamo come esempio le istruzioni fornite a suo tempo dal prefetto Medici ai suoi sottoposti, caratterizzate da un carattere antigiuridico, basate sulla fama del sospettato e sull’arbitrio del funzionario:

Dacché la contravvenzione all’ammonizione consiste nella persistenza dell’ammonito a dar sospetti, nella cattiva fama, ed in quel complesso di circostanze che servirono a dar luogo alla denuncia, basterà, per coglierli in contravvenzione, sorprenderli in un fatto o atto che sia di tal natura da far rivivere i sospetti a loro carico57.

55 Renda, Storia della Sicilia, p. 74. 56Lupo, Storia della mafia, cit., p. 74. 57

(27)

Tuttavia le dovute frizioni tra i due poteri dello Stato erano dovute - secondo un’opinione all’epoca diffusa - anche a una prudenza della magistratura nei processi politici. Ciò poneva in una luce differente le accuse di mollezza ad essa rivolte da questori, prefetti e comandanti militari sulla questione del malandrinaggio. Ed è su questa tematica che si innesterà la polemica di Diego Tajani, protagonista di uno degli interventi parlamentari più incisivi dell’epoca.

1.3.1 La polemica di Diego Tajani.

Il 17 ottobre del 1868 Diego Tajani, originario di Cutro (Calabria), veniva trasferito da Catanzaro a Palermo, per svolgere l’incarico di procuratore generale del re. In precedenza, oltre ad aver ricoperto tale incarico nella città calabrese, si era distinto come procuratore generale a L’Aquila e nel ruolo di prefetto a Napoli. Tajani arriva a Palermo nel periodo in cui la questura è gestita da Giuseppe Albanese e la prefettura da Giacomo Medici. Negli anni precedenti, dal 1860 al 1866, c’erano stati ben 10 prefetti, 5 questori e, dal 1860 al 1866, si erano alternati 6 procuratori generali differenti.

Secondo Pezzino, “questa girandola di funzionari evidenziava una fondamentale impotenza del Governo”, inerte di fronte ai ripetuti contrati tra magistrati e funzionari statali:

(…..) i primi denunciavano le pratiche illegali dei secondi per garantire l’ordine, ed in particolare quella di fermare individui sospetti e di trattenerli in carcere senza sottoporre tempestivamente i fermi alla conferma dei giudici. Questori e prefetti controbattevano accusando i giudici di comportamenti eccessivamente garantisti, dietro i quali spesso lasciavano intravedere l’accusa di codardia, o peggio di collusioni con gli elementi malavitosi58.

58

(28)

Il questore Albanese elogiava i metodi adottati in passato del capo della polizia borbonica Salvatore Maniscalco, che a suo dire aveva amministrato “con felici risultati (….) interessando i capi della Mafia a tutelare la sicurezza”59.

Il prefetto Medici, invece, aveva rivestito diversi incarichi militari nel corso degli anni. Amico di Garibaldi e volontario nella spedizione dei Mille, nel dicembre 1866 era stato nominato comandante di tutte le truppe dell’isola. La sua nomina a prefetto risaliva al 25 giugno del 1868. Nelle sue mani si unificavano poteri militari e civili, rendendolo una sorta di “funzionario in regime assoluto”60.

Inizialmente, i rapporti tra il nuovo procuratore generale, il questore e il prefetto erano sostanzialmente buoni, ma ben presto arrivarono i primi contrasti. Il primo scontro si ebbe sul tema delle detenzioni arbitrarie di persone sospette, ma su cui non vi erano prove sufficienti per l’avvio di un’azione giudiziaria. Albanese era solito affidare compiti e mansioni di polizia locale a soggetti abbastanza chiacchierati e provenienti dalla file della criminalità. Questo modus operandi non era propriamente in linea con l’orientamento del governo: l’allora presidente del consiglio e ministro dell’Intero Lanza pensava di reperire un’isola tra Cina e Giappone dove deportare mafiosi e malviventi61. Il governo italiano non era in grado di imporre una linea politica capace di contrastare realmente la mafia e la malvivenza diffusa, riversando la sua principale preoccupazione verso la possibilità di moti insurrezionali, ad opera di mazziniani, garibaldini, internazionalisti e clericali, uniti dalla volontà di rovesciare la monarchia sabauda, in nome della repubblica o della restaurazione del regno borbonico.

Nell’aprile del 1869 il prefetto Medici inviava un rapporto al ministro dell’Interno, lamentandosi dell’autorità giudiziaria, a suo dire incapace di contrastare l’attività di “notorii facinorosi”. Il prefetto chiedeva al ministro di voler “richiamare l’attenzione del Sig. Ministro Guardasigilli su questi deplorevoli fatti, interessandolo a voler inculcare ai Magistrati di questa Città una più rigorosa applicazione della Legge e assecondare l’autorità Politica per migliorare ed assicurare la pubblica sicurezza in questa travagliata Provincia”62.

59

Audizione cit. in Lupo, Storia della mafia, p. 66. 60 Alatri, Lotte politiche, cit, p. 229.

61Tajani - Pezzino, Mafia e potere, p. 19. 62

(29)

In un altro rapporto, Medici mostrò tutto il suo machiavellismo, giustificando le modalità di gestione dell’ordine pubblico, a dir poco discutibili, operate dai suoi uomini.

Egli affermava: “Io non mi dissimulo che forse qualcuno di essi per eccesso di zelo avrà potuto spingersi a degli atti non troppo regolari verso talun detenuto, ma è questa una grave ragione per la quale non possa derogarsi al rigore della legge, in grazia del fine ottenuto?63.

Anche Tajani non mancava di far sentire la sua voce nei corridoi ministeriali. In un rapporto al guardasigilli del 25 ottobre 1869, in seguito a un salvacondotto rilasciato illegalmente dal prefetto di Agrigento a una guardia nazionale, colpevole di aver ucciso un soldato e feritone altri due, si chiedeva: “la tolleranza non sarebbe ora una colpa?”. Prima poteva esservi qualche giustificazione pretestuosa a causa della precarietà dell’ordine pubblico. Ma ora, secondo il procuratore, “la china degli arbitrii” non aveva più scusanti ed erano necessarie le “superiori direzioni” del ministro64. Da Roma non si ebbe tuttavia alcuna disposizione.

Un mese dopo Tajani affermava:

I fatti che ho riferito e gli altri che potrò riferire in appresso, non sono fatti isolati, ma sono conseguenza di un sistema, nel quale la morale e la giustizia non entrano in gradi dosi. Sistema che un giorno poté sembrare opportuno, che più tardi parve convenire per le molte noie di meno che generava, e del quale oggi ogni persona d’animo retto deve desiderarne la modificazione. Però il modificarlo è anche di per sé un problema che io non devo concorrere a rendere più difficile, ma che non lascerò sfuggire occasione per richiamare su di esso l’attenzione del Governo del Re”65.

I rapporti tra magistratura e autorità politica peggiorano ulteriormente nel maggio del 1871. La procura indagava su un omicidio e aveva scoperto che il verbale in cui una giovane diciassettenne si dichiarava colpevole era falso e mirava a coprire il vero colpevole. Ad orchestrare questo tentativo di depistaggio avrebbero concorso l’ispettore di Pubblica Sicurezza Davide Figlia e il sindaco di Villalba. Ma le responsabilità non

63Ibid., p. 356. 64Ivi.

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