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Indagini sulla mafia I lavori di Alongi e Cutrera.

III. Che cos’è la mafia? L’Italia scopre la criminalità organizzata siciliana siciliana.

3.2. Indagini sulla mafia I lavori di Alongi e Cutrera.

Nel periodo in cui si celebrarono i diversi gradi del processo Notarbartolo l’attività inquisitoria nei confronti del fenomeno mafioso portò a nuove conoscenze e analisi raffinate, in grado di non sfigurare di fronte alle acquisizioni sulla natura della mafia siciliana di cui disponiamo oggi. Abbiamo già parlato nel secondo capitolo dell’attività investigativa svolta da Sangiorgi durante il periodo in cui reggeva la questura palermitana. Ora ci soffermeremo su due analisi svolte da uomini che operarono nel settore della pubblica sicurezza: i delegati Giuseppe Alongi e Antonino Cutrera. Penso sia utile riflettere intorno a tali testi, in grado di darci uno spaccato delle acquisizioni operate dalle forze di Pubblica Sicurezza dell’epoca. Erano acquisizioni di una certa rilevanza. Anche se non si affermarono adeguatamente, lasciando il campo alla tesi cosiddetta culturalista, incentrata sulla comprensione del fenomeno mafioso attraverso la lente univoca del comportamento isolano, “sicilianista”.

Nel 1886 uscì la prima edizione de La maffia, opera pubblicistica redatta da Alongi. Nato a Prizzi (Palermo) il 3 ottobre 1858, egli da giovanissimo si dedicò all’insegnamento nelle scuole elementari del suo paese natio. Successivamente, Alongi decise di entrare nelle forze di Pubblica Sicurezza, dove acquisì una certa conoscenza del mondo criminale,

278Ivi. 279

trasmessa poi nel testo redatto. Si trattava del frutto di anni di esperienze professionali e letture personali, in gran parte provenienti dalla scuola positivistica280. Una seconda

edizione dell’opera uscì nel 1904. La prima edizione, inoltre, verrà ristampata poi nel 1977, con un’introduzione curata dallo studioso Herner Hess. Faremo continui riferimenti a quest’ultima edizione. Alongi, nel dare un rapido sguardo rispetto alle idee di mafia circolanti sul finire del XIX secolo, individuava due diverse prospettive:

Per alcuni la maffia non esiste, per altri è una vasta e potente associazione di malfattori con gerarchia preordinata, fissa, evolventesi sociologicamente: una specie di stato abnorme dentro lo stato legale. I primi attenuano il male, e sol perché dovunque sonvi ladri e uomini violenti, ne concludono che la Sicilia non si trova in condizioni peggiori di ogni altra regione; i secondi esagerano prendendo un fenomeno criminoso per fabbricarvi un romanzo sociale sulla maffia281.

Il delegato riteneva che la delinquenza è “un fenomeno sociale complesso, risultato di fattori varii impalpabili, ma veri e calcolabili, se non matematicamente, certo però sociologicamente ed alla stregua delle probabilità statistiche”282. E quali sarebbero questi

fattori, “veri e calcolabili”? Innanzitutto, vanno presi in considerazione i fattori storici. I Borboni avrebbero alimentato l’odio tra le città e i paesi, rendendo l’isola “Il regno della violenza privata”283, basato sulle funzioni di polizia affidate ai più facinorosi e lasciando il via libera all’affermazione di una “nuova classe dominante”284, quella dei gabellotti. Alongi prendeva pure in considerazione i fattori economici, elencando una serie di aspetti che avrebbero influito sulla persistenza del fenomeno criminale:

280

L’opera di Alongi si inserisce in un contesto caratterizzato da un vivace dibattito sulla criminalità, intrapreso da una serie di scienziati sociali, giuristi e funzionari di pubblica sicurezza. Gran parte di essi si richiamava alla scuola positiva di diritto penale e di antropologia criminale. È del 1879 la prima edizione dell’Uomo delinquente di Cesare Lombroso. Nel 1879 venne fondato “L’Archivio di psichiatria scienze penali ed antropologia criminale”, che nel 1881 pubblicò gli studi di antropometria di Enrico Ferri, ristampati poi nel 1882 col titolo I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale. È del 1883 invece il saggio del giovane avvocato ed esponente del Partito Socialista Filippo Turati, intitolato Il delitto e la questione sociale. 281

Giuseppe Alongi, La maffia, Sellerio Editore, Palermo, 1977, p. 3. 282Ibid., p. 4.

283Ibid., p. 11. 284

- prevalenza del latifondo, “semenzaio di malandrinaggio”285;

- ruolo parassitario del gabellotto;

- presenza di alcuni soggetti (“soprastanti, magazzinieri, bestiamari e campieri”) in grado di gravare sui contadini coltivatori di piccoli appezzamenti;

Non mancavano all’interno dell’opera riferimenti ai fattori politico - amministrativi.

In particolare, Alongi riteneva che con il processo di unificazione nazionale si verificò un aggravamento del peso fiscale, oltre all’introduzione della leva, a suo parere decisiva per il successo del brigantaggio. La rivolta del’66, secondo la lettura data dal delegato, sarebbe stata un moto brigantesco, con al centro “mafia e clero”286.

In ultima istanza andavano presi in considerazione i fattori fisici e antropologici. Dall’interazione di fattori fisici quali clima, ambiente, montagna o marina e latifondo, e, fattori antropologici come individualismo, egoismo sconfinato, facilità del ricorso alla violenza e il farsi giustizia da sé, nasceva la mafia come “un portato necessario, immancabile, naturale”287.

Una volta analizzati i possibili fattori in grado di garantire la persistenza delle delinquenza, Alongi rifletteva sulla natura della mafia, ritenendola un’organizzazione criminale non unitaria. I mafiosi riuscivano a conoscersi grazie “allo scambio dei prodotti, i trasferimenti tra montagna e marina e le fiere di bestiame”, canali attraverso cui avvenivano conoscenze e maturavano progetti di iniziative comuni. Il delegato di pubblico sicurezza si riteneva poi convinto che il “lucro illecito è uno dei cardini principali” della mafia “per quanto ben dissimulato”288. La mafia sarebbe stata presente quasi ovunque, sia nelle città che nelle campagne. Le associazioni di malfattori e i sodalizi avevano “capi diretti e protettori nascosti”, statuti che prescrivevano l’obbedienza ai capi e il silenzio sulle attività dei membri. Vi erano riti di iniziazione e alcune formule di riconoscimento. Alongi sosteneva che il primo sodalizio si sarebbe formato a Monreale, diffusosi poi nei paesi limitrofi della 285 Ibid., p. 18. 286Ibid., p. 21. 287Ibid., p. 44. 288 Ibid., p. 105.

provincia di Palermo. Queste associazioni costituivano una specie di “organismo sociale tutto proprio dipendente da un’autorità primitiva e quindi fondato sull’assolutismo della forza”289. Esse avevano una presenza capillare sul territorio:

Ogni paese ha la sua conventicola, ogni quartiere ha la sua sezione, ogni contrada il suo nucleo, comandati gradualmente da capi, sotto - capi, ecc., che formano il gran consiglio, l’anima direttiva dell’associazione290.

Oltre a tentare di comprendere le peculiarità della criminalità organizzata, Alongi provava a fornire alcune ricette in grado di contrastare adeguatamente le attività delinquenziali di tali associazioni. Innanzitutto, era necessario

rinvigorire e rinnovare gli istituti preventivi e repressivi, rendendoli forti, autonomi, responsabili, ma pronti e coscienti nel colpire il male sotto qualunque falsa parvenza si mostri, ovunque si annidi, in alto come in basso, a destra o a sinistra”291.

In un secondo momento si sarebbe dovuto portare avanti un progetto di restaurazione sociale, fondato su “riforme pratiche” che “si contengono tutte nel dominio dell’amministrazione, e non in quello della politica: amministrazioni locali, servizi pubblici, liberi sì, ma efficacemente controllati dal governo centrale, responsabilità e giustizia per tutti”292.

L’opera di Cutrera - intitolata La mafia e i mafiosi - riproponeva un approccio criminologico simile, soffermandosi maggiormente sulla storia della Sicilia, caratterizzata da “una serie di saccheggi e dominazioni ad opera di dominazioni straniere”, secondo uno schema - stereotipo già all’epoca consolidato. Ufficiale di polizia a Palermo da diversi anni, Cutrera pubblicò il testo nell’aprile del 1900. Siamo nel bel mezzo dei processi per il delitto Notarbartolo. Ci troviamo in un momento di grande attenzione mediatica nei

289 Ibid., p. 104. 290Ibid., p. 111 291Ibid., p. 112. 292 Ibid., p. 116.

confronti della Sicilia e della mafia, spesso vista come “fenomeno nuovo”. Per Cutrera si trattava di un vizio antico:

La Sicilia per cause storiche ed etnografiche da molti anni è stata travagliata da un vizio sociale, inteso comunemente col nome di mafia. Questo vizio ha ritardato il suo sviluppo sociale, ha compromesso il suo incivilimento. Il male, siccome non è di formazione recente, così non è stato avvertito soltanto oggi. Lo si sapeva pur troppo da molto tempo: si sapeva anche che esso era serio, e che occorrevano urgenti rimedi. Eppure, a giudicare dalla commozione che ha invaso oggi l’Italia tutta, in occasione del processo dei presunti assassini del Comm. Notarbartolo, si crederebbe il male recente, ed attuale la sua scoperta. Non è questo un fenomeno nome, ben altre volte, in occasione di altri processi, l’Italia si è commossa, i giornali hanno gridato, le Camere hanno discusso. (….) A queste improvvise reazioni dell’opinione pubblica è sempre successa la calma e i tempo ha fatto dimenticare tutto: non solo non si è parlato più di mafia, ma si è messo anche in dubbio che essa fosse mai esistita, o per lo meno ne è sorta la convinzione che il male, se pure esisteva, no era certo di quella gravitò, che l’opinione pubblica, in un momento di nervosismo, si era immaginato293.

Questo fenomeno antico era il frutto della combinazione di due fattori:

1. fattore storico: esso combinava violenza, prepotenza e predominio della forza; 2. fattore antropologico: inteso come forte sentimento di sé e della propria superiorità

sugli altri;

La mafia non sarebbe stata un’organizzazione unitaria, ma una serie di associazioni a delinquere. I membri di questi sodalizi, secondo Cutrera, andavano distinti in due classi:

I mafiosi di Palermo, che abitano entro le antiche mura della vecchia Palermo, ed i mafiosi di campagna, cioè quelli che abitano la nuova Palermo, a contatto con i giardini

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della Conca d’Oro, che si allarga in ampia cerchia, chiudendo Palermo in una grande zona di terreno coperto di ville e giardini294.

Le associazioni “di mafia”, in taluni casi, potevano assumere il carattere di una società “mirabilmente organizzata, avente i suoi capi, i suoi codici”. Esse potevano mantenere tra di loro una sorta di relazione temporanea, basata su uno scopo formale (“mutua assistenza”) e reale (“commistione di reati”)295.

Sia Cutrera che Alongi affermavano l’esistenza di associazioni a delinquere, dedite ad attività illecite e delittuose. Entrambi, grazie alle proprie personali “esperienza sul campo” e al materiale raccolto dalla questura di Palermo, delinearono alcuni aspetti tipici e comuni a gran parte delle organizzazioni criminali tuttora esistenti. Tali opere presero forma in un periodo storico caratterizzato dall’affermazione di un paradigma dominante che avrà lunga fortuna, incentrato sul “carattere speciale” della popolazione isolana. Primeggiava l’interpretazione della mafia come dato culturale, tesi che verteva su parole chiave quali comportamento e moralità. Le opere dei due funzionari di pubblica sicurezza e il rapporto stilato dal questore Sangiorgi possono essere annoverati tra i primi testi di un filone interpretativo, quello incentrato sul carattere associativo della mafia siciliana. Non credo sia azzardato sostenere ciò. Un filone interpretativo molte volte perdente, incapace di affermarsi adeguatamente sia all’interno della discussione pubblica che nell’ambito delle attività inquisitorie.

294Ibid., p. 54. 295

3.3. La polemica politica. I pamphlet di Colajanni e De Felice Giuffrida.