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Codronchi e la riapertura dell’istruttoria.

II. L’omicidio Notarbartolo Un delitto di stampo mafioso.

2.3 Codronchi e la riapertura dell’istruttoria.

Tra i governi in cui si verificò l’insabbiamento delle indagini vi era quello presieduto dal marchese Antonio di Rudinì. Egli era amico personale di Notarbartolo e leader della Destra isolana, parte politica cui l’assassinato aveva sempre fatto riferimento.

Gli anni del secondo Ministero presieduto da Di Rudinì coincidevano con il periodo (1896 - 97) del commissariato civile per la Sicilia. Questa istituzione aveva il compito, quale “organo amministrativo altamente qualificato”122, di estirpare il predominio delle clientele locale, le quali mantenevano un controllo pervasivo sulla vita politica ed amministrativa dell’Isola. Durante la discussione alla Camera dei Deputati sull’istituzione di tale organo, Sonnino notò sarcasticamente come il reale compito del nascente Commissariato fosse quello di creare un “Commissariato elettorale” capace di disperdere il partito crispino e recuperarne l’ala moderata, nella maniera tale da creare un gruppo politico isolano vicino al presidente del consiglio123. Effettivamente, se pensiamo alla figura scelta per svolgere il delicato ruolo, non possiamo che dare fondatezza all’opinione formulata dal politico toscano. Rudinì affidò l’incarico al conte imolese Giovanni Codronchi, esponente di destra incline alle pratiche del trasformismo. Nel 1875, era tra i fautori più convinti delle leggi eccezionali per l’ordine pubbliche da Minghetti. Ma, nel 1889 - 90, nel ruolo di prefetto di Napoli, si rivelava uno zelante esecutore delle politiche di Crispi.

Nell’aprile del 1896, prima ancora della sua nomina ufficiale, Codronchi esprimeva a Domenico Farini124 i suoi “propositi” intorno al caso Notarbartolo:

Tutti sanno chi fu il mandatario, chi fu il mandante. La giustizia si è fermata davanti a qualche pezzo grosso amico di Crispi (…). Ho detto al Rudinì che non intendo di arrestarmi davanti ai suoi amici, al deputato Palizzolo, per esempio. Rudìni mi ha risposto: sta bene, Palizzolo è una canaglia125.

122Salvatore Massimo Ganci (a cura di), Il commissariato civile del 1896 in Sicilia, M. Sciascia, Firenze, p. XIII.

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L’intervento di Sonnino alla Camera, datato 6 luglio 1896, è riportato in S.M. Ganci, il commissariato

civile, pp. 320 -40.

124All’epoca ricopriva la carica di presidente del Senato. 125

Codronchi probabilmente sopravvalutava le sue possibilità. Tant’e vero che la riapertura delle indagini si dovette senz’altro ad alcune direttive di Rudinì. Non facili da rispettare, poiché molti indizi vertevano non sui temuti avversari crispini, ma su Palizzolo, il quale, al di là dell’essere “canaglia”, rappresentava uno dei pochi punti di riferimento sicuri della destra isolana. In riferimento alle elezioni del 1892, il testimone e avvocato Michele Fileti, all’Assise di Firenze, affermava come

“Al primo voto di fiducia verificatosi pochi giorni dopo appresso la Legislatura, il Palizzolo, che nelle elezioni era stato combattuto dal Ministero, votò pel Ministero”126. Palizzolo votò quindi a favore del primo Ministero presieduto da Rudinì: egli non rientrava tra i nemici isolani del politico di Destra.

Nel 1896 il deputato palermitano aveva un assoluto bisogno dell’appoggio governativo. Ai sospetti sul caso Notarbartolo, si aggiunsero quelli sull’assassinio di Francesco Miceli127. Palizzolo attribuiva tali sospetti ad una persecuzione di Giolitti128 risalente alle elezioni del novembre 1892, da qui le motivazioni pretestuose e pseudo - garantiste su cui giocava il suo appoggio al progetto del commissariato civile. In un intervento parlamentare del luglio 1896, dichiarava

Non appena avviene un grande delitto nella provincia, è nel gabinetto del prefetto che si stendono i primi atti processuali, il prefetto non disdegna l’opera di qualche consigliere aulico, il quale potrebbe essere un candidato politico ministeriale per le prossime elezioni (…). Autore di ogni crimine è da loro sempre ritenuto il candidato di opposizione, complici più o meno necessari i suoi amici e sostenitori129.

Non deve sorprendere la situazione spiacevole in cui si trovò Leopoldo Notarbartolo, quando si recò da Codronchi per sollecitare la riapertura delle indagini.

Allorché Codronchi aveva fatto il suo ingresso ufficiale a Palermo, aveva seduto a fianco in carrozza, Palizzolo. E, la prima volta che mi presentai dal Commissario Civile, per

126

Testimonianza di Michele Fileti, ASFI, Processo contro Palizzolo e altri, 4 novembre 1903, p. 230.

127 Tornerò più avanti sulle vicende inerenti a tale omicidio.

128 Giovanni Giolitti succederà a Dì Rudinì nel maggio 1892, con la formazione di un nuovo Ministero. 129

farne la conoscenza, e metterlo a giorno del processo, l’anticamera fu lunga: Palizzolo era a conciliabolo e non uscì tanto presto130.

Grazie alla consultazione di alcune corrispondenze e lettere del conte imolese, Salvatore Lupo ha ricostruito i rapporti tra il commissario civile e il notabile palermitano. Nei mesi successivi all’incontro cui ho fatto riferimento, vi fu un continuo scambio di informazioni tra Codronchi e Palizzolo. Mentre il primo dava istruzioni di alta politica, il secondo si interessava della gestione locale: scioglimento di amministrazioni comunali, quotizzazione di terreni demaniali, dilazione dei debiti di qualche società, scelta dei farmacisti chiamati a gestire il servizio per i poveri di Palermo e composizione del corpo della guardie daziarie. Il deputato si rivelava molto attento alla scelta dei tutori dell’ordine: protestò per il trasferimento da Palermo del delegato di Pubblica Sicurezza Olivieri, definito da lui “un mio elettore affezionato che potrebbe grandemente giovarmi”131. Intervenne in favore di un ex - delegato di Pubblica Sicurezza, Francesco Saitta, suscitando le ire del commissario civile: “Questo Saitta fu condannato e destituito; e lo si raccomanda perché lo nomini capo delle Guardie Campestri”132. Infine, Palizzolo si dimostrò molto interessato ad ottenere la nomina di assessore alla pulizia urbana nell’amministrazione cittadina clerico - moderata, guidata dal senatore Amato Pojero. Anni dopo, all’Assise di Bologna, il possidente e testimone di difesa Cav. Carmelo Urbano definì in maniera entusiasta l’operato dell’assessore Palizzolo: “Mai come in quell’epoca la città fu linda e pulita”133.

Il deputato si riteneva fondamentale per le sorti del municipio, insediatosi ufficialmente nel 1897.

Io ho numerosi amici dei quali si sono calpestati i dritti e le ragioni ed essi tengono immensamente a che io, anche per un mese, faccia parte del Potere esecutivo (sic!). (…) L’Amato avrebbe dovuto pendere dai sapienti consigli della E.V. e da quelli degli amici senza dei quali esso non potrà restare 48 ore al posto di Sindaco134.

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Notarbartolo, La città cannibale, p. 226. 131

Cit. in Lupo, Storia della Mafia, p. 125. 132Ibid., p. 126.

133Testimonianza di Carmelo Urbano, ASBO, Processo contro Palizzolo e altri, 28 gennaio 1902. 134

Di quali “amici” parlava? Si noti che, in vista delle elezioni amministrative del capoluogo isolano, era stata varata una riforma del sistema elettorale. Secondo il socialista De Felice Giuffrida con questo nuovo sistema elettorale si garantiva ai candidati espressi dalle borgate un peso spropositato. Personaggi in odor di mafia - maggiormente diffusi all’interno delle borgate135 - venivano eletti così con poche decine di voti, mentre al centro erano bocciate le candidature provenienti dall’opposizione che non avessero ottenuto più di mille suffragi136. Si aggiunga poi, che nel maggio del 1897, in un altro colloquio avuto con Domenico Farini, Codronchi si dichiarava certo dell’innocenza di Palizzolo e sospettoso piuttosto dei deputati crispini Figlia e Tenerelli137.

Il generale ed ex comandante della sicurezza pubblica isolana Mirri, durante la sua testimonianza al processo di Bologna, affermò di ritenere che pure Figlia avesse “relazioni basse”138, facendo intendere, con questa espressione, l’esistenza di legami tra il deputato e il mondo mafioso.

Nell’epoca dei fatti raccontati, la questura di Palermo era retta da Michele Lucchesi, già protagonista nelle indagini della prima istruttoria. Codronchi lo reputava “uomo abilissimo (che) conosce tutto e tutti, uomini e cose, sa tutto”, pur prevendendo di doverlo in futuro allontanare perché “un poco di buono”139.

Lucchesi era ben addentro ai “veleni” palermitani e si mostrava capace “di servirsi di una parte della mafia per scoprire le marachelle dell’altra”. Una volta, sorpreso in un amichevole conciliabolo con un noto mafioso, avrebbe esclamato: “Vedete a che cosa sono costretto? Costui meriterebbe le manette, e volentieri lo condurrei io stesso al carcere”140. Anni dopo, intervenendo a Firenze come testimone nel processo Notarbartolo, affermò che la mafia imperava

perché i proprietari temono né si vedono ben protetti, e temono al punto che ognuno di essi è felice se riesce ad avere al proprio servizio due o tre dei più facinorosi e tristi,

135 Ibid., pp. 139 - 143. 136

De Felice, Le responsabilità del governo: i consiglieri della maffia, in “Avanti”, 28 dicembre 1899, consultato in Sala Periodici, Biblioteca Centrale di Firenze, in data 3/12/2016.

137

Farini, Diario, vol. II, p. 1188.

138Testimonianza di Giuseppe Mirri, ASBO, Processo contro Palizzolo e altri, 12 marzo 1902. 139 Farini, Diario, cit., vol. II, p. 908.

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perché così almeno sono sicuri di non ricevere danni né nella persona né nella proprietà, perché appunto quando vi sono di questa specie di guardiani, non è possibile che avvenga nulla, e se qualcuno fosse di far qualche cosa di triste la pagherebbe certo con la vita141.

Nell’estate del 1896, il questore ordinò - con una circolare - ai suoi subordinati di non dar corso a nessuna delle numerose denunce relative ai mafiosi di Villabate , “onde evitare che persone diffamate per i gravi misfatti si (diano) alla latitanza compromettendo le condizioni della sicurezza pubblica”142.

Era questo l’uomo incaricato di riaprire il caso Notarbartolo, in collaborazione con il procuratore generale Vincenzo Cosenza. Lucchesi e Cosenza si trovavano nuovamente a collaborare insieme, dopo il fallimento della prima istruttoria. I due puntarono sulle dichiarazioni di un detenuto, Augusto Bortolani, il quale, sosteneva che l’assassinio sarebbe stato compiuto da Fontana, “per ordine di alto mandante”. Il mafioso sarebbe stato incaricato di “assassinare il Comm. Notarbartolo perché questi doveva ritornare alla Direzione Generale del Banco di Sicilia e per la sua onestà non si voleva che tornasse a quella carica”143.

Le dichiarazioni di Bortolani avvennero in un contesto caratterizzato dai rapporti turbolenti tra i diversi soggetti coinvolti nella riapertura delle indagini. Grazie ad alcune testimonianze contenute nelle carte relative ai processi di Bologna e Firenze, è possibile arricchire il quadro con ulteriori informazioni. All’Assise di Bologna Bortolani sostenne di aver ricevuto una dichiarazione - firmata dal questore Lucchesi - di questo tenore:

«Dichiaro io qui sottoscritto a nome del ministro commissario regio per la Sicilia Conte Giovanni Codronchi che quante volte il detenuto Bortolani Augusto fu Giuseppe metta la giustizia in grado di scoprire i colpevoli dell’assassinio Notarbartolo gli sarà fatta la grazia per la condanna subita e per le altre che potrebbero venirgli dai processi in corso. Sarà inoltre messo in grado di poter emigrare e corrisposto il premio stabilito dal governo per chi mette la giustizia in grado di punire i rei di quel delitto144.

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Testimonianza di Michele Lucchesi, ASFI Processo contro Palizzolo e altri, 14 novembre 1903. 142 Rapporto Sangiorgi, allegato alla XXIV relazione cit. in Lupo, Storia della Mafia, p. 127. 143 Testimonianza di Augusto Bortolani, ASBO, Processo contro Palizzolo e altri, 20 dicembre 1901. 144

Sempre a Bologna, Lucchesi dichiarava che Codronchi aveva “preso una grande simpatia” per il detenuto tanto da recarsi quasi quotidianamente a trovarlo in carcere.

“Gli concesse perfino di far venire da Genova la moglie a trovarlo e fu lo stesso Codronchi che le pagò il viaggio. Dal Codronchi poi furono concesse al Bortolani delle facilitazioni nel vitto, facilitazioni che poi dovette ridurre perché il Bortolani spendeva troppo”145.

Nel capoluogo emiliano vi furono altre testimonianze incentrate sulla figura di Bortolani. Il testimone e recluso Salvatore Vaccaro affermò:

“Il Bortolani qualunque fatto commettesse nelle carceri non era mai punito, tanto vero che gli fu trovato un coltello e non gli dissero nulla”146.

L’ex sottocapo delle carceri giudiziarie di Palermo Vincenzo Silvano riteneva Bortolani

un birbante, un imbroglione, capace di tutto. Parlando egli dell’assassinio Notarbartolo, indicò prima come mandante Francesco Crispi, poi un altro deputato di Palermo, di cui non ricordo il nome, poi altri sei o sette e tutti come mandanti, quanto agli autori materiali fece i nomi del Corallo, del Garufi e del Fontana. Diceva che sapeva tutto ma per me credo che nulla sapesse, e fingeva di essere a conoscenza delle cose per stare bene in carcere. Difatti si trattava bene e spendeva sebbene da casa sua non gli venissero mai né lettere né denari, e quando venne a trovarlo sua moglie, disse egli stesso ce c’era stato qualcuno che le aveva dato 4 o 500 lire per venire147.

Un anno dopo, all’Assise di Firenze, il procuratore Cosenza dichiarò

Il Bortolani mai mi ha parlato di mandanti, e rimasi meravigliatissimo in due occasioni: in una in cui il mio sostituto Cav. Marrico mi disse di aver saputo dal Lucchesi che il Bortolani gli aveva detto che l’assassinio del Notarbartolo doveva attribuirsi a Crispi; e meravigliato fu anche quando lo stesso Bortolani, che credo persino ignorasse che

145Testimonianza di Michele Lucchesi, ASBO, Processo contro Palizzolo e altri, 9 gennaio 1902. 146Testimonianza di Salvatore Vaccaro, Ivi.

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esistesse al mondo Palizzolo, nella sua dichiarazione a Milano disse senza esitare che esecutore dell’assassinio era stato il Fontana e mandante il Palizzolo»148.

Le dichiarazioni di Bortolani, ottenute in maniera alquanto discutibile, permisero la riapertura dell’istruttoria. Di nuovo, sul banco degli imputati finirono i ferrovieri Pancrazio Garufi e Giuseppe Carollo, ma non Giuseppe Fontana. Per l’incriminazione del mafioso di Villabate era fondamentale che il processo si celebrasse in una città differente da Palermo.