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Protagora. Asserzione e discorso nel V secolo

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione - Uno sguardo generale sui problemi tra mondo

contemporaneo e mondo antico 3

Capitolo 1 - Protagora e i suoi avversari 34

1.1 Il nucleo della posizione di Protagora 35

1.2 Autoconfutazione? Protagora e la tradizione antiprotagorea 45

1.3 Cenni su leggi e politica 66

1.4 Socrate: politica e discorso 70

Capitolo 2 - Erodoto, Euripide, Tucidide 79

2.1 L'impresa intellettuale di Erodoto: il campo del discorso 79

2.2 Autoconfutazione in Erodoto? 86

2.3 La generalità della conoscenza nelle Storie 88

2.4 Sull'asserzione nel V secolo 94

2.5 Euripide e il linguaggio 101

2.6 Le Storie di Tucidide: un confronto sistematico e critico

con le dottrine protagoree 108

Capitolo 3 - Aristotele e Protagora 118

3.1 Comprensione e giudizio 119

3.2 La via alla scienza: il significato 131

3.3 Metafisica Iota: dall'evidenza linguistica a quella qualitativa 141 3.4 Metafisica Gamma: la resa dei conti con Protagora 149 3.5 Alcune considerazioni finali: discorso, uomo 179

Appendice su naturalismo e antinaturalismo 187

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Introduzione

Uno sguardo generale sui problemi tra mondo contemporaneo e mondo antico

Il lavoro che presento qui su Protagora e il confronto col suo pensiero nel V secolo e oltre rientra in un orizzonte di studio più ampio, che ha al centro la filosofia del linguaggio contemporanea e una proposta in materia di comprensione linguistica, logica e teoria del discorso. La prima parte (1.) di questa introduzione è stata scritta in vista di un lavoro più ampio; insieme all'Appendice all'ultimo capitolo su naturalismo e antinaturalismo può fungere da esposizione a grandi linee della mia visione di questi problemi: è il contesto generale in cui si situa anche la mia lettura del pensiero del V secolo. Nella seconda parte (2.) fornirò un abstract degli argomenti che affronterò nei tre capitoli della tesi.

1. Gran parte delle mie riflessioni sono rivolte a un problema estremamente generale e tanto più elusivo, che potrei definire così: come concepire, tenendo conto di alcune opzioni individuate come rilevanti, un'immagine convincente della comprensione linguistica umana e della sua relazione con ciò che chiamiamo il “cognitivo”. Quand'è che abbiamo a che fare con un linguaggio, e che cosa lo costituisce realmente, almeno nell'esperienza umana? Come è possibile concepire in modo sensato e non riduttivo il fenomeno della comprensione, e che tipo di rapporto ha con l'intenzionalità?

Parlare di “linguaggio” come una nozione unitaria è un'assunzione forte, sia per la pluralità estrema delle forme e della prestazioni che potremmo definire linguistiche, sia per l'eterogeneità dei meccanismi che entrano in gioco anche solo nel linguaggio verbale e, poniamo, all'interno di una singola lingua (ammesso che esista un modo, formale o meno, di definirla univocamente). Non mi caricherò necessariamente di questa assunzione, tuttavia mi rendo conto che gran parte delle intuizioni che ho tentato di sviluppare affrontando autori e pensando a diverse dimensioni del linguaggio, hanno a che fare con e sono discutibili solo come un problema generale.

Non si tratta di un modo ovvio di pensare. Per esempio è senz'altro possibile invece che risposte soddisfacenti, razionalmente controllabili, siano in grado di illuminare solo un insieme opportunamente isolato, definito (anche se rilevante e ubiquo nella comunicazione verbale umana) di prestazioni linguistiche, normalmente collegandole a performance cognitive particolarmente semplici e trasparenti. La

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capacità della logica di primo ordine di formalizzare il linguaggio naturale - la potenza quasi magica del simbolismo fregeano di schematizzare in qualche modo tutto ciò che diciamo1 (purché si sia già padroni del linguaggio oggetto) - o la facile individuazione di contenuti “proposizionali” elementari (“la mela è sul tavolo”, “la neve è bianca”), inducono a pensare che fra questo tipo di analisi e livelli più complessi e arditi della produzione linguistica umana – poniamo un romanzo come Arcobaleno di

gravità di Pynchon o un discorso delle Storie di Tucidide, in cui non è affatto scontato

che cosa si voglia dire2 – esista una discontinuità fondamentale. Ci sono tanti modi di approcciare e rappresentare questa discontinuità, di darle un profilo lampante, formulati specialmente nell'ambito filosofico analitico e postanalitico. Sono convinto

1 E, si potrebbe aggiungere, la capacità metalogica contenuta nella competenza linguistica di questo simbolismo di sopportare limitazioni o estensioni del suo apparato, ossia di allargare o restringere opportunamente il campo di ciò che si prende come “logico” (esempi: logica modale e intuizionismo). Questo fenomeno, estraneo per esempio alla logica aristotelica (che in confronto sembra una tecnica locale, idiomatica) è legato a una competenza specifica interna al simbolismo fregeano: lo schematismo linguistico. Si tratta di uno dei contributi più importanti di Quine averlo messo adeguatamente in luce, sia pure nel contesto di dottrine che non sposo.

2 Qui evidentemente è aperta l'opzione pratica di una distinzione più o meno tracciabile fra comprensione “letterale” e “interpretazione”. É un'opzione funzionale anche alla seriosità dell'ermeneutica, ma secondo me si tratta di una cattiva immagine, se deve servire a cogliere più a fondo l'“elemento” del linguaggio. Il linguaggio, e questo lo si vede bene proprio osservando le sue costruzioni più complesse eppure perspicue, che costituiscono alcune delle performance cognitive umane più avanzate, semplicemente non funziona così. Nei due esempi menzionati sopra per esempio, è perlomeno problematico distinguere per gradi tutto ciò che sta tra la trasparenza (poniamo) a livello enunciativo e ciò che l'intera opera o sue parti significano, o a cui equivalgono. Dove bisognerebbe tirare la linea che divide enunciati-asserzioni semplici da livelli argomentativi (più o meno formalizzabili) e da, ancora, quella specie di livello generale di significanza di discorsi che viene semplicemente lasciato a se stesso e ad altre discipline? Credo che si possa dare un resoconto diverso della natura di questa linea; e sostengo comunque che qui ci troviamo di fronte a un unico processo materiale di comprensione. Per quanto questo possa suonare paradossale anche per molta pragmatica, non esiste qualcosa come un linguaggio compreso (semantica) e poi quello che uno ci fa. Questa è un'illusione ottica che pare confermata dai processi di traduzione interlinguistica e dal loro elevato grado di evidenzialità (l'evidenza, per esempio, di una traduzione sufficientemente corretta di Pynchon in italiano senza scomodare un livello interpretativo). Ovviamente non sono queste evidenze che contesto (“salvare le evidenze”, ma le più ampie

possibili, potrebbe essere al contrario un ottimo slogan), e nemmeno la nostra obiettiva capacità di

tracciare vari livelli di comprensione proprio nell'atto di comprendere; ma si tratta almeno in parte di invertire l'ordine di spiegazione che queste competenze sembrano suggerire.

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tuttavia che queste opzioni offrono un'immagine discutibile anche delle porzioni di

linguaggio che esse sono capaci di spiegare o di gestire; e che la cesura, dovunque

si tenti di fissarla, risulta flagrantemente arbitraria.

In ogni caso è con la tradizione postanalitica che mi sono confrontato in modo prevalente, anche per affrontare i problemi rintracciati a partire dalla sofistica antica; in essa ho trovato anche alcune delle risposte più illuminanti e degli stili intellettuali a me più congeniali. Non ho da proporre qualcosa come una teoria alternativa della comprensione; tuttavia intendo avanzare l'idea che la nozione stessa di “teoria”, se si guarda alla logica (che è il suo tratto distintivo) in un certo modo, consiste in una prestazione cognitiva e discorsiva molto specifica, che in realtà è del tutto inadatta a contenere questi problemi entro il proprio cerchio.

Di fatto, anche senza “teoria”, noi facciamo uso di diverse immagini - non necessariamente coerenti e non facilmente individuabili - per rappresentarci il linguaggio e il suo impiego, che sono immagini complessive. È pensabile che queste immagini generali, collegate in qualche modo tra loro, abbiano un ruolo rilevante nell'uso del linguaggio/dei linguaggi3: perché senza di esse risulta difficile dare una qualche ragione della nostra abilità cognitiva di collocarci ogni volta, come invece siamo in grado di fare, al livello “giusto” della valutazione di un contesto linguistico, in una parola spiegare quel fenomeno straordinario che è la nostra competenza

contestuale4. Il rapporto fra questa nostra profonda competenza preteorica o

3 Nell'Appendice al terzo capitolo profilerò una tesi ancora più forte: che non esiste proprio linguaggio (umano) fino a che (se non nella misura in cui) ci formiamo in qualche modo delle “immagini” (del tutto preteoriche, si intende) di ciò che facciamo usando quel linguaggio/il linguaggio in generale. Una delle mie tesi centrali è che in realtà non c'è linguaggio senza una certa forma di autoriferimento linguistico, che è di tipo discorsivo.

4 Parlo anche qui di un fenomeno generalissimo e ubiquo nell'uso del linguaggio. Si tratta del fatto, detto sommariamente, che già una competenza base di una lingua comporta una capacità di attribuire una “valenza” diversa agli stessi termini in contesti differenti. “Contesto” può voler dire diverse cose, in particolare: 1) contesto enunciativo (a quali parole un item si accompagna, in che ruolo grammaticale etc., e in base a ciò attribuzione di un valore “semantico”); 2) contesto pragmatico, cioè tutto quello che può essere detto della situazione esterna in cui viene proferito un enunciato; 3) contesto che chiamo “discorsivo”, che è dato dalla relazione “interna” (cioè stabilita

entro la comprensione) che una asserzione intrattiene con l'ambito discorsivo in cui è collocata. Il

terzo punto costituisce secondo me un'area a sé spesso non visualizzata dai tentativi filosofici e modellistici: questi ultimi in particolare funzionano proprio come rappresentazione del linguaggio interamente in termini di 1) e 2) (e tendenzialmente propongono un modo in cui i confini tra questi due vengono tracciati). In ogni caso mi importa qui osservare come la contestualità non sia un

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extrateorica e i contributi rivoluzionari della “filosofia del linguaggio” del secolo scorso e attuale è molto delicato: la filosofia probabilmente oscilla per sua natura, e soprattutto parlando di linguaggio, fra riduzioni determinate, locali, e la capacità di esibire la generalità dei fenomeni che descrive5. In ogni caso un motivo portante di questo lavoro è la convinzione che categorie, metodi di indagine condivisi e soluzioni filosofiche siano in ultima analisi persuasive e sensate per la loro capacità di rendere perspicue, ma anche intaccare e modificare, quelle intuizioni generali. Probabilmente è prerogativa dei grandi filosofi farlo (ci convincano o meno le loro soluzioni specifiche): alcuni autori per me fondamentali come Quine, Austin, Goodman, Putnam, Cavell saranno evocati qua e là per questo motivo.

È importante però osservare che quello di fornire “immagini” del linguaggio o di “immettervi” trasparenza, non sia un compito esclusivamente filosofico, e secondo me nemmeno specificamente tale. Nel giocare il suo ruolo “obliquo” (qualcosa come la sua capacità spasmodica e a tutto campo di autoriferimento linguistico e cognitivo), la filosofia non fa che rientrare nel fenomeno più ampio e radicale del funzionamento del linguaggio umano e della continua costruzione linguistica e culturale dell'uomo, della “invenzione” di discorsi6. Voglio dire, più precisamente, 1) che essa fa appello a una comprensione/competenza generale che i discorsi umani contengono necessariamente già, e 2) che d'altra parte come tutti gli altri discorsi funziona perché riesce a parlare a un livello “primario”, cioè perché riesce a dire

qualcosa di specifico. Quanto al primo punto, sono convinto che nella produzione

fenomeno solo di tipo lessicale o intraenunciativo: si può profilare la possibilità che essa vada considerata unitamente a prestazioni più avanzate, come la capacità di cogliere il ruolo nel e il tipo di discorso, e che tutto questo sia determinante per avere il risultato autentico della comprensione: l'intenzionalità. La contestualità della comprensione vista in tutta la sua radicalità è qualcosa di cui Wittgenstein e altri dopo di lui hanno parlato in termini di “fisionomie”. Probabilmente il termine più che spiegare è un modo di dare un nome a un fatto, se non altro di vederne la generalità; però ne suggerisce anche un'immagine naturalistica (come riconoscere un volto: è qualcosa che è già inscritto nella nostra struttura biologica, comunque essa funzioni), rispetto a cui proporrei una alternativa di tipo discorsivo.

5 Aristotele è probabilmente il caso paradigmatico della convivenza difficile, ma evidentemente anche feconda, tra un'intelligenza acutissima del carattere non univoco del linguaggio e un'esigenza assiologica, che per lui costituisce pur sempre l'unica garanzia di oggettività e di conoscenza.

6 Preciso subito che impiego queste espressioni in modo diverso, privo dell'eco rortyana, relativista e postmodernista che esse portano subito con sé, come dirò più avanti.

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umana di linguaggi e di nuovi tipi di discorso è letteralmente “incorporata” (e necessaria) la capacità di riferirsi ad essi e di collocarli in uno spazio cognitivo

generale. Non c'è un'operazione specifica, chiamata “filosofia”, inventata in alcune

fortunate circostanze storiche e culturali, che ci insegna a farlo. La nostra competenza sul linguaggio è una faccenda che ha a che fare in gran parte col fatto stesso di capirlo.

Questo vuol dire anche che la “generalità” non è monopolio della filosofia, e tantomeno è una sua creazione. L'idea che ci sia una “disciplina” o uno spazio discorsivo specifico cui fare ricorso per sapere cosa bisogna veramente pensare delle cose (un'idea molto allettante che penso sia venuta in mente a chiunque abbia deciso di investire le proprie energie nella filosofia) è probabilmente l'idea socratica, che personalmente ho capito di non condividere. Una cosa che farò a questo proposito è suggerire che nel V secolo si aprirono alcune vie differenti, di cui Protagora dovette essere un esponente decisivo, e che lo spettro di Protagora è presente nella filosofia greca classica in modo ben più pervasivo e dirompente di quanto sembri. Come caso particolarmente significativo, mostrerò come per Aristotele fosse un problema centrale affrontare ed esorcizzare certe intuizioni protagoree o comunque riconducibili ad acquisizioni non banali (e normalmente banalizzate) della prima sofistica; e che proprio Aristotele, in alcuni passaggi cruciali, adotta (o è costretto ad adottare) nientemeno che argomenti protagorei. È un debito non dichiarato che ha una motivazione nell'antagonismo profondo e irriducibile che la linea di pensiero socratico-platonica sentiva verso la tradizione che definirò protagorea.

Cercherò di mostrare come questa tradizione affrontasse questioni sensibili per noi sulla natura del linguaggio e del suo rapporto col cognitivo; che, per esempio, essa prese in seria considerazione (fatto estraneo alla filosofia greca classica), la consistenza dei fenomeni transculturali, con le loro ricadute sul modo di concepire il linguaggio. E che essa è stata di fatto portatrice di una proposta molto diversa – non siamo purtroppo in grado di dire con precisione con quale grado di elaborazione e di astrazione – in merito al tipo di evidenza di cui asserzioni e discorsi sono in generale capaci (di nuovo, con una ricaduta importante sul problema del posizionamento e del ruolo del discorso che da quell'epoca in poi chiamiamo filosofico nell'insieme della cultura e delle conoscenze umane).

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Proprio le questioni transculturali (con tutto il problema annesso del relativismo) cui ho appena accennato in relazione a una “tradizione” protagorea sono centrali del dibattito filosofico e culturale contemporaneo; di più, sembra la descrizione di uno scenario problematico tipicamente moderno. Credo ci sia molto di vero e di significativo in ciò; ma questa specificità del “moderno” è un fatto non scontato e non semplice da inquadrare. Noi la percepiamo con una evidenza in parte dovuta al fatto che è la storia che ci costituisce direttamente (e rispetto alla quale può sembrare che la mossa ideale sia quella di collocarsi come post-), ma questo rende anche difficile focalizzare ciò che davvero la caratterizza o è rilevante. Prima di passare all'estratto degli argomenti che tratterò, mi inoltrerò in alcune considerazioni di tipo un po' diverso da quelle precedenti, che ne rappresentano però uno sfondo importante, che vorrei almeno delineare. Si tratta di problemi più facilmente trattati in ambiti di “teoria della cultura”, ma che a mio parere si trovano per molti riguardi al cuore di una riflessione concreta sul linguaggio, e si intersecano in vario modo con l'ambito più ristretto delle mie argomentazioni.

In un certo senso vorrei proporre una versione un po' diversa di ciò cui i filosofi trovano comodo riferirsi come “senso comune”, guardando più da vicino alla sua “fisionomia” moderna e contemporanea. Il ricorso al senso comune sembra avere il vantaggio di puntare/riferirsi direttamente a ciò che è più basilare e condiviso7, ma si tratta di una nozione (filosoficamente) molto equivoca da gestire. Si può notare per esempio che si tratta di un concentrato non meglio distinto di competenze (1)

linguistiche (sapere come-quando usare correttamente le parole), (2) cognitive

(sapere “cosa significano” le parole e usarle per pensare, dominio dei concetti) e (3) di un insieme valutazioni-giudizi (assessments, che dicono come “stanno” le cose fra più possibilità e chiamano in causa posizioni personali o “culturali”). In prima battuta

7 Almeno ne parlo qui in questa accezione positiva, tralasciando il fatto che il termine è anche usato con altri parametri valutativi, per esempio in contrapposizione alle conoscenze scientifiche. Trovo però più rispondente alla nostra situazione effettiva pensare che il senso comune sappia bene che il colore degli oggetti è, fisicamente, radiazione elettromagnetica, e che, anche se non conosce il dettaglio della teoria fisica, sa operare l'opportuno rimando a quel campo di spiegazione. Questo non è che un esempio elementare della tipica obliquità che caratterizza il senso comune. Ovviamente non sempre le distinzioni sono così semplici, ma trovo che il fatto in sé non sia problematico.

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per il senso comune si potrebbe propendere per la terza accezione, ma se si guarda più a fondo la questione della rete delle nostre “credenze”, si può far vedere che non si tratta di questioni facilmente separabili8. Molta filosofia analitica degli ultimi decenni è consistita nell'elaborazione di modi soddisfacenti di “ripartire” questi (e altri) livelli, mettendo a punto potenti e raffinati strumenti di distinzione; ma che si voglia privilegiare versioni più linguistiche (Davidson, Dummett) o altre ancora (inferenzialiste, oppure combinazioni varie di semantica e pragmatica), l'analisi filosofica del nostro “terreno comune”, dello “zoccolo duro” sul quale poggiamo, sembra comportare un'importante astrazione di fondo: il fatto di considerarlo un “blocco” unitario, una sorta di realtà monodimensionale, in qualche modo rappresentabile o indagabile come una teoria9.

Qui vorrei chiedermi, sospendendo per ora il problema di eleggere una posizione filosofica, se non si debba guardare in modo diverso, a livello puramente fattuale, alla nostra situazione complessiva. Detto in termini approssimativi, quel “blocco” mi sembra piuttosto qualcosa di estremamente eterogeneo,

8 Siamo perfettamente in grado di vedere la distinzione fra questi tre piani, cioè di operare astrazioni lungo ognuno di essi; ma il problema è che se si pensa, poniamo, alla nostra competenza anche dei termini/concetti più semplici o basilari, quei tre piani si trovano intrecciati negli stessi fenomeni intenzionali. Basta un colpo d'occhio su qualche termine semplice, poniamo: “casa” e “vergogna”. Quello che intendo dire è che se si cerca di guardare “dentro” l'uso di queste parole, è impossibile distinguere quando si usa correttamente “casa” (“vergogna”) da quello che si pensa con “casa” (“vergogna”) e da ciò che si considera/giudica una “casa” (“vergognoso”): tutti e tre sono modi diversi di descrivere la stessa situazione, tutti e tre sono all'opera nell'asserzione (l'asserzione, si noti, è un po' il paradigma nascosto del “senso comune”: ci si riferisce ad esso come a ciò che comunemente si asserisce o si è disposti ad asserire). Detto altrimenti: 'comprendere' e 'giudicare'

sono distinguibili solo per astrazione. Su questo elemento di indecidibilità o di “interdipendenza tra

credenza e significato” cfr. diversi saggi di Davidson in Verità e interpretazione, in particolare “Interpretazione radicale” (p. 205), “La credenza e la base del significato” e “Sull'idea stessa di schema concettuale” (p. 281).

9 Che, si vedrà, significa applicarvi una qualche nozione “a tutto campo” di consistenza o di coerenza (i due termini significano in parte cose diverse). Si tratta per esempio delle visioni di fondo (pur sviluppate in modi diversi) di Quine e di Sellars. È da notare tuttavia come proprio tali generalizzazioni nelle loro mani siano estremamente illuminanti, capaci di far vedere in profondità le cose, anche quando le proposte radicali che ne scaturiscono convincono meno. La rappresentazione di un livello generale del pensiero e del linguaggio è qualcosa che sembra giocare un ruolo “pesante” sulla nostra stessa capacità/possibilità di pensare e di rappresentarci (che non è un fatto scontato: sia Austin che Wittgenstein la pensavano per esempio diversamente); il problema è come concepire tale livello.

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multidimensionale, e dipendente da una capacità estesa di comprendere e mettere in relazione prestazioni espressive e discorsive molto diverse tra loro e refrattarie a venire ricondotte, alternativamente, all'unità/generalità di una lingua (dai cui elementi lessicali e sintattici dovrebbe dipendere la possibilità di dire tutto) , o all'unità/generalità dei contenuti-pensieri esprimibili (che in un modo o nell'altro è il principio del proposizionalismo). La mia idea è che di fatto la “generalità” su cui poggiamo o di cui siamo capaci non sia un fenomeno lineare, cioè teorico-coerenziale di questo tipo. Essa richiede invece una capacità di attraversare contesti linguistici e discorsivi differenti e di reidentificarli, capacità che definisco “transteorica”, con riferimento al carattere solo locale assunto in essa dalla nozione di coerenza (la quale, in qualunque modo la si intenda, e ammesso pure che sia in tutti i casi la stessa cosa, è ciò che caratterizza una “teoria”).

Un modo di visualizzare questa situazione è notare come essa sia costitutiva o assuma massima evidenza proprio nel “moderno”. Assumo una nozione abbastanza larga di “modernità”, cioè come l'insieme di quei processi sociali e culturali di cui riusciamo a vedere in qualche modo una continuità diretta con ciò che siamo. È un fatto che nei secoli moderni i fenomeni di interazione linguistica e culturale hanno assunto (con un ritmo crescente fino a tutto il secolo scorso) dei modi e una velocità di rielaborazione inediti nella storia umana: essi si presentano in effetti come un grande processo di progressiva e radicale interconnessione su scala globale, che si offre spontaneamente a essere letto in modo unitario, come una grande storia non separabile se non a fini disciplinari (per quanto dire poi in cosa consista più di preciso tale unità è un'impresa tutt'altro che semplice). A me interessa attirare l'attenzione su alcuni tratti linguistici e culturali specifici di questa “fisionomia” moderna, che costituiscono secondo me nel profondo il nostro “senso comune” (che è qualcosa di estremamente complesso e stratificato) e che sono poi traducibili in questioni centrali di filosofia del linguaggio10.

10 L'argomento di cui parlerò qui con una certa libertà sfugge a un inquadramento disciplinare preciso. Si tratta di una situazione tanto ubiqua quanto non facile da mettere a fuoco, di cui hanno parlato autori molto diversi tra loro, che sono stati per me essenziali. Da un punto di vista socioeconomico è ovvio che quella dell'integrazione globale è la storia stessa del capitalismo, per la quale il Marx storico e interprete, per esempio nei Grundrisse, è sempre illuminante. Per gli aspetti linguistici un contributo fondamentale è la teoria del romanzo di Bachtin; un altro sguardo notevole sui fenomeni moderni, anche estetici, è quello di Stanley Cavell. Il romanzo moderno è uno dei luoghi per eccellenza in cui questa realtà moderna si fa perspicua, ma tutto l'impiego dei

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Osservo innanzitutto come anche in ambito più propriamente culturale si ripropongono alcune considerazioni analoghe a quelle che ho introdotto poco sopra. Quando si considera il livello dei fenomeni culturali infatti, è normale operare una separazione ideale (per quanto sempre mobile e oggetto di volta in volta di valutazione specifica) fra la lingua come strumento referenziale generale (che è veicolata dalla traduzione) e appunto la “cultura” (contenuti specifici, credenze, giudizi, inferenze tipiche ecc.). Ciò configura uno schema di massima in cui un complesso culturale è un certo sistema di cognizioni conosciuto e studiato dall'esterno11. Qui vorrei però mettere da parte questa astrazione proficua (e in certa misura sempre necessaria), e adottare un altro tipo di sguardo, per così dire

dall'interno delle nostre competenze linguistiche e culturali. Se si guarda cioè al

modo concreto in cui accediamo a cognizioni e contenuti culturali, al modo in cui questi di fatto sono presenti nella rete (anche sociale) delle conoscenze, emerge il fatto basilare che il mondo moderno (e contemporaneo, si intende) si presenta in

nuovi supporti e media del Novecento diventa il campo di un gigantesco crossing-over – unito a una ricerca di “materia” prima culturale economicamente sfruttabile - in cui la consapevolezza delle operazioni discorsive in gioco è al centro della capacità di usarle con successo. Bisognerebbe poi osservare come difficilmente si potrebbe trovare una consapevolezza più acuta dei fenomeni qui in gioco che negli esponenti (e nelle realizzazioni) più acuti della cultura afroamericana, da Amiri Baraka a Ishmael Reed. Aggiungo infine che il complesso di queste considerazioni è anche fortemente critico verso la categoria di “postmoderno”, come motiverò più avanti.

11 Il che vale anche se parliamo di noi, e dipende dal fatto che qualsiasi approccio “disciplinare” è reso possibile da una certa distanza (una distanza positiva e produttiva, si intende) tra categorie/nozioni generali impiegate e la loro stessa presenza/traduzione nel linguaggio primario (quello della cultura oggetto di analisi). E' anche una situazione idealmente paradossale, perché nulla di umano è studiabile senza una qualche competenza dall'interno. Tanto maggiore è la distanza da questa posizione “interna”, tanto più marcatamente “antropologico” è l'atteggiamento della disciplina (l'antropologia contiene una situazione costitutivamente ironica: applicata a noi stessi, per esempio, è come cercare di osservarsi senza tenere conto di ciò che sappiamo o valutiamo). In ogni caso proprio nell'analisi di lingue e culture lontane è evidente il fatto che la lingua e le nozioni specifiche assunte come “elemento” di generalità sono le nostre. La stessa cosa non vale invece per i linguaggi artistici (musicali e figurativi per esempio), il che comporta una discontinuità di metodo - che può essere un fatto significativo - nel “discorso” culturale e discipline relative. Quei linguaggi continuano a parlare la propria lingua - anche se resta nostro il modo di

riferirci ad essi; questo tuttavia a meno che non cominciamo a usarli a nostra volta: a questo punto

siamo noi che ne siamo per così dire irretiti, e possono spuntare parole sconosciute, categorie inedite per definire quegli ambiti del discorso, per esempio “jazz” o “haiku”.

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modo pronunciato come un complesso transculturale e translinguistico12. E proprio se si guarda alla sistematicità dei rapporti transculturali e al loro “spessore” linguistico, il quadro cambia notevolmente ed emerge una storia diversa.

Parto dalla seguente osservazione: le “culture” moderne che si sviluppano sui binari paralleli di diverse lingue di discendenza europea (mi limito a parlare di ciò di cui ho una qualche competenza), costituiscono esse stesse dei complessi internamente eterogenei, discontinui. Le lingue europee più dinamiche, trapiantate anche altrove e proiettate per così dire su nuovi mondi e ordini di grandezza, da un lato tendono a definire un proprio “canone”13, dall'altro (le due cose sono strettamente connesse) sono costituite attraverso un processo di assorbimento, selezione, incorporamento o riformulazione di idiomi e del loro lessico, ambiti specifici di discorso come linguaggi scientifici o linguaggi elaborati in particolari contesti sociali e “subculturali”, invenzioni intellettuali e letterarie, competenze di e in altre lingue. In una parola si definiscono (e si impongono) attraverso la loro capacità

di assorbire e di tradurre/riformulare linguaggi e tipi di discorso estranei e molto

differenti tra loro.

Questo fenomeno di emersione e trasmissione attraverso le diverse lingue “generali” è secondo me particolarmente rilevante. Il mondo moderno fino a noi è di fatto caratterizzato in modo inedito dalla moltiplicazione delle esperienze che entrano per così dire “in circolo” (cioè che sono dette e acquistano esistenza culturale e discorsiva): ci si trova di fronte letteralmente a un'esplosione di contenuti informativi e

insieme di tipi di discorso che si affermano in lingue diverse, linguaggi specialistici,

idiomi e subculture che per la prima volta entrano nel campo nelle conoscenze “generali” e vi acquistano un ruolo espressivo e pragmatico14, come accade per

12 L'impiego di questa terminologia estesa ai problemi filosofici è mutuato da altri ambiti di studio, che hanno a che fare con complessi culturali che mantengono identità profonde e riconoscibili anche attraverso gruppi sociali e manifestazioni linguistiche distanti tra loro. Il tutto è collegato all'idea che la competenza del linguaggio è in realtà molto vicina a una competenza di più linguaggi attraverso i quali siamo in grado di “saltare”. Un esempio dell'uso proficuo di questa terminologia sono gli studi recenti sull'identità afroamericana e transatlantica (fondamentali per comprendere il “moderno”), per esempio Gilroy, The Black Atlantic. Modernity and Double Consciousness. Personalmente devo l'introduzione a questa terminologia ai contributi di un grande musicista e intellettuale neroamericano, Anthony Braxton (cfr. Tri-Axium Writings).

13 Una propria forma razionalizzata e normalizzata, che è lo strumento compatto, maneggevole, sufficientemente generale che abbiamo ereditato nelle lingue attuali.

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esempio nelle situazioni ibride in cui il contatto sistematico con culture prima estranee crea nuovi esiti linguistici e discorsivi. Ciò che voglio mettere in rilievo è che l'intensificazione e la sistematicità moderna di questi fenomeni sia molto più che un fatto esterno rispetto ai “contenuti” conoscitivi e informativi, e che segni nel profondo la nostra intuizione e competenza del linguaggio, e addirittura la forma del nostro “sapere”, in particolare per due aspetti. Primo, il “corpo” delle nostre lingue moderne, compatte e funzionali (è il livello a cui normalmente i filosofi individuano tanto la “generalità” quanto il senso comune), si presenta piuttosto come un nucleo di strumenti capaci di raccordare un quadro composito, discontinuo - anche fuori dei confini standard di una “lingua” - di linguaggi, idiomi e contesti espressivi che “funzionano”. La la generalità della lingua è pertanto più nella capacità di “gestire” e riferirsi (come uno strumento di secondo livello) ai diversi linguaggi e contesti linguistici primari che qualcosa di per se stesso significante, costitutivo; mentre il livello della comprensione di quei linguaggi materiali15 può essere per molti aspetti riguardato come “primario”, come ciò in cui comprendiamo e ci esprimiamo a livello basilare, come l'ultimo “piede d'appoggio”16. Secondo, proprio considerando tale carattere estensivo, disomogeneo del nostro orizzonte linguistico-culturale, si vede un'altra cosa strettamente collegata, e cioè che ciò che ci permette di muoverci in questo spazio, di comprendere e reidentificare nozioni e contesti - in una parola: ciò che ci apre le porte della “generalità” - è perlomeno indivisibile da una competenza discorsiva (di nuovo, di secondo livello): capire cosa si dice è cogliere il tipo di discorso17.

Faccio alcuni esempi ad ampio raggio per introdurre la questione e avere qualche riferimento più concreto. Si pensi alla dinamica dell'impatto sulle lingue europee dei nuovi mondi: esse si trovano a convivere con e ad assorbire/riformulare

diminuzione della diversità linguistica globale che si verifica nelle fasi avanzate del mondo moderno corrisponda tuttavia un incremento massiccio degli idiomi e delle espressioni linguistiche e gergali “contenuti” nel quadro delle lingue più generali.

15 Sulla locuzione “linguaggio materiale” cfr. infra, nota 45.

16 Il che significa anche la radicale contestualità della comprensione del funzionamento dei termini o degli “elementi” linguistici. Questa per inciso è anche la tesi di Austin – e per molti versi anche di Wittgenstein - ma qui la sto profilando da un punto di vista diverso. L'idea che la comprensione sia al contempo funzione di un livello differente in cui ci si riferisce al linguaggio compreso è invece decisamente alternativo ad Austin, anche se i suoi scritti offrono importanti spunti per sostenerlo. 17 L'intenzionalità è in definitiva funzione di una competenza pragmatica di questo tipo.

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nel proprio “elemento” una serie di lingue e linguaggi estranei e ciò che viene detto in essi. Ciò che non va perduto nello sterminio ed entra nella rete di cognizioni linguistiche-culturali durante la convivenza forzata di generazioni non è solo ampliamento lessicale o acquisizione di conoscenze specifiche (poniamo: “patata” o “totem”18), ma molto di più: nuovi termini che hanno un'esistenza in parte oscura o indefinita perché in realtà supportati dall'uso in altre lingue e da pratiche sociali ignote, linguaggi gergali via via elaborati in nuovi ambiti sociali, tipi di discorso inediti - e termini nuovi usati per riferirsi ad essi - che gravitano dentro e fuori i confini (anche normativi) di una “lingua”. Si può richiamare a questo proposito un caso di portata enorme, il ruolo dirompente del black vernacular e delle musiche afroamericane nella pratica linguistica e nella cultura degli ultimi due secoli: la grande novità del mondo moderno e contemporaneo è che queste dimensioni filtrano nel “senso comune” e ne costituiscono estensioni e riformulazioni significative19. Non voglio però accreditare l'idea che si tratti solo di fenomeni indotti dal contatto “radicale” con altri mondi: l'estensione di contesti linguistici e di possibilità discorsive, compresi linguaggi scientifici ed elaborazioni letterarie, l'emersione di nuove “profondità” sociali e linguistiche, in un processo anche di self-inquiry, è un fenomeno ubiquo anche nello sviluppo europeo20. Il romanzo moderno, per fare un altro

18 In realtà già sapere, o riuscire a immaginarsi cos'è un “totem”, significa essere entrati in un elemento differente: quello di pratiche linguistiche e sociali estranee. “Totem” è anche un termine o una categoria applicata sistematicamente nel rapporto con l'“altro”, finchè - ormai parte di noi - non diventa metaforico e viene riapplicato a noi stessi (un bell'esempio sono le indagini di Lévy-Strauss).

19 Noi oggi di fatto ci rappresentiamo in modi mutuati in una parte consistente da quei linguaggi. Molto del rapporto contemporaneo di tipo inclusivo e ricombinativo verso le realtà idiomatiche, deriva dai processi culturali di assorbimento, nella cultura delle Americhe e in particolare nell'inglese americano (la lingua “viva” globale) di attitudini profonde e di forme di consapevolezza concreta del linguaggio tipiche nelle comunità afroamericane. La novità del mondo moderno non è primariamente il fatto di “studiare” queste cose (con tutta la relativa batteria di discipline, dall'antropologia in poi), ma quello di ritrovarsele come linguaggi costitutivi, come cognizioni basilari e irriflesse. Questo non vuol dire che siamo consapevoli dei processi profondi e della storia che stanno alle loro spalle, la cui ricostruzione è anzi molto difficile, ed è spesso oggetto di studi solo recenti. Il compito di riconoscere queste componenti genetico-culturali al di fuori di rappresentazioni riduttive e ideologiche è al contrario un'impresa intellettuale di grande portata. 20 Tanto fondamentale (ma forse più difficile da inquadrare) quanto, per dire, fenomeni tanto studiati

come l'affermazione del razionalismo scientifico o di forme sempre più penetranti di controllo e coercizione individuale e sociale.

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esempio, non fa che mettere a frutto ed elaborare questa estensione e approfondimento della competenza linguistica, è anzi uno dei luoghi per eccellenza in cui la pluralità dei linguaggi, dell'uso dei termini e delle forme di discorso emerge e insieme viene indagata e rielaborata, giungendo a forme di consapevolezza discorsiva e a esiti intenzionali inediti21. E, fatto che è importante sottolineare, anche la fortuna moderna dei linguaggi scientifici, i loro risultati enormi e il “peso” che essi hanno nelle nostre cognizioni generali, rientrano in questa fisionomia translinguistica, come accennerò più avanti22.

Prendere in considerazione un campo così ampio di fenomeni è rischioso, ma consente di vedere alcune questioni generali. Sto avanzando innanzitutto la tesi

culturale che il mondo moderno e contemporaneo è caratterizzato da un'estensione

rilevante, nel suo spazio generale, delle esperienze e delle forme di discorso; secondo, che questo fenomeno è intimamente collegato a un allargamento dello spazio linguistico tramite l'assorbimento, l'invenzione, la rielaborazione di strutture e contesti d'uso, e che tutto ciò richiede e mette in primo piano un tipo di competenza che ho definito “translinguistica”23; e che questi processi costituiscono un'estensione materiale della nostra capacità intenzionale, cioè delle cose che riusciamo a dire, dei “punti” che riusciamo a “toccare”. In altri termini sto proponendo di considerare l'idea che sia la proliferazione e l'estensione di possibilità linguistiche e discorsive (e il loro confronto/valutazione sistematico all'interno dello stesso “spazio” generale) che costituisce l'elemento decisivo dell'accrescimento cognitivo che intuitivamente attribuiamo alla modernità. Questo è molto diverso dal leggere lo sviluppo moderno in termini di semplice acquisizione di “contenuti” epistemici: sia perché accedere ad essi e ogni volta reidentificarli appare in questo quadro intuitivo una funzione di una competenza di tipo discorsivo; sia perchè proprio tale competenza (che ho cominciato a definire di “secondo livello”) è una parte essenziale proprio di quello che

sappiamo.

Se si pensa invece in termini di semplici “contenuti” epistemici il fenomeno dell'espansione moderna assomiglia piuttosto a una situazione ideale in cui una

21 Da questo punto di vista il romanzo, più che un genere codificato, è piuttosto un metagenere. Se si pensa infatti ai generi letterari come tipi codificati di discorso (la nozione di “genere” ereditata dal mondo antico), risalta subito come il “contenitore” romanzo sia qualcosa di più.

22 V. nota 33.

23 Che si potrebbe definire come una capacità di “saltare” e reidentificare sia attraverso lingue diverse, sia attraverso differenti linguaggi o contesti linguistici. Lo chiarisco meglio qui di seguito.

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lingua “generale”, già dotata di tutto quello che serve per essere referenziale, trova nuovi “contenuti”, o al massimo importa o inventa un termine nuovo per indicare un nuovo frutto o una nuova danza (cioè importa solo dei nomi)24. Ma noi non abbiamo mai a che fare con conoscenze “nude”, associabili a item e traducibili “uno a uno”; al contrario gli stessi item sono capaci di prestazioni molto diverse fra loro; e noi riusciamo a “toccare” i contenuti sempre perché quelli funzionano in un certo contesto pragmatico-discorsivo. Ciò che normalmente (e in molte rappresentazioni filosofiche) chiamiamo “lingua”25, identificando in essa e in alcuni suoi “elementi” le nostre cognizioni di base, appare con ciò qualcosa di molto meno autotrasparente e analitico di quanto venga astrattamente da pensare. Tendiamo a formulare la “trasparenza” del nostro pensiero e la generalità delle nostre conoscenze in termini di una “lingua” e delle sue possibilità combinatorie enunciative26, e a considerare le diverse lingue moderne come media più o meno funzionali e adattati sotto questo rispetto27; ma questo quadro idealistico e naturalistico (si può spingere a piacere in una delle due direzioni) risulta piuttosto difficile da armonizzare col campo di fenomeni che sto cercando di evocare.

Al contrario problemi come quello rapporto tra lingua e “contenuto” di pensiero sembrano ricevere interessanti prospettive da uno sguardo al fenomeno

24 Questo vale per qualunque elemento introdotto, anche per verbi, poniamo “allunare” o “swingare”: è l'idea che esista qualcosa di trasparente che “corrisponda” allo item. Il che poi equivale a considerare il linguaggio (verbale) come uno strumento essenzialmente referenziale. Secondo me le cose non funzionano così, e anche per “riferirsi” alla realtà (o a pensieri) è necessario molto altro.

25 Gli italiani “lingua” e “linguaggio” costituiscono una coppia di termini con una distribuzione di sensi molto interessante, che non si ritrova in inglese e in tedesco. “Linguaggio” sta per l'aspetto pragmatico in generale oppure per ambiti specifici (“linguaggio matematico”, “tecnico” ecc.), o per un misto dei due (per es. “linguaggio musicale”); “lingua” ha invece un senso molto prezioso, che è esattamente quello di strumento generale di espressione e riferimento (“Sprache” ha tutti i sensi insieme, come molte altre lingue; “tongue” è alternativo a “language” in modo del tutto diverso, con accentuazione verso la lingua concreta, come “speech”). Questa distinzione gioca un ruolo importante in quello che sto dicendo, soprattutto perché permette di toccare immediatamente il senso di “lingua” che ho appena messo in rilievo.

26 Cosa che si può fare in tanti modi e anche con indirizzi filosofici molto differenti e antagonisti tra loro. Il linguaggio del pensiero oppure della mente è in ogni caso concepito sul modello della trasparenza logico- enunciativa. Anche le proposizioni fregeane assomigliano troppo a nient'altro che ipostatizzazioni degli enunciati.

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dell'allargamento dei contesti e delle competenze discorsive contenute/sviluppate nel “raggio d'azione” di una lingua. Ciò che trovo così illuminante nella dinamica moderna di questa estensione – che ora vorrei mettere a fuoco un po' meglio - si vede bene all'opera nei fenomeni di traduzione da lingue e sistemi culturali28 differenti. Ossia, in contrasto con l'idea diffusa in ambito filosofico di traduzione come “controparte compatibile”29 trovata nella propria lingua, i fenomeni di “attrito” linguistico-culturale mettono in luce come la traduzione non sia un'operazione semplicemente linguistica, nel senso di enunciativa: nella mia lingua io devo essere in grado di riformulare - cioè di dire - ciò che si dice nell'altra. Questo significa due cose importanti: 1) che per pensare adeguatamente la traduzione da un'altra lingua-cultura devo presupporre l'attraversamento dell'altra lingua, la capacità della comprensione umana di accedere alla sua specifica intenzionalità30; 2) che quando “traduco”, io non mi trovo affatto a produrre una combinazione corrispondente di

primo livello o “ordine” (sintassi, i.e. grammatica e logica, più lessico): devo piuttosto, ricorrendo a tutte le risorse pragmatiche della mia lingua (comprese le capacità della

lingua di fare riferimento interno a sé, alle proprie asserzioni) riuscire a raggiungere lo stesso “punto” toccato nell'altra (a volte si tratta proprio di istituirlo), e questo

28 Si può anche notare a questo proposito che non appena lasciamo la situazione “radicale” di confronto con culture ignote (e perciò per definizione “altre”) e guardiamo ai diversi livelli e ambiti di una società più o meno interconnessa, la stessa idea di una “cultura” singola come di qualcosa di chiaramente delimitato e compatto diventa apertamente problematica. Tanto maggiore è l'interconnessione, tanto più ciò che identifichiamo come una certa “cultura” smette di coincidere con una lingua “altra” e finisce per consistere propriamente in forme discorsive riconoscibili (in cui faccio rientrare anche i fenomeni estetici): non c'è a questo punto “sistema” chiuso, ma solo opzioni espressive praticabili da tutti. Ma, anche di fronte alla situazione radicale: cosa bisogna attribuire a

setting specifici e cosa a caratteri/ragioni universali-umani? Cosa si considera “condiviso”, e cosa

invece radicalmente oppure solo specificamente diverso? Stabilire ciò comporta passaggi decisionali molto impegnativi; queste scelte e la loro problematica, osservo di passaggio, si trovano al centro della riflessione di Erodoto.

29 Che significa vedere essenzialmente la traduzione come la risultante di una applicazione sistematica del principio di non-contraddizione: la traduzione di un termine/enunciato è riuscita se non esiste una casistica negativa, così Quine.

30 Questo assunto universale di comprensione è irrinunciabile, ed è la cosa più vicina a definire l'uomo come “genere”. Nel concreto, diversamente da modelli filosofici ed esperimenti mentali alla Quine, ciò avviene attraverso un contatto intenso e prolungato, che faccia sperimentare una serie complessa di contesti pragmatici (ed è inutile dire come anche il primo contatto sia focalizzato non sui “significati”, ma sulla possibilità di capirsi a livello pragmatico).

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richiede essenzialmente una competenza del linguaggio di secondo livello (solo grazie ad essa, e non altrimenti, noi riusciamo a dire tutto)31.

Ma ciò che salta agli occhi nei territori di confine è in realtà ciò che accade anche al “centro” del linguaggio. La “traduzione” non è un fenomeno periferico o latitudinario, ai margini della lingua e al confine tra culture, qualcosa che si svolga agli estremi anche geografici o sociali del nostro sguardo. La discontinuità che sembra segnare il limite della perspicuità del linguaggio – di un contesto o di una catena inferenziale – secondo me è invece molto vicina a definire l'attività stessa del pensiero32. Anche rimanendo saldamente entro il dominio rassicurante della nostra lingua, per pensare ed esprimerci noi non facciamo altro che tradurre, riformulare: lo facciamo continuamente da contesti specifici, idiomi, invenzioni creative, linguaggi scientifici33; lo facciamo ogni volta che cerchiamo di “vedere” in quello che stiamo

31 Ciò che viene appreso in un'altra lingua si può trasporre nella propria in tanti modi diversi. È da pensare che ci sia un complesso meccanismo omeostatico (indagabile dalle discipline linguistiche) che regola il modo in cui una lingua traduce nuove nozioni e contesti espressivi, un meccanismo che media tra spinte diverse, per esempio verso l'estensione terminologica oppure verso la riduzione a un set limitato e maneggevole di item. In ogni caso le possibilità sono tante e presuppongono una competenza pragmatica della lingua: si può allargare il lessico, comporre nuovi termini con i propri o introdurre nuovi usi contestuali, oppure ancora affidarsi a parafrasi che fanno riferimento ai contesti esterni originari; si può persino tentare di riprodurre, una volta intuite, certe modalità operative/discorsive proprie dell'altra lingua. Quale formula si imponga, cioè

funzioni, non è ovviamente una scelta individuale o arbitraria; eppure non è nemmeno qualcosa di

impersonale: esiste un controllo su queste cose che è uno con la competenza di una lingua, ed esiste una sensibilità per il compiere scelte felici. Infine, anche la semplice traduzione tra due lingue che padroneggiamo, e tra le quali esiste una rete sperimentata di connessioni, ci mette di fronte a questo tipo di scelte.

32 Proprio nel libro in cui Quine formula l'esperimento ideale della “traduzione radicale” (Parola e

oggetto) è onnipresente un termine centrale per spiegare la nostra competenza comune del

linguaggio: “parafrasi”. Come si vedrà è possibile leggere Quine considerando in realtà la traduzione radicale come un modello di ciò che accade continuamente all'interno di una lingua, e che sia proprio la capacità di parafrasare (con le competenze che essa comporta) che sta al centro della nostra comprensione del linguaggio.

33 Faccio rientrare volutamente i linguaggi scientifici in questa fisionomia. Nonostante la loro specificità infatti, essi si trovano nello stesso tipo di rapporto con la lingua/senso comune. Una volta che sorge una nuova teoria scientifica termini come “acqua” e “luce” cambiano il loro significato? È la scienza che fissa il “riferimento”? Tra scienza e senso comune c'è una divergenza costante simile alla “visione stereoscopica” descritta da Sellars? Io penso che ciò che facciamo veramente in questi casi sia un po' diverso. La scienza è uno strumento potentissimo di

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dicendo, anche quando arriviamo di fronte all'evidenza non aggirabile/traducibile di locuzioni elementari, asserzioni o teorie (quando cioè non c'è modo più chiaro o migliore di dirlo, come in “2+2=4”), e ci limitiamo a fornire elementi esterni, a cercare di accennare, di “indicare” in qualche modo il “punto” dell'evidenza: anche in questo caso noi comunque ci riferiamo al linguaggio e al suo “spessore” intenzionale34.

Pensare è in un certo senso trovare due modi diversi di arrivare allo stesso punto.

Ora, io credo che un aspetto scaturito dalla modernità e costitutivo della contemporaneità sia proprio il fatto che a tutti i livelli il ruolo della “traduzione” in questo senso ampio diventa sempre più sistematico e pervasivo; che noi oggi, nell'uso del linguaggio e nell'acquisizione e consolidamento dei contenuti, siamo in buona parte questa consapevolezza pragmatica di tale livello translinguistico e transteorico. Ciò cui ho appena parlato come situazione generale assume infatti nella modernità un'evidenza ubiqua e una centralità pragmatica per effetto dell'estensione e l'intensità dello scambio e degli incroci culturali, della sistematicità della pratica di confronto (e di ricombinazione) di linguaggi e modalità discorsive. Può apparire in contrasto con altre linee di fondo normalmente proposte, ma uno degli aspetti più profondi della “coscienza” moderna, direttamente collegato al suo “allargamento”, è proprio l'idea del carattere “politropico” del linguaggio. Se “sappiamo” di più è perché siamo nella posizione di mettere in relazione linguaggi e contesti di discorso differenti e anche molto lontani tra loro; e la nostra posizione “generale” è costituita proprio

ridefinizione e affinamento della nostra visione della realtà, ma mantiene un rapporto con il proprio oggetto che è sempre pertinente al suo modo di discorrere. Quello che noi realmente impariamo quando “scopriamo” che l'acqua è H2O è saper inserire o richiamare il discorso o la spiegazione

scientifica al momento giusto, nel ruolo giusto: in questo consiste quello che normalmente si chiama “reidentificazione”. Il senso comune, se vogliamo definire così le competenze generali allargate e modificate dall'assunzione di teorie scientifiche, è una cosa molto seria e non corre “parallelamente” alla scienza: è anzi la capacità di “gestire” questi nuovi contesti e la loro oggettività specifica (e per tanti rispetti senz'altro vincolante). Non è in fondo molto diverso dal modo in cui, poniamo, espressioni o linguaggi idiomatici (come avviene così spesso nella lingua viva globale, l'inglese americano) si fanno spazio nella competenza generale di una lingua.

34 Questo è ciò che intendo, per ora in modo più che altro intuitivo, per “secondo livello”. Ciò significa anche pronunciarsi a favore della linguisticità del pensiero. Non esistono secondo me contenuti proposizionali nudi che “trasmigrano” da una lingua all'altra. Semmai una lingua, se è tale, ha la capacità di isolare sufficientemente bene quei contenuti. Questo tuttavia non mi fa propendere per versioni enunciative/combinatorie della linguisticità (Quine-Rorty-Davidson con le dovute precisazioni). Il linguaggio ha dei modi di “guardare” dentro se stesso e di chiamare in causa ciò che dice: a questo secondo livello inizia l'intenzionalità.

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dalla capacità di attraversare questo campo estensivo e discontinuo (il che è anche alla base dell'affermazione di modalità nuove di riformulazione35). In altri termini vorrei suggerire che, se guardiamo per così dire dall'interno cultura e linguaggio, nelle nostre competenze linguistiche avanzate è già attiva una “ascesa” verso una nozione non naturalistica del linguaggio, una consapevolezza se non altro pragmatica del fatto che: (1) muoversi dentro una lingua e riferirsi alla realtà presuppone in modo primario la capacità di identificare/valutare contesti di discorso (solo in essi gli elementi, poniamo il lessico, “funzionano”, ciò che ho chiamato sopra l'aspetto transteorico); (2) oltre a ciò nel mondo moderno si tratta di una situazione in buona parte translinguistica, perché la capacità di una lingua di sostenere il ruolo di strumento generale di inquadramento della realtà dipende dalla sua capacità di assorbire (cioè trovare il modo di dire) quello che si dice nelle altre lingue36. Marx intuì l'aspetto cognitivo di questa situazione moderna parlando di general intellect, che comporta un assunto fondamentale di accessibilità37.

Viene da pensare facilmente in effetti, dovendo caratterizzare il mondo moderno e contemporaneo, a una sorta di “ascesa” cognitiva in termini di generalità. Una parte consistente di ciò è senza dubbio la scoperta di potenti ed eleganti strumenti di generalizzazione e il loro impiego non solo scientifico; ma la mia idea è che, se dobbiamo rappresentarci lo spazio “generale” in cui ci muoviamo, sia necessario tenere conto di qualcosa di diverso. Basti pensare al modo in cui, in tutte le situazioni di discussione più articolate, la comprensione sia sempre mediata da un riferimento a un “livello” del discorso (“stai parlando di questo?” “Intendi quest'altro?”). La nostra capacità di orientarci nella realtà (o se si preferisce nel pensiero) come uno spazio generale è cioè in modo costitutivo una capacità di identificare, giudicare e impiegare discorsi, cioè linguaggi intenzionali: solo tramite una competenza accumulata di questo tipo riusciamo ad accedere alla realtà e

35 Qui si situano secondo me anche le imprese astrattive e ricostruttive che sono tanta parte della modernità.

36 Per esempio, ma non solo, attraverso ampliamento lessicale. A volte il modo di farlo è persino saper riconoscere la propria approssimazione, o accettare il riferimento a contesti discorsivi di altre lingue: l'altra lingua diventa pertanto un complemento, un link necessario. Questo rende tra l'altro molto labile il confine di una “lingua”, o l'idea che si possa partire dalla competenza di una lingua già fornita di tutta la generalità che serve.

37 Che per lui si realizzava nella capacità di “critica” o “autocritica” (Einleitung 1857). Questo punto di vista equivale anche ad applicare la riflessione antiscettica di Cavell (The Claim of Reason) al livello interlinguistico e interculturale.

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“riferirci” al mondo38. Con ciò anche il concetto di lingua come medium del pensiero e “deposito” di generalità si modifica sensibilmente: una lingua non “parla” in modo semplicemente primario (e tantomeno come un vettore naturale, automatico, di significati), piuttosto funziona – e riesce ad essere generale - perché è al contempo uno strumento capace di tradurre e di riferirsi a ciò che dice. L'“ascesa” moderna, vista in questi termini, è piuttosto l'emersione e la proliferazione, nello spazio “generale”, di una grande varietà di modalità discorsive e forme espressive (così come di modi di riferirsi ad esse e di riformularle)39 e in un'accumulazione di

giudizi/valutazioni relative a queste. Io credo che non abbia senso pensare a un

“senso comune” se non in termini di queste competenze complesse.

È chiaro infine che sto parlando di qualcosa di universale del linguaggio umano40, e proprio per questo rilevante in ambito filosofico. Al contempo non credo ci sia modo più immediato di vederlo che guardandoci direttamente nelle nostre competenze concrete, e da qui il riferimento al moderno. Forse in nessun ambito questo è patente come nei linguaggi musicali e figurativi, per la facilità di penetrazione e reimpiego di elementi inediti e di forme di discorso nuove: si pensi per esempio alla globalità e alla profondità dell'interazione musicale nel secolo scorso, per effetto delle quali non solo nascono discorsi nuovi, ma, di nuovo, anche la consapevolezza del linguaggio, delle sue possibilità operative, cambia41. Si vede

38 Se si provasse a disegnare a grandi linee una specie di “mappa cognitiva” di tutto ciò che “sappiamo”, non credo che si potrebbe tracciarla seguendo il profilo del “mondo” (o il linguaggio nudo degli enti), né quello di una lingua/pensiero come insieme di possibilità combinatorie, o come un insieme opportunamente selezionato di enunciati/proposizioni vere; sarebbe invece una escursione nel tipo di cose che si possono dire, e dipenderebbe dal quadro dei discorsi concreti

disponibili e dalla capacità di identificarli e valutarli. La mia intuizione di fondo è semplicemente che in questa competenza consiste la generalità del pensiero e la radice dell'intenzionalità. Noi non

vediamo la realtà come se fosse una veduta generale, un “panorama” (in cui tutto ha la sua precisa identità spaziale, cioè logica/teorica, ed è individuato da essa).

39 Perciò è errato tra l'altro considerare tutto ciò un fenomeno “occidentale”, o dello sviluppo dell'occidente.

40 In una certa misura è certo che l'evidenza che ne abbiamo per il mondo contemporaneo dipende semplicemente dal fatto che ne abbiamo uno sguardo “interno” (stiamo parlando di noi) che ci manca altrove. La situazione “transculturale” è sicuramente una componente decisiva di tutto lo sviluppo umano, una volta iniziata la sua espansione sulla terra.

41 Lo sguardo sull'ambito vastissimo dell'emersione e dell'interazione reciproca delle musiche del secolo scorso è stato per me essenziale per la messa a fuoco di queste intuizioni linguistiche e storico-culturali.

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bene in questo caso come il dominio del linguaggio sia rappresentabile come una capacità translinguistica, obliqua, di riconoscere differenti tipi di discorso o nuove formule significative, di trasformare in linguaggio ciò che non lo era o di ricombinare elementi eterogenei o livelli diversi di discorso in fisionomie nuove (sensate e riconoscibili). In ambito estetico ci si trova direttamente di fronte a un tipo di

assessment discorsivo (cosa funziona, cosa convince e perché) che secondo me

bisogna postulare per tutta la nostra competenza linguistica, anche del linguaggio verbale e referenziale.

*****

Se si prende per buono questo quadro – almeno nei suoi aspetti più fattuali –, è lecito interrogarsi sul rapporto della filosofia moderna con esso, tenendo conto che si tratta di temi la cui consapevolezza è in buona parte un fatto dell'ultimo secolo o degli ultimi decenni. La percezione ed elaborazione nella cultura occidentale dei processi che ho richiamato brevemente è tutt'altro che lineare, e anche la posizione della filosofia, pure per i motivi strutturali cui ho accennato più sopra, è controversa. Un modo, centrale nel mondo europeo, di sperimentare e insieme far fronte all'espansione linguistica e cognitiva sono stati i tentativi filosofici di fondazione/ricostruzione del sapere42, in parte guidati dall'intento di ricostituire la semplicità, qualcosa come la linearità onnicomprensiva dei grandi autori antichi. È difficile in effetti sfuggire, in pieno contrasto con la nostra posizione moderna, all'impressione di monodicità del mondo antico (e al suo fascino): anche la sofistica e il suo modo di interrogare e costruire antinomie (almeno come ci sono state tramandate) sembrano esibire pienamente questa caratteristica43.

42 Lo stress a cui l'opera di Hegel sottopone il linguaggio per inglobare in una qualche forma unitaria e autonoma (detto in modo telegrafico) l'insieme delle cognizioni umane ne è un paradigma classico. Io credo tuttavia che la forza di Hegel più che nel disegno “razionale” (e nelle richieste enormi che in seguito sono state fatte alla “dialettica”, o, attualmente, alla sua declinazione inferenzialista) sia stata proprio di eleggere a proprio “oggetto” il massimo del “concreto” e nel trovare un modo potente di esibirlo. C'è poi il problema del rapporto del mio quadro col naturalismo scientifico, al quale ho solo accennato.

43 Quanto conta qui la “prospettiva”? In ogni caso è una prospettiva non facile da correggere, per ovvi motivi materiali e documentari. Su di noi siamo in grado di dire cose che, domandate del mondo antico, risultano semplicemente degli enigmi. È scontato pensare che il mondo greco del V secolo sia il risultato di interconnessioni profonde con altre culture, ma le dinamiche e il significato di

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Quello del rapporto con la “materia” culturale e linguistica resta poi un problema complesso anche in epoca di proliferazione di discipline e settori filosofici44. Ho già parlato dell'esperienza intuitiva del gap fra filosofia del linguaggio e modelli di funzionamento linguistico da un lato e le competenze del “linguaggio materiale”45 dall'altro: tra modelli/teorie e ciò che capiamo dall'“interno” del linguaggio esiste un rapporto complesso difficile da abbracciare con lo sguardo. Ma non si tratta di un fatto isolato: basti guardare per esempio al gap esistente fra consapevolezza sociale in ambito estetico o politico e le loro controparti filosofico-accademiche46. Esiste una difficoltà filosofica di affrontare in questi casi le “avanguardie” cognitive (detto alla maniera novecentesca), i punti di consapevolezza più avanzati o più concreti del contemporaneo, che probabilmente ha almeno in parte ragioni psicologiche e sociali; ma essa ha anche a che fare col problema latente del rapporto complesso tra esigenza razionale di generalità (e di giustificazione) e profondità delle nostre competenze materiali, effettive. Chi scrive è molto scettico sulle virtù filosofiche di

questi fenomeni sono tanto difficili da valutare quanto le risposte – così sintomaticamente cruciali per noi – risultano pesantemente affette da componenti ideologiche. Tuttavia un dato certo è il seguente: è difficile proiettare sul mondo antico i fenomeni transculturali moderni che ho descritto soprattutto perché non ce n'è – ma bisognerà tenere conto di alcune importanti eccezioni, come Erodoto – un'elaborazione consapevole. È come interrogare il mondo antico sull'economia o la schiavitù: erano senz'altro centrali, ma non abbiamo chi ne parli in modo adeguato. Al tempo stesso alcuni autori – Euripide per esempio in modo sconcertante – manifestano e impiegano una consapevolezza così acuta dei problemi di contestualità del linguaggio da farci intuire l'esistenza di dibattiti profondi nel cuore del V secolo.

44 Tale rapporto già nel mondo antico è problematico, se non addirittura apertamente competitivo-sostitutivo: basti pensare all'opera platonica. Ma non voglio qui cercare facili ascendenze, che spesso inquinano una visione concreta delle cose - come accade a quel particolare tipo di sensazionalismo filosofico che si costruisce intorno all'idea di un qualche “peccato originale” che miracolosamente regge le sorti di tutto ciò che viene dopo.

45 Anche nel seguito di questo lavoro chiamerò “linguaggio materiale” l'insieme delle effettive produzioni linguistiche umane, evitando per lo più la locuzione “linguaggio naturale”, che è carica di una distinzione impegnativa fra produzioni appunto naturali, considerate più o meno spontanee, e altri linguaggi, per esempio quelli formali ma non solo. La distinzione non sarebbe nemmeno chiara: quello della Metafisica di Aristotele è “linguaggio naturale” o no? “Linguaggio comune” o “ordinario” presentano, con accenti diversi, lo stesso problema.

46 È ciò che Stanley Cavell argomenta in tanti luoghi: l'“estetica” senza critica interna dei linguaggi artistici non ha alcun senso (si veda per esempio il grande attacco del saggio “Music discomposed” in Must we mean what we say?, pp.180-1). Quanto al gap, inutile dire che colmarlo (in modi e in punti diversi) è proprio la prestazione tipica dei grandi intellettuali.

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ricapitolazione della cultura; ma ritiene la filosofia un luogo centrale di autocomprensione e spiegazione, e un campo discorsivo (col suo repertorio tecnico) dotato, se se ne ha la volontà, di un potere straordinario di formulazione e chiarificazione – con ciò anche di valutazione/decisione.

Queste osservazioni possono essere prese anche come un modo di considerare il rapporto tra filosofia e “teoria della cultura”. Si tende in genere (un po' per una rispettabile necessità astrattiva, cioè per focalizzare alcuni livelli autonomi di argomentazione, un po' per comodità e autolegittimazione disciplinare) a considerare i problemi filosofici come “neutri” (invarianti) rispetto a quelli culturali. Sul piano delle ammissioni generiche è normale concederne a qualche livello la loro interdipendenza (anche se di fatto questo intacca difficilmente le questioni “pesanti”, i modelli “analitici” del linguaggio e del significato). Vorrei invece osservare una cosa se si vuole più forte o più specifica, cioè che per molti rispetti, se si guarda al nucleo di certe questioni, non si prende posizione in un campo senza farlo nell'altro; e che a un certo livello – forse molto profondo, che non si lascia vedere bene direttamente -problemi filosofici e culturali risultano in un certo modo la stessa cosa, e questo

senza dover accettare esiti relativistici distruttivi di ogni oggettività o razionalità.

Per essere più chiaro vorrei richiamare un esempio recente e significativo di questo intreccio fra problemi filosofici e culturali: la proposta filosofica di Richard Rorty dagli anni Settanta in poi. La forza (anche provocatoria) del contributo di Rorty non è stato solo quello di aver offerto una versione più essoterica e ad ampio raggio di cose che filosofi come Quine, Sellars e anche Davidson avevano sostenuto in termini molto più tecnici (o in ambiti più specifici e controllati), e di averle impiegate in una lettura originale della storia della filosofia; è stata secondo me proprio il fatto di aver dato a certe teorie (per esempio quelle relative alla famigerata “traduzione radicale”) una nuova trasparenza, derivante dal fatto di proiettarne la portata e il significato in termini culturali (ovviamente a modo suo: non è detto che quegli autori avessero le stesse idee in materia). Certo, l'arco teso tra teorie del linguaggio e concezione della cultura47, tra significato e giudizio, può essere segmentato in tanti punti, e a ognuno di esso ci si può arrestare e scollegare, o scegliere opzioni diverse. Ma proprio quando si prende in considerazione tutto l'arco emergono domande interessanti, se non cruciali, per la filosofia.

Ci si può chiedere, per esempio, quanto la scoperta intellettuale sia il portato

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