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3. FUORI DAL PENITENZIARIO:ALTERNATIVE ALLA DETENZIONE

3.3. Rapporto tra carcere e territorio

3.3.1. Forme sociali della condizione carceraria

Negli ultimi decenni il carcere ha visto mutare radicalmente la propria popolazione detenuta, tanto che da più parti è stato definito come discarica

sociale o come luogo di marginalità, “in quanto vi trovano posto quelle figure

sociali ai cui bisogni e alle cui criticità la società non trova risposta adeguata”127.

( Cfr, Cap 1, Paragrafo 1.4.3)

Ciò è dovuto principalmente a ciò che Loïc Wacquant definisce «il grande internamento»128 delle fasce più deboli della società che ha preso il via dalle

politiche di zero tollerance negli Stati Uniti d’America in nome della sicurezza delle città, “ma al prezzo di un internamento di larghe, larghissime quote di popolazione appartenenti all’area del disagio, della marginalità e, più genericamente, della povertà”129. Fin dalla metà degli anni settanta, negli USA è

stata rilanciata quella che Migliori definisce “l’industria del controllo del crimine” la quale ha significato “un incremento degli investimenti sul sistema penitenziario senza precedenti” rinvigorendo “anche l’iniziativa privata: percentuali sempre più importanti di detenuti vengono oggi amministrati dall’impresa carceraria privata”130.

Alla spesa pubblica sempre più crescente non ha fatto seguito un altrettanto pronto investimento sulla popolazione detenuta, né sulle fasce sociali più svantaggiate.

L’aumento dei tassi di carcerazione, sebbene in misura minore, ha interessato anche l’Europa, come abbiamo visto precedentemente nel primo capitolo, anche il sistema carcerario italiano si trova di fronte al problema del sovraffollamento penitenziario. Stando così le cose, è ovvio che il carcere non è in grado di programmare interventi formativi più efficaci ai fini della risocializzazione del detenuto.“ L’attuale organizzazione carceraria non è nelle condizioni di svolgere un compito così impegnativo che richiederebbe strumenti di relazione, di assistenza e di costruzione di legami sociali: serve a poco, allora, lamentare la mancanza di operatori quando è evidente che la funzione assolta non è quella del reinserimento quanto quella del contenimento come risposta a domanda di

127 Cfr, Fondazione Giovanni Michelucci, Rapporto sugli istituti penitenziari della Toscana, 2003, 9.

128 Cfr. Wacquant L., Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, Feltrinelli, Milano, 2000.

129 Cfr, Migliori S., Carcere, esclusione sociale, diritto alla formazione, Carocci Faber, Roma, 2007.

sicurezza”131.

Vista la forte differenziazione delle forme di marginalità in ambito penitenziario, la risposta trattamentale non può che essere molto articolata, “pena la possibilità di non incidere appropriatamente sui processi educativi della persona”,132 e di non corrispondere al mandato rieducativo attribuito alla pena

dall’art. 27 della Costituzione. In effetti, al di là della previsione costituzionale, gli aspetti custodiali propri del carcere prevalgono su quelli prettamente rieducativi o volti alla risocializzazione della persona detenuta.

D’altro canto, se nell’ambiente sociale non si attuano politiche indirizzate a sostenere le situazioni di disagio e di marginalità per prevenire azioni di criminalità, come si può pensare che le stesse situazioni si possano risolvere in carcere? “La persona che non abbia maturato condizioni personali e socioculturali nuove rispetto al momento dell’ingresso è destinata, sovente, a ricollocarsi negli originari circuiti marginali, esponendosi nuovamente al rischio di commettere reato e di tornare sotto il controllo penale”. Pertanto la gestione penale della miseria tende ad aggravare il fenomeno che dovrebbe combattere, sia dal punto di vista di coloro che commettono i reati, sia da quello della popolazione che li teme e li respinge. La riduzione di politiche di protezione sociale combinata ad un incremento di politiche di controllo penale e lo squilibrio esistente tra carcere custodiale e carcere riabilitativo creano un circolo vizioso incapace “di offrire alla persona svantaggiata una qualsiasi opportunità di inclusione o reinclusione sociale”.133

A ciò si devono aggiungere quelle caratteristiche che gravano sulla capacità di realizzare interventi efficaci: il sovraffollamento, le alte percentuali dei tossicodipendenti e stranieri, la carenza di personale educativo a fronte di elevatissimi contingenti di polizia penitenziaria in servizio, la scarsità delle risorse disponibili per l’elaborazione di programmi trattamentali e l’impossibilità dei pochi educatori esistenti di intrattenere relazioni frequenti con i detenuti.

Si può dire che la progettazione e la realizzazione di interventi rieducativi in

131 S. Migliori, op. cit., p. 18. 132 Ibid, p.19.

carcere stanno attraversando un momento di forte crisi, anche se bisogna riconoscere che in alcune Regioni le reti sociali hanno saputo arginare parte di queste difficoltà supportando progetti di reinserimento socio-lavorativo promossi in carcere. Come ad esempio la realtà della Casa di reclusione di Massa, della quale tratterò nel prossimo capitolo, la quale è riuscita, in parte, ad attivare alcuni percorsi di reinserimento socio-lavorativo, grazie alla collaborazione tra il direttore del penitenziario e le aziende e cooperative del territorio.

Un autore che ha studiato il rapporto tra il carcere e il reinserimento sociale e lavorativo è Berzano, che nel suo libro “La pena del non lavoro” ha individuato 4 tendenze che causano disuguaglianze nei rapporti tra carcere-lavoro-reinserimento sociale134: Il primo aspetto è “il crescente controllo statale di tutto l’iter della

carcerazione direttamente attraverso le norme del nuovo ordinamento penitenziario e indirettamente attraverso le opportunità di Welfare State, come per esempio, le limitazioni e le modifiche apportate al regime dei permessi, la discrezionalità concessa ai magistrati di sorveglianza […], l’istituzione delle carceri speciali”; la seconda tendenza è la “crescente determinazione istituzionale delle scelte di reinserimento sociale dei detenuti”. I centri di servizio sociale (oggi UEPE) sono stati istituiti al fine di operare per la risocializzazione attraverso “la vigilanza e l’assistenza” ai soggetti ammessi alle misure alternative; la terza tendenza è individuata nel “crescente rapporto tra più fattori interni ed esterni al carcere, interni ed esterni al singolo carcerato, nel predeterminare esiti positivi di reinserimento lavorativo e sociale”; Infine, la “scarsa relazione tra mercato del lavoro e opportunità lavorative dei carcerati, tra prestazioni lavorative individuali e reddito”.

Da quanto detto finora si capisce la complessità della situazione delle carceri italiane. È in questo contesto così variegato di interessi individuali contrapposti che ipotizzi un cambiamento culturale e organizzativo da parte dell’amministrazione penitenziaria, abbandonando il concetto di trattamento e intrattenimento e assumendo il concetto più appropriato di “reinserimento sociale e lavorativo” che non risponda solo a un’esigenza funzionale alla permanenza in

carcere ma deve servire ad attivare o consolidare forme di relazione e di appartenenza sociale.