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Metafisica Gamma: la resa dei conti con Protagora

Capitolo 1: nel par 1.1 fornirò, partendo dall'aneddoto riportato da Plutarco, le

3.4 Metafisica Gamma: la resa dei conti con Protagora

Vorrei prendere ora in considerazione, a conferma di quanto ho delineato finora, il libro Gamma della Metafisica: qui emergono in modo perspicuo i problemi che ho sollevato, e le soluzioni – non prive di difficoltà - adottate da Aristotele. I capitoli in cui è argomentata la validità del PNC e del PTE sono, come ho già evocato, il luogo di un confronto serrato, di una vera e propria resa di conti con Protagora e la sua posizione; sono anche il luogo in cui le due differenti concezioni di fondo del linguaggio latenti in Aristotele emergono e giungono a un punto critico di coesistenza. Protagora è il grande antagonista di Gamma, ben oltre la trattazione esplicita che vi riceve: è qui infatti che Aristotele intende mostrare, sul campo delle leggi più semplici o ovvie del linguaggio (e delle due nostre operazioni discorsive più generali: asserire e negare) la maggiore presa della sua proposta, e la sua capacità al contempo di assorbire e di rendere ragione delle istanze protagoree. La mia valutazione del successo di questa impresa è negativa; per far questo riprenderò e impiegherò molti approcci e argomenti che ho sviluppato finora.

L'enunciazione del PNC come legge generale del linguaggio e del pensiero, che è l'argomento di Gamma a partire dal suo terzo capitolo, è in realtà un fatto molto problematico, alla luce di quanto è emerso. La difficoltà è che il PNC (come anche il PTE) è un principio pienamente valido nel linguaggio apodittico (date le sue caratteristiche postulate da Aristotele), ma non per il linguaggio in generale. Certo, per Aristotele parlando e asserendo noi intendiamo sempre qualcosa di determinato, questa è la caratteristica dell'intenzionalità; tuttavia per coglierlo e toccare “il punto” molto spesso noi dobbiamo aggiungere una traduzione/esplicazione accessoria, e frequentemente è necessaria persino una ricerca più ampia (sempre “semantica”, quale deve essere la ricerca scientifica375) per stabilire “in che senso” (primario) si

375 Anche qui è interessante notare come per Aristotele non si tratti di approfondire l'ambito doxastico della intenzionalità, cosa “ci sembra” o cosa associamo, ma di cogliere invece una sorta di necessità semantica autonoma e impersonale. Funzioni come ciò che noi chiameremmo

“dice” un certo asserto/éndoxon (es: “la democrazia è un bene”). La situazione è aggravata dal fatto che la negazione, si è visto poco sopra, non è un operatore dotato della trasparenza necessaria per supportare inferenze da contraddittori, ma mette di fronte ad alternative indipendenti, da indagare separatamente (cfr. sempre

Topici I).

La situazione è in realtà problematica anche all'interno del linguaggio apodittico, per il fatto (che ho già rilevato) che esso è in realtà costituito da due profili diversi: (a) il linguaggio scientifico, cioè l'ambito specifico del livello teorico del discorso (in cui vengono enunciate le verità necessarie), le cui caratteristiche ho appena analizzato prendendo in considerazione Metaph. Iota. Il PNC qui è valido e pienamente perspicuo solo perché si suppone che qui io mi trovi in un “ambiente” semanticamente univoco, dove i problemi di contestualità e di pertinenza siano azzerati; b) ma in realtà linguaggio apodittico sono anche le asserzioni/giudizi semplici, quelli che “stanno in piedi” da soli, assolutamente, che sono dotati per Aristotele di tutta l'evidenza desiderabile (“Socrate è bianco” e “Socrate è un uomo”, per esempio). Sono del resto queste asserzioni assolute, trattate con gli strumenti teorici specifici (sostanza, categorie, inerenza ecc.), che sono il modello evidenziale del discorso “teorico”, scientifico. Il problema è che questo secondo profilo è in realtà ben poco separabile dal resto del discorso: dove mettere il confine e il discrimine tra asserzioni assolute e apodittiche (che per Aristotele parlano la lingua puramente “semantica” della necessità) e asserzioni che hanno bisogno di essere

contestualizzate, tradotte o esplicate in termini più precisi, e che spesso contengono

un elemento di valutazione, come quando dico “la democrazia è un bene”?

Il problema del PNC è così basilare, e chiama in causa il confronto radicale con Protagora376, perché tocca il cuore della questione della natura dell'evidenza del linguaggio e del pensiero. Affermare PNC e PTE solo per il linguaggio apodittico

immaginazione (phantasía) non hanno un ruolo attivo e positivo nella comprensione linguistica, per Aristotele sono al contrario solo fattori di inganno, o almeno una delle cause per le quali restiamo impigliati nelle aporie, come illusioni ottiche (cfr. Soph. El. 6, 168b 19). Questa idea è quanto di più antimoderno si possa concepire (cfr. Introduzione).

376 È di grande significato secondo me che al punto critico costituito da Metaph Gamma, dove le nozioni stesse di significato, asserzione e negazione vengono chiamate in causa per dare una versione della natura della loro evidenza, non siano Socrate o Platone gli interlocutori – quello della loro “dialettica” era un problema sostanzialmente superato dai nuovi metodi aristotelici -, ma lo spettro di Protagora.

significa praticare un taglio nell'estensione della sua validità, rinunciando alla sua rivendicazione generale per il pensiero (con tutto l'effetto riduttivo che questo comporta per una proposta che voglia competere con successo tanto con Socrate- Platone che con Protagora); estenderli, al contrario, come principi universali del pensiero significa di fatto dover adottare argomenti di natura diversa, non teorica, a suo favore, i.e. argomenti di natura doxastica, protagorei. Nella realtà Aristotele si avvale di un insieme misto di argomenti, che ora considererò a sostegno della mia lettura, passando in rassegna il libro Gamma.

Inizio osservando come la soluzione del problema del PNC sia già contenuto della sua formulazione (Gamma 2-3). Aristotele espone in Gamma 2 la celebre teoria de l pròs hén, ed enuncia la possibilità di una corretta teoria di tutte le forme di antitesi all'interno del linguaggio scientifico (1003b 12-15)377. La formulazione del

pròs hén vuol dire tra l'altro che questo linguaggio semantico e perfettamente

trasparente non funziona solo per effetto dell'univocità dei termini (ciò che è detto “kath'hén”), ma sopporta ed è necessariamente integrato anche da termini che hanno u n set plurimo di significati (per esempio i vari sensi teorici dei “categoremi” come

hén, aitìa ecc.), che sono sì distinti, ma in qualche modo fanno riferimento a un focal meaning (“pròs mían legoménōn phýsin”378)379. L'idea generica, come si è visto, è che la componente logikôs, il “vizio intrinseco” del linguaggio che lo rende così instabile, sia gestibile entro la scienza come pluralità di significati definiti disposti intorno a un nucleo semantico e attraverso l'impianto esplicativo delle categorie (ho notato sopra in più passaggi che di fatto le cose non funzionano così: in Aristotele è particolarmente acuto il problema di distinguere ciò che dice di fare da ciò che fa effettivamente). PNC e PTE nella scienza (così come è concepita da Aristotele) funzionano già: non c'è bisogno di alcuna dimostrazione380.

377 È il livello dell'epistḗmē dei contrari, il livello di una lingua puramente semantica e disambiguata che si è visto in Iota. I due libri si sono strettamente legati; non da ultimo sono i principali luoghi aristotelici in cui è discussa la posizione di Protagora. Cfr. anche 1005a 5-6.

378 Anche qui emerge chiaramente come il naturalismo in gioco sia di tipo semantico.

379 Davvero folgorante l'osservazione incidentale che Aristotele fa a questo proposito in 1005a 5-6: “[Tutti i contrari] sono oggetto di una sola scienza, sia che si dicano univocamente sia che no,

come forse stanno le cose anche per la verità”. Anche la verità si dice in più sensi: ovviamente è

solo una puntata isolata rispetto alla teoria aristotelica della verità, ma la dice lunga sul livello di consapevolezza ed elaborazione dei problemi anche sulla scorta di Protagora.

380 Ho scienza infatti solo localmente, esattamente dove essi funzionano e sono perspicui su base qualitativa; viceversa essi non sono strumenti dimostrativi/inferenziali generali.

Le cose cambiano (Gamma 3) se la portata del principio riguarda il linguaggio in generale e tutto il campo aperto dell'intenzionalità umana. Aristotele impiega qui l'argomento antiscettico dell'intenzionalità: noi parlando, asserendo intendiamo

sempre qualcosa di determinato; che lo vogliamo o meno noi significhiamo, supponiamo381. Il PNC è formulato così, bypassando il linguaggio e riferendosi al pensiero, a ciò che intendiamo: “è impossibile che la stessa cosa possa pertenere382 e non pertenere alla stessa cosa e sotto lo stesso rispetto” (1005b 19-20). Ma il problema è che affermare la determinatezza dell'intenzionalità (il fatto che noi diremmo sempre qualcosa di determinato) non basta da sé ad affermare il PNC; è essenziale vedere come funzioni l'esibizione o enunciazione di quel “rispetto”, cioè del senso determinato dell'asserzione a cui il PNC si applica383. La formulazione del PNC che ho appena riportato presuppone l'idea che tutto il linguaggio assertivo sia esprimibile in un linguaggio del tutto disambiguato e semanticamente univoco, il linguaggio apodittico; l'apodissi è in un certo senso, come si è visto, l'idea di una

lingua puramente semantica o assoluta (la lingua fregeana del pensiero, qualcosa

che in ogni caso non è distante da ciò che noi oggi trattiamo come linguaggio formalizzato dotato di una semantica adeguata: è la nostra “teoria”), in cui il PNC funziona naturalmente384.

381 Il termine è “hypolambánein”, 1005b 26 e 30, 1006a 1-2. Cfr. anche gli altri termini-chiave con 'hypo-', “hypoménei lógon” (1006a 26) che è proprio il “contrarre” un discorso, significare per il fatto

stesso di asserire; e, in Gamma 6: “hypéchein lógon” (“sostenere qualcosa”, 1011a 24-25). In tutti

questi casi è già evidente il ruolo decisivo, per l'argomento aristotelico, della componente

pragmatica dell'asserzione, che si è vista essere uno dei principali nuclei di riflessione di Protagora.

V. infra in questo paragrafo.

382 Traduco in questa maniera meno tecnica: così la questione suona subito più moderna e generale. 383 Altrimenti sostenere il PNC significherebbe solo dire che qualunque cosa determinata si dica, è “così” ed è contraria (di nuovo riduzione qualitativa dell'antifasi) alla sua negazione. Aristotele in effetti si avvicina molto a sostenere questo. Ma il problema è come si arrivi a un punto determinato,

cosa voglia dire toccarlo, e se esso possa essere sempre espresso in una porzione univoca di

linguaggio di primo ordine.

384 Si può notare come gli stoici, aggiungendo un terzo termine oltre alle cose e al linguaggio, il famoso tò lektón, semplifichino molto le cose e rendano più scorrevole un approccio naturalistico al linguaggio: non è più necessario isolare i contenuti intenzionali con la complessa procedura aristotelica per cui l'asserzione “assoluta” o la definizione conducono ai contenuti oggettivi, semantici. Ovviamente però così viene anche dissolto il problema centrale - da cui Aristotele non riesce a liberarsi e che lo rende così affascinante - della linguisticità del pensiero. Se dò un nome o un codice speciale ai contenuti intenzionali, a parte dall'asserzione, cioè dal linguaggio, ho risolto

L'assunzione di Aristotele è infatti che ciò che “supponiamo”, l'intenzione, sia esprimibile/traducibile in termini enunciativi, assoluti, attraverso alcune definizioni/precisazioni (Aristotele dice qui “prosdiorízein”, “definire in aggiunta”385), che bastano a fornire tutta l'evidenza del contenuto semantico che si può richiedere; e che in questo modo si entri nel linguaggio apodittico, in cui i termini valgono assolutamente e così il PNC. Ma che esista sempre un senso determinato o principale (kýriōs), e la possibilità di riferirvisi con un linguaggio assoluto, è tutt'altro che un fatto scontato. Basta prendere in considerazione asserzioni-éndoxa appena più impegnativi dei consueti truismi filosofici (“l'uomo è un animale”, “la neve è bianca”) per rendersi conto di come il PNC sia mediato in modo irriducibile da una comprensione/valutazione linguistica. Prendiamo gli asserti problematici “la democrazia è un bene” e “l'uomo è misura delle cose”. Aristotele in sostanza suggerisce che il fatto di disporre di un senso “scientifico” di “democrazia”, “bene”, “uomo” “misura” assicuri che al fondo di questi asserti esista una realtà semantica univoca di base, a cui si applica il PNC. Tramite le definizioni dei termini, e specificando sotto quali “rispetti” si predica ciò che si predica (prosdiorízein)386 saremmo in grado di puntare al senso determinato di quegli asserti.

Ora, si vede subito che così non si intercetta affatto il senso specifico degli asserti, la loro intenzione, per cui non si può valutare nemmeno la loro verità. Difficilmente le definizioni “scientifiche” per esempio di “bene” o “uomo” sono infatti di qualche aiuto nella comprensione e valutazione degli asserti in questione. Il senso teorico-scientifico, biologico, di “uomo”, per esempio, non serve alla comprensione di una formula discorsiva complessa come “l'uomo è misura delle cose” (così come non lo sono le accezioni scientifiche di “métron” in Iota 1). “Uomo” è un esempio lampante di ciò cui mi sono riferito finora col termine “categorema”, qualcosa che assume significati ad ampissimo spettro a seconda dei contesti discorsivi in cui viene

tutto e niente, come accade con le “proposizioni” fregeane.

385 Altrove, come già osservato, il verbo usato è prossemaínein, “significare, intendere in aggiunta”, per esplicare senza residui il senso degli enunciati, anche con l'uso del dispositivo del relativo (Soph. El. 169 10-12).

386 La griglia delle categorie qui funzionarebbe come lo schema dei “rispetti” oggettivi nei quali si dice qualcosa (nel caso dello homo mensura per esempio quale sarebbe? “Qualità”? “Azione”?), cioè come lo strumento esplicativo che conduce a un punto di vista assoluto, apodittico che colga il contenuto essenziale e oggettivo degli asserti.

impiegato387; in questi contesti di comprensione non solo non abbiamo a che fare con i sensi “teorici” dei termini, ma tipicamente impieghiamo un linguaggio esteso in cui i termini più generali, “comuni”, come “uomo”, “bene”, ma anche “cosa”, “linguaggio”, “rispetto” hanno sensi molto ampi, figurati. Addirittura, è proprio laddove si trattano i problemi più generali che ci si imbatte in questo impiego discorsivo dei termini e in questo tipo di formulazioni che appartengono al regno della dóxa. Non c'è nemmeno un “profilo” naturale (“qualità”, “possesso” ecc.) sotto il cui rispetto si possano inquadrare queste predicazioni. Di fatto quello che accade è che queste asserzioni vengono discusse facendo altre assunzioni e cercando di vedere cosa funziona, in che senso e perché: cioè esattamente avviando un processo di valutazione interna, linguistica, che impiega strumenti di secondo livello388. “Toccare il punto” di un asserto è in generale una capacità parafrastica389, in cui si cerca di portare evidenza dicendo altro; è esattamente la situazione protagorea.

Ciò che voglio suggerire in altri termini è che la ricerca semantica e normativa di Aristotele copre di fatto un ambito minimale rispetto alla nostra effettiva comprensione; questo ambito coincide col campo ristretto di enunciati superevidenti che costituiscono per lui lo standard di chiarezza apodittica390. La situazione è ancora più difficile se si osserva che molta parte del discorso filosofico ha a che fare esattamente con la valutazione di evidenze di tipo differente, come quelle de “l'uomo

387 Anche Aristotele del resto, quando valuta la formulazione protagorea dell'uomo-misura in Iota 1 e Gamma 6, non lo fa usando i sensi teorici di “misura” appena elencati; lo fa invece con metodi tipicamente euristici, e valuta semplicemente cosa funziona meglio e perché - assomiglia proprio una valutazione di ciò che è eikós, o al modo in cui, a caccia di definizioni nell'etica, la formula corretta è sostenuta inevitabilmente da un “dokeî”, cfr. per es. Eth. Nic. I 5 1097b 7-8 e III 4 1111b, 11-12.

388 Del tipo: che cosa “intendiamo” e in che tipo di discorso diciamo qualcosa eccetera. Il “profilo” che qui si cerca è una nozione artificiale e figurata (ma niente affatto arbitraria), relativa ai tipi di

discorso che riusciamo a costruire e a cui siamo in grado di riferirci.

389 “Parafrasi” proprio nel senso che non sostituisce, ma sta accanto a un asserto. “Toccare” un senso spesso è il prodotto di più linee oblique, un fatto che ho definito nei capitoli precedenti transteorico o translinguistico. La “precisazione” usata da Aristotele significa invece che posso tradurre qualsiasi asserto in una “stringa” enunciativa unitaria e assoluta che ne costituisce il senso “oggettivo”, essenziale. Sul problema generale v. le mie considerazioni nell'Introduzione; cfr. anche il ruolo centrale e irriducibile che Quine attribuisce alla parafrasi in Parola e oggetto.

390 La “teoria” funzionerebbe nella misura in cui riescisse a tradurre nei propri termini il resto (o una porzione abbastanza ampia) del linguaggio.

è misura delle cose” o “la democrazia è bene” e persino “Socrate è giusto”391. Il paradosso è che proprio prendere posizioni su queste cose, avere una “dottrina”, assomiglia molto più a una prestazione doxastica che considera tutte le evidenze e gli argomenti a disposizione, ed esce dal tracciato dell'enunciazione “naturale”: il campo di queste posizioni così generali e difficili può essere al massimo, come in Gamma, “bebaiotátē dóxa”392. Aristotele non discute in realtà questa situazione dell'evidenza generale, che è inaggirabile; io credo che la sua idea alternativa consista invece semplicemente in un'opzione selettiva di alcune aree del linguaggio o tipi di enunciazione che hanno per lui una chiarezza speciale e di natura differente, che sono evidenti in modo differente più potente della semplice opinione393. Le nostre prestazioni cognitive più rilevanti stanno a questo livello elementare, enunciativo, del discorso; il resto della “struttura” filosofica funziona “al servizio” di questa evidenza, ed è accreditata dal fatto di sostenerla, di esserne fautrice394.

Si guardi di nuovo il difficile caso del categorema “uomo”, questo termine centrale dibattuto direttamente con Protagora in Gamma 6 (1011b 9-11). Proprio in contrasto con le tesi protagoree (cfr. il passo parallelo sull'uomo-misura in Iota 1395) Aristotele rivendica una precisa scelta ontologica. L'alternativa considerata è se l'uomo sia essenzialmente colui che “opina”, “giudica” (“tò doxázon”) oppure ciò che è “opinato”, “giudicato” (essere uomo), “tò doxazómenon”396. Per Aristotele l'uomo non è in senso primario e pienamente oggettivo “tò doxázon”, cioè chi opina, dunque

non è il campo esteso delle sue evidenze discorsive; ma è soltanto “tò doxazómenon”, cioè la nozione più ristretta di ciò che è asserito negli enunciati con

391 Che non è un truismo ed è una questione molto profonda e difficile. La sua indiscussa evidenza è invece un topos rilevante di un discorso speciale, quello dei filosofi. Quando i filosofi ribadiscono questa certezza, parlano uno strano idioma.

392 “L'opinione più solida”, 1011b 13.

393 Come si è visto, per una virtù semantica. La posizione di Aristotele assomiglia molto, da questo punto di vista, a quella di Quine: anche quest'ultimo isola un'area limitata del linguaggio come pienamente oggettiva, che è il linguaggio scientifico e referenziale di primo ordine: il resto è il regno incerto della parafrasi e delle costruzioni di secondo ordine.

394 Le dottrine della sostanza, delle categorie, delle forme di giudizio ecc. non sono che gli apparati

tecnici che puntellano questa scelta materiale, discorsiva.

395 1053a 31 e ss.

396 Si noti come in questa valutazione siamo già in un'area semantica complessa, fuori del significato

proprio di “uomo” secondo Aristotele, come si è visto per il caso dell'asserto protagoreo dello homo mensura.

“uomo”, e meglio ancora nella definizione di uomo (quella biologica prima di tutto, e poi quelle di altre scienze più specifiche come l'etica e la politica)397. Questo strano quesito filosofico significa in realtà il problema enorme se il linguaggio epistemico e aletico vero e proprio sia limitato entro il campo dell'enunciato apodittico, oppure se l'ambito più ampio, doxastico, del linguaggio abbia diritto di sollevare pretese di verità e a costituire un'assiologia. Aristotele rifiuta questa seconda opzione, anche al costo di rendere aporetico tutto il piano di queste sue valutazioni, che sono solo bebaiotátē

dóxa (rigo successivo).

Ricapitolando: Aristotele conosce bene l'opzione protagorea, e come si è visto la mette in evidenza altrove, in contesti di trattazione più “linguistica”, dove analizza i problemi di disambiguazione-esplicazione, e sostiene che comprendere e/o esplicare un asserto sia un'operazione euristica, non sistematizzabile398, che si fa in vari modi, a volte attraverso una semplice precisazione, o un'indicazione contestuale, spesso facendo riferimento a tipi o livelli di discorso, o ancora avviando una ricerca “dialettica” ad ampio raggio nello spazio materiale delle nostre asserzioni: in generale è questa capacità parafrastica e contestuale che conduce alla “intenzione”. Ma, riconosciuto il problema, la sua ricerca va in un'altra direzione, quella di enucleare un'area del discorso differente, apodittica, in cui gli asserti funzionano in virtù di una evidenza acontestuale, avalutativa, di primo livello, e sono immediatamente oggettivi; e assume che, in qualche modo, tutto il linguaggio sia riconducibile a questo nucleo univoco, semantico-teorico (e soggetto al PNC)399.

397 Come vorrei mostrare alla fine di questo capitolo, il problema dello homo mensura, dell'ad

hominem ecc. non ha nulla a che vedere con un “filtro” soggettivo o se si vuole “trascendentale” o

ancora “concettuale”: esso invece riguarda/è traducibile nei termini del ruolo (non facile da vedere)

della discorsività. Ciò che meglio definisce l'“uomo” è il fatto unico di cogliere evidenze discorsive, dóxai. Cfr. infra le mie considerazioni su naturalismo e antinaturalismo.

398 Che la comprensione del linguaggio materiale abbia questa caratteristica, che esso sfugga a