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Euripide e il linguaggio

Capitolo 1: nel par 1.1 fornirò, partendo dall'aneddoto riportato da Plutarco, le

2.5 Euripide e il linguaggio

Ho accennato qua e là a Euripide, e vorrei ora dare un rapido sguardo a questa fonte straordinaria della cultura e dei dibattiti ad Atene al culmine delle rivoluzioni intellettuali del V secolo. In nessun luogo tranne che in Euripide abbiamo la possibilità di vedere in atto il dibattito intellettuale dell'ultimo trentennio di questo secolo, e di coglierne anche la fortuna popolare e l'incidenza collettiva. Euripide importa nei moduli tragici enunciazioni e tropi, posizioni intellettuali e scientifiche,

pattern discorsivi e argomenti celebri, e ne misura (con un'abilità vertiginosa) la

portata e i limiti attraverso l'azione drammatica; e così esercita una sorta di critica postrazionalistica delle formule enunciative e discorsive della sua epoca240. Qui di seguito alcune osservazioni che sono rilevanti in relazione alle questioni che ho affrontato.

Tutta l'opera di Euripide è attraversata da una riflessione radicale e disinibita sul linguaggio: sin dalle prime tragedie superstiti la critica della trasparenza epistemica del linguaggio e della certezza relativa a termini e formule enunciative è uno dei capisaldi della costruzione del suo discorso. La presa d'atto che ai termini del linguaggio non corrisponde nulla di univoco, e l'intento provocatorio di percorrere fin dove arrivano i ragionamenti e i ductus più diversi (fino alle conseguenze più scabrose e destabilizzanti), sono motivazioni profonde della sua costruzione drammatica.

240 Spesso restituisce anche un quadro più ampio di quello che siamo in grado di ricostruire: accade cioè di riconoscere la presenza di pattern specifici, senza poter dire con precisione quali correnti di pensiero o mode intellettuali fossero in gioco. Faccio un esempio notevole: se, come si è visto, nell'Ippolito (anni trenta) c'è una straordinaria messa in scena di un'interrogazione socratica, nelle tarde Fenicie (di sicuro successive alla prima disfatta oligarchica del 411) ci si imbatte in un modo di interrogare molto diverso, quello con cui Giocasta incalza Polinice (vv.390 e ss.). Qui non si chiede “tí estí”, ma “tís ho trópos” di qualcosa, iniziando una sorta di indagine “fenomenologica” su

come qualcosa si presenta o può essere descritto; si tratta in altri termini di una forma di ricerca

alternativa a quella socratica, anch'essa situata nella dimensione privata e collegata a circoli oligarchici. Molto fa pensare ad Antifonte, e cfr. anche l'importanza dei trópoi in Tucidide (probabilmente allievo di Antifonte, v. oltre).

Non è chiaro se il primo Euripide abbia propriamente condiviso un indirizzo protagoreo (probabilmente no); fece però sicuramente propria in modo radicale quella che sembra essere per lui l'acquisizione decisiva della rivoluzione intellettuale sofistica (protagorea in particolare): il rifiuto di qualsiasi naturalismo del linguaggio o

del significato. Intendo in particolare l'idea che la forma enunciativa e il lessico non

individuano nulla di unitario e corrispondente nella realtà, e non possano perciò fornire alcun appoggio di tipo assiologico; la scoperta dell'autonomia del linguaggio consiste al contrario nel vedere come esso si muova su molteplici piani enunciativi (anche più che duplici, dissoí) e che persino le antitesi risultano spesso in qualche senso vere: è vano cercare un'unità o identità naturale di item dietro quella dei termini241. La tesi euripidea, che produce il suo stupefacente plurilinguismo242, è che

241 La lucidità e la convinzione con la quale Euripide sostiene questa posizione ovunque nella sua opera – essa è addirittura generatrice del suo stile e del suo linguaggio - credo sia un dato rilevante anche per cogliere la profonda consapevolezza del linguaggio della sofistica del V secolo, ben oltre le banalizzazioni che essa subisce in buona parte della tradizione. Tipico della sua opera è un tipo di articolazione per cui ciò che dovrebbe costituire un'unità concettuale, o una realtà unitaria, stabile (cfr. la domanda su to saphes, Elena 1149), si presenta invece in modo contraddittorio dal punto di vista linguistico, per esempio come un'antitesi, e non tollera una articolazione razionale del tipo della della diaíresis socratica. Faccio un solo esempio suggestivo: l'argomentazione difensiva di Giocasta nel perduto Edipo, in cui (in un modo sconcertante e che purtroppo non ci è noto nei particolari) Giocasta, una volta scoperta la verità, iniziava una disamina intellettuale (!) della sua esperienza, osservando che “sebbene l'amore sia una cosa sola, non ha un piacere unico: alcuni amano il male, altri il bene” (fr. 547 dei Fragments ed. Loeb; cfr. ancora i fondamentali vv. 383-7 dell'Ippolito, che sono anch'essi chiaramente antisocratici: tò saphés non si può cogliere, fissare attraverso il linguaggio, l'enunciazione). ll fatto che le articolazioni logiche del linguaggio non funzionino in assoluto nella realtà è discusso già nella prima tragedia superstite, e addirittura a proposito della distinzione tra essere e non essere (Alcesti, vv.519-29); uno spiazzamento simile, che mette in luce tutti i limiti della sophía nel cogliere in trasparenza tò

saphés, nell'Oreste, vv.396-7. L'Elena poi è interamente costruita, nella sua forma semiseria, sulla

scissione tra linguaggio e dati di senso, esperienza, v. oltre.

242 La differenza dai moderni è probabilmente quella che ho osservato sopra a proposito di antichi e linguaggio comune: ciò che costituisce questo “plurilinguismo” sono qui i discorsi notevoli, o i cosiddetti discorsi sugli argomenti convenzionali (a questo fa riferimento tà katestṓta nell'Eracle, vv.204-5; la raccolta di argomenti di questo tipo era senz'altro una parte importante dell'opera protagorea), oltre ovviamene ai diversi registri e moduli letterari e performativi. Ma forse Euripide è solo straordinariamente moderno e disinibito nell'impiego dei linguaggi a disposizione: cfr. ciò che ne dice lo stesso Aristotele nel terzo libro della Retorica, osservando che Euripide è stato il primo a mostrare la via dell'impiego del “linguaggio comune” (“comporre prendendo dal linguaggio corrente

non esiste una linea enunciativa, primaria, capace di stare in piedi da sola, assolutamente: ogni pattern discorsivo riconoscibile – la sua tragedia è l'occasione di confronto con tutti - comporta un rapporto problematico con la realtà, e ha una portata contestuale che solo una forma di “scepsi” è capace di valutare243. Questo rende anche ogni asserzione parziale, dalla portata ridotta; la sua critica delle forme di razionalismo del suo tempo è propriamente una critica (che si svolge attraverso l'impiego concreto dei discorsi) della possibilità del linguaggio e delle forme di sapere di funzionare da sè, per via autoevidenziale, senza un giudizio esterno, occasionale, di pertinenza.

Il confronto con Protagora attraversa (a differenza di quello con Socrate, con il quale i conti sembrano già regolati nelle sue prime grandi opere superstiti, Ippolito e

Medea) tutta la produzione di Euripide: la posizione protagorea resta, nella

valutazione di Euripide, la vera grande opzione intellettuale della sua epoca, che egli sceglie di rigettare in modo definitivo al termine della sua vita e del grand siécle

[ek tês eiōthuías dialéktou]”, 1404b 24-25). È una notazione importante nel contesto della Retorica, perché difficile da armonizzare con la proposta naturalistica (anche nello stile) di Aristotele (lo

hellēnízein di III, 5); si può osservare come di contro il riferimento al “linguaggio comune” come

l'insieme delle dimensioni materiali del linguaggio è in realtà un tratto molto avanzato della competenza discorsiva umana.

243 “Sképsis” è il termine centrale a questo proposito, cfr. Ippolito, v.1323 (dove l'“esame” è proposto come modello positivo di verifica razionale), Elena 119 e 914 e Baccanti 1279 (dove l'invito a esaminare, “sképsai”, è collegato al momento drammatico decisivo della presa di consapevolezza “kai saphésteron máthe”, 1281). Si tratta di una competenza non specificamente linguistica (e anzi collegata spesso al riconoscere dei tratti sensibili, percettivi, come accade anche nell'Elena), per cui le questioni protagoree più profonde, collegate al problema della comprensione del linguaggio e del giudizio, di fatto spariscono. Allo stesso modo, più aproblematico, Euripide dà voce in luoghi differenti sia a posizioni relativiste che universaliste, che si alternano come punti di vista che hanno di volta in volta una loro plausibilità nel discorso umano.

ateniese, nelle Baccanti (405 circa)244 245. Vorrei però osservare meglio alcuni aspetti dell'atteggiamento verso Protagora, prendendo in considerazione l'Ippolito e la tarda

Elena (di pochi anni precedente le Baccanti, forse 412), la tragedia interamente

dedicata all'eredità protagorea. Anche Euripide nell'Ippolito propone un suo modello razionalistico, collegato alla critica del linguaggio di cui ho parlato: è l'idea che si trova enunciata nell'intervento risolutivo della vicenda tragica da parte di Artemide (vv. 1320-37), la quale rimprovera a Teseo di non aver condotto il necessario esame e di non essersi avvalso della confutazione dei discorsi o delle asserzioni (“lógōn

elénchous”). Si sente parlare spesso, in effetti, di una fase più razionalistica

euripidea246; ma già a quest'epoca si vede bene come la chiarezza intellettuale invocata da Euripide non fosse quella di Protagora: in particolare Euripide non accetta mai il carattere doxastico e linguistico del razionalismo protagoreo, cioè l'idea che è uno sguardo interno al linguaggio, un assessment di natura linguistica che ci permette di cogliere le dóxai più corrette e, in sostanza, di pensare. Per Protagora era possibile scegliere la formulazione migliore (più forte o corretta) e sostenerla con pretesa di verità; questa potenza epistemica e oggettiva del linguaggio - e la possibilità, su questa base, di asserire assolutamente – è invece esclusa da

244 Qui, attraverso le sorti tragiche del razionalista Penteo, l'evidenza propria del discorso e dell'asserzione viene rigettata alla radice: “Se hai un'opinione, ma essa è sbagliata, ti sembra comunque di sapere qualcosa” (vv.311-2); cfr. ancora, potentissima, la constatazione di Dioniso a Penteo: “Tu non sai che vita vivi, né cosa fai, né chi sei” (v.506). L'alternativa è indicata nelle norme in uso, semplici e condivise, in cui nómos e phýsis antisofisticamente coincidono (i vv. 890- 6: “Non c'è niente di meglio [kreîsson] che conoscere e praticare le norme...”); essa chiude con un rifiuto tutta la stagione delle imprese intellettuali e imperialistiche ateniesi, alla luce dei costi insopportabili e del tracollo della sua potenza. La dóxa protagorea riassumeva per Euripide tutto quello sforzo, il suo razionalismo e anche il suo modernismo (cfr. su questo anche Tucidide, che caratterizza lo spirito ateniese come neōteropoiía, “ansia di novità”, I 70, v. anche 71 e 102). Euripide arriva infine a rovesciare, richiamandolo letteralmente, il frammento protagoreo sugli dei: “La vita è breve (brachỳs aiṓn) per oltrepassare l'umano intendimento”(vv. 395-7), ossia, per Euripide, per tutta l'impresa intellettuale.

245 Cfr. poi ancora il rifiuto dello strumento dei discorsi contrapposti, per esempio in materia di giustizia. Opere come l'Elettra, l'Oreste, le Fenicie portano a compimento nell'ultimo decennio della produzione euripidea un vero e proprio smontaggio della giustizia, cioè della possibilità di fare

asserzioni che non siano unilaterali e parziali (antitetiche ad altre dotate anch'esse di qualche

evidenza) in materia etica e politica. Pure le posizioni più “ragionevoli” risultano viziate alla base; anche in materia di “giusto” non c'è soluzione intellettuale capace di ricomporre i dissidi.

Euripide. Questi infatti invoca uno sguardo-esame esterno dei lógoi rispetto alla realtà; e tale posizione è segnalata bene dal fatto che il “discorso più forte”, kreíssōn

lógos – la locuzione che richiama la dottrina protagorea – si incontri sempre in toni

ironico-critici nella sua opera, e l'orthótēs sia invocata mutata di segno247.

L'Elena è interamente costruita come parodia e critica del razionalismo protagoreo e di quello erodoteo; il fatto che questa tragedia abbia come bersaglio primario anche Erodoto è un dato molto significativo a sostegno della tesi delle mie tesi sulla loro correlazione248. La tragedia enuncia anche la posizione “corretta” che Euripide aveva in mente, di cui ho già detto249; vorrei tuttavia mettere in rilievo ciò che Euripide non rigetta, che costituisce anche un elemento prezioso per la mia lettura di Protagora. Già l'Ippolito, in un passo importante (e antisocratico), rileva come i dissoì

lógoi siano un fatto, un fatto proprio di qualunque esperienza e ambito terminologico

(vv.383-7), e che essi siano inoltre non strettamente diadici, ma plurali. Questa sovrabbondanza della possibilità assertiva e discorsiva è un'acquisizione fondamentale per Euripide, ed è una scoperta protagorea; nell'Elena viene condotto un confronto serrato con Protagora, ma la conquista della consapevolezza di quella situazione di base del linguaggio umano resta basilare, al punto che la tragedia tocca un vertice grandioso dove il coro riasserisce (prima degli sviluppi d'intreccio) il celebre attacco protagoreo: “Cosa è dio, cosa non dio e cosa sta nel mezzo: quale uomo dopo lunga ricerca può dire di avere individuato l'estremo confine?” (vv.1137- 9250). È importante notare che Euripide aggiunge tò méson, “ciò che sta nel mezzo”: io credo che con questa aggiunta Euripide rendesse giustizia all'effettivo pensiero di Protagora, e lo distinguesse in particolare dai ductus socratici. “Tò méson” non è nulla di qualitativo (che sarà la via tentata da Aristotele); è al contrario tutto quello (il

247 Esempi: per il “discorso più forte” si veda Elena 139; l a orthótēs viene invece fatta propria da Euripide, ma privata in modo deciso del significato linguistico: lo “sképsai nyn orthôs” (“guarda, esamina bene”) delle Baccanti (v.1279) è quasi programmatico, e anche nell'Elena è un vedere correttamente, un riconoscere che è elementare, non intellettuale, che è “divino” (battute dei vv. 560 e 565; tutta la sticomitia sviluppa il problema).

248 Non c'è qui spazio per un'analisi dei passi e motivi rilevanti, che sono letteralmente decine. 249 È chiaro che non si tratti tanto di critiche e assunzioni di tipo teorico, piuttosto di un

posizionamento tra opzioni e parole d'ordine intellettuali e culturali della sua epoca. Euripide è il più grande critico della cultura dell'antichità.

250 È oltretutto grandioso il fatto che questo attacco corale su chi/cosa sia il dio sia un modulo eschileo (cfr. Agamennone vv.160 e ss.), in cui viene fatto erompere però l'incipit protagoreo con l'aggiunta del “cosa non dio e cosa in mezzo” e della considerazione sui limiti della ricerca.

resto) che se ne può dire. Non è l'antitesi/antifasi il nocciolo dell'insegnamento protagoreo, ma la molteplicità dei discorsi e delle asserzioni sostenibili251.

Il “sì o no” (aut aut) socratico è un'alternativa artificiosa che esclude il resto; e una testimonianza cristallina a favore della consapevolezza già presente del problema la troviamo in Erodoto. Nel settimo libro delle Storie, proprio in risposta al passo fondamentale (di cui ho parlato sopra) in cui Erodoto ha fatto asserire al saggio Artabano la necessità di confrontare le dóxai (VII 10α, cfr. supra), egli mette in bocca all'ádikos Serse un esempio di cattivo ragionamento (VII 11): Serse argomenta, parlando a favore della decisione capitale di attaccare la Grecia, che l'unica possibilità nella relazione fra greci e persiani è “agire o patire”, cioè conquistare o essere conquistati: “non c'è alcuna via di mezzo [tò gàr méson oudén] alla contesa”. È un manifesto del fatto che il problema del valutare, e in ultima analisi del pensare, fosse un problema di pluralità di opzioni discorsive (e della capacità della loro gestione contestuale).

La questione è centrale e critica per la lettura di Protagora, perché quello dell'antilégein è uno degli enigmi della sua tradizione. Da un lato Protagora avrebbe scritto raccolte di opinioni su vari argomenti, loci communes, e questi sarebbero stati esposti per contrapposizione, come Dissoì Lógoi252; d'altronde proprio lui avrebbe sostenuto l'impossibilità dell'antiléghein (o, aliter, che tutto è vero). Io credo che le cose tornino (almeno nel loro senso generale, i particolari di questi dibattiti non siamo in grado di ricostruirli) se si considera che una parte dell'insegnamento protagoreo fosse sì di natura eristica, e che si avvalesse di esposizioni di argomenti antitetici; ma che il nucleo del suo pensiero, quello che fu combattuto strenuamente dalla tradizione socratica sotto le spoglie di un attacco all'eristica, rifiutasse il ruolo secco, in termini decisionali o assiologici, dell'alternativa contenuta nelle antitesi/antifasi: più discorsi - anche antitetici fra loro, certo - sono possibili, cioè hanno un contenuto

251 Di cui una manifestazione rilevante è la continua produzione di antitesi, come si legge anche nel prosieguo dell'inno: “...k a ì pálin antilógois”(1140-2). Ma l'antitesi è anche fra enunciati

semplicemente diversi fra loro. L'opera di Euripide scandaglia queste alternative di senso, che si

possono presentare in forme molto diverse fra loro.

252 Cfr. le testimonianze di Diogene Laerzio e di Cicerone comunemente usate. Di sicuro i Dissoì

Lógoi di Protagora non sono lo scritto di valore secondario tramandato nel corpus sestiano sotto lo

stesso titolo; l'impresa protagorea dovette aprire le porte a un'intero genere di produzione antilogica di questo tipo, ben rappresentato per esempio anche dai papiri di Antifonte (pure di ben diverso orientamento teorico e ideologico).

doxastico da esaminare, sono veri in qualche modo e colgono, grasp, qualche oggettività; i dissoì lógoi furono solo un modo di presentarli253. Detto in una formula: il grande problema con Protagora del socratismo fino ad Aristotele, la pietra dello scandalo e insieme la difficoltà insormontabile per esso, non è la violazione del principio di non contraddizione (perché anche per Protagora si decide una fra varie possibilità assertive), ma l'infondatezza del principio del terzo escluso come principio

costruttivo. Affronterò più nel dettaglio questi problemi nel capitolo su Aristotele.

La mia lettura collega dunque in modo organico Euripide alla produzione di Protagora, e dà un sostegno anche informativo rilevante sui caratteri della sua “sofistica”. Euripide mostra di conoscere bene anche i paradossi dell'asserzione, al punto da incentrare la sua tragedia più tarda su un'impasse di questo tipo. Lo Ione si sviluppa tutto intorno alla situazione per la quale l'asserzione del dio, l'oracolo di Apollo, risulta inficiata da un paradosso pragmatico: Apollo non può vaticinare correttamente perché parte in causa nella vicenda su cui deve pronunciarsi - anche contro il dio vale l'argomentum ad hominem254!

Euripide non risolve queste questioni, e resta sospeso, riguardo all'asserzione, fra disincanto intellettuale ed esplorazione della sua forza. È la sua caratteristica poetica impiegare la realtà molteplice dell'asserzione “primaria” e insieme proporla come un'insieme di posizioni limitate, fragili. Il problema insolubile per Euripide - che è poi ciò che tiene in vita il suo mondo poetico - è che l'asserzione è sempre parziale,

253 Allo stesso modo – altro nonsense della tradizione - il kreíssōn lógos non è affatto, come si è appena visto, una nozione eristica, che ha a che fare col prevalere nella contesa, come piace pensare anche sulla scorta del passo aristotelico della Retorica in cui si attribuisce a Protagora l'esercizio di “rendere più forte il discorso più debole”. Se nell'insegnamento protagoreo c'era di certo anche la tecnica eristica, resta il fatto da prendere invece sul serio – e anche Euripide lo fa, pur dissentendo – che il kreíssōn lógos fosse una nozione epistemica e decisionale fondamentale, che esprimeva la forza doxastica di un'asserzione/discorso. L'argomento del discorso migliore torna in questa forma sostanziale (non meramente retorica) in Metaph. Gamma, come si vedrà. 254 “Come potrà dare responsi il dio su ciò che vuol celare?” (v. 365). Poco dopo (373) un altro verso

notevole, “Non si può vaticinare qualcosa di contrario [tanantía] al dio”: l'antitesi pragmatica è espressa nel linguaggio di quella logica, non è possibile i realtà tenerle distinte fino in fondo. Si noti come si tratti di una posizione scettica diametralmente opposta a Erodoto, e in effetti anche nello

Ione torna la satira del razionalismo erodoteo: chiaramente ironici sono per esempio i

pronunciamenti dei versi 557 (“È ragionevole [eikós] non diffidare del dio”), e 1547 (“Indagherò [historēsō] interrogando Apollo”, tentativo assurdo e non dissimile dalle ricerche di Erodoto tra i sacerdoti egiziani).

ma che d'altronde abbiamo solo l'asserzione, o meglio le asserzioni (che sono discorsi divergenti). L'unica cosa che possiamo fare, nonché il massimo grado di consapevolezza umana, è dispiegare l'intero spettro delle asserzioni sensate. Anche il momento corale che ho richiamato poco sopra, quello protagoreo, ripropone la stessa situazione: felicità della formulazione e insieme mancanza di certezza sulla sua effettiva sostenibilità/generalità255.

2.6 Le Storie di Tucidide: un confronto sistematico e critico con le dottrine