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L’inchiesta ufficiale.

1.3 I provvedimenti di pubblica sicurezza

1.4.1 L’inchiesta ufficiale.

Gli anni settanta del XIX secolo sono caratterizzati dall’avvio di un insieme di indagini, analisi, interpretazioni e luoghi comuni, che si sono andati depositando e stratificando nel tempo sopra vicende e aspetti significativi della storia siciliana, in maniera progressiva, e non sempre con identico significato, classificabili col termine “mafia”.

Paolo Pezzino ha definito questo insieme di pratiche con il concetto di paradigma

mafioso.71.

La legge 3 luglio 1875 n. 2579 prevedeva l’avvio di un’inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia e sull’andamento dei pubblici servizi. I lavori vennero affidati a una giunta di nove membri; tre della Camera, tre del Senato e tre nominati con decreto regio, dopo previo parere del Consiglio dei Ministri. Il 29 agosto la giunta si era costituita. La presidenza veniva affidata al senatore Giuseppe Borsani. I componenti scelti erano i deputati Francesco Paternostro (vice - presidente), Romualdo Bonfadini e Luigi Gravina, i senatori Nicolò Cusa e Carlo Venga, il consigliere della Corte dei Conti Carlo De Cesare (segretario), il consigliere di Stato Cesare Alasia, e il consigliere della Corte di Cassazione Pirro De Luca. Il lavoro della Commissione si avvaleva di una serie di questionari, incentrati su una serie di domande. Vale la pena riportare quelle inerenti alla mafia:

Esiste in Sicilia una forma di associazione distinta con il nome di maffia? Quale è la Sua opinione intorno alla maffia? In che cosa consiste questa piaga?

Quale è l’importanza, lo scopo ed il modo di esistere della maffia? Implica essa una organizzazione? In quali classi esiste?

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Paolo Pezzino, Stato violenza Società. Nascita e sviluppo del paradigma mafioso, in La Sicilia, a cura di M. Aymard e G. Giarrizzo, Torino, 1987.

Quale crede che sia stata l’origine della maffia, quale il suo alimento, quale sarebbe il mezzo di distruggerla?

Quale è più specialmente la malefica influenza della maffia sulla pubblica sicurezza, sulle proprietà private, sulle pubbliche amministrazioni, ed in generale sull’andamento dei servizi? 72.

Il 6 novembre, a Palermo, la giunta iniziava le sue prime audizioni. I due volumi, in cui sono stati pubblicati gli atti della Commissione, non contengono tutti i resoconti degli interrogatori, ma una selezione di essi, con la motivazione che la pubblicazione integrale di tutti i materiali - suddivisi in 73 fascicoli - non sarebbe stata possibile.

Tra gli interlocutori figuravano i principali esponenti della classe politica isolana e alcune tra le più alte cariche dell’autorità giudiziaria.

Interpellato da uno dei commissari, Di Rudinì si esprimeva in questa maniera sulla mafia:

Ma che cos’è la maffia? (….) Io dico anzi ci è una maffia benigna. La maffia benigna è quella specie di spirito di braveria, quel non so che di disposizione a non lasciarsi soverchiare, ma piuttosto soverchiare, quel fare “facerru” come dicono i francesi. Dunque maffioso benigno per dir così potrei esserlo anche io, io non lo sono, ma insomma lo può essere anche qualunque persona che si rispetti, e che abbia una certa alteratezza esagerata e quella disposizione, come dissi poc’anzi, a non lasciarsi sopraffare, quella volontà di mostrarsi coraggioso, di esporsi alle lotte, e via discorrendo 73.

L’ex sindaco di Palermo riduceva il fenomeno mafioso a “un dato culturale”, originario della popolazione siciliana.

72 ACS 1875 - 1876 cit. in Santino, La mafia dimenticata, p. 206. 73Cit. in Pezzino, Stato violenza società, p. 922.

Il colonnello capo di stato maggiore del comando generale di Palermo, Bernardino Milon, parlava di mafia come di

un’organizzazione, un’associazione di persone che vogliono lucrare con mezzi violenti e usando prepotenza, senza guardare né alle persone né alle condizioni delle persone stesse, gente insomma che vuole andare diretta allo scopo di avere del denaro o in genere del lucro e che per raggiungere questo scopo affronta qualunque pericolo. Questa maffia ha per capi poche persone ed ha degli adepti che servono proprio con lealtà e con interesse questi capi.

Il colonnello sosteneva poi che molti sono

associati per necessità, sono, per così dire, costretti a fare questo mestiere, e io ho avuto occasione, siccome sono stato anche comandante di zona militare una volta a Girgenti e altre volte qui a Palermo, ho avuto occasione dico di conoscere individui ritenuti maffiosi, che francamente mi confessarono che ben volentieri farebbero la vita onesta, ma che certe circostanze speciali di luogo e di posizione loro non permettevano di sottrarsi da questa pressione che su di loro esercitavano tali agenti principali maffiosi capi74.

Il procuratore del re Giovanni Ferro Luzzi, invece, affermava che i proprietari subivano i mafiosi ed erano costretti a servirsene per le continue minacce che ricevevano. Gli effetti erano disastrosi

Perché in fin dei conti quando si è fatto il patto con la maffia si finisce con l’esserne assorbiti; ma che si voglia proteggere la maffia solo per il capriccio, che la maffia abbia sotto la sua tutela il principe A o il principe B, questo no, anzi i proprietari si riterrebbero ben fortunati se domani potessero essere liberati da cotesta lebbra che si attacca alla loro proprietà.

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A queste affermazioni il presidente Borsani replicava così

Di questo sono persuaso anch’io, ma io non intendeva domandarLe se i proprietari si associano e secondino la maffia; Le domandavo soltanto se non credendo di poter altrimenti provvedere alla sicurezza della loro proprietà e persone sogliono abitualmente prendere al loro servizio tali persone.

Al ché, il procuratore aggiungeva

Si, l’ho detto che le subiscono e le tengono quando sono anche costretti a dar loro degli aiuti. Noi abbiamo visto ai dibattimenti uomini rispettabilissimi venire a dire: “io conosco questo tale, è stato mio castaldo e posso garantire la giustizia che costui a mio servizio è stato sempre un gran galantuomo”. Eppure quel tale sarà stato invece un grande birbante. È una specie di restrizione mentale che porta alle più gravi conseguenze, perché quando si è fatto il patto col malfattore le conseguenze non possono essere altro che disastrose. Ripeto adunque, i proprietari subiscono e sono trascinati per questa via.

A queste parole, nel proseguimento dell’udienza, sia il presidente che il commissario De Cesari obiettarono come i proprietari, al di là delle minacce, sceglievano coscientemente di prendere a servizio i maffiosi . Il procuratore, nonostante le osservazioni fattegli, continuava ad assolvere il ceto proprietario da possibili responsabilità

Sono sicuro che se domani non ci fosse il timore della maffia sarebbero ben pochi, forse nessuno, i proprietari che vorrebbero farsi spalleggiare dai mafiosi. La maffia agisce in questo senso, che pria costringe e poi si fa spalleggiare75.

Una spiegazione interessante delle origini della mafia proviene da Gabriele Colonna Romano, duca di Cesarò e deputato del Regno. Dinanzi alla Commissione egli affermava:

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Io credo che la mafia sia un’eredità del liberalismo siciliano, perché quando cadde il feudalesimo, o, dirò meglio, quando il feudalesimo rinunciò da se stesso al suo potere, i Baroni contemporaneamente ruppero la fede giurata alla Sicilia e da allora incominciò una lotta continua, implacabile fra la Sicilia ed i Borboni. E dico la Sicilia perché tutte le classi siciliane erano d’accordo in queste lotte, anzi l’aristocrazia siciliana ha sempre avuto pronta ed efficace la cooperazione del popolo in tutto ciò che si riferiva alla lotta contro i re di Napoli (…). Questo fatto produsse un’unione stretta fra le varie classi sociali della Sicilia, unione stretta fra le varie classi sociali della Sicilia, unione che dura tuttavia (…) e da ciò appunto consegue che l’influenza che ha l’aristocrazia in Sicilia non si riscontra in nessuna altra parte d’Italia. In tutto il periodo che durò dal ’14 al ’48 l’aristocrazia non volle avere niente di comune col governo e da qui nacque il bisogno di avere degli aiuti propri (….) tutti i baroni, tutti i proprietari tanto della città come dell’interno hanno avuto sempre una forza che stava attorno a loro e della quale essi si sono sempre serviti per farsi giustizia da sé senza ricorrere al governo e della quale forza si sono servizi per farsi giustizia da sé senza ricorrere al governo e della quale forza si sono serviti ogni qualvolta si è dato il segnale della rivoluzione (…..) era poi naturale che quando si doveva fare una rivoluzione non si badasse tanto pel sottile alle fedi di perquisizione di coloro cui si ricorreva (…). Pel furti, per le vendette personali, nonché per qualunque oggetto per cui in altre condizioni si sarebbe dovuto ricorrere alle autorità si ricorreva a questa gente, e per me qui sta l’origine della maffia (…). Ora al 1860 che cosa è avvenuto? È avvenuto che tutto ciò che era baronaggio, anzi non si può chiamare baronaggio, ma meglio classe proprietaria ovvero classe intelligente, questa classe dico ha trovato nel nuovo ordine di cose appagatele sue aspirazioni politiche e quindi non ha creduto più di aver bisogno di tenersi stretta questa classe di facinorosi. Ma questa classe di facinorosi, invece di trovare quel compenso che immaginava nel trionfo della rivoluzione, si è trovata completamente disillusa (….), si ritirò, ma si ritirò aspettando il compenso dell’opera che aveva prestato (….). Per me dunque l’origine dei maffiosi non è altro che questa che avuto l’onore di esporre76.

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Come si può notare da questo intervento, l’esaltazione dei meriti storici della nobiltà siciliana e della sua egemonia sui ceti popolari, serviva a riaffermare, in un periodo in cui assistiamo a un allargamento dell’area politica ad una più ampia rappresentanza dei proprietari meridionali, la piena legittimità delle classe dirigente siciliana.

Le udizioni che abbiamo citato ci permettono di avere un piccolo spaccato delle idee che circolavano all’epoca sulla mafia. Anche se - escludendo rare eccezioni - risultava difficile da parte dei principali esponenti dell’èlite isolana focalizzare l’attenzione sui legami e la commistione con l’universo criminale. Sarebbe stato un J’accuse fuori programma: tra gli obiettivi prefigurati dall’inchiesta non figurava quello di mettere in discussione l’operato politico allora in vigore. Tant’e vero che la definizione di mafia proposta sembrerebbe più volta a chiarire che cosa essa non sia:

Non è un’associazione che abbia forme stabilite e organizzazioni speciali; non è neanche una riunione temporanea di malandrini a scopo transitorio o determinato; non ha statuti, non ha compartecipazioni di lucro, non tiene riunioni, non ha capi riconosciuti se non i più forti e i più abili. Ma è piuttosto lo sviluppo e il perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male; è la solidarietà istintiva, brutale, interessata, che unisce a danno dello Stato, delle leggi e degli organismi regolari, tutti quegli individui e quegli strati sociali che preferiscono trarre l’esistenza e gli agi, anziché dal lavoro, dalla violenza, dall’inganno e dall’intimidazione77.

Nella relazione finale redatta da Romualdo Bonfadini ci si preoccupava di dare un’interpretazione dei fatti che non offendesse né la classe dirigente né quella locale. Si imputava perciò il fallimento del quindicennio di governo della Destra nell’isola, non tanto al potere centrale, quanto alla presunta immaturità civile e all’”arretratezza morale delle popolazioni”. La storia della Sicilia, “ha una speciale caratteristica”.

Non vi è stato “l’uragano livellatore della rivoluzione francese” (nel resto d’Italia, invece si? n. d. r.).

La raccomandazione finale era alquanto vaga:

La Sicilia ha una nobile aspirazione: vorrebbe dominare il tempo e lo spazio; vorrebbe vincere d’un balzo tutte le difficoltà creatale dal passato; e si inquieta e si turba perché non trova né in sé né in aiuto d’altri tutti i mezzi che bisognerebbero a così alte esigenze78.