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Metafisica Iota: dall'evidenza linguistica a quella qualitativa

Capitolo 1: nel par 1.1 fornirò, partendo dall'aneddoto riportato da Plutarco, le

3.3 Metafisica Iota: dall'evidenza linguistica a quella qualitativa

346 Cfr. su questo ruolo basilare delle determinazioni, il bel passo di Metaph. Gamma 5, 1010b 23-25. 347 Che tò ón sia collegato strettamente al dire o all'enunciare, che sia ciò che è “legoménon [ón]” lo si vede bene da alcune locuzioni come quella di Metaph. Gamma 2, 1005a 5-6, che viene tradotto bene secondo me da Kirwan (Aristotle Metaphysics - Books Gamma, Delta and Epsilon, p. 5) come “things called [what they are]”: sono le determinazioni che usiamo pertinentemente come soggetto e predicato negli enunciati del linguaggio apodittico. Cfr. supra (par. 1.2) come anche per Protagora ciò che è e non è siano un fatto essenzialmente enunciativo.

348 Quine la ripropone in modi analoghi a partire dal celebre saggio che la riporta nel titolo: come Aristotele, egli suggerisce una soluzione tanto ingegnosa quanto in fondo idiomatica.

Si è visto finora come per Aristotele esista un ambito speciale, pienamente oggettivo del linguaggio, quello apodittico, in cui i contenuti-determinazioni sono espressi in completa trasparenza e funzionano per una virtù puramente “semantica” e avalutativa: qui non comprendiamo e ci esprimiamo più attraverso la forza linguistico-doxastica, diagrammatica del linguaggio, ma parliamo una lingua completamente disambiguata e perspicua, in cui a ogni termine corrisponde un contenuto chiaro. È il modello “teorico” di evidenza, che è antagonista a quello linguistico e protagoreo (par. 3.1). Non è facile e non è privo di problemi isolare e definire i confini di questo linguaggio, o di questa dimensione dell'intenzionalità, perché il “taglio” netto tra vis linguistico-doxastica e vis semantica ha a sua volta bisogno di valutazioni contestuali: “Socrate è giusto”, per esempio, ha solo in parte le caratteristiche evidenziali richieste, tuttavia non c'è dubbio che per Aristotele anche questo asserto abbia un senso proprio, primario che funziona su base puramente semantica (par. 3.2).

Per Aristotele esiste dunque una porzione pienamente oggettiva ed epistemica, capace di esprimere la verità, del linguaggio; e di tutto il linguaggio almeno assertivo, apofantico esiste inoltre un senso primario e assoluto, puramente semantico, esprimibile di nuovo nell'ambito ristretto linguaggio apodittico. Perlomeno una parte importante dei trattati della Metafisica consiste proprio nell'accreditare e articolare questo linguaggio oggettivo ed epistemico e il suo status evidenziale differente. Essa infatti un uso dei termini e delle relazioni del tutto univoco e definito: tanto gli item che si trovano nei posti della predicazione (“uomo”, “animale”, “bianco”, “colore”), quanto le relazioni linguistiche e i loro termini specifici, anch'essi categorematici (predicazione, negazione, contrarietà, identità ecc.) devono essere ridotti a uno o più sensi perspicui e identificabili. Questa è la “teoria” di Aristotele, un linguaggio che è inteso come lo zoccolo duro di tutto ciò che diciamo significativamente349, e che non debba nulla della propria evidenza all'aspetto doxastico, schematico e valutativo del linguaggio. Se si considerano gli aspetti più apertamente linguistico-schematici del linguaggio comune considerati nel par. 3.1, molta parte di questa operazione consiste proprio nel ricondurli a un uso controllato e fondato su un tipo di evidenza differente, qualitativa e non discorsiva. Persino il principio di non contraddizione (PNC) e il principio del terzo escluso (PTE) – l'uso dunque della negazione in

349 Che ovviamente comporta in realtà una selezione materiale e una forte restrizione di quali contenuti o tipi di enunciazione sono considerati veramente oggettivi.

generale - diventano un fatto non logico, bensì qualitativo. Questo è ciò che avviene nel libro Iota della Metafisica, dove Aristotele affronta proprio gli aspetti del linguaggio più difficili da gestire, quello dei categoremi e delle antitesi.

Senza entrare troppo nei dettagli tecnici, vorrei delineare l'essenziale di questa operazione. I problemi principali per una “teoria”, collegati alla natura schematica e doxastica del linguaggio, sono tre e sono variamente intrecciati fra loro: 1) definire cosa e come può funzionare come soggetto e oggetto di predicazione a un livello teorico-apodittico; nel linguaggio in generale il nostro impiego degli item è guidato da una capacità contestuale di riconoscere la pertinenza di un termine: nella scienza il problema della pertinenza (e della valutazione che essa richiede) deve essere sciolto e gli item devono funzionare assolutamente; 2) anche il significato dei “categoremi”, dei termini più comuni è molto vario e dipendente dal contesto: è necessario isolare quali sensi pertengano a un linguaggio apodittico; 3) tra gli aspetti più rilevanti della “categorematicità” del linguaggio ci sono le antitesi, con le loro parole chiave (come la negazione) e la loro evidenza tipicamente operativa-discorsiva. E' necessario ridurre tali relazioni a evidenze di tipo diverso.

Mi soffermo su questi problemi riguardandoli dal punto di vista di uno dei “categoremi”, che li mette bene in evidenza: la negazione o antifasi. La negazione è per eccellenza, per Aristotele, un operatore non univoco e opaco350. Essa è una eccezionale forma di evidenza linguistica (punti 2 e 3), ma può esercitarsi su tutto e la correttezza del suo impiego dipende da una valutazione contestuale: senza di questa non ci si può lasciar andare alle sue “vie” e alle sue apparenti evidenze e capovolgimenti senza pericolo di incorrere in aporie e paralogismi. Quando “metto alla prova” nel linguaggio comune un éndoxon e la sua negazione, è normale seguirne le due vie indipendenti per chiarirne senso e validità, è il caso dei “problemi” in Topici I 2351, o, detto altrimenti: nel linguaggio in generale non vale il terzo escluso

come principio di determinazione e decisione352. Negare poi condivide (rendendola

350 Cfr. Soph. El. 11, 172a 36-38, dove è rilevato il carattere generico e “comune” della negazione come esempio tipico di operazione doxastica nota a tutti.

351 Gli enunciati contraddittori di una antifasi vanno indagati indipendentemente l'uno dall'altro, “pròs

amphótera” (101a 36).

352 Che, ripeto, vuol dire, recisamente: la dialettica socratica non funziona. La dialettica di Aristotele è semplicemente capacità contestuale (che punta a cogliere e a selezionare alcuni punti “assoluti” nello spazio linguistico). Come non si possono fare inferenze “assolute” con le negazione, così anche con i contrari-opposti ecc.

più evidente, lampante) una difficoltà propria anche dell'asserire in generale353. Negando infatti facciamo due cose diverse e non facili da scomporre: negare vuol dire tanto negare un contenuto (“Socrate non è nero”) quanto negare la pertinenza (“l'anima non è bianca”, “Socrate non è un gatto”, punto 1). Di fatto tutte le volte che noi pronunciamo un giudizio, cioè asseriamo (“la neve è bianca”), non solo stiamo dicendo qualcosa, ma stiamo anche emettendo un giudizio di pertinenza, che riguarda tanto l'uso del soggetto che l'attribuzione del predicato354. Il problema dell'“uno” in Iota 1-2 è così importante non perché si tratti di fissare i sensi specifici e perspicui della parola (come quello numerico, che è solo uno di essi), ma perché è il problema di ciò che può comparire assolutamente come soggetto e predicato di un enunciato del linguaggio apodittico355.

Aristotele risolve il problema della pertinenza e della contestualità dei termini (1) scegliendo un'opzione di spiegazione “semantica” e antiprotagorea: per lui ogni volta che attribuiamo correttamente soggetto e predicato, ciò che facciamo non è una valutazione doxastica di pertinenza (di secondo livello), ma il risultato di una capacità non meglio definibile di “grasping” la necessità semantica propria degli item356. Dietro la comprensione più ampia e generale del linguaggio, la sua significatività, sta in realtà il nucleo più ristretto degli enunciati apodittici e scientifici, in cui i termini non funzionano contestualmente, ma sono di fatto coincidenti con entità alinguistiche e qualitative, autoevidenti357, che intrattengono tra loro relazioni di pertinenza naturale

353 È suggestivo che in un passo che ho già richiamato, Metaph. Theta 10 1051b (17 e ss.), Aristotele consideri la differenza fra l'atto del dire o proferire in generale, la “potenza” dell'asserzione (phánai/phásis), e gli atti specifici dell'affermare e negare (kataphánai/katáphasis/ e

apophánai/apóphasis).

354 È il “secondo livello” che ho trattato in Protagora. È un fatto spiegato molto bene da Nelson Goodman, Fatti, ipotesi e previsioni, cfr. la “Nota alla quarta edizione”, p. xvii.

355 Questa è la questione dell'essere dell'uno (tò henì eînai).

356 Su questa base semantica viene spostata anche l'orthótēs protagorea, che invece era questione valutazione linguistica. L'inciso su Protagora a proposito di cosa sia “misura”, se l'uomo (la conoscenza) o le cose (ciò che viene conosciuto) in Iota 2 è l'occasione per un pronunciamento brachilogico ma essenziale (1053a 33-4): noi non valutiamo (“misuriamo”) ciò che le cose sono; ma accade piuttosto di sapere (per esempio cosa è “uomo”) perché “veniamo misurati”, siamo guidati in qualche modo da una necessità autonoma e indipendente, che, questa è la mia tesi, è di natura

semantica. Cfr. infra, ultimo paragrafo, sul passo gemello in Metaph. Gamma sul problema

dell'uomo e della misura.

(“l'uomo è bianco” e tutto ciò che viene predicato secondo le categorie) e di necessità (“l'uomo è un animale”) perfettamente coincidenti con le predicazioni del linguaggio apodittico. Aristotele pensa cioè a una lingua mentis ante litteram, in cui ogni item

coincide con il proprio significato358(ben diversamente da quanto accade nel linguaggio in generale359), inteso come qualcosa di qualitativo, univoco e determinato360. Il modello di “teoria” e di scienza che Aristotele profila procedendo poi in Iota è proprio il quadro complessivo di queste evidenze e di queste relazioni semantiche e oggettive (è come se tutto ciò che “sappiamo” fosse traducibile in relazioni lineari, di primo ordine).

A questo livello di linguaggio assoluto anche i problemi (2) e (3) sono risolti. Ad alcuni termini “comuni” fondamentali e al loro uso ad ampio spettro (2) viene sostituita una codificazione controllata e specifica di alcuni sensi considerati pienamente oggettivi: è quanto accade in Iota tanto per i categoremi in generale (capp. 1-2, termini come “hén”, “aitía”, “stoicheîon” e sottinteso tutti gli altri già trattati in Delta) quanto per il caso particolare dei termini di relazione (capp. 3 e ss., “tautó”, “hómoion”, “íson”, “héteron”, “diaphéron” ecc. e le relazioni che individuano tra termini) vengono trattati con significati specifici e determinati, coerenti con l'univocità semantica della teoria. Diversamente da come si tende a pensare infatti, i vari sensi elencati da Aristotele di “uno” “causa”, “elemento” ecc, in Iota e Delta non sono

affatto una ricerca a tutto campo degli usi linguistici di questi termini, ma solo i loro

sensi considerati oggettivi, assoluti e accettabili entro un discorso

358 È la situazione ideale, completamente disambiguata, che Aristotele rileva per il calcolo: qui ogni termine corrisponde a una cosa determinata, come quando si fanno i conti con i cocci (Soph. El. 1, 165a 9-10). Anche da qui si intuisce abbastanza bene come il problema dell'“uno” numerico e poi quello derivato della “misura” (che è ciò che è unitario nella posizione predicativa di alcune categorie, Iota 1) siano derivati rispetto al riconoscimento dello hén come ciò che può stare assolutamente come soggetto e predicato.

359 Il problema delle linguae mentis in generale è che non sono lingue: sono al massimo linguaggi locali, teorie definite. Le teorie sono internamente trasparenti, ma sono debitrici alla lingua “materiale” del senso dei loro termini (e questo è secondo me il senso profondo dei bicondizionali tarskiani). A proposito del ruolo essenziale dell'ambiguità per avere una lingua e la possibilità stessa del riferimento e dell'intenzionalità cfr. le straordinarie osservazioni di Cavell in The Claim of

Reason, pp. 180-2.

360 Cfr. il senso della locuzione tò + dativo + eînai, già rilevato supra: nel linguaggio apodittico questa attribuzione è data per risolta, è del tutto perspicua.

apodittico/scientifico361.

La cosa più importante - si vede bene in Iota 3 e 4 - è che in questo modello di linguaggio apodittico e di epistḗmē trasparente le antitesi vengono trasformate (3): esse non poggiano più sull'evidenza “logikḗ” , linguistica, ma unicamente sulle caratteristiche qualitative degli item. Le forme principali di contrapposizione logica (antifasi e contrarietà) nel linguaggio in generale sono colte, come si è visto, come forme schematiche di esclusione reciproca (stḗrēsis), e in questo sta la loro evidenza discorsiva e operazionale; ma se si passa a un modello di comprensione dove ciò che è colto sono item di natura qualitativa, assoluti e collegati da relazioni altrettanto assolute, categoriche e autoevidenti (per esempio “uomo” con la sua appartenenza a un genere e l'inerenza ad esso di un insieme definito di predicati), le contrarietà e le negazioni linguistiche diventano semplici fatti qualitativi. Le contrarietà (che sono tutte contenute nel ruolo di predicato), anche quelle più astratte (per es. íson e

ánison, Iota 4362), sono intese sul modello naturale-sensibile della variazione entro lo

spettro qualitativo dei due estremi363, il che di fatto interpreta la predicazione del

361 Mancano, fatto essenziale, tanto applicazioni estese e figurate (esempio: “ísos” indica anche, in un senso fondamentale, l'uguaglianza politica), quanto quelle di secondo livello, quando ci riferiamo a fatti linguistici o intenzionali, cfr. nota sopra. Io sostengo in generale – cosa che vorrei mostrare in uno sviluppo successivo di questo lavoro - che queste relazioni siano comprese prima discorsivamente, come relazioni pragmatiche e discorsive, e solo in modo derivato e locale come rapporti teorici, inquadrati cioè logicamente e semanticamente. Il problema del doppio binario (sensi primari, “letterali” e di primo ordine, e secondari, figurati e di secondo livello) è così acuto che tutti questi termini ricevono una doppia trattazione in Aristotele: quella “teorica” nella Metafisica e quella discorsiva, riguardante la loro evidenza linguistica comune a tutti gli ambiti del discorso, sviluppata analiticamente nei libri dei Topici. A questa divisione può essere riferita anche l'osservazione di Iota 3, secondo la quale se dal punto di vista pienamente epistemico ciò che è “unitario” (gli asýntheta..) viene prima, dal punto di vista linguistico “tộ lógōi” (1054a 28-9) il primato è della molteplicità (e ciò che ad essa viene associato). - C'è infine da notare un altro fatto importante che ho già rilevato: i diversi sensi teorici e specifici, poniamo di “uno” o di “elemento”,

non sono affatto gestiti dal pròs hén e dal ricorso esplicativo alle categorie (proprio lo hén, per

esempio, è anche l'unità numerica o l'omogeneità materiale). Anche qui esso non costituisce alcuna soluzione ai problemi di “iridescenza” semantica.

362 1055b 9-11, nello stesso passo Aristotele allude anche all'opposizione tra possedere e mancare di qualcosa (héxis e stḗrēsis, stavolta nel senso di proprietà, nel ruolo di predicato). Si può pensare anche a vero e falso detto degli “enti” enunciati.

363 Come accade per i colori, che per Aristotele sarebbero tutti compresi tra gli “estremi” di bianco e nero (Iota 7). Aristotele aggiunge semplicemente che in alcuni casi c'è medio tra gli estremi, in altri (quelli più astratti/figurati in realtà) no.

linguaggio apodittico con un modello di evidenza alinguistico e qualitativo, e in questo senso naturalistico. La negazione ha un'applicazione più ampia, perché rispetto alle contrarietà è sempre pertinente (impiegabile) in qualsiasi enunciato; è l'operatore/categorema più universale - è generale quanto l'enunciazione stessa. Essa può significare cose diverse tra loro: come si è visto si può negare un item oppure la sua pertinenza364, inoltre si possono negare nel posto di predicato item generalmente usati in posizione di subjectum (“Socrate non è un gatto”, “i gatti non sono piante”). Ma sono tutti casi assolutamente riconoscibili ed evidenti, e tutti acquistano un senso naturale e qualitativo, anche la non pertinenza365 e la negazione di un eîdos. In questo quadro di termini assoluti infatti ogni cosa è qualcosa ed è chiaramente distinto dal resto: anche il “non essere (qualcos'altro)” diventa qui un

dato qualitativo e naturale come ciò che si è, come mostra il fatto che Aristotele

impiega, quando è necessario, anche formule come “tò mḕ anthrṓpōi eînai”366. Di fatto a questo livello di perspicuità teorica, e solo qui, vale una sorta di principio categorico e universale di individuazione e di discernimento, che Aristotele enuncia in Iota 3: “ogni cosa è in relazione a ogni cosa o identico o diverso”367. Anche le relazioni (per esempio l'essere l'uomo colorato o un animale) presentano la stessa categoricità: si noti come questo equivalga a trasformare ogni valutazione contestuale di pertinenza da fatto discorsivo a fatto qualitativo, di proprietà368. La

364 Cfr. ancora l'esempio di íson in Iota 4(1055b 9-11): qui Aristotele dice che la coppia íson-ánison non può essere predicata sempre di qualcosa, ma solo nei casi in cui la qualità vi sia contenuta; diverso è il caso di íson-ouk íson, che vale sempre, perché la negazione invece sta anche per la

non pertinenza del predicato.

365 Che l'anima non sia colorata o non abbia lunghezza è qualcosa che risulta immediatamente dalle tre “qualità” anima, lunghezza e colore. Tutti i casi di pertinenza o meno sono ridotti a evidenze qualitative e naturali di questo tipo.

366 Cioè la formula 'tò + dativo eînai' al negativo, che è altrettanto perspicua e immediatamente significante, come è evidente che una trireme non è un uomo: questa locuzione gioca un ruolo fondamentale nel primo argomento a favore del PNC, Metaph. Gamma 4, 1007a 1-2 e ss., ed esprime in termini qualitativi la massima evidenza attingibile. Ci tornerò nel paragrafo seguente. 367 1054b 15-16.

368 Tale principio infatti non vale certo per il discorso in generale; è invece la caratteristica richiesta al discorso oggettivo, apodittico: qui è come se l'intero campo delle determinazioni oggettive, di ciò che è “cognitivo”, si disponesse su un unico livello relazionale e assertivo (l'insieme di tutti gli asserti veri è immediatamente traducibile nell'unico asserto della loro congiunzione). Si noti come in questo modo di leggere Aristotele, tutto ciò che noi moderni consideriamo “cognitivo” o “concettuale” è racchiuso solo entro relazioni semantiche ed eminentemente analitiche: la

negazione perde il proprio carattere linguistico-operativo e la sua evidenza è identificata con questi fatti qualitativi – in questo modello alinguistico ogni negazione consiste in una qualche forma di enantíōsis qualitativa (naturalismo della

negazione)369.

È sulla base di questa evidenza semantica e qualitativa, non logica, che il PNC e il PTE assumono la loro categoricità e si mostrano immediatamente inaggirabili. Essi valgono cioè realmente solo per il linguaggio apodittico: solo qui il significato è univoco e un'asserzione e la sua negazione si riferiscono senz'altro alla stessa cosa. Come si vedrà nel prossimo paragrafo, l'univocità del significato nell'apodissi è praticamente già tutta la “dimostrazione” del PNC; ma se viceversa si vuole asserire la generalità del principio per tutto il linguaggio, allora bisogna importare argomenti

protagorei, doxastici, cosa che Aristotele effettivamente fa in Metaph. Gamma.

Per rimanere al campo della epistḗmē, che è ciò di cui parla Iota, la famigerata “scienza dei contrari”, riportata tante volte da Aristotele come problema e obiettivo filosofico per eccellenza, consiste semplicemente nella ricostruzione di un quadro ordinato e univoco di relazioni semantiche necessarie (qualitative e analitiche) degli

item, esprimibili nel linguaggio apodittico370. La metafisica lo fa in particolare per alcuni termini di difficile gestione (i categoremi), oltre a fornire in generale la teoria di un discorso pienamente oggettivo. Solo qui vale l'assunto socratico dell'unicità del discorso, con la sua istanza coerenziale assoluta; e ci si avvicina anche al carattere alinguistico della teoria platonica.

È importante però osservare che le due scienze o teorie, quella platonica e

“scienza” non contiene alcun giudizio-valutazione, non è alcuna “sintesi”.

369 Si potrebbe osservare in generale come non ci sia sintomo più evidente di naturalismo che quello di intendere una qualsiasi antitesi in termini di opposizione qualitativa e di tutto ciò che sta in

mezzo tra gli opposti. Per esempio, nella “scienza” etica, il fatto che “buono e “non buono” non

sono più semplici asserzioni (antikeímena), ma diventano item necessariamente inerenti: tutto, nell'ambito umano, si situa nello spettro qualitativo tra i due termini, che è poi anche un presupposto assiologico, ovviamente. Anche il ricorso al “giusto mezzo” in etica e in politica funziona in modo analogo.

370 Per esempio, poniamo, l'essere l'uomo un animale, e il fatto di esserlo per una o più caratteristiche specifiche che stanno in relazione di opposizione con altre. L'uomo in questo modo è in certo modo qualitativamente opposto ad altri animali (per esempio per la sua razionalità). È in questo modo, si noti, che asserzione e negazione, “essere uomo” e “non essere uomo” (cfr. supra i l “tò mḕ anthrṓpōi eînai”), cioè l'antifasi “Socrate è un uomo” e “Socrate non è un uomo” costituiscono essenzialmente un'opposizione qualitativa.

quella aristotelica, hanno ruoli diversi nell'economia generale del pensiero. Le scienze aristoteliche consistono, detto in una formula, nel compito colmare il gap (cognitivo) tra un genere e le sue specie371; come si vede bene leggendo Iota 7, l'idea è di farlo cercando di ottenere la specie entro il genere attraverso opposizioni

qualitative ben scelte, così pertinenti da rivelarsi sostanziali (esempio dell'enantíōsis

di luce e oscurità che produce i colori)372. La “scienza” consiste semplicemente nel trovare il più possibile queste articolazioni univoche e qualitative di tutte le determinazioni, e la metafisica lo fa per quelle più generali: è appunto la “scienza dei contrari”. Questa “generazione da contrari” fa venire in mente ovviamente la diaíresis platonica, alla quale Aristotele sembra voler trovare in Iota il giusto collocamento; ma l o status di questa “teoria” è completamente diverso. Per Platone la teoria, anche senza esserne coscienti, è la base tanto della comprensione linguistica degli asserti quanto della nostra capacità di conoscere. Per Aristotele la nostra capacità intuitiva non è invece ulteriormente indagabile, è un dato primario, e il principio di non contraddizione o i rapporti di opposizione-contrarietà non costituiscono alcun “metodo” generale. La “teoria” di Aristotele è solo il risultato della ricerca (quando essa ha esito positivo): si raggiunge un'evidenza piena (e anaporetica) solo quando riesco a pervenire (con scelte e definizioni felici ecc.), al livello di trasparenza qualitativa che ho appena descritto. La teoria platonica sta a monte, quella