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La condanna di Bologna

II. L’omicidio Notarbartolo Un delitto di stampo mafioso.

2.8 La condanna di Bologna

Torniamo a occuparci dell’iter processuale sul caso Notarbartolo.

Il 10 gennaio del 1900 il processo di Milano fu sospeso e iniziò una nuova istruttoria a Palermo, per via di nuovi elementi emersi nel corso del dibattimento. Il 20 dicembre dello stesso anno, la Sezione di Accusa presso la Corte di Appello di Palermo pronunziava la sentenza di rinvio a giudizio di Raffaele Palizzolo e Giuseppe Fontana, il primo, accusato di concorso morale, mentre il secondo, di concorso materiale nell’uccisione di Emanuele Notarbartolo. I magistrati della Sezione di Accusa si espressero duramente nei confronti del deputato, ritenuto l’unico uomo capace di fare eliminare il Notarbartolo, “data la sua attitudine a delinquere, comprovata dalle sue aderenze intime con la mafia più temibile di Palermo nonché delle borgate, e data la facilità con cui poteva conseguire il suo intento, per l’imperio che esercitava sulla mafia terribile da cui era circondato, dedita a sopprimere uomini con la maggiore disinvoltura immaginabile”230.

Si procedette quindi all’istituzione di un nuovo processo, stavolta alla Corte d’Assise di Bologna. Tale città venne scelta dal curatore della requisitoria: il procuratore Vincenzo

228Testimonianza di Michele Lucchesi, ASBO, Processo contro Palizzolo e altri, 21 gennaio 1902. 229Testimonianza di Antonio Di Rudinì, 10 marzo 1902, Processo contro Palizzolo e altri, ASBO. 230

Cosenza. Secondo Leopoldo Notarbartolo la scelta era dettata dalla volontà del procuratore di dirigere le sorti del procedimento “secondo il tornaconto suo e degli imputati”231.

Il nuovo processo durò dal 9 settembre del 1901 al 31 luglio del 1902. La Corte era presieduta da Giovanni Battista Frigotto, un giovane magistrato alla sua prima esperienza da giudicante. Pubblico ministero era Enrico Bertola, proveniente da una lunga esperienza in processi penali. La mole dei testimoni coinvolti era impressionante: ben 503. Tra di essi figuravano 3 ex ministri, 11 deputati, 7 senatori, 4 prefetti, 5 questori e 57 tra funzionari di pubblica sicurezza e carabinieri.

Raffaele Palizzolo rispondeva, non solo dell’accusa di mandato morale nell’omicidio Notarbartolo, ma anche per quella inerente all’omicidio Miceli, cui avevamo fatto riferimento nei precedenti paragrafi. Per l’omicidio Miceli erano accusati anche Filippo Vitale, Francesco Paolo Vitale, Tommaso Bruno e Nicolò Trapani. Per il delitto Notarbartolo figuravano tra gli accusati pure Giuseppe Fontana e Pancrazio Garufi. Non vi era invece Giuseppe Carollo, deceduto nel frattempo in carcere.

Lo schieramento degli avvocati era imponente da ambo le parti. Raffaele Palizzolo veniva difeso dal palermitano Lorenzo Maggio, dal socialista bolognese Aristide Venturini e dal deputato barese Vito De Nicolò, uomo politico vicino a Dì Rudinì. Difensori di Fontana erano il palermitano Giovan Battista Salerno, il bolognese Germano Mastellari e Alessandro Stoppato, deputato e professore di procedura civile all’Università di Bologna. Garufi era difeso dal romano Ernesto Trapanese, Guglielmo Melloni di Bologna e dal deputato Ludovico Fulci di Messina. Filippo Vitale poteva contare sull’apporto degli avvocati bolognesi Svevo Battistini, Guelfo Bocchini e Giuseppe Gorrieri. Francesco Paolo Vitale era difeso dal palermitano Alfonso Siragusa e dai bolognesi Vincenzo Tazzari e Gianfrancesco Corbellini. Nicolò Trapani si avvaleva dell’avvocato palermitano Di Libero e dei bolognesi Dino Dini e Aristide Emiliani. L’imputato Bruno era difeso dal palermitano Viola Boscaino e dai bolognesi Giuseppe Succi e Pietro Capretti.

La Parte Civile Notarbartolo era rappresentata dall’avvocato palermitano Giuseppe Marchesano, dal deputato napoletano Carlo Altobelli, dal milanese Temistocle Castelli e dai bolognesi Ettore Nadalini e Achille Cedivali. La presenza di Nadalini, uomo politico moderato e all’epoca assessore comunale a Bologna, serviva a mitigare l’”accusa di

231

complotto socialista”232,vista la presenza di Marchesano e Altobelli, entrambi esponenti

politici dell’Estrema Sinistra.

Il dibattimento bolognese si caratterizzò per l’alto numero dei soggetti coinvolti, chiamati a depositare sotto giuramento. Alcune deposizioni si rivelano per noi molto interessanti, permettendoci di saperne di più sul grado di commistione tra l’universo criminale e la classe dirigente dell’epoca (non solo isolana). E, di quanto fosse assente (da parte delle elitès) la consapevolezza dei rischi insiti in questa commistione. Oltre che a certificare le responsabilità di Palizzolo nell’omicidio Notarbartolo.

Il generale Giuseppe Mirri, tra i più convinti sostenitori della colpevolezza di Raffaele Palizzolo, affermava all’Assise di Bologna:

Potenza ne aveva (in riferimento al Palizzolo n.d.r.) ma coi suoi amici della mafia, tanto vero che quando nel 1895 io ebbi dal Ministero la richiesta se il Palizzolo sarebbe riuscito eletto, risposi affermativamente perché sebbene osteggiato da Governo era appoggiato dalla mafia. Io avevo conosciuto il Palizzolo, e quindi come altri miei colleghi veniva qualche volta a trovarmi in ufficio, e molte volte ci ho anche parlato. Ricordo che una mattina venne nel mio ufficio proprio quando si stavano facendo attivissime indagini sull’assassinio Notarbartolo. Dal suo contegno mi parve che egli fosse venuto per domandarmi qualche cosa, ed avendogli quindi fatto un gesto colla mano come per invitarlo a spiegarsi egli mi rispose che nulla voleva e che era venuto per salutarmi. Io però ebbi la convinzione che in realtà voleva domandarmi qualche cosa e che forse vedendomi maldisposto egli tacesse233.

All’interno della sua deposizione non mancava di riferire alcune peculiarità dell’agire mafioso:

La mafia è potentissima e si introduce dappertutto. A proposito di mafia posso dire che alcune volte mi si è presentato qualcuno e mi ha detto: «Vengo a proporle la costituzione di tizio o di caio, e pongo per mia condizione che esso non venga giudicato dal Tribunale ma da tal altro», e ricordo che una tal volta mi fu proposta la costituzione di un temuto

232Ibid., p. 366. 233

latitante perché invece di farlo giudicare dalla Corte d’Assise di Trani lo fosse invece da quella di Trapani, e naturalmente io non ne volli sapere. Tutto questo è lavorio di mafia che prepara il terreno favorevole piuttosto in un luogo che in un altro, e così in Sicilia succede che preparato il terreno e trovati i testimoni falsi gli accusati vengono assolti234.

Il questore Sangiorgi riaffermava le sue convinzioni in merito alla natura della mafia siciliana:

La mafia è potentissima ed ha relazioni nelle vicine provincie dell’isola ed anche all’estero nei luoghi ove abitano dei siciliani. La mafia anche prima che un delitto sia commesso, prepara gli alibi, ha per ogni dove dei favoreggiatori per disperdere le tracce dei commessi reati, tra mezzi per creare falsi testimoni, riesce a trattenere gli affari dal ricorrere dinanzi alla giustizia e così rende frustante l’opera nostra235.

L’ex questore Lucchesi si esprimeva così riguardo alle “competenze” dell’imputato Giuseppe Fontana, probabile killer di Emanuele Notarbartolo:

Il Fontana era conosciuto da tutti come persona che si prestava per le elezioni, e come capo mafia. Una volta mi fu raccomandato dal Principe di Scalea, che è una persona onestissima, e come era conosciuto da lui e da tanti altri poteva esser conosciuto dal Palizzolo. Egli, come ho detto, si occupava molto di elezioni, e per questo lo tenevano in molto conto236.

Girolamo De Luca Aprile, giornalista e direttore del Quotidiano, un giornale palermitano vicino a Crispi, delineava un quadro avvilente della situazione politica isolana:

234Ivi.

235Testimonianza di Ermanno Sangiorgi, ASBO, Processo contro Palizzolo e altri, 29 settembre 1901. 236

In Sicilia il Ministero per fare la caccia al deputato e per avere un voto di più non guarda di ricorrere anche alla mafia pur di vincere. Questa è una delle cancrena dell’isola e certo è che all’epoca delle elezioni la canaglia diventa padrona di Palermo237.

Ho riportato una serie di affermazioni che possono risultare interessanti ai fini dell’elaborato, dato che arricchiscono il quadro generale intorno al caso Notarbartolo,. All’epoca, però, non influirono più di tanto sull’esito finale del verdetto giudiziario. Vi fu un momento a Bologna in cui una deposizione di un testimone destò grandi impressioni nell’aula dell’Assise.

Nell’udienza del 16 gennaio 1902 venne chiamato a testimoniare Nicolò Urbano. Si trattava di un ex cliente di Palizzolo, il quale, gli aveva permesso di avere un posto come collettore delle tasse. Urbano rubò una somma di denaro dall’esattoria e, per tale ragione, fuggì in Grecia. Qua conobbe i due socialisti Alessandro Tasca di Cutò e Aurelio Drago, entrambi testimoni di accusa nel processo. A loro aveva detto molte cose riguardo all’assassinio di Notarbartolo, in particolare sul ruolo svolto da Fontana. All’Assise di Bologna, Urbano raccontò un episodio che aveva come protagonisti Raffaele Palizzolo e il suo castaldo, Matteo Filippello:

Il 24 maggio 1894 andai a Palermo a fare il versamento delle lire 2000. Palizzolo era in Roma ed io l’attendevo perché in seguito ad un mio telegramma egli mi aveva telegrafato di attenderlo. Lo stesso giorno 24 maggio 1894 io mi recai in casa Palizzolo e lo trovai col Filippello nella sua camera da letto ove entrai senza essere annunziato. Il Filippello diceva: “Non ho ammazzato nessuno”. Poi pronunciò il nome del Notarbartolo. Era agitato e bestemmiava la Madonna. Ad un certo punto e precisamente quando proferì la parola “Notarbartolo”, il Filippello abbassò gli occhi e vidi che tanto egli che Palizzolo erano confusi. Io domandai al Palizzolo cosa ci fosse, ed egli rispose: “Niente l’hanno chiamato per testimoniare”238.

237Testimonianza di Girolamo De Luca Aprile, ASBO, Processo contro Palizzolo e altri, 4 dicembre 1901. 238

Nel prosieguo della deposizione il racconto si arricchisce di ulteriori dettagli:

Entrai, Filippello stava vicino alla porta e Palizzolo si metteva a levarsi i bottoni dalla camicia. Il Filippello bestemmiava la Madonna ed io dissi fra me: “Come mai dinanzi al suo padrone bestemmia? E mi fece impressione. Egli disse: “Che ne saccio di Notarbartolo? Facendo questo nome abbassò gli occhi. Io dissi_ “Che cos’è? E il Filippello rispose: “Così Fissier”239.

La testimonianza di Urbano si rivelò decisiva per l’esito del processo, nonostante le bizzarrie del personaggio e la sua caratura criminale. Del resto si trattava di una persona che per un certo periodo si era valsa della protezione del deputato palermitano. Le sue affermazioni erano dettate senz’altro da rancori personali, ma destarono grande impressione nell’aula di Bologna, soprattutto tra i giurati.

La difesa di Palizzolo aveva chiamato come testimone Rudinì. Egli da Ministro dell’Interno propose al Re di conferire a Palizzolo una delle più importanti onorificenze del Regno: quella di grande ufficiale della Corona d’Italia. Rudinì si espresse così, al riguardo:

La decorazione di Grande Ufficiale della Corona d’Italia data al Palizzolo nel 1898, sebbene figurava come data di molti proprio dal Re, sta invece il fatto che gli fu conferita colle solite forme passando cioè per le solite trafile delle informazioni, e quindi ricorse a me la responsabilità del conferimento di essa. Ne do la ragione in poche parole. Nel 12 gennaio 1898 si fecero a Palermo le feste per il cinquantesimo della rivoluzione del 1848. Per le dette feste si costituì un comitato e in simili casi l’appartenenza al comitato è una designazione per l’onorificenza. Il Prefetto quindi mi propose fossero decorati i membri del Comitato, e fra questi il Palizzolo. Rimasi un poco in forse pensando alle voci che in passato erano corse contro il Palizzolo, ma avendo acquistato la convinzione che le accuse fatte a lui eran senza fondamento credetti doveroso di proporre al Re la decorazione. La mia convinzione la acquistai così. Non potendo da me dirigere le indagini per la correità dei rei incaricai di ciò il Codronchi facendogli in proposito caldissima raccomandazione, e lo invitai a riferirmi al più presto il risultato delle ricerche. Il

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Codronchi dopo poco mi mandò un memoriale da cui, senza che egli facesse alcun apprezzamento, risultava che le indagini contro il Palizzolo erano andate a vuoto e nulla risultava a carico suo. Da questi fogli trassi non il convincimento assoluto ma l’impressione che tutte le cause contro il Palizzolo fossero completamente infondate, e quindi ripeto, mi parve doveroso dar corso alla proposta del Prefetto, tanto poi che essendo egli stato direttore generale di pubblica sicurezza e questore doveva certo sapere se il tra il Palizzolo proposto per l’onorificenza e l’assassinio del Notarbartolo vi fosse alcun nesso. Il prefetto era il Sensales240.

Codronchi, chiamato in causa da queste affermazioni, si limitò a dire che non fu lui “a proporre detta onorificenza al Palizzolo”, soggiungendo poi come il deputato fosse “stato sempre con me molto sobrio nelle raccomandazioni e mai mi ha raccomandato cosa meno che corretta”241.

Il 22 aprile 1902 si celebrò l’ultima udienza. Il giorno successivo, iniziarono le arringhe dei diversi legali. Il primo a parlare fu Temistocle Castelli, uno dei rappresentanti della Parte Civile. L’ultimo a prendere la parola fu l’avvocato Venturini, difensore di Raffaele Palizzolo. Il 28 luglio, attraverso apposita ordinanza, il presidente della Corte sanciva la chiusura del dibattimento. Alle 21:45 del 30 luglio, i giurati, dopo che il presidente Frigotto ebbe terminato il suo intervento, si ritirano nella loro camera. Uscirono verso mezzanotte. Il verdetto emesso fu di colpevolezza per Raffaele Palizzolo, Giuseppe Fontana e Nicolò Trapani, con una condanna di trent’anni di reclusione. I cugini Filippo e Francesco Paolo Vitale, il Bruno e il Garufi invece furono assolti.

Il procedimento di Bologna si concludeva con un verdetto in grado di porre la parola fine alle estenuanti vicende giudiziarie inerenti all’assassinio di Emanuele Notarbartolo. Erano stati individuati, da un punto di vista giudiziario, sia l’esecutore materiale che il mandante dell’omicidio.

Questo è quello che, a prima vista, traspariva dalla sentenza.

240 Testimonianza di Antonio Starabba Di Rudinì, ASBO, Processo contro Palizzolo e altri, 10 marzo 1902. 241