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Comprensione e giudizio

Capitolo 1: nel par 1.1 fornirò, partendo dall'aneddoto riportato da Plutarco, le

3.1 Comprensione e giudizio

Un modo generalissimo di considerare Aristotele nel quadro dei problemi che ho affrontato finora è il seguente: obiettivi epistemici socratico-platonici sulla base di una considerazione del linguaggio molto differente, maturata dalle più importanti acquisizioni della “sofistica” del V secolo. Le maggiori esperienze intellettuali collegate alla sofistica avevano evidenziato il carattere estremamente instabile e problematico dei giudizi, ossia degli enunciati asseribili, e in particolare la loro cronica contestualità, che è collegata anche alla dimensione della loro valutazione. Il campo dell'asserzione umana si presenta da questo punto di vista come qualcosa di estremamente discontinuo, in cui gli enunciati sono compresi (acquistano significato) e funzionano (sono veri o convincenti) solo localmente, entro contesti o discorsi specifici. La difficoltà di costruire una “scienza” (un sistema di enunciati che valgano assolutamente) e di accedere così a un livello di generalità dell'enunciazione, è dovuta proprio alla presenza di una componente contestuale e valutativa essenziale nel giudizio o asserzione.

È possibile individuare in particolare due fattori distinti di contestualità del linguaggio che sono rilevanti dell'impostazione di Aristotele: 1) a livello semantico, noi comprendiamo correttamente la forma di un enunciato/discorso perché abbiamo una capacità di attribuire il giusto valore semantico a una serie di componenti linguistiche che possono avere significati e ruoli operativi molto diversi da un contesto espressivo all'altro. Il linguaggio ha la caratteristica essenziale per Aristotele di funzionare attraverso un insieme limitato di termini comuni, attraverso i quali siamo in grado di esprimere un numero potenzialmente illimitato di determinazioni o contenuti intenzionali; per cui è solo la capacità di tali parole di funzionare in modo specifico e differente da un contesto all'altro che rende possibile il funzionamento del linguaggio, il che fa anche sì che gli stessi enunciati possano essere portatori di

sensi diversi, che siamo in grado di riconoscere292. 2) A livello valutativo, quando si ricerca “cosa si deve pensare”, cioè i giudizi corretti su un argomento, non si fa altro che intraprendere una ricerca contestuale: di fatto saggiamo le possibilità assertive su di esso (éndoxa), esprimendo giudizi di pertinenza sui termini comuni e sugli enunciati che utilizziamo. Il ruolo (lungamente dibattuto) della dialettica in Aristotele, ossia il reperimento dei principi o dei giudizi veri, non è altro che ricerca contestuale. Questo contestualismo, semantico e del giudizio, costituisce una profonda presa di distanza dalla dialettica socratica, e ha molto in comune invece col procedimento di Protagora di valutazione degli asserti. In alcuni passi famosi, in cui viene criticata la dialettica socratica, lo scarto da Socrate consiste in sostanza proprio nella componente contestuale introdotta da Aristotele293.

Accogliere questo tipo di principio contestuale nella concezione del linguaggio significa complicare notevolmente l'accesso all'oggettività, sia essa “scientifica” o del linguaggio comune. Per Aristotele infatti attraverso il linguaggio in generale non vediamo le cose in trasparenza, cioè per effetto del contributo univoco dei suoi

292 Cfr. per es. Soph. El. 165A 10-13. Il fatto notevole che il linguaggio è costituito da un insieme limitato di termini “comuni” (“koiná”) e di enunciati costituibili da essi, i quali sono capaci tuttavia di riferirsi a tutto e di esprimere pensieri specifici, cioè di toccare l'individualità delle cose, doveva essere stato al centro di aporie nel V secolo: in Metaph. Delta 29 (1024b 32-33) Aristotele polemizza con Antistene, il quale avrebbe sostenuto che esiste solo un “discorso proprio” (“oikeîos

lógos”) per ciascuna cosa, in un rapporto si uno a uno, il che non significa altro che immaginare il

linguaggio e il riferimento come qualcosa che funziona come i nomi propri. Aristotele è convinto al contrario, con atteggiamento fortemente antiscettico, che noi siamo perfettamente in grado di performance intenzionali e cognitive attraverso l'uso di termini comuni, senza i quali di contro non è possibile alcuna comunicazione (una traccia di questa posizione anche avversa alle idee, enti “individuali”, di Platone in Metaph. Zeta 15, 1040a 8-27).

293 Mi riferisco a Metaph. M 1078b 23-25 e ai frammenti del trattato Sui contrari tramandati da Simplicio. Questi passi hanno in comune un'acquisizione generale in materia di dialettica e di contrari, che si può esprimere esprimere concisamente così: non ogni contrarietà che troviamo

espressa nel linguaggio materiale ha lo stesso valore, o ha una validità automatica, ma è

necessario valutare contestualmente, nel discorso specifico, significato e applicazione dei contrari – in altri termini: non tutti i “flussi” socratici vanno seguiti automaticamente, ciecamente. I termini “comuni” di contrarietà di cui disponiamo nel nostro linguaggio, dice Aristotele, devono essere indagati in questo modo, se si vuole avere una “scienza” generale dei contrari. La questione ha una portata anche più ampia perché riguarda tutti gli strumenti operativi del linguaggio, e la concezione stessa del discorso rispetto a Socrate-Platone, come si vedrà.

termini; per puntare alle cose è necessaria una capacità contestuale294 di comprensione e di giudizio, che in buona parte è una capacità di cogliere e di gestire il funzionamento specifico dei termini più generali. Aristotele tuttavia è altrettanto convinto di un altro assunto che sta alla base della sua opera, e cioè che siamo perfettamente in grado d i accedere a tale livello oggettivo, in cui vediamo correttamente le cose o determinazioni (tá prágmata), e gli enunciati funzionano in modo assoluto. Si tratta di ciò che facciamo sia nella comprensione degli enunciati più semplici, sia intraprendendo la ricerca scientifica o epistemica. Egli postula cioè 1) che di ogni asserto sia possibile riconoscere che cosa esso dice in senso “primario” (kýriōs), e che sia in questo modo che si accede ai contenuti oggettivi del linguaggio e del pensiero, a ciò che noi chiamiamo oggi contenuti intenzionali; 2) che tale senso sia esprimile in asserti dello stesso linguaggio, che hanno invece uno statuto evidenziale differente, perché sono capaci di comunicare in modo trasparente, o almeno sufficientemente spiccato, quei contenuti: è il linguaggio

apodittico.

1) e 2) sono assunzioni molto impegnative, che discuterò ampiamente in questo capitolo; vorrei notare intanto come nella situazione appena descritta (contestualità linguistica e accesso effettivo) siano in gioco due tipi di evidenza distinti e antagonisti, che attraversano tutta l'opera di Aristotele e a cui ci si può riferire impiegando la nota distinzione introdotta in Metaph. Zeta 4. Da un lato c'è l'evidenza di tipo linguistico (“logikôs”295), cioè l'evidenza interna al linguaggio o propria di esso,

294 Sottolineo come ho fatto precedentemente, ma ciò vale in modo particolare per Aristotele, che il “contestualismo” qui in gioco non riguarda il fatto che è la situazione esterna al linguaggio che ne determina il significato; esso è invece una caratteristica del funzionamento linguaggio, della sua comprensione: ogni asserto, cioè ogni formula linguistica, richiede un adattamento contestuale dei suoi elementi costitutivi per essere compreso e valutato.

295 Così va inteso il termine, impiegato in Zeta 4 due volte, 1029b 13 e 1030a 25-26 (sull'importanza di questa distinzione cfr. il fondamentale saggio di G.E.L. Owen, “Logic and Metaphysics in Some Earlier Works of Aristotle” in Logic, Dialectic and Science, p. 189 n.). La capacità di destreggiarsi con questa evidenza di tipo “linguistico” (e di usarla in modo proficuo) è la stessa che è richiesta in contesti di giudizio di tipo “dialettico”, di cui sono esempi lampanti per Aristotele la medicina e l'ambito delle valutazioni etico-politiche: qui è richiesta una capacità contestuale di giudizio che Aristotele in alcuni luoghi inquadra come loghízein/tò loghistikón (cfr. Eth. Nic. 1139A 12-3 e 1042b 2, e che è ivi inoltre identificato come tò doxastikón, Eth. Nic. 1140B 26). Questa capacità contestuale si avvicina ad essere il contrassegno dell'intelligenza umana, cfr. la bellissima osservazione di Soph. El. 7 (169a 30-33): “È difficile infatti distinguere quali cose si dicono in un

di cui cioè il linguaggio è portatore con il funzionamento dei suoi termini e dei suoi dispositivi; dall'altro l'evidenza delle cose “come sono”, a cui si accede quando, s u p e r a t a l a c o m p r e n s i o n e l i n g u i s t i c a , s i h a a c h e f a r e c o n cose/significati/determinazioni univoche. È una distinzione talmente profonda e sostanziale da dettare la forma stessa dell'opera aristotelica: i Topici e le

Confutazioni sofistiche non sono che la trattazione a livello linguistico, “logikôs”, degli

stessi termini comuni o argomenti (per es. ruolo di subjectum e objectum enunciativi, definizioni, categorie, forme di antitesi ecc.) che sono trattati in modo “oggettivo” nella Metafisica.

Mi soffermo su queste due forme distinte ed eterogenee – e in realtà molto difficili da armonizzare - di evidenza per chiarirle meglio. Una è quella che si può definire oggettiva, delle “cose” (tá prágmata): per Aristotele comprendere un asserto significa accedere, anche attraverso l'esperienza accumulata del linguaggio che permetta di risolverne ed evitarne gli inganni e i “depistaggi”, a un livello di trasparenza “cognitiva” in cui abbiamo a che fare con determinazioni univoche e perfettamente perspicue, che ne costituiscono il significato. Pensare oggettivamente non è altro che cogliere o “toccare” con chiarezza, nella comprensione e nel discorso, queste determinazioni, e questo è ciò che facciamo tanto nella comprensione comune degli enunciati più semplici (“Socrate è bianco”) quanto, attraverso uno sforzo intellettuale maggiore o un processo di scelta, nel caso dei giudizi difficili o nelle proposizioni scientifiche. È a questo livello (idealmente del tutto disambiguato, e in sostanza, si vedrà, qualitativo) del pensiero che si situa ciò che noi moderni chiamiamo intenzionalità, cioè per Aristotele il semplice fatto che noi pensiamo sempre, asserendo, qualcosa di determinato. Alcuni passi fondamentali che affermano con forza questo fatto si trovano tra gli argomenti preliminari a favore del princìpio di non contraddizione in Metafisica Gamma 3 e 4: quando asseriamo, di fatto supponiamo ciò che diciamo, che lo vogliamo o no significhiamo qualcosa di

preciso296 – per dirlo con la formula di un celebre saggio di Stanley Cavell: we mean

modo e quali in un altro (chi è in grado di fare questo è di fatto vicino a vedere il vero, e soprattutto è capace di acconsentirvi).” (cfr. pronunciamenti analoghi in Topici I)

296 1006a 21-22 e 26: questi capitoli traboccano di verbi che si riferiscono all'assumere, implicare, contrarre (hypolambánein, hypoménein ecc.); analizzerò nel dettaglio questi passi più avanti. Le

Confutazioni sofistiche costituiscono un testo parallelo in cui questo fatto è affermato con forza:

non possiamo scegliere come intendere un enunciato (cfr. 172b 17), v. in particolare i capp. 10 e 12.

what we say. Aristotele (non meno di Protagora ma in modo diverso) è un convinto

sostenitore del fatto dell'intenzionalità e un convinto antiscettico: asserire (o comprendere un asserto) vuol dire di fatto intendere (o implicare) le determinazioni che ne costituiscono il senso primario (kýriōs o haplôs). Un altro assunto completa poi questa dimensione dell'evidenza oggettiva: tutti questi contenuti sono esprimibili/traducibili in una porzione più specifica del linguaggio e del discorso, ossia nella forma enunciativa del linguaggio apodittico297.

L'idea che pensare o comprendere effettivamente significhi accedere a un livello “teorico” di pensiero somigliante a un linguaggio di primo ordine in cui sia risolta ogni contestualità linguistica pone evidentemente numerosi problemi. La “scienza” della metafisica consiste di fatto nell'indicare una strada per delineare/isolare questo nucleo cognitivo oggettivo e univoco; tuttavia Aristotele accoglie, anzi ne fa il punto di partenza della sua ricerca, il fatto che nella comprensione ha un ruolo decisivo un tipo di evidenza differente, su cui si basa la gran parte della comunicazione umana: l'evidenza linguistico-doxastica. Se si guarda il campo multiforme linguaggio materiale, cioè la massa dei giudizi e dei contesti discorsivi effettivamente praticati, esso si presenta in prima battuta come un insieme di formule, che sono in buona parte comprese e accettate/assunte sulla base della loro evidenza/persuasività specificamente linguistica o enunciativa, “logikôs”. Aristotele mette particolarmente in rilievo questo elemento formulare e doxastico tutte le volte che si riferisce agli asserti impiegando lemmi col tipico suffisso in “- ma”(katēgórēma, próblēma, dikaíōma ecc.)298, ma non si tratta che di ciò che è noto

297 Tanto “Socrate è seduto” quanto “Socrate è un uomo” o “l'uomo è un animale” sono casi di questo linguaggio dotato di tutta l'evidenzialità richiesta. Anche gli enunciati che sono veri “per un certo aspetto” (pròs ti) e non in senso assoluto possono essere tradotti in linguaggio apodittico, cioè

interamente esplicato: basta precisare (il prosdiorízein di Metaph. Gamma 3, 1005b 20-21, cfr. il prossemaínein d i Soph. El. 169b 11). Si noti anche come non esista differenza (di tipo) tra

linguaggio “teorico” o scientifico e linguaggio comune: in entrambi i casi bisogna solo arrivare ad enunciati capaci di esibire il significato in tutta l'evidenza esigibile.

298 Questo modo di esprimersi è importante, perché è impiegato proprio per sottolineare l'aspetto formulare degli asserti; ed è anche interessante per il fatto di contenere un riferimento di “secondo livello” a a determinati tipi di discorso, v. infra, paragrafo finale. Cfr. nei Topici, oltre all'uso di

próblēma, la casistica di VIII 162a e ss., ed erṓtēma in Soph El. 12, 17 e 19. Quanto ai casi come dikaíōma (Eth. Nic. V, 10) o políteuma (Pol. III, 5 e 7), essi si capiscono bene notando che si

riferiscono a ciò che viene detto o opinato concretamente norma o atto “giusto” o “ordinamento” in

più in generale come éndoxa. Gli éndoxa non sono altro che i giudizi materialmente espressi, verso i quali Aristotele manifesta un atteggiamento di massima inclusività (cfr. Topici I), e che sono da lui accolti e selezionati esattamente per il fatto di avere

un qualche grado di evidenza doxastica, ossia di persuasività all'atto di essere asseriti. Il princìpio che ne regge l'assunzione e la scelta è infatti propriamente

doxastico; e l'evidenza di cui essi sono portatori è interna al linguaggio, all'asserzione. A questo livello Aristotele accoglie tutto ciò che c'è di vero e di intuitivo nelle dottrine protagoree: qui infatti la scelta fra asserti, la loro valutazione e anche l'abilità di usare i dispositivi linguistici più generali per giungere alla soluzione più convincente, hanno tutti un fondamento doxastico. Il linguaggio ha la proprietà, anche ingannevole, di essere, per così dire, uno spontaneo e portentoso produttore di evidenza per l'uomo; tuttavia proprio operando dall'interno di tale evidenza e dei suoi meccanismi più generali, come fanno i Topici (studio del comportamento dei termini e degli schemi enunciativi “comuni” del linguaggio), è possibile pervenire alle conclusioni migliori o corrette sempre in ambito doxastico299.

Questi due modi eterogenei di considerare l'evidenza e l'accesso ai contenuti intenzionali sono normalmente formulati in termini della distinzione aristotelica di due ambiti, quello doxastico (delle controversie ecc.300) e quello apodittico-scientifico, con la tendenza a considerare tale distinzione un fatto in qualche modo valido e intuitivo, perspicuo301. Il mio intento è invece mostrare che questa distinzione non regga; in

nell'ambito del problema relativistico, erodoteo, della convenzione e della differenza di costumi, dopo aver osservato che “ciò che è ritenuto giusto, non trattandosi di fisica ma riguardando l'uomo, non è identico dappertutto, e nemmeno lo sono gli ordinamenti politici” (1135a 3-5). Si noti come un uso analogo di dikaíōma, con riferimento a formule linguistiche astratte, che sono passibili nella realtà di interpretazioni/applicazioni diverse si trovi in Tucidide (con una portata chiaramente polemica verso la capacità della legge di determinare le decisioni e di sciogliere i contrasti), v. I 41, V 97, VI 80.

299 Cfr. per es. Topici I, 105b 30-31: l'argomento dei Topici è trattato “pròs dóxan”.

300 Fra Topici, Confutazioni sofistiche e Retorica, per non parlare dei rilievi sparsi dappertutto nella sua opera, Aristotele parla di quest'ambito in modi molto diversi e in sostanza poco armonizzabili tra loro.

301 La tendenza stessa a considerare questa distinzione di “campi” cognitivi o del discorso (dóxa da un lato, verità o epistḗmē dall'altro) intuitiva e in qualche modo basilare costituisce il successo duraturo del dispositivo socratico-platonico che li separa in via di principio. Ma ciò che sembra un truismo ha in verità molto dell'illusione ottica. Identificare oppure distinguere opinione e verità sono due alternative antagoniste nel cuore del V secolo, che riguardano un problema preciso, quello

particolare che proprio Aristotele veda tutta la forza e l'importanza anche positiva - proprio la pervasività nel pensiero e nel discorso umano -, del nucleo “protagoreo” dell'evidenza “linguistica” alla base del linguaggio in generale; e che, come si vedrà, anche il “salto” alla scienza sia effettuato sulla base di intuizioni e considerazioni di pragmatica dell'asserzione che molto devono al confronto con Protagora.

L'evidenza di tipo linguistico-doxastico caratterizza in effetti l'intero campo del discorso e dell'asserzione: come si è osservato un capoverso più sopra, il fenomeno più generale di comprensione delle enunciazioni umane è di tipo doxastico, come

éndoxa. Non si tratta di un'accezione semplicemente negativa o limitativa: Aristotele

ha invece ben presente come questo tipo di evidenza costituisca anche molta parte della capacità espressiva e comunicativa del linguaggio, e sta alla base della nostra comprensione basilare di esso302.

È possibile mostrare più nello specifico di quali aspetti del linguaggio si tratti guardando ai primi paragrafi del libro Iota della Metafisica: qui è straordinariamente chiaro infatti come Aristotele parta da una situazione evidenziale linguistico-doxastico per elaborare di contro la sua proposta teorica, scientifica303. La trattazione qui tocca infatti il punto che il linguaggio umano ha la caratteristica di funzionare per effetto del ruolo decisivo di alcuni operatori, termini molto generali, comuni, che possono riferirsi a cose molto diverse tra loro. Molta parte della nostra comprensione è dovuta alla nostra capacità di cogliere, da un contesto all'altro, il significato assunto da questi

accoppiarle, come fece Protagora, non significava affatto considerare tutto ciò che diciamo o sappiamo “apparenza” (con effetto scettico e relativistico, dissolutore di ogni contenuto): era invece un tentativo di spiegazione generale della verità/oggettività delle enunciazioni. Non conosciamo i particolari di questo tentativo, che potrebbe essere stato anche sommario o dalla formulazione piuttosto sentenziosa (di fatto però fu preso tremendamente sul serio dai suoi raffinati avversari); ma esso può risultare subito più persuasivo quando si pensi a quanto sia difficile concepire invece la verità come una qualità speciale degli asserti indipendente dal loro grado di evidenza doxastica. 302 È come parlare del livello primario o più immediato della comprensione (e del giudizio o assenso),

che è affine a ciò cui Aristotele si riferisce quando, notando all'inizio dell'Etica Nicomachea che la ricerca deve partire da ciò che è “più noto”, osserva che questo a seconda dei casi vuol dire due cose diverse: più noto in assoluto o più noto per noi (1095b 2-4). Quest'ultimo è proprio l'evidenza

interna, ciò che è più vicino per noi.

303 Aristotele prende in particolare gli elementi di tale evidenza “linguistica”, che costituiscono la situazione generale del funzionamento del linguaggio comune, per fornirne – è l'obiettivo della

Metafisica e di Iota in particolare - invece l'accezione “teorica”, il funzionamento controllato e

pienamente perspicuo, oggettivo proprio del linguaggio apodittico e della scienza. Farò vedere meglio questa operazione “riduttiva” di Iota più avanti.

operatori, o consiste semplicemente nel considerarne convincente l'uso, cioè valutarne la correttezza e assentirvi (giudizio).

Ci sono in particolare due profili importanti di cui tenere conto: 1) gran parte della capacità espressiva e referenziale del linguaggio è resa possibile dall'impiego negli asserti di una serie di termini generali, “comuni” e non univoci, che sono in grado di assumere sensi molto diversi ed eterogenei fra loro. In Iota 1, trattando “l'uno”, Aristotele in un passo molto difficile (1052b 4-20) delinea un profilo che riguarda una classe molto ampia di termini e un loro tipo di funzionamento, ben oltre i classici “ón” e “hén” (vengono fatti anche gli esempi di “causa” ed “elemento”), mettendone in evidenza la loro specifica evidenza o consistenza linguistica. Aristotele si chiede in particolare in cosa consista l'unità o il significato di questi termini304, visto che di volta in volta si riferiscono a cose molto diverse tra loro. Da un punto di vista oggettivo, ci sono alcuni sensi specifici che sono identificabili e definibili (per esempio le varie accezioni di “uno” che Aristotele ha appena elencato, o i vari “elementi” che si dicono in senso proprio, per es. “fuoco”); ma se ci si chiede in cosa consista l'unità di significato fra questi sensi, allora bisogna avvicinarsi più al

termine linguistico305, al suo funzionamento come formula, “etichetta”, in cui si trova qualcosa come un'evidenza comune, in qualche modo, a tutte le accezioni: come si vede per il caso di “uno” (rr.15-20) non si tratta d'altro che del suo senso figurato, qualcosa di vago e unitario che pertiene a tutte le sue occorrenze linguistiche: siamo esattamente al livello della comprensione e dell'evidenza linguistico-doxastica306. Se

304 Ossia ciò che viene indicato con la formula è tó + dativo del termine + eînai: è una locuzione che si trova in altri luoghi della Metafisica, e che ha una valenza ben precisa: indica l'essere o il

significato che corrisponde a un termine linguistico. Riprenderò in considerazione più avanti questa