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Alcune considerazioni finali: discorso, uomo

Capitolo 1: nel par 1.1 fornirò, partendo dall'aneddoto riportato da Plutarco, le

3.5 Alcune considerazioni finali: discorso, uomo

Vorrei fare infine alcune osservazioni molto schematiche sulla concezione del

discorso che emerge da questa trattazione di Aristotele. Nel capitolo precedente ho

considerato come l'asserzione sia un problema cruciale nella riflessione sofistica del V secolo; Aristotele intende dare una soluzione definitiva a questi problemi, per un verso abilitando l'asserzione (phásis) come medium ineludibile e in sè anaporetico del pensiero, per l'altro fissando un ambito discorsivo specifico e controllato, quello dell'enunciato semplice, come base e modello di tutta la nostra capacità intenzionale ed epistemica. Che tutto ciò che si può realmente dire – cioè con pieno status significativo ed epistemico – sia l'enunciato semplice (anche nella forma della

467 Subito dopo gli argomenti a favore del PNC, in Gamma 5 e 6, parte una lunga tirata contro le posizioni di Protagora. Questo Protagora, col quale Aristotele si confronta esplicitamente, è differente, e riprende alcune letture già di Platone: Aristotele associa infatti l'apoftegma “tutto è vero” a posizioni di relativismo sensista (e più avanti ad Eraclito e a posizioni per cui tutto è falso o incerto). È anche interessante notare come questa interpretazione tendenziosa sia tenuta in piedi dall'ambiguità del termine “tà phainómena” (cfr. 1009a 8, 1009b 1, 1011a 17 e ss.) che può riferirsi sia alla percezione sensibile, sia alle opinioni (cfr. il celebre “Tithenai ta phainomena” di G.E.L. Owen).

definizione) è una posizione molto forte: di fatto esprime una preferenza per la dimensione primaria, assoluta dell'enunciazione, che è un tratto comune dello stile intellettuale greco antico (cfr. capitolo precedente)468. Ma ciò non toglie che tra V e IV secolo venissero elaborate soluzioni conflittuali tra loro alla questione di come intendere significato, giudizio, asserzione e discorso, e che la soluzione aristotelica sia agli antipodi della linea Protagora-Erodoto, che costituiva una tradizione iperinclusiva (anche transculturale), centrata sulla valutazione e discussione di tutte le produzioni discorsive e le asserzioni sensate469. Il loro “et...et...” aveva un significato apertamente pragmatico, antiscettico e transteorico.

Quando in Gamma 6 Aristotele contrappone due “definizioni” diverse di “uomo”, come “tò doxázon” (ciò che opina, protagoreo) e come “tò doxazómenon” (ciò che è opinato, determinato)470, in realtà, come ho argomentato, mette di fronte due concezioni diverse della discorsività: nella prima l'uomo è identificato con la sua produzione discorsiva, il suo campo doxastico (e la sua valutazione interna), nella seconda è il giudizio semplice, capace di “stare in piedi” assolutamente e di essere immune da aporie471, il modello dell'accesso epistemico e del contenuto intenzionale. Di nuovo: tutto ciò che possiamo realmente dire è esprimibile nei termini di questa enunciazione lineare, di primo livello; le nostre argomentazioni di contorno, nella loro persuasività472, servono a isolare e ad accreditare tale evidenza primaria; e tale giudizio semplice (nella forma della definizione) deve essere capace di governare anche problemi generali che coinvolgerebbero invece un riferimento a vari contesti e tipi di discorso, per esempio quando ci si chiede cosa è e cosa è uno: per Aristotele le definizioni “teoriche” di tò ón e di tò hén costituiscono la risposta473. La metafisica

468 Non è fuori luogo richiamare anche il fatto che lo stile musicale greco antico fosse strettamente

monodico. Aristotele realizza nell'apodissi un modello di linguaggio unico i cui enunciati semplici

equivalgono all'enunciato unico contenente la loro congiunzione.

469 Non è nemmeno casuale l'avversione di Aristotele per la storiografia, alla quale egli rispose iniziando un altro tipo di ricerca sulle istituzioni politiche, che darà inizio a un genere differente, quello delle antiquitates.

470 1011b 9-11 v. la mia analisi del passo supra.

471 Ho sostenuto tra l'altro il carattere spiccatamente antidialettico, oltre che analitico, del pensiero di Aristotele.

472 Esse sono solo, di per sé, “bebaiotátē dóxa”, opinione più salda (1011b 13), come lo è tutto quello che cade sotto la presunta “dialettica”.

473 È notevole tuttavia che proprio qui, per “ciò che è”, Aristotele impieghi soluzioni plurali: esistono vari modi di puntare a t ò ón, che corrispondono ad altrettanti pattern discorsivi, di trattamento, a

in effetti trasforma queste due nozioni discorsive, figurate più generali nel precipitato dell'enunciazione semplice e della definizione: la scienza della metafisica non è altro che l'idea che possiamo riferirci in modo semplice (e univoco) a tutto ciò che pensiamo/diciamo oggettivamente, anche per nozioni così astratte.

Questo lavoro, ne ho parlato nell'Introduzione e qua e là nel corso della trattazione, ha preso le mosse anche dall'intuizione che molta parte delle nostre capacità cognitive e intenzionali, proprio della nostra capacità di pensare cose, “matters”, è in realtà una capacità di riferirsi a linguaggi/discorsi: è proprio perché abbiamo una capacità translinguistica del genere, una competenza di secondo livello, che noi siamo esseri pensanti nel modo che conosciamo; è questa capacità di cogliere qualcosa come discorso, come sounding, e di riferirsi ad esso, la base della capacità cognitiva umana474. L'idea è che anche le nostre nozioni più elementari e più generali siano in sostanza nozioni di secondo livello (richiedono tale livello di valutazione), si guardi per esempio quella di “cosa”: essa è inscindibile dal riferimento a discorsi (“stiamo dicendo la stessa cosa”), e a una dimensione nuova, specificamente umana, quella enunciativa-assertiva475. La gran parte delle nozioni che abbiamo e dei giudizi che esprimiamo sono di questo tipo: cogliamo e valutiamo (e abbiamo esteso nello sviluppo della storia umana) tipi di discorso o di atti linguistici. Richiamo qui questi problemi molto complessi perché secondo me illuminano bene il “nocciolo” di Aristotele, che è esattamente agli antipodi di tutto ciò. Per lui il linguaggio apodittico, sul quale poggiano tutte le nostre performance cognitive, è un dispositivo solo primario, che funziona in modo referenziale nella sua unità enunciativa più semplice, opportunamente isolata; essa ha un modo “autonomo” di puntare ai contenuti, per nulla sottoposto, come si è visto, alla valutazione umana476.

seconda dei contesti (sostanza, categorie, potenza e atto ecc.), e questo non costituisce alcun

conflitto. Anche questo fa vedere bene come Aristotele in un certo modo “allargasse” la tradizione

socratica importando elementi di “relativismo”.

474 Cfr. anche, infra, Appendice su naturalismo e antinaturalismo.

475 Cfr. il modo folgorante in cui Austin in “Other Minds” (Philosophical Papers, p.64) interpreta il “what” retto da verbi che esprimono intenzionalità (“knowing what” ecc.): la “cosa” cui ci riferiamo non è un quod, ma un interrogativo, un quid, è relativa cioè ai pattern discorsivi di domanda e risposta.

476 È interessante come in Soph. El. 10 Aristotele respinga con veemenza l'idea che il discorso (forse meglio tradurre l'“enunciato” o il “giudizio”) possa riferirsi non al pensiero/alle cose, ma al livello dei nomi, dei termini linguistici (“pròs toúnoma lógos”, 170b 12 e ss.). La polemica di questo capitolo

Questa posizione equivale a considerare molte dottrine aristoteliche nei termini

di una concezione generale del discorso. Molti aspetti e anche impasse di Aristotele

nel trattare la dimensione del discorso – i tipi o le forme di discorso materiale - confermano questo tipo di sguardo, e una tendenza anche culturale fortissima a considerare centrale il livello dell'enunciazione primaria, che poi vuol dire dell'enunciazione semplice, presa come assoluta. Vorrei qui solo elencare alcune questioni in cui si ritrova in vario modo questo atteggiamento mentale o stile di pensiero.

Ho già osservato come Aristotele rompa con l'unità del discorso socratico- platonica, che fagocita qualsiasi altra forma discorsiva della tradizione nei propri flussi argomentativi e nei propri collassi aporetici (gli altri discorsi non hanno alcuna

autonomia)477; egli ammette invece al di fuori del discorso propriamente epistemico, apodittico o kýrios478, un campo più ampio del discorso umano, che affronta da vari punti di vista nei Topici, nelle Confutazioni sofistiche, nella Poetica, nella Retorica. Il margine per far questo sta nel confinamento (che spesso Aristotele tenta) del ruolo e dell'analisi del linguaggio nei termini della “léxis”, cioè della forma espressiva. Come si è visto, la tesi naturalistica delle Confutazioni è che al netto di omonimie e anfibolie (e di alcune altre casistiche, quelle delle confutazioni parà tén léxin o parà tò

schêma), noi parleremmo una lingua “semantica” perfettamente univoca e

disambiguata. Lo spazio per forme differenti di discorso rispetto a quello apodittico si troverebbe con coò non sul piano dei contenuti, ma delle forme espressive e di alcuni obiettivi pragmatici specifici (differenti dalla mera conoscenza e dalla comunicazione

delle Confutazioni sofistiche è in realtà contro l'idea che si possa intendere a piacimento gli enunciati o i termini, il loro significato, che si possa cioè significare, per così dire, by convention – dal che si può anche osservare che la “definizione” di Aristotele non ha nulla di “costruttivista”: sembra una virtù naturale della dimensione del significato, indipendente dall'uomo.

477 La posizione di Platone come ho osservato sopra (parr. 1.3 e 1.4) è duplice: per un verso il suo modello di scienza-lógos consiste nel rifiuto della formula enunciativa e del giudizio; per l'altro tale posizione è sostenuta nei dialoghi attraverso la dimensione totale del discorso socratico, che “assorbe” in sé qualsiasi altra modalità discorsiva. La cosa è evidente per esempio nella capacità dei flussi socratico-platonici di “digerire” e rielaborare la mitografia e la produzione poetica (il Fedro fa una dichiarazione in forma “mitica” di questo fatto in 259 b-d), e nel loro porsi in una posizione radicalmente antagonista a tutte le altre forme di scrittura (“logografia”, cfr. tutta la parte finale del

Fedro).

478 Cfr. l'accezione importante che tale senso “primario” assume nella Poetica: esso significa anche il parlare sciatto (cap. 22) e letterale (cap. 21).

del “significato”) propri di alcuni discorsi: qui si situano produzione poetica e retorica479. Ho tuttavia argomentato a più riprese come la distinzione fra ambito semantico e ambito formale o linguistico dell'espressione proposta da Aristotele sia insostenibile, e che il ruolo del linguaggio, doxastico e schematico, arrivi fin dentro i problemi del significato e della logica480.

Non è di poco conto inoltre il fatto che Aristotele sposti l'analisi delle “parti” del linguaggio (preso come léxis481) proprio nella Poetica482, dislocando tra punti lontani della sua opera ciò che noi oggi consideriamo strettamente intrecciato (cfr. Quine, Chomsky ecc.): logica (i.e. la dottrina dell'enunciato) e grammatica. La distinzione schematica che la tradizione ci restituisce tra il contributo filosofico e quello grammaticale-normativo di Protagora, è almeno in parte motivata da qui; e proprio in questa rapida trattazione Aristotele confina il ruolo di molti elementi invece centrali della ricerca filosofica protagorea, ossia quelli della competenza pragmatica e di secondo livello del discorso483.

Altri aspetti non semplici, se non paradossali, emergono dall'approccio di Aristotele alla dimensione del discorso. L'idea che il discorso apodittico abbia nelle

479 L a léxis è la nozione chiave per inquadrare il campo d'azione specifico del discorso poetico, e occupa per intero il trattato che corrisponde al terzo libro della Retorica.

480 Per esempio come si è visto è impossibile distinguere il problema “logico” della congiunzione e della sua introduzione, da quello della valutazione della correttezza materiale della “composizione”, che cade invece come si è visto sotto la léxis. Che il linguaggio abbia un peso o uno “spessore” che va oltre l'ambito della forma, è detto del resto proprio nelle Confutazioni sofistiche, dove Aristotele, proprio contro l'arbitrio del giudizio umano (il pròs tòn ánthrōpon) invoca una cogenza ben diversa, quella pròs tòn lógon (Soph. El. 178b 17 e cfr. anche 172b 33-34).

481 “Del linguaggio nel suo insieme [Tês léxeōs hapásēs] queste sono le parti (...)”, 1456b 20. 482 Cfr. tutto l'arco dei capp. 19-22.

483 Il capitolo 19 della Poetica mostra infatti chiaramente come l'analisi delle “figure” del linguaggio (“tà schémata tês léxeōs”) che viene qui attribuita anche a Protagora (1456b 8 e ss.) fosse strettamente collegata proprio con la considerazione pragmatica delle forme di discorso, e ancora

con la critica-discussione (“hypokritikḗ [tèchnē]”) delle forme esistenti di linguaggio materiale.

Proprio all'esordio del capitolo 19 Aristotele fa suo un ductus straordinario, difficile da armonizzare con la sua impostazione generale (e anche con l'impostazione più ristretta della Retorica, cui esso rimanda): qui considerazione del linguaggio e considerazione del pensiero (“perì léxeōs kaì

dianoías”), sono strettamente intrecciate, e lo sono esattamente per l'aspetto pragmatico del

discorso: “appartiene al pensiero tutto ciò che si deve effettuare con la parola [hypò toû lógou]”, e seguono nel passo gli esempi più vari di atti discorsivi (dimostrare, confutare, procurare emozioni ecc.).

definizioni ed enunciazioni semplici il proprio modello formale condiziona fortemente proprio l'ambito epistemico che si occupa di discorsi: lo stile della Poetica, così ellittico, lacunoso per noi484, deriva in modo non secondario dall'idea che entità così complesse come i generi letterari, che per eccellenza richiedono una trattazione e una reidentificazione discorsiva, siano invece considerati come qualcosa di naturalmente individuabile attraverso la definizione; essi, come tutto ciò che è “raggiunto” dalla definizione semplice hanno una sorta di status puntuale.485. Di fatto parlare di unità, identità ecc. di forme o tipi di discorso presuppone invece un processo complesso di valutazione discorsiva, di secondo livello; Aristotele con la sua preferenza epistemica per il livello dell'enunciazione semplice/assoluta non tratta in realtà un'unità di questo tipo. Tra i diversi sensi primari di “unità” in Metaph. Iota e Delta non c'è infatti l'accezione dell'unità del discorso (che per lui è evidentemente solo una nozione metaforica); e a parte l'unità intenzionale compatta costituita dalla definizione, per i complessi linguistici costituiti da molti enunciati l'unica unità ravvisata è quella per “collegamento” (“syndésmōi”), come nel caso dell'esempio dell'Iliade: l'unità in gioco è cioè di natura puramente estrinseca, fisico-materiale, naturalistica486.

C'è tuttavia un'altra nozione fondamentale della quale Aristotele si serve per individuare l'unità sostanziale di certi ambiti di discorso, una nozione o un'immagine non a caso di origine non linguistico-discorsiva: quella della téchnē. L'uso di questa nozione è molto complesso, e va ben oltre la sua definizione e sistemazione locale in

Eth. Nic. VI 4: essa di fatto è presa da un ambito non linguistico/non verbale

(manifattura, arte), ma è usata per caratterizzare anche il campo di diverse discipline che impiegano il linguaggio verbale e l'argomentazione, da ciò che fanno poeti e retori alle proposizioni della matematica e alle discipline pratiche, come politica e

484 Come se mancassero interi argomenti o tipi di considerazione che noi moderni ci aspetteremmo. 485 I tentativi, intrapresi in vari luoghi, di definire diversi tipi di discorsi argomentativi, mostrano lo

stesso limite dato dalla caratterizzazione definitoria, cfr. la lista di Soph. El. 2: in realtà rendere coerenti tali suddivisioni nell'arco dell'opera aristotelica è praticamente impossibile (cfr. ancora

Soph. El. 8 e 11, Metaph. Gamma 2, 1004b 10 e ss.).

486 1457a 28-30. Questo esempio, che torna numerose volte in Aristotele, quasi come un appunto mentale, è molto interessante, perché nega con forza l'unità “semantica” all'Iliade, attribuendola di contro all'unità intenzionale forte costituita dalla definizione (cfr. anche Metaph. Zeta 1030a 9 e 1030b 9-10 ed Eta 1045a 13). Solo in Retorica III viene abbozzato in modo abbastanza vago (e senza seguito) un terzo tipo di unità, di tipo formale, il “períodon” (cap. 9).

medicina487. Essa risponde infatti a un problema di non facile gestione per Aristotele, cioè quello di riuscire ad accreditare il contributo specifico di vari ambiti di competenza cognitiva e argomentativa488, tenendola distinta però dall'ambito del linguaggio comune e delle valutazioni linguistico-doxastiche, alle quali altrimenti bisognerebbe attribuire un ruolo epistemico. Anche qui Aristotele tira una “linea” teorica rilevante quanto difficile da sostenere: quello tra il contributo “ídion”, “oikeîon” (proprio, specifico) delle téchnai e l'ambito dell'evidenza che pertiene al linguaggio, fatto di termini comuni, “tà koiná”489. Si noti anche qui come l'antiscetticismo accomuni Aristotele e la linea di Protagora-Erodoto, ma in modi quasi antitetici: per Erodoto, come si è visto, ciò che è davvero la base della comprensione è una capacità transculturale di reidentificare nozioni generali al di là di ciò che è oikeîon; per Protagora c'è un livello contestuale-valutativo comune e generale in cui i risultati specifici delle discipline sono compresi e vanno vagliati490.

La distinzione fra principi e argomentazioni propri, “oikeîon”, e il carattere non specifico e “comune” (che non “tocca” esattamente le cose), proprio della dimensione linguistico-doxastica del linguaggio è un'idea profonda (quanto problematica) che orienta Aristotele, e che costituisce la stessa differenza fra linguaggio scientifico e non, ma che non è priva di paradossalità, anche riguardo allo statuto della metafisica. La filosofia prima o metafisica è il livello più alto di generalità della scienza, eppure è una disciplina molto specifica, che individua contenuti particolari

487 Eth. Nic. VI tenta di dare una versione naturalistica e alinguistica delle competenze delle téchnai, seguendo il pattern socratico-platonico dell'abilità dell'artigiano (cfr. anche cap. 8, 1141b, 28-29). Ciò non toglie che la téchnē faccia parte delle disposizioni per le quali “l'anima dice il vero

asserendo e negando” (inizio cap. 3).

488 Aristotele da profondo antiscettico è un convinto assertore del contributo delle téchnai; cfr. di contro lo scetticismo verso le téchnai nel V secolo di cui si ha traccia polemica nel trattato ippocratico (in realtà chiaramente di Antifonte, come si è visto) Sull'arte, e che dovette costituire una lunga tradizione di scetticismo verso scienze e discipline che ritroviamo compendiata nel

Contra Professores di Sesto Empirico.

489 Si veda per esempio Soph. El. 11, 172a 1-9, dove si propone la distinzione fra argomenti comuni, “dialettici”, e argomenti “propri” di una téchnē (“ouk iatrikós· koinòs gár”): questa distinzione tra evidenza doxastica ed evidenza “propria” è a dir poco problematica.

490 Anche nel caso delle téchnai, per Aristotele è un'evidenza primaria, nuda che decide, anche se c'è pur sempre un livello epistemico superiore, quello della scienza, in cui i risultati vengono “sistemati”.

(ídia) e propri di essa (oikeîa), in opposizione al tò koinón della “dialettica”491: si avvicina alla specificità di una téchnē più che a una forma di discorso. Di fatto essa è una procedura per isolare e identificare a pieno titolo elementi e formule del linguaggio apodittico/pienamente epistemico, e di supportare l'evidenza piena che pertiene solo all'enunciato semplice e alla definizione; ed è a sua volta una dottrina e un linguaggio specifico, fatto di definizioni che fissano o appuntano le sue nozioni di base. La cosa paradossale è che ciò che è più generale per Aristotele è questa procedura tecnica, idiomatica, mentre tutto l'impegno discorsivo, persuasivo che la accompagna resta, lo si è visto analizzando il caso del PNC, linguaggio generale,

bebaiotátē dóxa. Il discorso più generale è un discorso specifico, oikeîon; siamo, di

nuovo, agli antipodi della generalità di tipo discorsivo, interteorico e transculturale di Protagora-Erodoto.

Questa è la conseguenza estrema del rifiuto aristotelico di uno status epistemico all'ambito più ampio del discorsività umana, e dell'assunzione socratica che l'elemento doxastico proprio del discorso umano e della sua oggettività sia un fatto sostanzialmente privativo e invalidante; come Platone, ma in modo molto diverso e non del tutto alinguistico (basti pensare al ruolo centrale dell'asserzione), Aristotele elabora di contro una sorta di téchnē per isolare un campo di evidenza più limitato e controllabile di quello in generale discorsivo. Si dovrebbe forse riflettere anche sull'entità dell'evidenza che viene così salvata: se per esempio ciò che la “scienza” aristotelica effettivamente fissa non siano, alla fine, che platitude. Il problema della valutazione di questi socratici credo debba dipendere in modo non secondario da quanta (della nostra) evidenza materiale essi realmente garantiscano.

Alcune considerazioni infine su “uomo” tra Protagora ed Aristotele. Nella mia interpretazione l'uomo del pròs tòn ánthrōpon protagoreo non ha nulla a che vedere con un principio soggettivo (e banalmente relativistico o fenomenistico) attribuitogli dagli avversari; l'uomo di Protagora non è altro che il campo interno dell'evidenza della discorsività e in particolare dell'asserzione umana. C'è con molta probabilità una consistente tradizione che non conosciamo che va dal pròs tòn ánthrōpon di Protagora all'argomento ad hominem di Metaph. Gamma: ciò che ho voluto mostrare è anche che Aristotele accetta e valorizza proprio in Gamma l'argomentazione pragmatica e antiscettica che Protagora aveva inventato492. Di Protagora però rifiuta il

491 Metaph. Gamma 2, 1004b 10 e ss.

principio discorsivo “a tutto campo”, stabilendo criteri epistemici completamente diversi e molto selettivi rispetto alle evidenze accettabili. Lo dimostra secondo me proprio l'esempio-chiave di “uomo” in Gamma: qui, come si è visto, Aristotele prende posizione per il significato “proprio” di uomo come “tò doxazómenon” (ciò che è opinato, cioè determinato o definito) e non come “tò doxázon” (ciò che opina)493. Dovrebbe trattarsi dell'uomo della biologia (cioè della scienza specifica a cui appartiene): eppure la nostra cognizione di “uomo”, con i suoi ambiti discorsivi ed epistemici, è molto più ampia di quella che serve semplicemente a fissare (in modo quasi esclusivamente indicale) “cos'è” l'uomo. Lo mostra se non altro il fatto che esistono in realtà molteplici livelli di trattazione di “uomo”494 e persino definizioni, anche non strettamente scientifiche, come quella che spunta a un certo punto dell'etica grande495: la bellezza di Aristotele è che ha da dire molto più di ciò che la sua scienza riesca a dimostrare.

un vincolo interno, lo ad hominem. - Aristotele è invece estremamente fuorviante quando attacca