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Le politiche dell'immigrazione di seconda accoglienza. L'accoglienza integrata all'interno del Sistema SPRAR nei Comuni di Bari e Venezia

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Scienze Politiche

Laurea magistrale in Studi Internazionali – Governance delle migrazioni

TESI DI LAUREA

Le politiche dell'immigrazione di seconda accoglienza.

L'accoglienza integrata all'interno del Sistema SPRAR nei Comuni di Bari e Venezia

RELATORE: CANDIDATA:

Pizzimenti Eugenio Stani Maria Teresa

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Indice

1. L’analisi delle politiche pubbliche

1.1 Cos’è una politica pubblica 1

1.2 La definizione dei confini di una politica pubblica 4

1.3 I filtri utilizzati dall’analista 4

1.4 Livelli di aggregazione e variabili 5

1.5 Evoluzione storica dell’analisi delle politiche pubbliche 6

1.6 Le radici e la storia 7

1.7 Il caso italiano 11

1.8 Comparare le politiche pubbliche: il compito del comparativista e gli approcci

alla comparazione 13

1.9 Il disegno della ricerca comparata 17

1.10 La metodologia usata: lo studio del Policy Making 23

2. La regolazione amministrativa dei fenomeni migratori in Italia

2.1 I caratteri del caso italiano 37

2.2 La legge 943 del 1986 38

2.3 La legge “Martelli” e gli sviluppi della prima metà degli anni ’90 40

2.4 La legge “Turco-Napolitano” 45

2.5 La legge “Bossi-Fini” 51

2.6 Il “Pacchetto Sicurezza” 53

2.7 Il condizionamento europeo 56

3. La gestione del fenomeno migratorio in Puglia e Veneto

3.1 La legislazione regionale veneta in materia di immigrazione 64 3.2 La programmazione triennale e annuale veneta in materia di immigrazione 75 3.3 La legislazione regionale pugliese in materia di immigrazione 101 3.4 La programmazione triennale e annuale pugliese in materia di immigrazione 110

3.5 La migrazione umanitaria 131

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4. L’accoglienza integrata all’interno del Sistema SPRAR nei Comuni di Bari e Venezia

4.1 La struttura dell’indagine empirica 140

4.2 Bari: ricostruzione delle vicende politico-amministrative della città 141 4.3 Venezia: ricostruzione delle vicende politico-amministrative della città 144 4.4 Le variabili indipendenti socio economiche considerate 146 4.5 L’effettivo funzionamento del Sistema SPRAR a Bari e Venezia 153 4.6 Le politiche dell’accoglienza integrata all’interno del Sistema SPRAR nel Comune di

Bari 154

4.7 Le politiche dell’accoglienza integrata all’interno del Sistema SPRAR nel Comune di

Venezia 170

4.8 I punti di contatto tra l’accoglienza integrata all’interno del Sistema SPRAR a Bari e

Venezia 180

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Capitolo 1

L’analisi delle politiche pubbliche

1.1 Cos’è una politica pubblica

Dare una definizione chiara ed esaustiva di quello che è una politica pubblica è stato a lungo un cruccio di numerosi studiosi, che nel tempo ne hanno dato una loro interpretazione, soprattutto in base alle differenti tradizioni teoriche in cui essi erano collocati. Come sostiene Rose (1978, p.13, cit. in Regonini 2011):

Nella sua lunga storia, l’uso del termine policy nell’inglese ha acquisito molti significati. Può fare riferimento a un tema o a un problema da discutere, come nelle espressioni education policy o industrial policy. Può rinviare a una dichiarazione di intenzioni o di obiettivi, come nel caso di party policy o di President’s policy […] ai mezzi che il governo impiega per realizzare le sue intenzioni […] dati tutti questi significati, è meglio usare il termine policy per fare riferimento in generale alle attività del governo.

Questa citazione di Rose, che identifica le politiche pubbliche con le attività dei governi, ha sicuramente il vantaggio di essere di immediata comprensione, ma è stata considerata da alcuni studiosi come eccessivamente restrittiva. Infatti, a sottolineare uno spazio importante e ulteriore nella definizione di quello che sarebbe una politica pubblica, interviene Dye (1987, I ed. 1972, p.1, cit. in Regonini), il quale richiama l’attenzione anche sulle mancate risposte e sulle non decisioni, altrettanto fautrici di effetti, anche di larga portata. Egli infatti definisce le politiche pubbliche come ogni cosa che i governi scelgono di fare oppure di non fare.

Questa definizione di Dye ci permette di evidenziare che ciò da cui è fondamentale partire, nel trattare le politiche pubbliche, è l’unità analitica di riferimento che le riguarda, ovvero una politica pubblica nasce, si sviluppa, modifica, riesce o fallisce nel suo intento sempre in relazione a un problema.

Questo problema deve essere di rilevanza collettiva per poter essere inserito nell’agenda prima politica, poi istituzionale ed eventualmente decisionale. Occorre sottolineare però che non tutti i problemi di rilevanza collettiva riescono ad entrare nell’ agenda politica e ancora più difficilmente in quella decisionale, e che un peso importante hanno anche e soprattutto le non decisioni, ovvero ciò che le istituzioni decidono deliberatamente di trascurare.

Le due definizioni di Rose e Dye tuttavia hanno in comune l’avere identificato nell’autorità costituita il promotore fondamentale e quasi esclusivo delle politiche pubbliche.

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Non sono dello stesso parere, invece, gli studiosi che ritengono che le istituzioni pubbliche non siano le sole protagoniste dei processi tramite cui vengono adottate decisioni vincolanti per la collettività. Ad esempio Dahl (1970, p.120, cit. in Regonini 2011) afferma provocatoriamente che la General Motors dovrebbe essere considerata un’impresa pubblica al pari del servizio postale americano, sottolineando quindi la necessità di assumere una prospettiva più ampia, in cui le politiche pubbliche possano essere analizzate qualunque sia la loro fonte.

Effettivamente al giorno d’oggi sono molteplici le iniziative e le sedi che ridimensionano notevolmente il ruolo delle istituzioni politiche tradizionali nel determinare primariamente l’andamento e il ritmo di una politica pubblica. Un esempio significativo sono i costi che la Microsoft è stata in grado di poter imporre negli anni 90 alle amministrazioni pubbliche di molti paesi, semplicemente rendendo obsoleta la versione di un suo programma (Regonini 2011, p. 59).

Altre definizioni di politica pubblica si susseguono anche per quanto riguarda la considerazione della organicità delle scelte fatte e della consapevolezza dell’azione da parte delle istituzioni, e se da un lato Lasswell (Lasswell e Kaplan 1950, p.87 trad. it.) afferma che una policy si distingue per essere un programma progettato di fini, valori e pratiche, in modo del tutto opposto Heclo e Wildavsky (1974, p.346) propongono una definizione molto più a maglie larghe. Essi infatti ritengono che una politica pubblica sia costituita da una serie di supposizioni correnti, costruite nel tempo dagli amministratori politici e utilizzate fino a che manifestano la loro funzionalità, che vengono riparate quando è necessario e poi abbandonate nel momento in cui non paiono più funzionali e recuperabili.

Insomma, sembra essere in gioco una lotta tra visioni opposte dell’ordine generato dalle istituzioni politiche, che si può far risalire alla contrapposizione tra pluralismo e individualismo metodologico da un lato e istituzionalismo dall’altro.

Vi sono poi delle definizioni di politica pubblica che fanno della coesistenza tra queste due impostazioni un punto di forza e una corrispondenza con la realtà dei fatti, come quella di Heidenheimer, Heclo e Adams (1983, p. 4). Essi infatti affermano che il mondo reale del policy

making sia costituito da propositi e conseguenze inattese che si influenzano vicendevolmente, da

obiettivi fissati a priori e altri che vengono scoperti invece a posteriori.

Ma la definizione che sembra meglio cogliere e accogliere la complessità e l’indeterminatezza del concetto di public policy sembra essere quella data da Heclo (1972, p.85), il quale afferma che una policy non può essere considerata come un fenomeno che si autodefinisce, bensì come una categoria analitica i cui contenuti possono essere definiti soltanto dall’analista, non dunque dal

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Ne deriva la considerazione che una politica pubblica sia un oggetto di studio e di definizione alquanto problematico, questo perché in primo luogo dietro alla medesima nomenclatura possono nascondersi realtà empiriche diverse.

Per esempio dietro all’etichetta di politica dei trasporti possono esserci realtà concrete differenti, sia per quanto riguarda i luoghi che per quanto riguarda i livelli considerati.

In secondo luogo una singola politica è articolata in più componenti e fasi, ognuna delle quali può essere oggetto di comparazione. Dunque è compito dell’analista stabilire nella prima fase della ricerca quale significato attribuire ad una determinata politica in uno o più contesti e quale componente di tale politica comparare (Lanzalaco, Prontera, 2012, p. 35).

La caratteristica per eccellenza della disciplina dell’analisi delle politiche pubbliche è infatti l’indeterminatezza denotativa, ciò vuol dire che il numero di referenti empirici che denotano la disciplina è pressoché infinito, indeterminato e indeterminabile.

In primo luogo infatti, l’analista può indirizzare la propria analisi nei confronti di qualsiasi regime politico e a qualsiasi livello di analisi, sia esso globale, transnazionale, europeo, nazionale, regionale o di quartiere. Inoltre persino il livello di aggregazione considerato per una data politica è l’esito di una scelta precisa del ricercatore.

In secondo luogo poi, come già rilevato, una politica pubblica è un costrutto che lo stesso ricercatore contribuisce a definire. Pertanto ogni ricercatore può studiare una politica pubblica a prescindere dal fatto che esistano autorità, atti formali o fondi stanziati al fine di realizzarla (Lanzalaco, Prontera, 2012, pp.17-18).

È importante sottolineare infine che sebbene talvolta, soprattutto nel linguaggio quotidiano e informale, i concetti di legge e di politica pubblica vengano sovrapposti con facilità essi non sono affatto due etichette che identificano la stessa realtà. Questa precisazione è particolarmente importante da evidenziare nel contesto italiano, in cui le leggi hanno un ruolo fondamentale nell’indirizzare le politiche pubbliche e in cui spesso le stesse leggi sembrano essere l’unico strumento a disposizione per la realizzazione di una policy.

Mentre però una legge può essere uno strumento attraverso cui una politica pubblica si articola e manifesta, non può essere certo l’unico e il solo, e ciò vuol dire che l’estensione e la precisione di una legge relativa ad una politica non coincide con l’estensione e la precisione della politica stessa. (Regonini, 2011, p.27).

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1.2 La definizione dei confini di una politica pubblica

Se una politica pubblica è dunque prima di tutto una categoria analitica i cui contenuti sono delineati dall’analista, è evidente il ruolo primario svolto da quest’ultimo per darle un volto e dei confini, a partire dai quali procedere poi al suo lavoro di analisi.

Non è facile delineare i confini di una politica pubblica, ad esempio Regonini (2011, p. 63) si chiede come sia difficile fissare i confini della politica sanitaria, e se essa possa includere o meno questioni come la programmazione degli accessi alla facoltà di medicina o la regolazione degli esperimenti sulla clonazione.

Vi sono poi casi in cui un intervento potrebbe avere interpretazioni diverse ed essere ricondotto a politiche differenti, aprendo un varco a polemiche e conflitti aperti.

Lo stesso Regonini (2011, p.64) aggiunge che vi sono politiche i cui confini sono in rapido mutamento, sottolineando come il lavoro di delimitazione di una politica non sia mai fatto definitivamente una volta per tutte, ma sia soggetto a una continua e necessaria ridefinizione, che deve seguire l’evolversi del tempo e degli eventi che la connotano.

Inoltre l’analista svolge la funzione interessante di gettare luce su interdipendenze tra interventi differenti e differenti politiche, le quali portano alla luce il modo in cui i problemi si percepiscono come legati secondo la percezione sociale corrente.

1.3 I filtri utilizzati dall’analista

L’analista, per stabilire quale siano i confini e quindi il contenuto di una data politica, può utilizzare due metodi, il metodo oggettivo e quello soggettivo.

Il primo metodo riduce notevolmente la discrezionalità del ricercatore nel delimitare i contenuti della politica pubblica in esame, in quanto prende in considerazione fattori istituzionali dati.

In questo caso l’attenzione del comparativista sarà indirizzata ad analizzare elementi che fanno formalmente riferimento a una specifica politica, come la legislazione, i programmi di intervento pubblico, le attività messe in atto da autorità e apparati amministrativi competenti, gli stanziamenti relativi ad essa, i corsi universitari, i manuali e le riviste specialistiche dedicati.

Questo metodo ha il pregio di aumentare il grado di intersoggettività dei risultati della ricerca, fondamentale nell’indagine scientifica, ma presenta due difetti non indifferenti.

Il primo difetto è costituito dal fatto che in questo modo una politica pubblica diventa sensibile, nella sua delimitazione e conformazione, ai processi di riorganizzazione amministrativa, come l’accorpamento di ministeri, lo scorporo di apparati amministrativi oppure ancora la ridenominazione di servizi.

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Il secondo difetto consiste nel fatto che questo metodo trascura di considerare tutte quelle politiche ancora senza un nome perché in fase embrionale o non ancora formalizzate a livello politico e sociale. In questo modo dunque il metodo oggettivo privilegia politiche pubbliche già affermate e di lunga data, a discapito di quelle recenti e in emersione.

Il metodo soggettivo al contrario da luce e fa emergere anche le politiche di più recente generazione e meno formalizzate e istituzionalizzate, lasciando ampi margini di discrezionalità all’analista. In questo caso però il difetto primario è quello di una riduzione nel grado di comunicazione intersoggettiva, ciò rende molto fragili i risultati della comparazione con casi studiati da altri analisti e soprattutto impedisce la validazione di alcune generalizzazione empiriche (Lanzalaco, Prontera, 2012, pp.36-37).

L’analista ricorrerà al metodo più opportuno in base alla tipologia e al grado di formalizzazione e istituzionalizzazione della politica in esame, privilegiando il metodo soggettivo per le politiche scarsamente formalizzate e di nuova emersione e quello oggettivo per le politiche consolidate ed espresse già ampiamente da strumenti formalizzati e istituzionalizzati.

1.4 Livelli di aggregazione e variabili

A questo punto è fondamentale sottolineare che il lavoro dell’analista non può essere quello di analizzare, e come vedremo poi comparare, una politica pubblica in toto, egli piuttosto dovrà concentrare la sua attenzione su un livello di aggregazione/disaggregazione della policy in questione, e su una o più specifiche variabili della policy stessa.

Possiamo distinguere cinque diversi livelli di aggregazione/disaggregazione di una politica pubblica: macro settori di intervento, politiche settoriali, programmi o misure, progetti e servizi, ognuno dei quali può essere oggetto di comparazione da parte dell’analista (Moro, 2005, p.27).

Inoltre una politica pubblica può essere oggetto di analisi in relazione a un ampio numero di variabili, le quali possono essere suddivise essenzialmente in tre gruppi.

Il primo gruppo è costituito dalle variabili riguardanti il processo di policy making, a loro volta suddivise in due sottogruppi.

Il primo sottogruppo comprende le variabili di tipo olistico, le quali riguardano la politica considerata nel suo complesso, mentre il secondo comprende le variabili di tipo fasico, ovvero quelle che si riferiscono a fasi e aspetti particolari del processo di policy making, come la formazione dell’agenda, la formulazione delle politiche o i processi di law making.

Il secondo gruppo di variabili invece comprende quelle riguardanti il contesto del policy making e anche qui possono essere distinti due sottogruppi di variabili.

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Il primo sottogruppo è quello a cui sono ascrivibili le variabili che riguardano il sistema politico in senso stretto, come il sistema partitico e gli assetti delle istituzioni, mentre il secondo è quello di cui fanno parte le variabili cosiddette ecologiche, cioè sociografiche, demografiche o culturali.

Il terzo gruppo di variabili invece comprende quelle che riguardano i rapporti tra il contesto e il processo di policy making, come ad esempio l’implementazione, l’outcome o l’impatto di una politica (Lanzalaco, Prontera, 2012, pp. 41-43).

1.5

Evoluzione storica dell’analisi delle politiche pubbliche

In Italia e in Europa in generale siamo molto lontani dalla concezione di politica pubblica radicata nei paesi di matrice statunitense.

Nel nostro Paese infatti campeggia una chiara e netta predilezione per una concezione di primato della politics sulla policy, secondo cui il miglioramento della qualità della vita collettiva dipenderebbe esclusivamente dalla politics invece che dalle policies.

Questa diversa concezione si evince anche dal fatto che, in italiano, disponiamo di un unico termine per indicare la politica, come se questo assorbisse in toto i due significati, subordinando del tutto le politiche pubbliche alla Politica con la P maiuscola, della quale le prime sarebbero solo variabili dipendenti.

Questa concezione di subordinazione delle policies alla politics è radicata ampiamente anche in chi si trova coinvolto nel processo di policy making, il quale dimostra spesso un vero e proprio “complesso di inferiorità” nei confronti dei politici coinvolti nelle lotte di partito.

Ciò è facilmente riscontrabile in una serie di interventi significativi riportati da Regonini (2011, p. 20):

“Il ministro della Sanità, il liberale Francesco De Lorenzo, dopo cinque anni alla guida del suo dicastero, alla domanda dell’intervistatore: ‘Se dovesse tirare un bilancio, rifarebbe il ministro della Sanità ?’ risponde: ‘Credo proprio di no. Dopo il governo Amato, basta. Tornerò a fare politica con la P maiuscola’ (“Corriere della Sera”, 13 gennaio 1993).

L’ex segretario della Democrazia Cristiana Ciriaco De Mita afferma in un’intervista: ‘Chi immagina la politica come una semplice risposta a un problema particolare è fuori strada […] Aldo Moro spiegava che ‘la politica non è un arido elenco di cose da fare’ (“Corriere della Sera”, 22 agosto 1997).

Inglesi e americani invece attribuiscono un termine e un peso ad entrambe, policy e politics, e questo è indice di due concezioni culturali del tutto differenti tra loro.

Ma l’importazione di un discorso di public policy nel nostro paese è ulteriormente complicata anche dal modo in cui in Italia è inteso l’aggettivo public, ovvero pubblico.

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Nella concezione prettamente italiana infatti, l’aggettivo pubblico è associato al concetto di statale o di spettatore, mentre nella letteratura politologica americana di matrice pragmatica questo termine rinvia a un impegno che coinvolge gli individui in quanto legati l’uno all’altro dalla convivenza all’interno di una medesima società, a un legame molto più solido delle formule politico-istituzionali che producono la sua concretizzazione (Regonini, 2011, p.21).

Lo stesso John Dewey (1916, p.225), uno dei padri fondatori della disciplina dell’analisi delle politiche pubbliche, si pronuncia in merito affermando come una democrazia sia molto più che una forma di governo, sia un modo di vivere insieme e di fare esperienze comunicandosele reciprocamente.

Anzi, occorre precisare che nel contesto politico e culturale americano spesso i due termini sono, oltre che distinti, anche contrapposti.

Harold Lasswell (1951, p.5) ad esempio, un altro dei fondatori delle policy sciences, afferma che il termine policy è libero da molte delle connotazioni spiacevoli legate al termine political, spesso identificato con i concetti di assunzione di ruoli partigiani e di corruzione.

Dunque senza ombra di dubbio la prospettiva italiana, e più ampiamente europea, è ben diversa da quella statunitense. Tuttavia ripercorrere le fasi attraverso le quali la disciplina si è evoluta e soprattutto conoscere in quale terreno culturale, sociale e politico essa affondi le sue radici, permette di capire queste differenti prospettive e concezioni.

1.6 Le radici e la storia

La disciplina dell’analisi delle politiche pubbliche affonda le sue radici negli Stati Uniti d’America, e questa maternità statunitense è evidente sia per quanto riguarda i padri fondatori della disciplina, sia per quanto riguarda la produzione intesa come opere, riviste e pubblicazioni.

Le radici statunitensi ne hanno condizionato anche, ovviamente, la prospettiva, tanto che secondo Hogwood (1984, p.27) gli autori americani spesso si caratterizzerebbero per un atteggiamento che lascerebbe trapelare la convinzione che le politiche pubbliche esistano solo negli Stati Uniti.

Negli Stati Uniti la disciplina dell’analisi delle politiche pubbliche ha avuto uno sviluppo intrecciato a quello della scienza politica in generale.

In particolare, due aspetti della scienza politica americana hanno cullato e favorito lo sviluppo e il decollo dei policy studies: il pragmatismo e la passione per l’osservazione dei comportamenti concreti, la quale ha trovato un’importante espressione nel comportamentismo.

A cavallo tra ottocento e novecento negli Stati Uniti iniziò a diffondersi la fiducia nei confronti di un approccio scientifico alla risoluzione dei problemi politici e sociali, dettata anche e soprattutto

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dal disincanto e dalla stanchezza nei confronti di una gestione della cosa pubblica basata su corruzione, degenerazione della competizione partitica, e sullo spoil system.

Sarà proprio Woodrow Wilson in questo periodo a tracciare le linee guida di una scienza progressiva della politica, in cui sarebbe stato necessario contrapporre a un parlamento oramai corrotto e compromesso una presidenza forte e un’amministrazione professionale. Quest’ultima, in particolare, avrebbe dovuto essere formata da specifici corsi universitari di scienza politica sulla base di tre criteri guida: competenza, efficienza ed efficacia (Regonini, 2011, p.35).

Questo programma era anche alla base e all’origine dell’APSA, American Political Science Association, fondata nel 1903 e di cui lo stesso Wilson fu presidente, prima di ricoprire la carica di presidente degli Stati Uniti.

Tuttavia la figura cardine nel saldare il rapporto tra la scienza politica e la tradizione americana del pragmatismo sarà quella di John Dewey.

Per Dewey infatti al centro della teoria pragmatica dell’indagine scientifica vi era la convinzione che il pensiero fosse un’attività orientata a trovare soluzioni a situazioni percepite come problemi (Regonini, 2011, pp.35-36) e l’accento del pragmatismo sul fatto che le buone politiche fossero le politiche che danno buoni risultati era in perfetta comunione con l’idea che si faceva spazio ai primi del novecento, ovvero quella secondo cui il dibattito ideologico dovesse lasciare spazio a una programmazione basata su dati e sperimentazione scientifica.

Così, in questo clima di nuova speranza nella scientificità e programmazione dell’intervento pubblico, molte università iniziarono ad incoraggiare la ricerca soprattutto nei settori della pianificazione territoriale e della lotta contro l’emarginazione urbana.

Questa tensione verso la soluzione pragmatica dei problemi che affliggevano la società americana si saldava con un ampio sviluppo della ricerca empirica articolatosi proprio in quegli anni, e in tal senso un ruolo fondamentale fu svolto dal gruppo di ricerca diretto da Charles Merriam all’Università di Chicago.

All’epoca Chicago offriva un ottimo spaccato delle tensioni sociali, politiche, economiche e razziali che travagliavano gli Stati Uniti. Charles Merriam poi ne aveva una conoscenza diretta in quanto aveva ricoperto, prima di dedicarsi totalmente alla ricerca, ruoli politici attivi nella città, fu infatti assessore comunale dal 1909 al 1911 e dal 1913 al 1917.

Nel 1911 Merriam non riuscì nell’intento di candidarsi come sindaco, e nel 1917 mancò nel riuscire ad essere designato come candidato repubblicano alle primarie. Questo di fatto segnò la fine della sua partecipazione alla politica di partito e l’inizio di una vita attivamente dedicata alla politica nella veste esclusiva di studioso.

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Merriam studioso dunque diventò presidente dell’APSA nel 1921, e nel 1923 assunse la direzione del Dipartimento di Scienza Politica dell’Università di Chicago. Nel 1924 fonda il Social Research Council, il quale si proponeva appunto di introdurre una maggiore scientificità ed efficienza nelle pratiche di governo.

Le iniziative intraprese da Charles Merriam avrebbero portato poi nel 1927 alla costituzione all’interno dell’American Political Science Association di un comitato sulle politiche pubbliche, il quale, nonostante un’attività modesta, fu indice dell’emergere di un interesse che si sarebbe consolidato negli anni seguenti.

Questa svolta incentrata sull’interesse per la ricerca empirica nell’ambito delle politiche pubbliche e sull’allontanamento da concezioni ideologiche a favore di un approccio quasi scientifico ha portato con sé quattro grandi innovazioni.

La prima di queste innovazioni ha riguardato l’introduzione degli indicatori sociali, ovvero di misurazioni sul disagio e sulla qualità della vita, e il loro inserimento in banche dati che avrebbero permesso un monitoraggio più agevole dell’andamento delle politiche in ambito sanitario, oltre che di quelle riguardanti la povertà e la criminalità.

In tale ambito lo stesso Merriam svolse un ruolo fondamentale, in quanto fu chiamato dal Presidente Hoover a dirigere il Research Committee on Social Trends (Regonini, 2011, pp.36-37).

La seconda innovazione è stata invece l’introduzione di criteri di programmazione nell’attività di governo degli Stati Uniti. Sia durante la Grande Depressione che durante il New Deal infatti, gruppi di ricercatori qualificati furono coinvolti nel formulare soluzioni per problemi come disoccupazione, emarginazione e povertà, utilizzando un approccio multidisciplinare che sarebbe stato poi tipico della disciplina dell’analisi delle politiche pubbliche così come noi ancora la conosciamo.

Ad esempio Charles Merriam fece parte del National Planning Board dal 1933 al 1943. Tra il 1933 e il 1943 il National Resources Planning Board (NRPB) agì come l’unica agenzia di pianificazione nazionale nella storia degli Stati Uniti.

Il NRPB fu creato nel luglio 1933, e alla sua guida furono posti, assieme a Merriam, anche il pianificatore Frederic A. Delano e l’economista Wesley Clair Mitchell. Si sarebbe in seguito evoluto da un organismo di pianificazione puramente politica ad uno volto alla pianificazione anche sociale ed economica, e in seguito alla riforma riorganizzativa del 1939 divenne parte dell’ufficio esecutivo del presidente Roosevelt.

A seguito di tensioni crescenti tra il Congresso e il presidente sulle pianificazioni durante e dopo il secondo dopoguerra infine il NRPB cessò di esistere.

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Un’ulteriore prova concreta del forte legame intessuto in quel periodo tra centri di governo e comunità scientifica fu il Brain Trust, voluto dal presidente Roosevelt e composto per la maggior parte da professori della Columbia Universiy.

La terza innovazione introdotta in questo periodo fu poi l’interesse per i problemi delle amministrazioni locali, infatti a Chicago Merriam fondò il Chicago Bureau of Municipal Research, mentre esperimenti simili furono condotti in università quali Columbia, Harvard e Yale (Regonini, 2011, p.38).

L’ultima innovazione è stata infine l’assunzione del problema dell’organizzazione del governo e dell’amministrazione da parte degli scienziati sociali. Una diretta espressione di ciò si riscontra nella costituzione da parte del Presidente Roosevelt di una commissione nel 1937, il President’s Committee on Administrative Management, del quale facevano parte tre figure cardine dell’APSA, ovvero Charles Merriam, Luther Gulick e Louis Brownlow.

Questa commissione ebbe l’arduo compito di cambiare totalmente il volto dell’amministrazione americana, a partire dai massimi vertici, e rimane nella memoria storica la celebre frase con cui essa aprì il proprio rapporto finale: “The President needs help”.

Easton (1953, p.64) sottolinea come si fosse a un vero e proprio punto di svolta:

Oggi (1953) i legami fra parlamenti nazionali o statali e i circoli universitari sono solidi e numerosi. Lo storico rapporto del President’s Committee on Administrative Management fu opera quasi esclusiva di specialisti che possedevano una formazione precisa nelle scienze politiche, e la recente commissione Hoover sulla “organizzazione del ramo esecutivo del governo” ha fatto largo uso delle loro conoscenze. Il fatto frustrante, per molti scienziati politici, che il loro consiglio tecnico sia spesso rimasto inascoltato, dà un’idea tanto dell’andamento imprevedibile dei conflitti decisionali all’interno del processo politico, quanto della validità di quei suggerimenti”

In Europa invece lo sviluppo della disciplina dell’analisi delle politiche pubbliche si è articolato molto diversamente e ha ottenuto risultati assolutamente non paragonabili a quelli statunitensi, sia per quanto riguarda l’ampiezza delle ricerche, che per la diffusione delle scuole di public policy, che per la rilevanza dei centri di ricerca indipendenti, altresì denominati think tanks.

Inoltre la diffusione di tale disciplina e la creazione di appositi corsi di studio, master e figure professionali in merito risale a tempi molto recenti, e i primi studi in Europa sono stati compiuti da ricercatori formatisi negli Stati Uniti, successivamente tornati in patria applicando un metodo appreso oltreoceano.

Sono essenzialmente tre i gruppi di variabili che giustificano il ritardo con cui la disciplina si è diffusa in Europa.

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Il primo di questi riguarda le caratteristiche politiche e istituzionali che distinguono il sistema europeo da quello statunitense. Negli Stati Uniti vi è un sistema partitico semplice e stabile dal 1869, una costituzione basata sulla separazione dei poteri, un esecutivo con una legittimazione propria forte e distinta, ma sempre nell’ambito di un contesto caratterizzato da pesi e contrappesi. Non bisogna poi trascurare che si tratta di un sistema federale basato sulla divisione funzionale tra le giurisdizioni.

Questi tratti distintivi del sistema americano convergono nel restringere l’importanza dell’arena

political, dando un peso maggiore alle soluzioni particolari, e questo è quanto di più distante dalla

modalità di funzionamento delle democrazie europee, che invece prediligono e danno ampio spazio all’arena political.

Il secondo gruppo di variabili riguarda le teorie che definiscono la sfera pubblica e le sue articolazioni interne, e in questo senso, come già specificato supra troviamo una grande discrepanza tra ciò che si intende per pubblico nella versione americana dell’aggettivo e ciò che si intende invece nella concezione europea.

In ultimo, il terzo gruppo di variabili riguarda le modalità con cui sapere e potere si incastrano tra loro, che in Europa sarebbero caratterizzate da un’intolleranza da parte di governanti e politici in generale alla consulenza indipendente. Dunque la difficile diffusione dei policy studies al di fuori dei confini statunitensi sarebbe da attribuire all’autoritarismo implicito nella cultura del policy

making europeo (Regonini, 2011, pp.40-41).

1.7 Il caso italiano

La disciplina dell’analisi delle politiche pubbliche attecchisce in Italia e acquisisce importanza come autonomo e originale campo di ricerca intorno alla metà degli anni ‘80, in ciò segnalato dall’emergere di corsi di studio specifici in alcune università.

Tuttavia sarà negli anni ‘90 che raggiungerà ampiezza e visibilità reali in termini di ricerche e pubblicazioni. Prima di quegli anni infatti, come si evince dalla rassegna dei contributi di scienza politica che furono pubblicati in Italia dal 1945 al 1988 (Morlino et al, 1989, p.37), l’attenzione degli scienziati politici italiani non era ancora rivolta a questa disciplina, né le case editrici italiane investivano risorse, anche lontanamente degne di nota, nella traduzione di autori classici in ambito di studio delle politiche pubbliche, come Lowi, Allison o Wildavski.

Nonostante questo ritardo è importante sottolineare che anche nel passato furono compiute ricerche riguardanti singoli settori dell’intervento pubblico, ma che tali ricerche furono compiute non da politologi, bensì da studiosi con altre specializzazioni. Si trattò in primo luogo di giuristi, il cui ruolo preminente sottolinea il primato del diritto come disciplina sociale nel nostro paese, e i

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quali negli anni ‘60 si opposero anche allo sviluppo della scienza politica come disciplina autonoma (Bobbio, 1969, pp.19-25).

Questa preminenza tutta italiana del diritto come paradigma in cui codificare disagi e soluzioni determina una lettura delle problematiche, dei fallimenti e delle soluzioni politiche sociali ed economiche in termini di norme, più o meno adeguate, e di violazione delle stesse.

Tuttavia, all’inizio degli anni ’80 i politologi hanno iniziato ad assumere ruoli rilevanti nel campo delle riforme istituzionali, diventando una presenza sensibile e attiva sia nel dibattito teorico e nelle discussioni pubbliche che nel parlamento.

In Italia ciononostante persiste, anche oggi che la disciplina ha trovato un suo spazio d’espressione nel nostro paese, l’idea che le politiche pubbliche siano del tutto condizionate da giochi politici, alleanze e strategie di partito, e che quindi non abbia senso fare delle politiche pubbliche un campo di ricerca autonomo.

Del resto anche negli osservatori stranieri l’interesse verso il caso italiano negli ultimi decenni si è focalizzato sul sistema partitico, che ne costituisce la sua specificità (Morlino, 1989, p.61).

Ma ciò che sembra spiegare ulteriormente questa netta propensione italiana verso una posizione gerarchicamente più elevata della politics rispetto alle policies sembra risiedere anche nella differente riflessione sul potere sviluppatasi sui due lati dell’Atlantico.

Oltreoceano, come afferma Regonini (2011, pp.50-51):

[…] questo concetto di potere rivela le sue potenzialità euristiche solo quando acquista specificità, perché ancorato a precisi conflitti allocativi intorno a determinate categorie di risorse […] Insomma, sono le diverse politiche pubbliche a costituire le arene entro le quali prendono forme variegate e raramente sovrapponibili le relazioni di potere.

Queste parole, che esprimono come per una parte molto ampia e importante della scienza politica americana il potere non costituisse il fulcro della ricerca politologica, sono in netto contrasto con l’orientamento prevalente invece nella scienza politica italiana. Emerge inoltre la chiara diffidenza dei policy studies di matrice statunitense per ogni tipo di legame tra il concetto di pubblico e quello di Stato.

Al contrario le radici dell’orientamento differente della disciplina nel nostro paese possono essere ricercate nella tradizione cinico-realistica italiana.

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1.8 Comparare le politiche pubbliche: Il compito del comparativista e gli approcci

alla comparazione

Bisogna prima di tutto premettere che il lavoro del comparativista non può essere quello di analizzare e comparare delle politiche pubbliche intese in toto, ma piuttosto di concentrare la sua attenzione su uno specifico livello di aggregazione/disaggregazione delle policies in questione, e su una o più specifiche variabili delle policies stesse.

Guy Peters (2001, p.11) specifica come il compito del comparativista consista in:

[…] approntare i metodi necessari a costruire proposizioni teoretiche e analitiche significative, che concernono il governo e la politica così come si presentano nei contesti complessi e spontanei del mondo reale. […] le nostre proposizioni devono essere in grado di collegare le osservazioni compiute in un dato sistema politico con quelle ricavate da un altro sistema politico, oppure devono consentirci di raccordare le osservazioni compiute rispetto a un dato sistema politico alle proposizioni generali della politica.

Il comparativista può svolgere il suo compito utilizzando però approcci differenti, e nello specifico può utilizzare il metodo configurativo o quello dell’analisi statistica, i quali hanno una medesima dignità, ma un differente equilibrio tra complessità e generalizzazione.

Infatti, tanto più un approccio si sofferma sul contesto e sulle complessità di una policy tanto meno la strategia di ricerca sarà capace di produrre generalizzazioni a riguardo, al contrario quanto più un approccio tenta di fornire generalizzazioni e di sottoporre a verifica teorie generali della politica tanto minore sarà la capacità di fotografare la complessità e le sfumature dei sistemi politici interessati.

Nell’approccio configurativo lo scopo essenziale è descrivere con minuzia di dettagli uno o più casi, arrivando a una comprensione approfondita dei casi in questione.

In questo approccio vengono considerate variabili istituzionali e micro politiche, mentre si evita di rivolgere l’attenzione a tratti specifici del caso considerato. Ci si concentra sul comprendere il contesto sociale, culturale ed economico della politica, entrando in questo modo in tensione con la visione più convenzionale della scienza, che richiede la intersoggettività e la trasmettibilità dei risultati e dei metodi (Peters, 2001, pp.14-15).

La spiegazione statistica invece ha uno scopo differente, quello di verificare proposizioni sulle variabili politiche in paesi diversi e in diversi contesti. Le caratteristiche di questi contesti sono ritenute irrilevanti, a meno che esse non intralcino la misurazione delle variabili che sono ritenute interessanti dal ricercatore, generino errori di varianza o varianze estranee.

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Nella spiegazione statistica i fattori culturali, nel raro caso in cui vengano considerati, hanno un ruolo residuale, vengono in rilievo solo quando ogni altro fattore misurato si rivela inadeguato a spiegare la variabile dipendente esaminata.

Ovviamente spetterà al comparatista decidere caso per caso quale approccio utilizzare, talvolta integrando in una stessa ricerca i due approcci, magari in momenti susseguenti tra loro (Guy Peters, 2001, pp.13-16).

Nell’ambito della politica comparata si possono distinguere almeno cinque tipi di studi: studi su paesi singoli; analisi di processi e istituzioni simili in un numero ristretto di paesi; studi che giungono a tipologie o altri schemi classificatori per paesi o unità subnazionali; studi su paesi facenti parte di determinati sottoinsiemi di paesi del mondo, solitamente selezionati su base geografica o in base al livello di sviluppo; analisi statistiche di tutti i paesi del mondo. Di seguito i cinque tipi di studi verranno brevemente esaminati.

Studio sul singolo paese

Partiamo dallo studio su paesi singoli. La debolezza che emerge intuitivamente da questo approccio è che non sembra essere un approccio realmente comparativo, quanto una descrizione della politica così come si manifesta in un determinato posto. Sartori (1991, p.243) infatti esprime a riguardo il suo punto di vista negativo:

[…] Uno studioso che si occupi solo dei presidenti americani è un americanista, mentre uno studioso che studia solo i presidenti francesi è un comparativista. Non chiedetemi se tutto ciò abbia senso – non lo ha per niente. Ma resta il fatto che un campo di ricerca denominato politica comparata è densamente abitato da non – comparativisti, cioè da studiosi che non hanno alcun interesse alla comparazione, né alcuna nozione o formazione di tipo comparativo.

Sono in gran parte gli ostacoli della lingua, della formazione culturale e della limitatezza dei fondi della ricerca a spingere un gran numero di studiosi verso lo studio di casi singoli, e tuttavia occorre riconoscere che questo tipo di studi ha apportato e continua ad apportare contributi notevolmente importanti.

In primo luogo questi studi forniscono materiale prezioso e dettagliato per successivi studi di comparazione riguardanti più paesi.

In secondo luogo permettono di sviscerare un concetto che si dimostra di cruciale importanza in un contesto e successivamente di rilevarlo e utilizzarlo nell’analisi di più contesti differenti.

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Studi del processo e delle istituzioni

Questo secondo tipo è composto da studi che selezionano un numero ristretto di aspetti riguardanti un processo o un’istituzione, basandosi sulla loro somiglianza sotto alcuni profili significativi e utilizzando quegli aspetti per chiarire la natura del processo o dell’istituzione stessa, o ancora per interpretare la politica del paese nel quale si collocano.

In questo tipo di studi si assume che le istituzioni e i processi considerati siano quasi indipendenti dal contesto in cui si trovano, dunque gli studiosi in essi impegnati utilizzano dati comparativi per sviluppare una teoria relativa a un aspetto specifico della vita politica (Guy Peters, 2001, pp.21-22).

Costruzione di tipologie

Il terzo tipo di studi riguarda la costruzione di schemi classificatori e/o tipologie di paesi o di differenti componenti del sistema politico. Un esempio è costituito dal tentativo compiuto da Lijphart (1968, pp. 3-44) di classificare i sistemi politici democratici a seconda delle attitudini o degli stili delle loro élite politiche e del grado di frammentazione della cultura politica di massa.

La sua classificazione ha condotto a quattro categorie di sistemi politici democratici: centripeti (con cultura politica e società omogenee e élite politica competitive); centrifughi (con cultura politica e società frammentate e élite competitiva); depoliticizzati (con cultura politica e società omogenee e élite coalescente) e consociativi (con cultura politica e società frammentate e élite coalescente).

Altre forme di classificazione sono ad esempio le tassonomie, ovvero semplici elenchi dei principali tipi all’interno di una classe, che a differenza delle tipologie non implicano l’interazione tra più variabili.

Studi statistici regionali

Si tratta di studi condotti su un gruppo limitato di paesi, generalmente tutti appartenenti alla medesima area geografica. Questi studi hanno come scopo verificare ipotesi sulla politica in quella specifica regione e formulare generalizzazioni circoscritte che potrebbero successivamente essere estese all’intero campo dei fenomeni politici laddove l’ipotesi si rivelasse corretta nella regione di partenza. Un esempio di questo tipo di studi è costituito dall’ampissimo numero di quelli dedicati al welfare state nell’Europa Occidentale ( Hicks e Swank, 1992; Esping- Andersen, 1990; Leibfried e Pierson, 1995).

Uno dei problemi di questo tipo di studi è che, nel momento in cui vengono estesi al di fuori dell’area regionale di partenza dell’indagine, essi incoraggiano lo stiramento dei concetti. Per

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esempio, se il welfare state ha una valenza ben precisa per gli europei, negli Stati Uniti lo stesso termine ha un significato sostanzialmente diverso, e addirittura nello stesso ambito europeo non è scontato che alcuni termini del linguaggio politico e sociale siano interpretati allo stesso modo, soprattutto tra Europa del Nord e del Sud.

In termini di compromesso tra complessità e generalizzazione questo tipo di studi rinuncia alla prima a favore della seconda.

Studi statistici globali

Questo tipo di studi si effettua sull’intero universo dei paesi del mondo. L’esempio più rappresentativo è costituito da A Cross-Polity Survey, di Banks e Textor (1971), in cui vengono classificati tutti i paesi del mondo sulla base di un certo insieme di variabili politiche correlate tra loro.

Questo tipo di studi mirano ad accumulare il maggior numero di dati possibile, impiegandoli per cercare di individuare alcune regolarità generali della politica che siano applicabili a tutti i paesi del mondo, in una prospettiva sincronica.

Questi studi hanno dato un contributo importante negli anni tra il 1960 e il 1980, in quanto hanno dimostrato la possibilità di applicare le medesime idee e misurazioni utilizzate per i paesi dell’Europa Occidentale e dell’America del Nord ai paesi in via di sviluppo dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina.

Tuttavia occorre sottolineare come tali studi presentino anche un certo numero di difetti tangibili, il primo dei quali è condiviso con gli studi regionali, ovvero lo stiramento dei concetti. È infatti evidente come ogni misurazione empirica di un concetto come quello di “democrazia” incontra difficoltà nell’essere esportato in contesti caratterizzati da storie culturali, sociali ed economiche differenti da quelle dei paesi europei occidentali (Guy Peters, 2001, pp. 28-29).

Oltre alla comparazione tra unità geografiche distinte il ricercatore potrà procedere anche alla comparazione tra una stessa unità considerata in momenti temporali differenti, quindi in una prospettiva diacronica. Occorre però sottolineare come tale tipo di analisi sia utilizzata poco spesso nella scienza politica, a causa della mancanza di dati organizzati correttamente in serie temporali su un numero di variabili sufficiente oltre a quelle impiegate di solito nell’analisi politologica, ovvero quelle relative al voto o alla spesa pubblica (Guy Peters, 2001, p.32).

Ognuno degli approcci considerati presenta punti di forza e punti di debolezza, appare chiaro dunque come sia necessario riconoscere sia i primi che i secondi e valutare con attenzione i risultati che se ne potranno ricavare, prendendo perfino in considerazione la possibilità di utilizzare più

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approcci in maniera combinata e in tempi seguenti. Spetterà al ricercatore determinare quale stile di ricerca utilizzare e quale studi prediligere, in base ai suoi obiettivi di ricerca, prendendo anche in considerazione i costi derivanti da ciascun approccio.

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Il disegno della ricerca comparata

Nella ricerca comparata è fondamentale rispettare tre compiti: massimizzare la varianza sperimentale, minimizzare l’errore di varianza e controllare la varianza estranea.

Massimizzare la varianza sperimentale

Per quanto riguarda il primo compito, la varianza sperimentale è costituita dalle differenze o cambiamenti osservabili nella variabile dipendente, i quali sono funzioni delle variabili indipendenti che vengono identificate come centrali nell’analisi. La variabile dipendente, che deve essere individuata, è qualcosa che si intende spiegare, e può essere di natura dicotomica, come ad esempio il verificarsi o meno delle rivoluzioni, oppure continua, come la spesa sociale pro capite in un insieme di paesi (Guy Peters, 2001, pp.39-40).

Ad ogni modo, quale che sia la natura della variabile dipendente è compito del ricercatore accertarsi che essa vari davvero, e in maniera sensibile, perché come specifica Guy Peters (2001, p.40):

Per esempio, diversi studi recenti sulla democratizzazione si sono occupati soltanto di quei casi nei quali la democratizzazione si è compiuta con successo […] e collocano sempre le differenze all’altro estremo del continuum, cioè nei casi di fallimento della democratizzazione. Tuttavia, questa assunzione non è mai stata davvero verificata. Potrebbe pertanto darsi il caso che le variabili usate per “spiegare” la democratizzazione riuscita registrino di fatto grosso modo gli stessi valori anche nei paesi nei quali la democratizzazione fallisce.

La pratica di selezionare i casi in base ai valori della variabile dipendente è stata bollata come uno dei peccati mortali […] tuttavia che è stato commesso frequentemente. […] Se tra la democratizzazione riuscita e determinate variabili, che si presuppongono indipendenti, ci sono relazioni degne di attenzione, non saremo in grado di sapere se queste relazioni sono davvero diverse da quelle che si possono rintracciare nei casi di fallimento della democratizzazione, oppure nei regimi autoritari che non hanno neanche tentato la democratizzazione. Queste relazioni potrebbero essere infatti semplicemente delle proprietà dei sistemi che sono stati autoritari in una certa fase della loro storia.

Minimizzare l’errore di varianza

Il secondo imperativo è quello di minimizzare l’errore di varianza, il quale consiste nella porzione di varianza osservata nella variabile dipendente che è provocata da circostanze casuali e da

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errori di misurazione. È importante tuttavia sottolineare come un certo numero di errori di misurazione sia pressoché inevitabile (Guy Peters, 2001, p.41).

Laddove vi sia stata una selezione dei casi affrettata, delle osservazioni fallaci da parte del ricercatore oppure l’interpretazione sbagliata di certi comportamenti in contesti culturali diversi sarà molto difficile porre rimedio e si arriverà con altissima probabilità a delle conclusioni fuorvianti.

Questo depone a favore della necessità di selezionare accuratamente i casi e di raccogliere cautamente i dati, assicurandosi che i casi scelti siano effettivamente comparabili tra loro.

Controllare la varianza estranea

Guy Peters (2001, p.42) identifica la varianza estranea come il fenomeno che si palesa nel momento in cui un ricercatore scopre l’esistenza di una relazione, statistica o meno, tra X e Y, ma scopre anche contemporaneamente l’esistenza di una variabile Z in relazione sistematica con X e con Y. L’autore sottolinea inoltre che questo accade in moltissime situazioni nella ricerca comparata, infatti nel momento in cui un ricercatore seleziona un paese per includerlo all’interno di un’indagine comparata sarà estremamente difficile stabilire se la causa vera dell’andamento della variabile dipendente sia riconducibile alle variabili indipendenti adottate, in quanto tutti i fattori nazionali gli si presenteranno contestualmente.

Si evince dunque come sia difficile rilevare e minimizzare la varianza estranea, ma ciò non è impossibile, in quanto vi sono una serie di difese attuabili contro di questa.

La prima difesa risiede nell’ancorare il disegno di ricerca ad una solida teoria, che permetta al ricercatore di determinare se le variabili di controllo utilizzate nell’analisi statistica siano corrette o se si stanno prendendo in considerazione i fattori appropriati nella selezione dei casi. In questo modo però si può incorrere nel rischio di non riuscire a verificare veramente la teoria, se si dà per scontato che la sua guida nella selezione dei casi e delle variabili di controllo sia comunque affidabile (Guy Peters, 2001, p.43).

Altri tipi di difesa sono il ricorso all’analisi delle serie temporali o all’impiego di unità subnazionali ricavate all’interno di ciascun paese.

Una delle difficoltà associate al controllo della varianza estranea è causato dalla globalizzazione, la quale spesso non permette di distinguere se un determinato fenomeno osservato all’interno di un paese sia l’esito di un processo di diffusione globale o il prodotto di un processo politico endogeno. Questo tipo di problemi è comunemente noto nelle scienze sociali come “problema di Galton”, ovvero il problema di discriminare la diffusione dalle altre cause di varianza nei sistemi sociali.

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Sfide alla validità della ricerca non sperimentale

Quando si parla di validità del disegno di ricerca occorre specificare che esistono due accezioni della stessa: validità interna e validità esterna.

La validità interna è la capacità di verificare che al co-variare delle variabili indipendente e dipendente i cambiamenti registrati nella variabile indipendente siano davvero la causa dei cambiamenti registrati in quella dipendente (Guy Peters, 2001, p.57).

La validità esterna invece si riferisce al fatto che la relazione osservata tra le variabili utilizzate nel disegno di ricerca sia generalizzabile al mondo reale o meno.

Generalmente i disegni di ricerca sperimentale presentano condizioni più favorevoli affinché la validità interna sia elevata, ma la validità esterna lo sia di meno. Al contrario i disegni di ricerca utilizzati in scienza politica presentano tendenzialmente un elevato grado di validità esterna ma un basso grado di validità interna.

Occorre però sottolineare come sia difficile utilizzare il metodo sperimentale nella ricerca politica, per cui sembra più opportuno soffermarsi sui problemi di validità interna e sulle modalità per farvi fronte.

Utilizziamo per questo fine l’elencazione di Donald Campbell e Julian Stanley (1967) delle minacce alla validità interna, particolarmente utile ed esauriente.

Una prima minaccia è costituita dalla storia, in quanto le interazioni tra le variabili indipendente e dipendente possono essere condizionate dai cambiamenti che si svolgono nell’ambiente in cui esse interagiscono. Ad esempio, mentre l’opinione pubblica britannica sembra maggiormente preoccupata dalla minaccia della disoccupazione, quella tedesca teme di più lo spauracchio dell’inflazione. Questo perché le due democrazie occidentali hanno avuto una storia economica differente, infatti tra le due guerre mondiali la Gran Bretagna ha sofferto per la disoccupazione di massa, mentre la Germania a causa dell’inflazione. Di conseguenza un cambiamento nelle variabili economiche probabilmente avrebbe un risultato differente nei due sistemi e altererebbe i risultati delle ricerche sugli effetti dell’economia sul comportamento politico (Lewis-Beck, 1988).

La seconda minaccia è costituita dal pregiudizio nella selezione dei casi da parte del ricercatore, il quale potrebbe selezionare i casi scegliendo quelli con i quali ha maggiore dimestichezza anche se questi non sono i più adatti per la ricerca in questione.

Un’ulteriore minaccia è costituita dai pregiudizi che potrebbero inquinare la scelta degli strumenti teorici e metodologici da parte dello studioso, il quale porta comunque con se un bagaglio di pregiudizi teorici o legati alla sua origine nazionale e al suo carattere.

Inoltre, oltre a queste circostanze esterne che possono costituire una minaccia alla validità interna, vi sono anche circostanze interne che possono minarla.

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Ad esempio vi possono essere dei cambiamenti inerenti agli stessi fenomeni che si intendono studiare, come può accadere nel caso di un rimpasto di un esecutivo, avvenuto mentre uno studioso ne stia seguendo il processo deliberativo nell’ambito di un’indagine volta a studiare il processo decisionale degli esecutivi.

Ultima causa di invalidazione è la “regressione attorno alla media”, difetto che emerge quando si selezionano i casi per la ricerca sulla basi di valori estremi della variabile dipendente. Si tratta in questo caso di una versione particolare del problema della selezione dei casi in basi alla variabile dipendente.

Tutte queste minacce, ben delineate da Guy Peters (2001, pp. 62-64), sono quasi inevitabili nella ricerca non sperimentale, per cui ciò che il ricercatore può fare è esserne consapevole e cercare di ridurne l’impatto il più possibile.

La selezione dei casi: sistemi massimamente somiglianti/ sistemi massimamente differenti

La questione della selezione dei casi è di primaria importanza, ed è stata sollevata da Adam Przeworsky e Henry Teune (1970), i quali hanno fornito una distinzione dicotomica tra disegni di ricerca basati su sistemi massimamente somiglianti e disegni di ricerca basati su sistemi

massimamente differenti. Ai due poli di questa distinzione dicotomica vi è quindi da un lato la

selezione di casi che hanno un massimo grado di somiglianza e dall’altro la selezione di casi che hanno un massimo grado di diversità.

Un esempio di sistemi massimamente somiglianti è quello effettuato da Theda Skocpol nella sua analisi storica delle rivoluzioni in Francia, Russia e Cina (1979). L’autrice si chiedeva quale fosse la proprietà comune, in questi sistemi massimamente differenti, che causava la produzione al loro interno di eventi politici simili.

Al contrario un esempio di sistemi massimamente differenti è quello rappresentato dall’analisi effettuata da Peter Aucoin (1995) sulle democrazie angloamericane.

Questi due tipi di disegni di ricerca possono inoltre essere combinati nell’analisi comparata, come è stato mostrato nel lavoro di Gisele De Meure e Dirk Berg-Schlosser sul successo e sul fallimento dei regimi democratici in Europa nelle fasi che succedono alle guerre.

In questa ricerca gli autori hanno prima suddiviso i vari paesi in gruppi simili per quanto riguarda le somiglianze legate alla persistenza o al crollo della democrazia e in seguito si sono concentrati sui paesi massimamente differenti all’interno di ciascun gruppo.

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Quanti casi per una comparazione efficace?

Non è possibile stabilire a priori quale sia il numero di casi ottimale affinché una comparazione risulti efficace. La scelta del numero dei casi da considerare dipende dalle circostanze e dagli obiettivi della ricerca.

Uno dei motivi per condurre una ricerca su un solo caso è la necessità di caratterizzare un certo fenomeno che ricorre in un contesto del tutto peculiare. È la strategia del “caso estroverso” così chiamata da Richard Rose (1991). In questo caso il ricercatore individua e studia un caso che rappresenta un’eccezione alla teoria dominante o che sia stato precedentemente escluso dalla letteratura, allo scopo di criticare o espandere la teoria esistente.

Un altro motivo per studiare un solo caso, e nello specifico un caso controverso, è verificare se la teoria utilizzata funzioni anche in quel contesto, in questo caso dimostrando che tale teoria sia valida sempre.

Infine lo studio del caso singolo può avere finalità proto-teoriche (Guy Peters, 2001, p.75).

Dunque tale studio sembra avere un ampio ventaglio di finalità e resta una componente fondamentale della politica comparata, anche a causa dei limiti posti ai ricercatori dalla scarsità di risorse economiche necessarie per estendere le ricerche a più paesi.

L’utilizzo di due casi invece sembra essere a prima vista più ragionevole, se non altro perché vi è davvero qualcosa da comparare. Tuttavia in questo caso il problema che si pone può essere definito come “sovra-causazione della variabile dipendente”, ovvero vi è un’incongruenza tra il numero ridotto dei casi considerati e le molte variabili che ricorrono nell’analisi, quindi vi sono troppe spiegazioni possibili per le variabili dipendenti, e non è facile operare una scelta tra esse (Guy Peteres, 2001, p.76).

Se però il ricercatore si focalizza su una istituzione specifica, una politica o un processo singolo i problemi diminuiscono, in quanto la varianza estranea potenziale si riduce.

In definitiva si può affermare che le comparazioni di pochi casi sembrano essere più utili a generare ipotesi che ad effettuare il loro controllo (Guy Peters, 2001, p. 80).

Un metodo alternativo per risolvere il problema della sovra-determinazione della variabile dipendente consiste nel ridurre il numero delle variabili indipendenti incluse nell’analisi. Questa riduzione può essere effettuata in due modi, esemplificati dallo stesso Guy Peters (2001, p.81):

Innanzitutto, servendosi di una teoria più elegante e stringente, con un numero minore di variabili esplicative presunte rispetto a quelle proposte dalle teorie rivali. […] Collier impiega il modello della scelta razionale, introducendo pochissime variabili e delle ipotesi relativamente semplici.

Il pericolo insito in questa strategia di riduzione delle variabili sta nel fatto che in questo modo il ricercatore esclude indebitamente possibili spiegazioni concorrenti del fenomeno in oggetto.

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[…] Inoltre, un approccio così forte come quello della scelta razionale può contenere al suo interno molte assunzioni non dimostrate che, sotto molteplici punti di vista, rappresentano esse stesse delle ipotesi.

Il secondo modo per risolvere tale problema consiste nell’intervenire sul piano empirico per ridurre le variabili indipendenti.

Ad esempio per ridurre le variabili fortemente correlate, ovvero il problema della “collinearità”, si può ricorrere a una serie di tecniche statistiche, come ad esempio l’analisi fattoriale, l’ideazione di indici e l’aggregazione dei dati.

Tuttavia nei casi in cui si interviene a livello empirico per ridurre le variabili dipendenti c’è sempre il rischio che il ricercatore possa essere spinto a individuare casi di successo o fallimento decidendo in seguito di studiare solo uno dei due gruppi (solo i casi compiuti o solo quelli incompiuti).

In questo caso il problema è che non vi è una reale varianza da spiegare, studiando ad esempio solo casi di democratizzazione compiuta non è possibile essere sicuri che il modello osservato in un determinato contesto non si manifesti anche in casi in cui la democratizzazione fallisce o in casi in cui non si è neppure avviato un processo di democratizzazione.

Laddove vi sia scarsità di casi utilizzabili per la ricerca, o se i ricercatori siano impossibilitati ad analizzarli tutti a causa di scarsità di fondi vi sono delle modalità interessanti per aumentarne il numero.

La prima di queste è il ricorso ad argomenti controfattuali, di cui hanno tessuto le lodi Nelson Polsby (1982) e James Fearon (1991) il quale in particolare sostiene che questo sia un rimedio almeno parziale che permette al ricercatore di ottenere della varianza, anche laddove questa nella realtà dei fatti non vi sia.

La seconda modalità è l’utilizzo di analogie. Ad esempio si può riflettere creativamente sul fattore tempo, impiegando casi storici simili per spiegare degli eventi contemporanei.

Un’ultima tecnica utilizzata nella comparazione e volta a ridurre il numero di variabili indipendenti, mantenendo dunque costanti il maggior numero possibile di fattori socioeconomici e politici, è quello di studiare “gruppi naturali” di nazioni relativamente omogenee (Guy Peters, 2001 pp. 85-88).

Per quanto riguarda infine le comparazioni in cui vengono utilizzati un numero significativo di casi, e in modo specifico le comparazioni globali, occorre sottolineare che all’aumentare dei casi presi in considerazione corrispondono due limiti significativi.

In primo luogo è molto difficile approntare delle misure che siano applicabili a un intero ventaglio di paesi molto differenti tra loro.

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In secondo luogo si perde la concezione di un paese inteso come entità ricca di significato, e la ricerca si trasforma in una analisi statistica generale.

In base a quanto detto finora appare chiaro, come conclude Guy Peters (2001, p.90), che l’ampiezza e la natura del campione di casi da selezionare e da comparare dovrebbe essere determinato sulla base degli interrogativi che si intendono affrontare e non sulla base di idee preconcette.

1.10 La metodologia utilizzata: lo studio del Policy Making

Nella disciplina dell’analisi delle politiche pubbliche si possono evidenziare due approcci differenti tra loro, corrispondenti a due poli di studio, un primo con finalità prettamente prescrittive e un secondo con finalità descrittive.

Il primo polo, ovvero quello prescrittivo, si sviluppa contestualmente ai primi passi mossi dalla disciplina stessa. Ciò è parso evidente parlando della volontà e dei progetti Wilsoniani di smantellare il carattere corrotto e compromesso del sistema amministrativo della cosa pubblica, contrapponendo ad esso una nuova presidenza e una nuova amministrazione, forti di una solida preparazione incentrata sui criteri di competenza, efficacia e efficienza (Regonini, 2001, p.35).

Il secondo polo invece è quello con aspirazioni più prettamente accademiche, il quale talvolta costituisce il primo passo verso la prescrizione mentre altre ancora ha il solo scopo di fotografare le soluzioni messe in campo da una data società in un dato momento.

Oltre alla distinzione tra questi due poli occorre fare riferimento a un’ulteriore differenza, questa volta riguardante il metodo della ricerca utilizzato, che si distingue per essere induttivo o deduttivo. Alla prima tipologia corrispondono tutte le indagini che prendono il via dalla raccolta dei dati e dalla loro analisi per poi trarre conferma o smentita delle ipotesi, mentre alla seconda tipologia corrispondono le indagini che partono da assunti precisi riguardo le caratteristiche degli attori e dei processi per poi giungere a confermare o smentire le ipotesi date.

La tradizione di ricerca legata allo studio sul Policy Making, nella quale questo lavoro intende inserirsi, è caratterizzata da finalità descrittive e metodologia induttiva-

Volendo esaminare più nel dettaglio le caratteristiche proprie degli studi che si collocano nella tradizione di ricerca dello studio del Policy Making, si deve specificare prima di tutto che essi hanno l’obiettivo primario di ricostruire lo svolgimento effettivo dei processi di formulazione, approvazione, implementazione e valutazione delle politiche pubbliche, nella convinzione che si tratti di attività fondamentali per comprendere i rapporti tra i cittadini e le istituzioni nelle democrazie contemporanee.

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Il primo rischio è quello di scivolare nell’aneddotico, impiegando per ogni politica che si intenda spiegare un modello ad hoc, troppo poco analitico e troppo tarato sullo specifico problema in questione.

Il secondo è quello di applicare uno schema troppo rigido e categorie troppo ampie, trascurando così la rilevanza di particolari che invece contano (Regonini, 2001, pp.285-287).

Le radici teoriche dello Studio del Policy Making

Uno dei punti di partenza che hanno condotto allo sviluppo di questi studi è da ricercare nel paradigma del comportamentalismo, sviluppatosi all’inizio degli anni ’50 e destinato a diventare per circa vent’anni il principale punto di riferimento della scienza politica americana.

Si tratta di un approccio caratterizzato dall’attenzione per i comportamenti concreti del singolo, per le sue opinioni espresse attraverso questionari e interviste. Gli individui e i gruppi venivano considerati quali unità analitiche fondamentali e le loro decisioni come i fenomeni più importanti del loro stare insieme.

Un altro dei punti di riferimento di tali studi è riscontrabile nella teoria del sistema politico di Easton, la quale prende spunto dal modello cibernetico basato su input-output-feedback, spiegando come, in un contesto democratico, organizzazioni di interessi e partiti politici elaborino le richieste dei cittadini permettendo alle istituzioni di rilevarle e di rispondere con politiche adeguate. In seguito la reazione all’impatto di queste politiche da parte dei destinatari fornisce nuovi elementi che concorrono ad affinare l’input, in un processo di continuo riaggiustamento. La teoria del sistema politico è stata fondamentale per portare l’attenzione degli scienziati politici su ciò che i governi fanno per rispondere alle richieste concrete dei cittadini (Regonini, 2001, pp.289-290).

Un ulteriore contributo allo sviluppo degli studi del Policy Making è riscontrabile nel movimento per le “policy sciences”, il quale, per usare le parole dei suoi due fondatori Harold Lasswell e Daniel Lerner (1951) intendeva perseguire simultaneamente due obiettivi: sviluppare una scienza della formazione e dell’esecuzione delle politiche e migliorare il contenuto delle informazioni e delle interpretazioni a disposizione dei policy makers.

Tuttavia tali propositi non potevano esaurirsi semplicemente nell’avvio di una nuova scuola accademica, bensì richiedevano la promozione di un vero e proprio movimento basato sulla fiducia nelle capacità della democrazia e della conoscenza di rafforzarsi a vicenda.

Ma se durante gli anni ’50 e ’60 vi fu la definitiva consacrazione delle politiche pubbliche ad autonomo oggetto di studio nella scienza politica americana, emerse anche la consapevolezza negli studiosi contemporanei, e in particolare in David Easton (1969, pp.1051-1061), di come

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