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"No one knows anything, really. It's all rented, or borrowed". Il gioco dell'intertestualita in "Atonement" e "Nutshell" di Ian McEwan.

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Academic year: 2021

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Indice

Premessa ... 3 1. Intertestualità ... 7 1.1. Michail Bachtin ... 8 1.2. Julia Kristeva ... 12 1.3. Roland Barthes ... 14 1.4. La critica italiana ... 16 1.5. Gérard Genette ... 18 1.6. I fenomeni intertestuali ... 20 1.6.1. La citazione ... 20 1.6.2. L’allusione ... 22 1.6.3. Le fonti ... 23 1.6.4. I generi ... 24 1.7. Le trasformazioni intertestuali ... 25 1.7.1. La parodia ... 25 1.7.2. Il pastiche ... 27 1.7.3. La continuazione ... 28 1.7.4. La trasposizione ... 29 1.8. Letteratura postcoloniale ... 30 2. Il macrotesto ... 32

2.1. I primi romanzi di Ian “Macabre” ... 32

2.2. L’entrata in scena di Spazio e Tempo ... 35

2.3. L’interesse verso l’analisi introspettiva del personaggio ... 42

3. Atonement ... 55

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3.2. Riferimenti intertestuali novecenteschi ... 58

3.2.1. Atonement e The Go-Between ... 58

3.2.2. Il Modernismo in Atonement ... 64

3.3. Riferimenti intertestuali settecenteschi: tra gotico e romance ... 72

3.4. Atonement e le allusioni medievali ... 78

4. Nutshell ... 85 4.1. Riferimenti intertestuali ... 87 4.2. Narratore inattendibile ... 90 4.2.1. Approccio retorico ... 91 4.2.2. Approccio costruttivista/cognitivista ... 95 4.3. Unreliable narrators ... 98 4.4. Narratori insoliti ... 101

4.5. Il feto di Nutshell: narratore insolito ... 104

Conclusioni ... 108

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Premessa

Il presente studio si propone di analizzare due romanzi di Ian McEwan, Atonement e

Nutshell, attraverso un approccio intertestuale. Prima di procedere con

l’interpretazione delle opere, è necessario approfondire il concetto di intertestualità, indagandone gli aspetti principali, dall’introduzione del termine al suo sviluppo come metodo interpretativo.

Il primo capitolo si occupa di illustrare gli studi di alcuni noti critici e teorici letterari, primo fra tutti Michail Bachtin, studioso russo dei primi decenni del Novecento, le cui ricerche hanno influenzato il dibattito critico europeo a partire dalla seconda metà del secolo. Bachtin promuove una visione sociale del linguaggio: a seconda del contesto in cui si colloca, la parola può assumere molteplici significati, che le vengono attribuiti sia dal mittente che dal destinatario. Da tale assunto lo studioso sviluppa il concetto di dialogismo, collegato alla pluridiscorsività del romanzo, che raccoglie al suo interno linguaggi e voci differenti. Lo studioso russo è considerato il precursore della nozione di intertestualità, introdotta da Julia Kristeva negli ambienti eruditi durante gli anni Sessanta. La linguista approfondisce gli studi di Bachtin, fra cui quello sullo statuto della parola e sui concetti di dialogismo e

ambivalenza, rendendoli noti al pubblico internazionale. Fra gli altri studiosi

dell’intertestualità occorre citare Roland Barthes, per il quale ciascun testo è, di fatto, un intertesto, cioè un crocevia di rimandi a discorsi altri, che ciascun scrittore deriva dalla tradizione coeva o precedente. Barthes notoriamente annuncia la morte dell’Autore, che sostituisce con la figura dello scriptor, il quale può ripetere soltanto ciò che è già stato detto attraverso le parole di coloro che l’hanno preceduto. Di conseguenza, il lettore si afferma come l’ultimo interprete dell’opera: la sua nascita determina la morte della figura autoriale. Dopo aver dedicato qualche considerazione anche alla critica italiana, si prende in esame il lavoro di Gérard Genette, che in

Palimpsestes definisce la relazione fra più testi con il termine transtestualità.

L’intertestualità oggi comprende un’ampia varietà di fenomeni e trasformazioni: dalla citazione alla parodia, fino ad arrivare a tecniche più elaborate come quelle della continuazione e della trasposizione. L’intertestualità è coinvolta anche nell’ambito della letteratura postcoloniale,che offre molti esempi di riscritture di storie dal punto di vista degli oppressi.

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Nel secondo capitolo si propone un excursus del macrotesto di Ian McEwan, volto ad introdurne il macrotesto attraverso la lente particolare dell’intertestualità. Analizzando le opere, è possibile scorgere non solo il percorso di crescita dell’autore ma anche gli elementi che hanno profondamente influenzato la sua scrittura. I primi romanzi, The Cement Garden e The Comfort of Strangers, pubblicati fra la fine degli anni Settanta ed i primi anni Ottanta, sono ancora legati alle tematiche dei racconti delle raccolte First Love, Last Rites e In Between the Sheets, in cui i protagonisti indiscussi sono individui problematici e marginali. Nonostante le storie degli esordi siano ambientate in scenari dai contorni non ben definiti, è chiaro l’intento dell’autore di rappresentare le difficoltà della vita contemporanea. La sessualità è uno dei motivi ricorrenti, anche quando si tratta dell’incontro fra un essere umano e un animale, o addirittura fra un uomo e un soggetto inanimato. La prosa iniziale è permeata da immagini neogotiche e da scenari desolanti che richiamano le atmosfere eliotiane. Anche la Venezia mai nominata appare come un luogo macabro e sinistro, dove il male è pronto a manifestarsi. Sin dai primi esperimenti narrativi, McEwan mostra un continuo interesse per i rapporti fra uomini e donne, spesso evidenziati attraverso ulteriori polarità, fra cui religione e scienza, razionalismo e idealismo. Già a partire dal terzo romanzo, The Child in Time, le dimensioni dello spazio e del tempo iniziano ad essere definite rispetto al passato. La scienza fa la sua prima apparizione nel macrotesto di McEwan, tornando ad avere un ruolo dominante anche in altre opere successive, come Enduring Love e Solar. Anche il contesto storico diviene una componente indispensabile: in alcuni casi fa da sfondo alla narrazione, in altri la condiziona inevitabilmente. Ed è proprio la Storia la protagonista indiscussa del quarto romanzo, The Innocent, ambientato nella Berlino del secondo dopoguerra e che si conclude poco prima della caduta del muro. Questa immagine viene ripresa anche nel romanzo successivo, Black Dogs, i cui protagonisti volano in Germania proprio per assistere a quell’evento storico. Con Amsterdam l’autore approda ad una prosa maggiormente indirizzata all’analisi introspettiva dei personaggi, senza trascurare il contesto storico e riuscendo a bilanciare realtà e fiction. L’autore utilizza espedienti narrativi che richiamano le opere di grandi scrittori, come nei casi di Saturday e On

Chesil Beach, in cui la diegesi copre un lasso di tempo relativamente breve. Un

ulteriore esempio è costituito dal finale di The Children Act, che è un’evidente riscrittura di quello di “The Dead” di Joyce. Riconoscendo il prestigio di autori come

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produzione narrativa. L’autore spesso utilizza la citazione in epigrafe, fornendo fin dall’incipit indizi sull’opera che il lettore sta per leggere. A livello macrotestuale si incontrano elementi che accomunano più opere: il finale a sorpresa di Atonement viene riproposto in Sweet Tooth, spy story ambientata durante la Guerra Fredda che richiama le atmosfere misteriose di The Innocent, edito più di vent’anni prima. L’ossessione di Adam Henry per Fiona Maye (The Children Act) ricorda quella decisamente più pericolosa di Jed Parry per Joe Rose in Enduring Love. L’amore è un altro dei motivi ricorrenti nella narrativa di McEwan: declinato nelle sue forme più svariate, si propone come mezzo per analizzare la psicologia umana, che rimane l’obiettivo principale dell’autore.

Nel terzo capitolo si analizzano i riferimenti intertestuali in Atonement. Dopo averne introdotto la trama, si prendono in esame gli ipotesti che vi hanno esercitato una certa influenza. Il romanzo ripercorre la storia della letteratura attraverso i riferimenti che lo popolano: vi si distinguono la tradizione medievale, la prosa del Settecento e dell’Ottocento, il Modernismo e il Postmodernismo. Il principale ipotesto a cui McEwan s’ispira è The Go-Between di Hartley, storia di espiazione proprio come

Atonement, in cui il protagonista compie un errore che lo tormenterà per il resto della

vita. Tuttavia, vi sono ulteriori rimandi alla corrente modernista, attraverso i quali l’autore inserisce elementi tratti dalla realtà, come la figura storica di Connolly, il quale muove delle critiche nei confronti del primo racconto di Briony, Two Figures by a

Fountain. Troppo incentrato sulla prospettiva dei personaggi, viene rifiutato dalla

rivista tramite una lettera che ne giustifica i motivi. La prima produzione di Briony sembra rifarsi alla prosa della Woolf, in particolare all’analisi introspettiva messa in luce tramite i soliloqui di The Waves. Il refrain letterario è presente lungo tutta l’opera di McEwan: Briony è una scrittrice alle prime armi, mentre Robbie e Cecilia si sono appena laureati in letteratura a Cambridge. Le loro letture nascondono degli indizi significativi: non è casuale, ad esempio, la presenza della copia di Lady Chatterley’s

Lover sulla scrivania di Robbie mentre è intento a scrivere la lettera per Cecilia. E, a

proposito di lettere, i due amanti se ne scambieranno molte nel corso degli anni, adottando i personaggi della tradizione medievale per esprimere i propri sentimenti e per raggirare le regole imposte dalla censura del tempo.

Il quarto capitolo si propone di analizzare l’altro romanzo, Nutshell, che si presenta come un ipertesto dell’Amleto di Shakespeare. A differenza della tragedia del celebre drammaturgo, il romanzo è ambientato nella Londra contemporanea:

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l’omicidio del re, che qui è un editore e poeta squattrinato, non è ancora avvenuto, e il narratore che ce lo racconta non è ancora nato. L’originalità di Nutshell sta proprio nella voce narrante, quella di un feto in possesso delle capacità intellettive pari a quelle di un adulto. Di conseguenza, si approfondisce la figura del narratore inaffidabile dal punto di vista teorico, facendo riferimento ai casi più noti in letteratura e al cinema.

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1. Intertestualità

L’approccio intertestuale è un metodo ancora molto utilizzato nella teoria letteraria odierna. Si fonda sul codice, uno dei sei principali fattori della comunicazione umana studiati da Roman Jakobson (1896-1982). Tale approccio analizza le regole, le convenzioni e i canoni che incidono su ogni singola opera e si interroga sui rapporti che esistono fra la letteratura presente e quella passata. Il metodo intertestuale nasce nella seconda metà del Novecento, ma inizia già a svilupparsi durante l’Ottocento attraverso lo studio delle influenze, una particolare forma di analisi praticata dagli eruditi, i quali cercavano di individuare le fonti e i modelli che avevano ispirato un autore nella creazione della propria opera. Oggi si tende ad applicare uno studio più accurato, che prende in considerazione il rapporto dello scrittore con la tradizione ed il suo modo di integrarla con il presente. Proprio su questo punto si esprimeva T.S. Eliot (1888-1965) nel celeberrimo saggio Tradition and the Individual Talent (1919). Secondo Eliot, la tradizione non può essere ereditata, ma si può acquisire con fatica. Ogni autore deve possedere quel “senso storico” che permette di comprendere che il passato non è passato, ma coesiste con il presente: “…the historical sense compels a man to write not merely with his own generation in his bones, but with a feeling that the whole of the literature of Europe from Homer and within it the whole of the literature of his own country has a simultaneous existence and composes a simultaneous order”1. Eliot crede che nessun artista possa essere giudicato in maniera

a sé stante, ma soltanto in relazione alle generazioni precedenti. Sembra quindi che la tradizione non sia un dato stabile, piuttosto un processo in continua evoluzione grazie all’influenza reciproca fra opere passate e presenti. Questa idea di coesistenza appare manifesta nel capolavoro di Eliot, The Waste Land (1921), un poemetto ricco di riferimenti intertestuali resi espliciti grazie alle note che l’autore stesso ha deciso di inserire. Sebbene l’opera si ispiri a due testi principali, From Ritual to Romance di Jessie Weston e The Golden Bough di James Frazer, ci sono innumerevoli rimandi all’intera tradizione letteraria: dalle Metamorfosi di Ovidio, ai versi di Dante, di Shakespeare e di Milton. Non mancano i riferimenti alla Bibbia e all’intera mitologia greca, ma anche ad autori più recenti, quali Baudelaire e Nerval. Lo scrittore compie

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quell’operazione che ha sempre difeso, ovvero inserisce la propria opera all’interno della tradizione così da legittimare il suo ruolo.

1.1. Michail Bachtin

Il termine intertestualità oggi racchiude numerose pratiche come l’uso delle fonti, l’allusione, la reminiscenza, la citazione e la riscrittura. Si basa essenzialmente sul rapporto che intercorre fra varie opere e sui fenomeni che le collegano. L’espressione appare per la prima volta in un saggio alla fine degli anni Settanta. L’autrice è Julia Kristeva (1941), linguista e psicanalista bulgara naturalizzata francese, che trae ispirazione dagli studi di Michail Bachtin (1895-1975). Kristeva introduce la figura di Bachtin nell’ambiente letterario francese degli anni Sessanta. I lavori del teorico ottengono un notevole successo in vari campi, dalla critica letteraria alla filosofia: oggi è infatti considerato uno dei più importanti pensatori del XX secolo. Le sue opere sono rimaste sconosciute per tanto tempo a causa delle censure imposte dal regime stalinista. Viene arrestato probabilmente per gli stretti rapporti con la religione ortodossa ed è successivamente condannato a trascorrere cinque anni nel gulag di Solovki. Non conduce una carriera brillante, lavora come impiegato in diverse istituzioni durante l’esilio in Kazakistan e, in seguito, insegna russo e tedesco al liceo. Nonostante ciò, la sua attività letteraria è intensa, anche se molte sue opere vengono pubblicate postume o sotto lo pseudonimo degli amici Vološinov e Medvedev.

Non è affatto semplice collocare Bachtin all’interno di un movimento specifico, egli infatti supera le teorie dei formalisti russi degli anni Venti così come le tesi dello strutturalismo di Saussure. La critica che muove nei loro confronti è quella di non considerare l’aspetto sociale della parola, ovvero il contesto in cui essa appare. Egli contesta il pensiero di Saussure, il quale considera la lingua come un sistema sincronico, e ne studia le regole e le strutture, senza prendere in esame l’ambiente in cui viene utilizzata. Di conseguenza, Bachtin introduce la teoria dell’enunciato, che ha un ruolo significativo non solo dal punto di vista sociale ma anche storico. Le prime teorie intorno a tale concetto risalgono agli anni Venti: lo studioso ritiene che l’enunciato sia costituito sia dalla materia linguistica che dal contesto di enunciazione. Il contesto, fino a quel momento considerato al di fuori della parola, ne diviene parte

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integrante. La formazione di un enunciato implica la presenza di almeno due persone, un mittente ed un destinatario. Tuttavia, la presenza reale di quest’ultimo non è obbligatoria e può essere sostituito anche da un uditorio immaginario. La parola è bilaterale, il suo significato dipende sia dal mittente che dal ricevente ed è come un ponte gettato fra di loro. Da qui nasce il concetto di dialogismo, centrale nel pensiero di Bachtin, che lo considera l’elemento costitutivo del linguaggio. Per lo studioso non ci sono enunciati isolati dagli altri: essi sono collegati fra loro attraverso il principio dialogico. All’astrazione di Saussure lo studioso russo contrappone una visione sociale del linguaggio, che muta continuamente a seconda della classe, del paese di appartenenza e del momento storico in cui il parlante vive. Perciò nessun enunciato può essere considerato neutrale da questo punto di vista. Qualsiasi parola pronunciamo ha già un significato di per sé sia per il mittente che per il destinatario, e tale significato è quello che le viene attribuito socialmente. Secondo Bachtin, dai tempi di Adamo, non esistono parole che non siano già state dette, esse contengono il significato che gli altri, prima di noi, hanno attribuito loro:

Ogni parola concreta (enunciazione), infatti, trova il suo oggetto, verso il quale tende, sempre per così dire, già nominato, discusso, valutato, avvolto in una foschia che lo oscura oppure, al contrario, nella luce delle parole già dette su di esso. Esso è avviluppato e penetrato da pensieri generali, da punti di vista, da valutazioni e accenti altrui. La parola, tendendo verso il proprio oggetto entra in questo mezzo, dialogicamente agitato e teso, delle parole, delle valutazioni e degli accenti altrui, s’intreccia coi loro complessi rapporti reciproci, si fonde con alcuni, si stacca da altri, s’interseca con altri ancora2.

Con ciò il teorico non vuole escludere la possibilità di trovare ulteriori significati, ma vuole sottolineare il rapporto dialogico che esiste fra il passato e il presente.

Dal punto di vista letterario, il romanzo risulta essere il genere dialogico per eccellenza: “è un fenomeno pluristilistico, pluridiscorsivo, plurivoco”3. Nel romanzo

viene utilizzata la lingua nazionale, quella di uso quotidiano, che è composta da una complessa stratificazione di dialetti, di gerghi professionali, di generi letterari, di linguaggi politici. La lingua è il risultato di stratificazioni sociali e professionali che variano a seconda del periodo storico, perciò non può essere osservata come mero sistema sincronico, ma nel suo complesso diacronico. Non è un sistema astratto di forme normative, è tutta penetrata dalle intenzioni degli altri. La parola perciò diventa

2 M. BACHTIN, La parola nel romanzo, in Estetica e romanzo, a cura di Clara Strada Janovič, Einaudi,

Torino 1979, p. 84.

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propria quando le attribuiamo ulteriori significati e la arricchiamo della nostra intenzione. Non si tratta di un lemma che preleviamo dal dizionario in maniera meccanica: avviene un processo di appropriazione tramite il quale facciamo nostra la parola altrui. Bachtin insiste sull’intenzionalità della parola, la quale vive al di fuori di sé e, per comprenderla, va studiata in relazione all’oggetto e alla realtà a cui fa riferimento. Studiare la parola in se stessa trascurando il contesto in cui essa vive sarebbe come analizzare l’esperienza psichica interiore senza considerare il contesto che la influenza e la determina.

Nel romanzo la pluridiscorsività è resa esplicita dai discorsi dell’autore, del narratore, dei vari personaggi e dalle numerose voci sociali che comunicano fra loro. Bachtin critica la stilistica tradizionale che non è in grado di cogliere la molteplicità di forme che costituiscono il romanzo: “la stilistica è stata del tutto sorda nei confronti del dialogo. L’opera letteraria era pensata dalla stilistica come un tutto isolato e autosufficiente, i cui elementi costituiscono un sistema chiuso, che al di fuori di sé non presuppone nulla, nessun’altra enunciazione”4. Per il teorico il romanzo si presenta

come la replica di un dialogo che è determinato a sua volta dall’interrelazione con altri dialoghi. La stilistica tenta invece di cogliere l’unità nella molteplicità, riconduce la singola opera letteraria al monologismo e la considera autosufficiente e isolata rispetto alle altre. I generi verbali che contribuiscono alla pluridiscorsività e all’eterolinguismo vengono ignorati dall’analisi stilistica e Bachtin insiste su questo punto per mettere in luce l’ampia varietà di stili e linguaggi che costituiscono l’opera letteraria e il romanzo nello specifico.

La pluridiscorsività si manifesta su due piani distinti, quello del narratore e quello dell’autore. I due discorsi dialogano fra di loro ed è sempre possibile distinguere una voce dall’altra. Difatti la voce dell’autore non si mescola con quella del narratore e si erge al di sopra di tutto per non affidare le proprie intenzioni alle parole altrui. Inoltre, la pluridiscorsività si può manifestare attraverso i discorsi dei personaggi, i quali sono dotati di autonomia e si distaccano dalle parole del narratore. Infine, i generi intercalari servono a rendere esplicita la pluridiscorsività romanzesca: si tratta sia di generi artistici che extrartistici. Alcuni di essi possono determinare la costruzione dell’intera opera: ad esempio l’epistola può influenzare il romanzo a tal punto da creare il romanzo epistolare, così come la forma del diario può generare il romanzo-diario.

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Si tratta di generi dal forte ancoraggio alla realtà ed è grazie a questo che il romanzo mantiene un continuo contatto con il mondo.

Per Bachtin i romanzi di Dostoevskij hanno un carattere dialogico e polifonico. Con quest’ultimo termine si intende la coesistenza di numerose voci indipendenti che definiscono l’intero romanzo. Ogni personaggio ha una coscienza propria e ci mostra la realtà secondo la sua prospettiva: non si tratta di un tipo, di un soggetto appartenente ad una determinata categoria, bensì di una voce singolare ed autonoma. Nelle parole e nei pensieri dei personaggi non emerge la voce dell’autore, ma si manifestano molteplici punti di vista. Non se ne può evidenziare solo uno al di sopra degli altri, tutti convivono all’interno della stessa scena. L’autore non interviene all’interno del romanzo, la sua voce tace e lascia la parola ai personaggi. In letteratura tale procedimento si manifesta nel Novecento con l’introduzione dello stream of

consciousness: attraverso il monologo interiore di un personaggio veniamo a contatto

con numerose realtà. I pensieri del soggetto non sono propriamente suoi, ma appartengono alla cultura, alla società in cui egli si colloca. In sintesi, la pluridiscorsività entra nel romanzo grazie alla voce dell’”uomo parlante”, il quale trasmette una parola ideologica originale. L’uomo parlante è un ideologo che si esprime attraverso un personale ideologema, ovvero un particolare punto di vista sul mondo.

Il romanzo umoristico è la forma letteraria in cui è resa ancora più esplicita la pluridiscorsività. Si tratta dei grandi classici della letteratura inglese, di cui Fielding, Smollett, Sterne, Dickens e Thackeray sono i maggiori esponenti. Nei loro romanzi si trovano racchiusi tutti gli strati della lingua contemporanea: dal registro formale adottato dalla classe aristocratica ai dialetti delle classi subalterne. L’autore fa penetrare la propria voce in questa varietà di linguaggi, creando lo stile parodico. Bachtin analizza Little Dorrit di Dickens, in cui la pluridiscorsività è evidente. L’autore è abile nel parodiare i vari stili presenti nell’opera: la sua voce si confonde con quella della “lingua comune” in modo che i confini rimangano incerti e indefiniti. In autori come Fielding e Smollett la parodia non avviene solo sul piano linguistico ma anche letterario. Fielding scrive Shamela per mettere in ridicolo la Pamela di Richardson, storia di una giovane serva sottomessa dal proprio padrone che infine decide di sposarla per le sue virtù.

A differenza del romanzo, la parola in poesia non è dialogica ma autosufficiente, non presuppone l’incontro con altri enunciati al di fuori del discorso

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poetico. La lirica adotta un linguaggio personale, che non si fonde con nessun altro genere di codice: “la lingua del genere poetico è un unitario e unico mondo tolemaico, fuori del quale non c’è nulla e di nulla c’è bisogno”5. Secondo Bachtin la parola poetica

non deve far trapelare i significati “altri”, si deve dimenticare la sua vita precedente. Perciò il linguaggio poetico non è composto dalla stratificazione che costituisce la lingua, dai vari gerghi, socioletti e idiomi specifici: la lingua della poesia rappresenta un caso a sé stante, che si distacca dal resto. Il poeta e il romanziere si trovano dunque agli antipodi: il primo cerca di “purificare” la parola per metterla al servizio del solo discorso poetico; il secondo accoglie la pluridiscorsività e il plurilinguismo ed è proprio su di essi che costruisce l’opera letteraria. Non cerca di estirpare le intenzioni altrui dalle parole che utilizza, tenta di renderle proprie e di innestarvi i suoi significati.

1.2. Julia Kristeva

Linguista, psicanalista e filosofa, Julia Kristeva (1941) ha partecipato attivamente alla vita culturale francese degli anni Sessanta e Settanta. A lei dobbiamo la creazione del termine intertestualità, ormai entrato a far parte del linguaggio comune ed utilizzato in contesti differenti: “this word has become an international ‘star’, some would say, ‘une tarte à la crème’”. Intertextuality is now a commonplace of most literary debates, and a concept that appears in almost all dictionaries of literary theory”6. L’espressione

appare per la prima volta su Tel Quel, una rivista trimestrale francese che aveva lo scopo di rinnovare la critica letteraria grazie al confronto con altre discipline, quali la filosofia, la psicanalisi e la semiotica. Il periodico, edito dal 1960 al 1982, ha raccolto i contributi di alcuni fra i maggiori pensatori del secolo scorso, fra cui Roland Barthes, Jacques Derrida, Gérard Genette, Umberto Eco e Tzvetan Todorov. Come racconta Kristeva, tutto ha inizio con le teorie di Bachtin, su cui la scrittrice ha cominciato a lavorare all’età di venti anni. Nei concetti di dialogismo e carnevale intravede il superamento dello strutturalismo, su cui i formalisti russi avevano fondato le proprie teorie. In Bachtin, Kristeva ha scorto il genio e l’originalità che non erano stati compresi quarant’anni prima. Per l’autrice l’intertestualità è un modo per far sì che la

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storia si insinui dentro di noi: la pluralità di voci di cui parlava Bachtin si può quindi associare all’idea di più testi all’interno di uno. Ad un taglio statico dell’opera se ne oppone uno dinamico, in cui la struttura letteraria si elabora in rapporto ad un’altra. E per arrivare a questo pensiero bisogna prima considerare la pluralità di significati all’interno della parola: essa non deve essere vista come un punto fisso, ma come un incrocio di superfici testuali che racchiudono le voci dello scrittore, del destinatario e del contesto in cui si situa. Nel testo quindi si mescolano le parole che, a loro volta, racchiudono molteplici significati. L’etimologia del sostantivo “testo” può aiutarci a comprendere questo procedimento: deriva dal latino textus, participio passato del verbo texere, che significa “tessere, intrecciare”. Il testo quindi è un intreccio di altri testi, e si colloca nella società, la quale si presenta a sua volta come un grande testo. Il mondo intero è un continuo intrecciarsi di testi diversi che vengono scritti, interpretati e riscritti costantemente.

Kristeva si rifà allo studio dello statuto della parola, nozione introdotta da Bachtin, che lo considera come l’unità minima della struttura del testo. Per l’autrice bulgara “studiare lo statuto della parola significa studiare le articolazioni di questa parola (come complesso semico) con le altre parole della frase, e ritrovare le stesse funzioni (relazioni) al livello delle articolazioni di sequenze più grandi”7. Le

operazioni degli insiemi semici e delle sequenze poetiche si realizzano all’interno di tre dimensioni dello spazio testuale: il soggetto della scrittura, il destinatario e i testi esteriori. Lo statuto della parola si definisce su due piani, uno orizzontale e l’altro verticale. Il primo vede la parola nel testo come appartenente sia al soggetto della scrittura che al destinatario, mentre nel secondo la parola si rivolge al contesto anteriore o attuale. Kristeva introduce il concetto di intertestualità in seguito all’idea del testo come “mosaico di citazioni”, come assimilazione e trasformazione di un altro testo.

Nel suo celebre saggio La parola, il dialogo e il romanzo, l’autrice analizza i concetti bachtiniani di dialogismo e ambivalenza. Con il primo termine Bachtin supera le teorie dei formalisti russi, i quali distinguevano il monologo dal dialogo. L’autore con

dialogo intendeva la scrittura nella quale si legge l’altro, in cui è possibile scorgere

una serie di significati. Con il termine ambivalenza designa l’inserimento della storia nel testo e del testo nella storia. Kristeva perciò spiega che la scrittura può essere vista

7 J. KRISTEVA, La parola, il dialogo e il romanzo, in Michail Bachtin: semiotica, teoria della letteratura e marxismo, a cura di Augusto Ponzio, Dedalo Libri, Bari 1977, p. 107.

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come la lettura del corpus letterario anteriore, e che il testo è una risposta ad un testo precedente. È proprio da qui che nasce lo studio del romanzo polifonico, che racchiude una molteplicità di voci che comunicano fra loro. Oltre agli esempi forniti da Bachtin, Kristeva aggiunge fra i romanzieri polifonici anche i modernisti: Joyce, Proust e Kafka.

L’autrice ci ripropone una classificazione della parola nel romanzo. La parola può essere diretta, denotativa, che rinvia al suo oggetto, ed è la parola dell’autore. La parola oggettuale, invece, designa il discorso diretto dei personaggi e si distanzia dal discorso dell’autore. Infine, un’ultima parola è quella ambivalente, definita così perché acquista due significati, quello che le era stato attribuito precedentemente e quello successivo del “nuovo” autore. La parola ambivalente può assumere anche il significato opposto rispetto a quello passato: questo accade nella parodia, in cui l’autore rovescia i significati delle opere altrui. Questo tipo di parola appare in due generi specifici, i dialoghi socratici e la satira menippea. Il dialogo socratico inizia a diffondersi nell’antichità: nasce come memoria dei colloqui fra Socrate e i suoi discepoli e successivamente mantiene il suo carattere dialogico liberandosi della dimensione storica. Questo genere contiene il dialogismo promosso da Bachtin e tende ad avviare il processo di ricerca della verità, che può avvenire soltanto tramite una comunicazione fra più punti di vista. Dal dialogo socratico si sviluppa un genere che ha conosciuto maggiore successo, la menippea, che deve il suo nome al filosofo Menippo di Gadara (III secolo a.C.). Essa ha influenzato la letteratura cristiana e bizantina e, in generale, l’intera letteratura europea grazie alla sua flessibilità e al suo carattere oscillante fra il tragico e il comico. Comprende tutti i generi, la novella, la lettera, i versi e la prosa, e avrebbe dato origine al romanzo polifonico, che infatti è il risultato di un continuo dialogo fra vari elementi linguistici e stilistici. La menippea si oppone alla logica aristotelica e tale presupposto viene accolto anche dal romanzo polifonico, che rifiuta una struttura definita ed omogenea.

1.3. Roland Barthes

Roland Barthes (1915-1980) è stato un semiologo e critico francese appartenente alla scuola della nouvelle critique. Autore di numerosi saggi, ha contribuito a legittimare

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il testo come luogo di significazione, dando sempre minore rilevanza alla figura autoriale. È proprio nel saggio La mort de l’auteur (1967) che Barthes presenta delle idee originali che contribuiscono alla creazione del concetto di intertestualità. Il saggista si oppone all’approccio biografistico sostenuto da Sainte-Beuve nel XIX secolo, che prevedeva l’interpretazione del testo in base alle conoscenze che abbiamo di colui che l’ha prodotto. Barthes sostiene che nel testo è il linguaggio a parlare, non l’Autore, perciò ne annuncia provocatoriamente la morte incombente. La scrittura si presenta come un atto di distruzione di ogni voce: l’atto creativo è l’uccisore del creatore. Il critico francese sottolinea che l’autore è solo il prodotto della società moderna, è frutto del prestigio che è stato conferito al singolo, all’umano. Questo processo vede il suo culmine nel Positivismo e nella società capitalista, che rappresenta la figura dell’Autore come un prodotto di consumo tanto importante quanto l’opera da lui creata.

L’Autore entra in crisi a partire dalla fine dell’Ottocento, quando Mallarmé inizia a porre maggiore accento sul linguaggio. Tutta la poetica mallarmeana consiste proprio nella soppressione della figura autoriale a vantaggio della scrittura ed influenzerà anche gli scrittori successivi, come Paul Valéry e Marcel Proust. Quest’ultimo crede che l’Autore, durante l’atto compositivo, si emancipi dalla sua sfera personale di uomo e cittadino, e che si lasci guidare da un impulso inconscio. Tale impulso dà avvio all’atto creativo, un’operazione autonoma che non necessita della presenza di una figura autoriale dall’identità ben definita. Il Surrealismo, di cui Mallarmé è stato il maggiore esponente, ha contribuito a dissacrare l’immagine dell’Autore e a dare avvio a quel processo che sarà ancor più esplicito nel secolo successivo. Persino la linguistica fornirà ulteriori strumenti a questo procedimento di “distruzione”: l’enunciazione viene vista come un atto vuoto, che non ha bisogno della presenza di uno o più interlocutori per essere osservata.

L’autore non è mai nient’altro che colui che scrive, proprio come io non è altri che chi dice io: il linguaggio conosce un «soggetto», non una «persona», e tale soggetto, vuoto al di fuori dell’enunciazione stessa che lo definisce, è sufficiente a far «tenere» il linguaggio, cioè ad esaurirlo8.

8 R. BARTHES, La morte dell’autore, in Il brusio della lingua, Saggi critici IV, Einaudi, Torino

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Durante la prima metà del Novecento il testo subisce questo radicale cambiamento, che era già stato anticipato da Mallarmé e dai surrealisti. La figura dell’Autore viene ora sostituita da quella dello scrittore, il quale si presenta come un abile compositore che attinge dall’enorme dizionario universale di cui è in possesso per comporre la sua opera. Ne consegue che il testo si propone come uno spazio a più dimensioni in cui coesistono varie scritture non originali: “il testo è un tessuto di citazioni, provenienti dai più diversi settori della cultura”9. Lo scrittore non può mirare all’originalità, ciò

che dice è già stato detto, può soltanto imitare un gesto anteriore. Il suo compito consiste nel “mescolare le scritture” e nell’accettare che il suo pensiero sia esprimibile solo attraverso parole già dette da chi, prima di lui, ha elaborato quello stesso pensiero.

Successore dell’Autore, lo «scrittore» non ha più in sé passioni, umori, sentimenti, impressioni, ma quell’immenso dizionario cui attinge una scrittura che non può conoscere pause: la vita non fa mai altro che imitare il libro, e il libro stesso, a sua volta, non è altro che un tessuto di segni, imitazione perduta, infinitamente remota10.

Barthes, inoltre, stronca la critica letteraria che si arrende di fronte alla pretesa di interpretare il testo senza possedere le informazioni che riguardano il suo autore e, di conseguenza, il contesto storico sociale in cui si colloca. Barthes si spinge oltre, conferendo al lettore il ruolo di protagonista nel processo analitico del testo. Il lettore diviene il luogo in cui si riunisce la molteplicità di lingue presenti nell’opera. Il destinatario dell’opera appare come una figura senza storia, senza biografia e senza psicologia, ed è in grado di tenere insieme tutte le scritture del testo. Nasce così una nuova figura ed il prezzo della sua nascita è la morte dell’autore.

1.4. La critica italiana

Per Cesare Segre l’intertestualità è l’equivalente, in ambito letterario, della “plurivocità propria della lingua”11. Letteratura e lingua sono dunque strettamente

connesse: mentre la plurivocità è il frutto di molteplici registri linguistici, l’intertestualità attinge alle varie forme di linguaggio letterario e agli stili individuali

9 Ivi, p. 54. 10 Ivi, p. 55.

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di ogni autore. Il testo non appare più isolato, ma si colloca all’interno di un insieme più ampio di testi che comunicano fra loro. Attraverso l’intertestualità il testo si impossessa della lingua di un altro testo precedente, perciò il codice passato continua a vivere grazie alla sua integrazione con quello presente. I famosi versi dell’incipit dell’Orlando Furioso “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto” nascondono diversi riferimenti a opere del passato. È evidente il richiamo ai versi d’apertura dell’Eneide “Arma virumque cano”, così come a “le donne e’ cavalier, li affanni e li agi / che ne ‘nvogliava amore e cortesia” del quattordicesimo canto del Purgatorio dantesco. Ma ci sono riferimenti anche all’Orlando innamorato di Boiardo e alle Ballades de moralitez di Deschamps. Tali riscontri sono la dimostrazione che la lingua e lo stile di ogni opera si situano al crocevia di una complessa rete intertestuale. Ogni autore, quando scrive una poesia o un romanzo, dialoga con i grandi autori che lo hanno preceduto.

Il concetto di intertestualità supera lo studio delle fonti, una pratica ormai caduta in disuso, che già Benedetto Croce definiva “semplice passatempo erudito”12.

Secondo Croce, “un’opera letteraria è tale, perché ha una nota propria, originale, nuova. Studiarla nelle fonti, nei precedenti, nella materia che la costituisce, vale, dunque, andarla a cercare dove essa non è…”13. Croce credeva fermamente nella

singolarità di ogni opera e che la ricerca delle fonti non fosse altro che il “prodotto di mera e vana curiosità”.

Nel 1968 Giorgio Pasquali parlava di “allusioni”, distinguendole dalle reminiscenze, a suo parere forme inconsapevoli di richiamo a precedenti opere letterarie. Per Pasquali le allusioni possono sfuggire ad un pubblico meno esperto e, al tempo stesso, attirare l’attenzione di un lettore più preparato. È l’autore a scegliere se rendere più o meno esplicita l’allusione ad un altro testo.

L’autore intitola il suo saggio Arte allusiva poiché intende comprendere all’interno di questo procedimento non soltanto la letteratura ma tutte le arti in generale, dalla musica alla pittura fino ad arrivare all’architettura. Pasquali riconduce il costume dell’alludere all’età greca, quando già nelle opere di Euripide si avvertiva l’influenza di Eschilo.

12 B. CROCE, La ricerca delle fonti, in Problemi di estetica e contributi alla storia dell’estetica italiana, Laterza, Bari 1910, p. 490.

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1.5. Gérard Genette

Gérard Genette (1930-2018) adotta il termine transtestualità per definire la relazione, manifesta o segreta, di un testo con altri testi. Il critico ha elencato ben cinque tipi di relazioni transtestuali nei suoi Palinsesti del 1982.

Il primo genere prende il nome di intertestualità e riguarda la presenza effettiva di un testo in un altro. In pratica si tratta dei casi della citazione, del plagio e dell’allusione.

Il secondo tipo riguarda invece la relazione fra il testo e il suo paratesto, ovvero titolo, sottotitolo, intertitoli, prefazioni, postfazioni, avvertenze, premesse, note, epigrafi, illustrazioni, e tutto ciò che incornicia l’opera e ci fornisce ulteriori informazioni utili per comprenderla. Il paratesto è composto dal peritesto e dall’epitesto. Con il primo termine si intendono tutti gli elementi vicini al testo, dal titolo alle dimensioni del volume. Con il secondo si intendono le informazioni “lontane” dal testo, ma che giocano un ruolo importante per la definizione del senso dell’opera. Si tratta dei dati che riguardano la vita dell’autore, la genesi e lo sviluppo del testo, i motivi che l’hanno spinto a condurre un determinato lavoro e così via. Genette si chiedeva se i titoli che accompagnavano i capitoli dell’Ulysses di Joyce facessero parte o meno del testo nonostante fossero stati omessi al momento della pubblicazione definitiva dell’opera. Questi elementi sono effettivamente parte del testo? E che dire delle bozze di un romanzo pubblicato postumo? Tali dettagli, secondo lo studioso francese, contribuiscono a fornire delle informazioni che agevolano l’interpretazione testuale. È certo che i primi elementi che interessano un esegeta sono quelli del peritesto. Genette, inoltre, distingue fra titoli tematici e rematici. Il titolo tematico concerne l’argomento centrale del testo, mentre quello rematico riguarda il genere adottato dall’autore per trattare l’oggetto in questione. Un campo che interessa particolarmente i critici è quello inerente alle parti che precedono il testo vero e proprio: dediche, epigrafi e prefazioni. In effetti, come può uno studioso di T. S. Eliot ignorare i versi tratti dal Satyricon di Petronio posti all’inizio della Waste Land? In questo caso analizzare l’epigrafe diviene ancora più rilevante perché si scopre dal manoscritto originale che non è stata la prima scelta dell’autore, il quale, in principio, aveva selezionato un passo da Heart of Darkness di Conrad, e aveva deciso di fare dei cambiamenti in seguito ai consigli del suo “fabbro” Ezra Pound. Un altro caso

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interessante riguarda la prima pubblicazione di Frankenstein avvenuta nel 1818. La decisione di mantenere l’anonimato dell’autrice Mary Shelley è considerata un dettaglio rilevante, così come l’immagine di copertina della prima edizione, che vedeva rappresentato il mostro inorridito di fronte ad uno scheletro sparpagliato ai suoi piedi. Le immagini, le epigrafi e le dediche contribuiscono ad indirizzare il lettore verso un determinato percorso interpretativo: si presentano come delle chiavi di lettura messe a disposizione del destinatario al fine di condurlo a decodificare il messaggio dell’opera secondo le intenzioni dell’autore. Lo stesso McEwan, inserendo un passo tratto da Northanger Abbey della Austen, indica al proprio lettore che l’intera trama del suo romanzo, Atonement, è fondata su un grosso equivoco. Per quanto riguarda il paratesto in generale, Genette fa un’ulteriore distinzione fra quello da lui definito

autobiografico, cioè curato direttamente dall’autore, e quello allografico, curato da

qualcuno di diverso dall’autore, come il critico o l’editore.

Il terzo tipo di trascendenza prende il nome di metatestualità e riguarda la relazione di “commento” di un testo verso un altro. Non è necessario che il testo commentato venga reso esplicito, può anche essere evocato allusivamente come avviene nella Fenomenologia dello spirito di Hegel, il quale fa riferimento a Le Neveu

de Rameau di Diderot.

Il quarto tipo concerne la relazione di ipertestualità, a cui Genette dedica più spazio. Si tratta della relazione che lega un testo B, detto ipertesto, ad un testo A, definito ipotesto. Per fare un esempio, l’Eneide e Ulysses sono entrambi ipertesti dello stesso ipotesto, l’Odissea. Si può trattare di una trasformazione semplice, come nel caso dell’opera di Joyce, in cui Ulisse trova il suo corrispondente in Leopold Bloom, un ebreo che vive nella Dublino degli inizi del XX secolo; può anche essere un’imitazione del genere narrativo più che della trama di per sé, ed è quello che accade nell’opera di Virgilio. Le tecniche ipertestuali possono riguardare processi di autocensura, rimozione, riduzione, amplificazione e così via. Tess of the D’Ubervilles rappresenta un esempio di autocensura: per pubblicarlo in vari episodi sulla rivista letteraria The Graphic, Thomas Hardy dovette rielaborare alcuni passaggi al fine di soddisfare le esigenze del pubblico tardo vittoriano. Solo nel 1912 fu pubblicata la versione ideata inizialmente da Hardy, di conseguenza la redazione in episodi divenne il suo ipotesto. L’ipertestualità si manifesta anche nell’adattamento cinematografico delle opere letterarie. Spesso la versione filmica è circoscritta ad una parte del suo

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ipotesto di riferimento, in alcuni casi si concentra su un solo personaggio o su unico

evento.

Il quinto ed ultimo tipo di relazione è detta architestualità e riguarda il rapporto fra il singolo testo e le diverse tipologie di generi discorsivi. In altre parole, si tratta di una relazione che riguarda l’appartenenza tassonomica: ci si chiede dunque se un romanzo appartiene effettivamente alla categoria del romanzo, o se una poesia può essere definita tale. Ad un primo sguardo la differenza fra architestualità e ipertestualità potrebbe sembrare minima, se non addirittura nulla, ma Genette dimostra che l’architestualità è quasi un fatto naturale, si tratta infatti di scegliere un modello generico, mentre la scelta deliberata di imitare un’opera piuttosto che un’altra si colloca nella sfera dell’ipertestualità.

Essendo uno strutturalista, Genette crede che l’opera letteraria non sia mai originale, ma che sia il frutto di una selezione proveniente da un sistema chiuso. L’autore è un bricoleur che attinge elementi dal sistema letterario chiuso e li trasforma in opera, cercando di oscurare tale operazione. È qui che interviene il critico, il quale ha il compito di svelare il procedimento compiuto dall’autore e di renderlo noto al pubblico.

1.6. I fenomeni intertestuali

In questa sezione ci occuperemo dei fenomeni intertestuali, ovvero tutti i modi in cui la relazione fra testi è resa manifesta. Si tratta di un campo eterogeneo che comprende da un lato una serie di procedimenti più contenuti, quali la citazione, l’allusione, i clichés culturali, dall’altro fenomeni più estesi a livello testuale, che comprendono l’imitazione e la riscrittura dell’intera opera.

1.6.1. La citazione

La citazione è considerata il primo dispositivo intertestuale: si tratta della ripetizione di una frase di un testo in un altro. Ciò che distingue la citazione da altri dispositivi intertestuali è il fattore grafico: solitamente viene introdotta attraverso l’uso delle

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virgolette o del corsivo per distinguerla dal resto del corpo testuale. Si può distinguere fra citazione corretta e citazione distorta: se con la prima espressione si intende un riferimento esatto e tratto da un’opera senza apportare alcuna modifica, con la seconda ci si riferisce ad una citazione deliberatamente scorretta che ha un ruolo forse più determinante nell’interpretazione dell’opera, poiché si tratta già di una parziale riscrittura del referente. Inoltre, si può distinguere fra la citazione esterna al testo, che fa parte dunque del paratesto, e la citazione interna al corpo testuale. La citazione è già un primo metodo utilizzato dall’autore per inserirsi nella tradizione e per legittimare il proprio ruolo all’interno di essa.

La citazione può assumere vari ruoli a seconda di come si colloca nel testo. È possibile individuare la citazione a margine, detta glossa, che indica il lavoro interpretativo che un tempo gli eruditi svolgevano ai margini dei testi teologici e giuridici. Tali note venivano talvolta inserite nella riscrittura del testo prima dell’avvento della stampa: esse non solo rappresentavano una valida chiave interpretativa, ma costituivano anche un nuovo testo all’interno dell’opera principale. Un altro genere di citazione è quella in nota ed è una variante tipografica delle glosse. Ha la funzione di sostegno al testo in modo da confermare le sue fonti, e permette ad un fruitore più interessato di approfondire l’argomento in questione. In ogni caso, si tratta di un apparato testuale “accessorio”, che non è fondamentale per la comprensione dell’intero prodotto letterario. Un terzo tipo di citazione è quella in

esergo o in epigrafe. Come suggerisce quest’ultimo termine, si tratta di una citazione

posta in una posizione privilegiata, solitamente all’inizio di un libro, al fine di fornire degli indizi per una migliore comprensione del testo. Inoltre, è un evidente riconoscimento intertestuale nei confronti di un’opera passata. Un altro genere di citazione è certamente quella bibliografica, che si presenta come un rinvio intertestuale ad un’opera o ad un insieme di opere, e ha lo scopo di fornire ulteriori riferimenti al lettore. Infine, vi è la citazione nel corpo del testo: è la forma più conosciuta ed utilizzata e che svolge più funzioni.

La citazione può assumere varie funzioni: la principale riguarda l’invocazione di autorità, ovvero l’utilizzo delle parole altrui in sostegno del pensiero dell’autore. Un altro genere di citazione è quella erudita, che ha lo scopo di presentare uno o più punti di vista per sostenere il pensiero autoriale. Essa può essere introdotta nel corpo del testo oppure in nota, a seconda dell’importanza che l’autore vuole attribuirle. Entrambe si avvalgono della parola diretta degli autori della tradizione per avvalorare

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quella dell’autore citante. Un’altra funzione della citazione è detta amplificatoria o di stimolo poiché serve a fornire il punto di partenza per lo sviluppo di una riflessione su quanto riportato. In questo caso la citazione diviene lo spunto per forme di analisi quali la critica e il commento. La funzione ornamentale della citazione serve spesso ad introdurre delle digressioni all’interno del testo. Nella maggior parte dei casi viene impiegata per mostrare le abilità e le conoscenze dell’autore citante, il quale approfitta di queste digressioni per ostentare la propria cultura. La citazione può anche svolgere una funzione di tipo critico-parodico: si tratta di tutti quei casi in cui la citazione viene adoperata per ribaltare il suo significato originale.

1.6.2. L’allusione

L’allusione letteraria è un altro dispositivo intertestuale che si distingue dalla citazione per due aspetti: il primo riguarda l’assenza di virgolette o di altri strumenti utili per isolare il discorso citato, mentre il secondo concerne la possibilità di non rispettare la letteralità del testo originario. L’allusione quindi è più difficile da individuare, richiede un occhio più attento e, soprattutto, una più ampia formazione culturale e letteraria. È l’autore che sceglie come disseminare la propria opera di allusioni: è certo che il riconoscimento della loro presenza può condizionare notevolmente l’esegesi del testo. L’allusione, in generale, richiede ai propri interlocutori una certa complicità, per cui il mittente deve considerare il background culturale del proprio utente prima di far riferimento a nozioni di cui potrebbe non essere in possesso. È possibile identificare due generi di allusione: quella retorica, che riguarda una forma orale e discorsiva, e quella letteraria, attinente alla forma scritta. L’allusione letteraria può essere di carattere celebrativo, con lo scopo di commemorare l’autore citato, oppure di carattere ironico-critico. Ma ciò che conta non è tanto il rapporto fra l’autore citante e l’autore citato, bensì quello fra la figura autoriale e il lettore. L’autore è consapevole che solo una ristretta cerchia di lettori sarà in grado di individuare i suoi richiami nascosti nel testo. La lettura si presenta come un lungo labirinto da cui i più abili riescono ad uscire fuori per primi. Riconoscere le allusioni letterarie non solo permette di fare un lavoro esegetico più profondo, ma dà la possibilità di esplorare la biblioteca dell’autore e di scavare nel suo passato. Il lavoro di ricerca delle allusioni letterarie non è certo facile,

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non solo perché esse non sono individuabili grazie a particolari elementi grafici, ma anche perché spesso subiscono variazioni da parte dell’autore citante.

1.6.3. Le fonti

Lo studio delle fonti, come è già stato anticipato, è la ricerca erudita di stampo storico e filologico che ha lo scopo di individuare le opere che hanno determinato la creazione di un testo letterario. In passato sono nate delle vere e proprie correnti di studi che si occupavano di questo genere di ricerca: un esempio è la scuola storica della metà dell’Ottocento, rappresentata in Italia da Domenico Comparetti (1835-1927) e Pio Rajna (1847-1930).

Attualmente la critica letteraria tende a vedere la letteratura come un sistema organicamente strutturato, per cui ogni opera è inevitabilmente legata alle altre secondo diversi parametri che possono riguardare il genere, la tematica e il periodo di appartenenza. Ricercare le fonti di un romanzo significa ricostruire la memoria poetica dell’autore, la quale diventa un intertesto utile per comprendere l’intera opera. Tale procedimento ci permette di entrare nelle biblioteche dell’autore, nel suo laboratorio, ed abbiamo la possibilità di comprendere le sue scelte poetico-letterarie.

Cesare Segre propone una distinzione fra la fonte propriamente detta e il fenomeno dell’interdiscorsività. La prima è facilmente riconoscibile perché resa manifesta dall’autore stesso, mentre per quanto riguarda la seconda si tratta di un procedimento talvolta inconscio, che è il risultato di un processo linguistico e culturale che investe un’intera generazione. Lo studio delle fonti odierno prevede un equilibrio fra l’individuazione delle fonti esplicite e dei processi interdiscorsivi presenti nell’opera.

Lo studio delle fonti può essere associato a quello delle varianti, che si occupa dell’analisi delle varie stesure di una determinata opera prima della redazione definitiva. L’insieme delle versioni provvisorie costituiscono l’avantesto, che si presenta a sua volta come un intertesto di riferimento. L’avantesto permette di osservare i cambiamenti strutturali e compositivi subiti durante la creazione, che spesso operano notevoli trasformazioni a livello complessivo. L’intertestualità può essere esterna e derivare perciò dalle influenze di altre opere oppure interna, in quanto collegata agli influssi provenienti dall’intero corpus testuale dell’autore.

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L’intertestualità interna consiste sia nella ripetizione di citazioni tratte da testi precedenti sia nella ripresa e confutazione di pensieri espressi in passato.

1.6.4. I generi

I rapporti intertestuali sono collegati anche alla classe dei generi letterari, i quali nascono proprio per suddividere le opere in categorie. Ciò sottintende un grado di parentela fra tutte le opere letterarie che presentano dei tratti in comune, difatti possiamo parlare di intertestualità anche in questo caso.

Maria Corti definisce il genere letterario come lo spazio in cui “un’opera entra in una complessa rete di relazioni con altre opere”14. Ogni genere letterario dà quindi

avvio ad un’infinità di relazioni intertestuali che possono essere classificate secondo tre categorie principali: intrageneriche, intergeneriche ed extrageneriche.

Il livello intragenerico riguarda la riproduzione e ripetizione di uno stesso genere. Ne sono un esempio i testi della letteratura popolare o paraletteratura, che hanno la tendenza a somigliare ad uno stesso modello comune e ad essere serializzati. Uno dei motivi che spinge gli autori a produrre numerosi continui delle proprie opere è certamente quello commerciale: quando un’opera ottiene successo si cerca di sfruttare quel modello finché non se ne esauriscono le risorse. Gli autori di paraletteratura costruiscono le proprie narrazioni su precisi schemi e modelli che hanno in comune una risoluzione positiva dell’intreccio. Per quanto riguarda la relazione intertestuale di tipo intergenerico, si assiste ad una variazione e trasformazione del modello. Ciò comporta una ridefinizione interna del genere, che prevede l’alterazione di determinate caratteristiche che solitamente gli vengono attribuite. In alcuni casi è possibile individuare una commistione di generi all’interno della medesima opera che tende a spostare il modello generico in un’altra dimensione. In tal caso, il modello muta a seconda del periodo storico, rinnovandosi continuamente grazie alle influenze esterne. Ma è a livello extragenerico che si attuano i cambiamenti più importanti poiché, in questo caso, è il discorso culturale ad intervenire nella modifica dei modelli generici. I periodi di guerra, ad esempio, vedono nascere numerosi testi che fanno parte dei settori della memorialistica e della diaristica. Con il

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mutare dei tempi, molti generi hanno subito dei cambiamenti notevoli, alcuni di essi sono caduti in disuso, altri sono stati abbandonati e, in seguito, hanno vissuto dei periodi di rinascita. Il romanzo moderno è il risultato della commistione di numerosi generi che si intersecano fra loro ed è proprio in esso che il fenomeno dell’intertestualità è reso esplicito.

1.7. Le trasformazioni intertestuali

Con trasformazioni intertestuali si intendono quelle forme che Genette ha inserito nella categoria dell’ipertestualità: l’ipertesto è costruito a partire dall’ipotesto, perciò il primo non può essere compreso se non in relazione al secondo. Genette elenca due forme principali di trasformazione dell’opera: la prima è una trasformazione semplice o diretta che avviene attraverso delle operazioni che modificano direttamente la struttura e il contenuto dell’ipotesto. La seconda è una forma di trasformazione

indiretta o imitazione che non agisce esplicitamente sull’ipotesto, di conseguenza lo

stile viene imitato e adattato ad un contenuto diverso. Queste due forme possono combinarsi con i tre tipi di registro o regime, ludico, satirico e serio, e possono dar vita a sei possibili forme di trasformazione testuale. Pertanto, si ottengono la parodia, il travestimento, la trasposizione, il pastiche, la caricatura e la continuazione. Lo stesso Genette ammette che non è facile distinguere le suddette forme che spesso di confondono fra di loro, ma egli mantiene inalterata tale classificazione nel corso della propria opera.

1.7.1. La parodia

Il termine parodia viene utilizzato in ambito artistico per indicare l’imitazione di un brano musicale, di un’opera letteraria o di un prodotto artistico in generale. Il primo ad utilizzare tale vocabolo è stato Aristotele che, nella sua Poetica, l’ha associato all’azione bassa in ambito narrativo: si tratta di un genere composto da riferimenti allusivi ad altre opere. Sarà Genette a sviluppare questo argomento e fare maggiore chiarezza. Innanzitutto, è utile rifarsi all’etimologia: ode significa “canto”, mentre

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para significa “lungo”, “a lato”. Il termine parodein, da cui parodia, significa cantare

a lato, stonare. Secondo la categorizzazione di Genette, la parodia è il risultato di una trasformazione diretta di un ipotesto A in un ipertesto B, la cui funzione o regime è di tipo ludico, ovvero non ha intenzioni aggressive ma è finalizzata al puro divertimento. Secondo un’accezione più tradizionale, la parodia ha una funzione satirica e burlesca ed è caratterizzata da toni comici e canzonatori nei confronti dell’ipotesto di riferimento. Ha origine in età classica e si associa ai componimenti dal carattere comico che venivano recitati durante gli intervalli delle rappresentazioni pubbliche delle opere omeriche. Genette fa accenno al travestimento burlesco, un genere di trasformazione sorto nel XVII secolo, e che ebbe fortuna per pochi decenni. Questa pratica consiste nella riscrittura di un testo nobile in volgare. Genette cita come esempio il Virgile travesti (1648) di Paul Scarron (1610-1660) che rivisita in chiave comica l’Eneide virgiliana utilizzando uno stile familiare, mettendo in evidenza i dettagli meno rilevanti dell’intera vicenda. In periodo rinascimentale si fa sempre più spazio la poesia burlesca, che fa delle Rime di Petrarca l’oggetto del proprio sarcasmo. Al tempo il petrarchismo era un fenomeno ampiamente diffuso in Italia e nel resto di Europa e prevedeva l’acquisizione del modello trecentesco, sebbene i suoi modi risultassero ormai artificiosi e ridondanti. Difatti alcuni autori rinascimentali si dilettarono nella riproduzione di versi dal tono burlesco, in cui decantavano la bellezza della donna amata.

In età moderna e postmoderna la parodia assume un tono ironico ed agisce creando una sintesi fra il testo parodiato e quello parodiante. Quando invece il tono diviene satirico, la parodia ha una funzione distruttiva verso il modello di riferimento. In entrambi i casi, secondo le teorie di Genette, la parodia non può essere considerata un vero e proprio genere ma una modalità di trasformazione intertestuale che si esaurisce velocemente. Nella narrativa la parodia diventa stancante per il lettore, basti pensare al caso di Shamela (1741) di Henry Fielding (1707-1754) che si prende gioco del romanzo epistolare di Richardson dal tono didattico e moraleggiante. Fielding propone anche un altro genere di parodia più velata con Joseph Andrews (1742), il cui protagonista è il fratello della già nota Pamela. L’opera prende le distanze dalla satira volgare precedente e non concede alla parodia di diventare il fulcro dell’intera narrazione. Un ulteriore esempio di parodia ironica è costituito da Northanger Abbey (1818) di Jane Austen, un romanzo che combina il novel of sensibility e il gothic novel,

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Morland si presenta come un’anti-eroina che interpreta la realtà che la circonda in base alle proprie letture. Tutta l’opera è permeata da un tono ironico che evidenzia le fragilità e i difetti della protagonista, i cui tratti sono del tutto diversi rispetto a quelli delle figure femminili dei romanzi che è abituata a leggere. La storia di Catherine ricorda quella di un’altra protagonista più famosa, Madame Bovary (1856), che, a sua volta, confronta la realtà di provincia con quella raccontata nei romanzi che la appassionano. Le due protagoniste hanno dei punti in comune non solo l’una con l’altra ma anche con un personaggio che è l’anti-eroe per eccellenza, Don Chisciotte, il quale, immerso in un mondo romanzesco parallelo, abbandona la vita quotidiana per farsi cavaliere errante. Tutti questi personaggi scambiano il mondo reale con quello fittizio e non riescono ad accettarlo: ad alcuni verrà riservato un finale tragico mentre ad altri verrà data una possibilità di riscatto. I rispettivi autori si servono di questi soggetti per mettere in atto i meccanismi della parodia, imitando e trasformando quei modelli divenuti popolari in una determinata epoca.

1.7.2. Il pastiche

Il pastiche si distingue dalla parodia poiché non riprende un testo specifico ma lo stile di un autore: si tratta di un’imitazione che rievoca forme espressive e stilistiche, ovvero l’idioletto di uno scrittore. Ciò che il pastiche ha in comune con la parodia è invece il carattere ludico, si presenta difatti come un gioco e ha lo scopo di mostrare le abilità dell’autore. Questa pratica può avere una funzione costruttiva per lo stile dell’imitatore e consacratoria nei confronti di colui che viene imitato.

Nella categoria del pastiche possiamo includere la caricatura, che ha una funzione satirica e dissacratoria verso l’opera che imita. Si può manifestare attraverso un’esagerazione del linguaggio autoriale, i cui tratti vengono messi in ridicolo rispetto all’epoca presente. Inoltre, tale esagerazione può consistere in una ripetizione insistita dei tratti stilistici del codice di un autore fino ad ottenere una saturazione stilistica del testo. In definitiva, lo scopo della caricatura o del pastiche satirico è quello di estirpare uno stile considerato non più conforme alle regole correnti. In entrambi i casi, l’imitazione è resa evidente ed è riconoscibile da parte del lettore attraverso l’uso insistente di tratti personali oppure tramite gli elementi appartenenti al peritesto. Molti autori si sono cimentati nell’uso di questa tecnica: fra essi non possiamo non ricordare

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Marcel Proust (1871-1922), il quale pubblicò una raccolta intitolata proprio Pastiches che includeva nove racconti narrati secondo lo stile di celebri scrittori, fra cui Balzac, Flaubert, Sainte-Beuve e i fratelli Goncourt. Proust credeva che il pastiche fosse un esercizio valido per poter permettere all’autore che imita di affermare un migliore stile personale. Ma il pastiche non è solo imitazione dello stile di un singolo, ma anche di un’intera epoca. Basti pensare all’introduzione di Alessandro Manzoni ai Promessi

Sposi (1840), in cui l’autore riproduce lo stile secentesco del presunto manoscritto

ritrovato da cui aveva ricavato la storia che si accingeva a narrare. Il ritrovamento dell’antico manoscritto era un dispositivo letterario ormai affermato all’epoca, ma il genio qui si rivela nell’accurata redazione in uno stile ridondante e ormai superato. Un altro caso interessante è quello di Raymond Queneau (1903-1976), il quale si è dilettato nella riscrittura di un banale episodio di vita quotidiana attraverso novantanove stili e registri differenti, dalla lettera ufficiale, all’impianto giornalistico, all’uso dell’onomatopea e così via.

1.7.3. La continuazione

La continuazione si colloca nella categoria dell’imitazione che adotta, stavolta, un registro serio. Qui non si tratta più di riprodurre uno stile bensì di riprendere un’intera narrazione. L’autore deve essere abile nello sviluppare un nuovo intreccio che si ricolleghi al precedente, per cui deve essere coerente con gli episodi già narrati e con le dinamiche che si sono create. Genette definisce questa forma di continuazione come un’imitazione vincolata o a soggetto parzialmente imposto. Tale forma può concludere un’opera che era stata interrotta oppure prolungare una storia apparentemente conclusa. Questo genere di operazione può essere effettuato sia dall’autore stesso che da un autore diverso da quello del testo oggetto della continuazione. Il motivo principale per cui si riprende un’opera già conclusa è la fortuna che essa ha conosciuto: è come se fosse una garanzia che assicura all’autore un pubblico già interessato al suo lavoro. Genette distingue la continuazione dalle altre forme di imitazione per la sua ripresa di un modello narrativo o di un mondo di

finzione. Un esempio lampante è la relazione fra l’Orlando innamorato (1495) di

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anni dopo Ariosto decide di proseguire la narrazione riprendendo da dove si era interrotta. Attraverso un riassunto sugli ultimi sviluppi dell’intreccio, Ariosto aggiorna e coinvolge i lettori prima di introdurre la nuova narrazione. Un altro esempio interessante è costituito dal rapporto di continuazione fra I tre moschettieri (1844) di Alexandre Dumas (1802-1870) e Vent’anni dopo (1845) dello stesso autore. Vista la notevole fortuna incontrata grazie al primo romanzo, Dumas decide di “riaprire” le avventure dei moschettieri: si presenta come un’operazione non semplice, in cui l’autore deve mantenere una certa coerenza con gli episodi passati. In generale, l’autore cerca di instaurare un rapporto confidenziale con i propri lettori in modo da agganciare la loro attenzione fin dall’inizio e per farli sentire parte di una storia già nota.

La continuazione può riguardare anche lo sviluppo di un episodio marginale contenuto in un’opera. Ad esempio, l’Eneide può essere considerata una continuazione dell’Iliade, al cui interno viene dedicato uno spazio esiguo alla figura di Enea, il quale sarà invece protagonista dell’opera virgiliana. Se la continuazione non è dichiarata può sfociare nella falsificazione letteraria e dare vita ad una sorta di continuazione fraudolenta. La forma di imitazione non dichiarata di un’opera altrui è definita plagio, mentre con apocrife si intendono quelle opere attribuite all’autore imitato ma che, in realtà, sono state composte da un altro.

1.7.4. La trasposizione

La trasposizione è il risultato di una trasformazione seria secondo le teorie di Genette, il quale la definisce come “la pratica intertestuale più importante”15 per la sua rilevanza

a livello storico e per i risultati eccellenti che ha prodotto. Genette distingue fra due principali tipologie di trasposizione: quelle formali e quelle tematiche. Le prime riguardano le trasformazioni a livello formale o espressivo e non incidono sul contenuto, mentre le seconde coinvolgono proprio l’aspetto contenutistico. Si possono effettuare vari tipi di processi, quali la versificazione, che consiste nella trasposizione in versi di un testo in prosa, oppure il procedimento contrario, la prosaicizzazione. Un altro genere di pratica consiste nella trasformazione a livello quantitativo del corpo

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