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La generalità della conoscenza nelle Storie

Capitolo 1: nel par 1.1 fornirò, partendo dall'aneddoto riportato da Plutarco, le

2.3 La generalità della conoscenza nelle Storie

Solo attraverso Erodoto siamo in grado di osservare più concretamente aspetti fondamentali dell'indirizzo intellettuale e culturale protagoreo, o almeno la loro portata; essi si avvicinano sorprendentemente ad alcuni problemi contemporanei che ho toccato nell'Introduzione. Ho accennato poco sopra come la competenza dei discorsi e delle forme linguistiche umane abbia non solo la caratteristica di affrontare i diversi contesti espressivi, ma abbia un tratto essenzialmente translinguistico e

transculturale. Con l'impresa di comprensione e valutazione di altre culture (che non

è distinta, si noti, dalla comprensione/valutazione della propria) si può cogliere un aspetto capitale del razionalismo erodoteo che non avrà seguito nel mondo antico.

Erodoto206 assume con decisione l'identità della natura umana, che è la base di qualunque asserzione possibile su chiunque207; tuttavia essa non consiste in alcun termine definito o carattere determinato, ma solo in quell'elemento ad hominem che costituisce il dokeîn e la capacità stessa di comprensione. Le Storie si propongono come un manifesto di questa tesi: le celebri discussioni dei Persiani sulle forme di governo (III 80-82)208, o il sorprendente racconto del tentativo del persiano Mardonio

necessariamente letterale, anzi).

206 Che può essere inquadrato alternativamente sia come relativista che come universalista, definizioni convenzionali che potrebbero essere entrambe corrette ma non chiariscono quasi nulla, anche perché contraddittorie fra loro.

207 Che, si noti in generale, in questi termini transculturali e pragmatici è qualcosa che bisogna presupporre per forza, anche nel dissenso e nell'asimmetria più radicali, pena l'impossibilità di dire alcunchè. Il problema è tuttavia come formulare tale unità “naturale”. L'accordo secondo me non può essere né minimale (e massimizzato da noi, cfr. Quine e il principio di carità di Davidson), né contenuto entro la dimensione esclusivamente semantica (dopodiché ognuno giudica a modo suo): queste opzioni costituiscono modelli insufficienti alla comprensione linguistica umana.

di instaurare la democrazia nelle città ioniche (VI, 43) sono un modo euristico e provocatorio di rivendicare due cose: 1) che nessun discorso, nessun argomento o evidenza è in via di principio estraneo alla comprensione umana; anzi 2) certe aree

pragmatiche del ragionamento (e della realtà umana in generale) sono comuni a tutti,

per quanto cambi il linguaggio e ciò che oggi chiameremmo la struttura concettuale209. Erodoto si impegna in un'impresa inedita di reidentificazione e valutazione di nozioni e realtà umane attraverso linguaggi e culture differenti; comprende e rivendica a suo modo il fatto che è solo da questa posizione che possiamo pensare in termini generali. Detto in altri termini, più moderni, il modo in cui accediamo a un livello generale di comprensione del linguaggio e della realtà, non è legato alle nostre “nozioni” specifiche o “nazionali”210, ma al contrario alla nostra posizione

translinguistica e transculturale (e questo anche per la comprensione di noi stessi). La

generalità del pensiero non si situa a livello di nozioni determinate (i propri termini e concetti), ma nella capacità di reidentificare discorsi e la loro valenza pragmatica: e qui ci avviciniamo alle radici della comprensione linguistica umana. Faccio un paio di esempi che spero chiariscano ciò che intendo e come vada letta secondo me la posizione di Erodoto.

Quando le Storie toccano l'ambito del sacro, ossia quando nella narrazione Erodoto valuta che fatti o realtà vadano ricondotti a quell'ordine del discorso, si presenta, senza ulteriori specificazioni e per tutte le culture, “il dio”, ho theós. A cosa pensa Erodoto con questo termine-concetto? Di certo è qualcosa di non determinato (che infatti si manifesta in linguaggi e “onómata”, caratteri, molto diversi), e non costituisce nemmeno alcunchè di universale211. Ciò che Erodoto identifica è semplicemente una dimensione pragmatica e discorsiva specifica (e per lui rilevante) che ha riscontrato in ogni cultura umana da lui conosciuta: ha reidentificato, con

209 Cfr. ancora III, 72 dove il saggio persiano Otane può esporre un ragionamento sul dire la verità di stile protagoreo; eppure lo fa in modo sostanzialmente pertinente, perché quello di cui cui si sta parlando, sebbene espresso in termini inconfondibilmente greci, tocca un livello pragmatico

profondo con cui tutti gli uomini e le società si trovano ad avere a che fare. La discussione ha poi

un esito non meno sorprendente, la riprendo tra poco.

210 Cfr. il “sapere proprio” (particolare di alcune persone o di una cultura), la sophía oikeíē (VII 10 γ) di cui ho parlato sopra.

211 Nel senso che assumerà la divinità da Socrate in poi: l'intento assiologico è completamente estraneo a Erodoto.

naturale evidenza, ogni volta questo tipo di discorso212. Il termine “dio” ha senso, ed è compreso, riconoscendo questo contesto pragmatico213; la comprensione del termine non ha a che fare con qualcosa come l'unità della nozione (e con l'universalismo che le è correlato: il problema posto da Socrate, che Aristotele tenterà di riformulare nella maniera più ingegnosa e sostenibile). Non si tratta affatto cioè di sapere “cos'è” un (il) dio214 e poi cercarlo (o eventualmente bandirlo) negli altri; e nessuno in realtà impara il “concetto” di dio, nessuno conosce il “significato” del termine (o deve conoscerlo per sapere di cosa si sta parlando). Ciò che invece tutti conoscono è la dimensione pragmatica e linguistica in cui si parla del dio, in cui il “dio” ha posto e agisce: ed è proprio cogliendo la generalità di questa dimensione discorsiva, il tipo di evidenza che questo tipo di discorso è capace di esibire, che si comprende anche il termine/nozione215.

212 Costituito, si noti, da un complesso di elementi rituali, visuali ecc, oltre alla “lingua” divina: si tratta di riconoscere un linguaggio primario (umano: anche la lingua divina, dal nostro punto di vista, lo è!) e insieme elaborare la capacità discorsiva di riferirsi ad esso. Tutto questo vuol dire, detto appena altrimenti, che il termine “dio”, benché sia definito e traducibile in varie lingue, non è spiegabile in termini di “significato” o “concetto” (e relative definizioni): esso al contrario corrisponde a una serie di giudizi e di impieghi discorsivi. Questo secondo me è anche il modo migliore di rappresentarsi il funzionamento del linguaggio umano, cfr. Appendice al terzo capitolo. 213 È sorprendente leggere come Wittgenstein faccia nei suoi eccezionali appunti “antropologici”

considerazioni molto simili: anche per lui noi reidentifichiamo un certo ambito pragmatico (quello simbolico-religioso), in questo sostenendo una posizione profondamente antiscettica e

antirelativista nella nostra capacità di accesso ad altre culture: “Il principio che regola queste

usanze è molto più universale di quanto dichiara Frazer (…) tant'è vero che noi stessi potremmo

escogitarci tutte queste possibilità” (Note sul “Ramo d'oro di Frazer, pp. 23-24). Il fatto davvero

rilevante anche per Wittgenstein è che noi effettivamente attraversiamo il confine culturale e linguistico (contra Davidson); inoltre “ci ritroviamo” nella nuova lingua, sappiamo “in che senso” stiamo parlando (abbiamo una competenza di secondo livello, contra Rorty).

214 O riconoscerne alcuni determinati e poi cercarli anche altrove: anche da questo punto di vista Erodoto compie una inversione epistemica importante quando attribuisce agli egizi il primo emergere dei caratteri divini poi diffusi in Grecia. Si noti inoltre come agli egiziani non sia attribuito un primato inventivo o un sapere speciale: essi sono semplicemente i primi a usare un certo tipo di

linguaggio. L'accento sta sulla compresenza di caratteri e sulla capacità di reidentificarli, attraverso

la quale si comprendono alcuni fatti generali della divinità.

215 Nota come “se il dio esista” sarebbe una domanda assurda per Erodoto: esiste infatti senz'altro tutta la sua dimensione discorsiva e pragmatica, la quale per Erodoto è impossibile che non abbia una radice e sia stata costruita sulla base di una certa evidenza. Cfr. anche le sue valutazioni sull'evidenza o no dell'operato di un dio, per es. VI 98, o il dilemma di Serse e Artabano se il loro

Quello che intendo dire, in una formula, è che la generalità del pensiero non ha a che fare con l'unità di una nozione determinata (la via che sarà battuta da Socrate in poi), ma con una capacità obliqua di cogliere e riconoscere tipi di discorso. E lo stesso vale per le altre nozioni, per tutte quelle più fondamentali, che sono l'oggetto dell'impresa razionale: le cogliamo e le comprendiamo proprio confrontando e riconoscendo lo stesso livello pragmatico-discorsivo in lógoi e culture diverse, al livello che chiamo transteorico e translinguistico; il centro dell'indagine razionale di Erodoto si situa proprio qui216. Credo che tutto ciò, riformulato in termini moderni, tocchi dei fatti basilari del pensiero e della comprensione linguistica umana217.

sogno sia di origine divina o meno (VII, 15-18): il problema serio è la valutazione contestuale di

quando sia corretto impiegare il discorso del dio, quel tipo di spiegazione. Il risultato di queste

valutazioni è consapevole e non scontato, e rientra per nulla nella mitologia moderna e anche paternalistica dell'incerto cammino “dal mito al logos”. All'inizio del libro VII (15-18) ci si trova per esempio di fronte a una difficile valutazione: se il sogno di Serse vada spiegato in termini divini o scientifico-razionali. Il saggio Artabano tenta inizialmente una spiegazione medico-scientifica, che si rivela insostenibile e fuori contesto (l'attacco scientifico in VII 16 β è un esempio di umorismo erodoteo). Anche questo è un passo dichiarativo: Erodoto fa una scelta consapevole e impegnativa – di certo per nulla ingenua - fra opzioni precise (l'alternativa è quella ippocratica), e attribuisce i sogni al campo del linguaggio del dio. Tucidide non parte affatto da una posizione di maggiore consapevolezza: egli semplicemente prende posizioni differenti, o si limita a negare rilevanza al problema.

216 Questa prospettiva sarà invece del tutto assente nella filosofia classica antica: cfr. per es. il

Cratilo di Platone, dove è messo subito in chiaro che la “correttezza” della lingua (“dei nomi”) sia

“già predisposta per i greci e per i barbari, la stessa per tutti” (383 a-b); in questo senso la proposta platonica sul linguaggio è essenzialmente naturalistica (cfr. ancora Cratilo 389d-390a e 401b-c; per Aristotele si veda infra il terzo capitolo). Il Cratilo contiene anche una chiara ironia verso gli atteggiamenti di Erodoto e Protagora proprio sugli dei: v. 400d-401a e 425e (cfr. anche il Fedro, 229 c-e e 274c-275b).

217 La generalità del pensiero non è secondo me legata né all'universalità del significato, né al livello dei “concetti” (o di ruoli inferenziali), che sono tutti precipitati locali rispetto alla capacità di riconoscere un'evidenza discorsiva e pragmatica. Per esempio tenderei a dissentire fortemente dalle tesi secondo cui noi abbiamo un “sistema” linguistico di base che funziona come una “teoria” (anche se costantemente modificata e corretta) - che “filtra” ed è alla base di ogni nostra comprensione più estesa, come la traduzione da altre lingue, comprensione di contesti figurati ecc. (Davidson e Dummett per esempio dicono sotto questo rispetto la stessa cosa). L'esempio del “dio” mostra anche come sia problematico considerare la metafora o il traslato prodotti derivati rispetto al “letterale” (che queste teorie in un modo o nell'altro devono mettere alla base, cfr. il saggio di Davidson “Che cosa significano le metafore”, in Verità e interpretazione); la comprensione linguistica, al contrario, è in un certo senso sempre comprensione traslata (cfr. Cavell).

Un altro esempio lampante si può trovare nel razionalismo del discorso politico, per il quale torno su III 80-82. L'intera disputa sulle forme di governo alla corte di Dario è un esempio di discussione intellettuale in stile protagoreo. Non si tratta però di sovrapporre una sophía greca ad altre culture; al contrario l'obiettivo è rivendicare che in questa forma di discussione sono espressi problemi di fondo che sono generali, che sono compresi e pensati da tutti. Sono alternative pragmatiche profonde e parallele in tutte le società umane. Se per esempio Dario in III 82 può argomentare in termini di “libertà”, questo discorso è possibile e sensato perché fa riferimento a una realtà presente in tutte le società (di cui anzi si fa tipicamente esperienza in contesti di contatto interculturale: sottomissione, schiavitù), al di là della sua specifica declinazione greca.

Questa discussione conduce forse addirittura oltre la posizione di Protagora, e chiarisce alcuni aspetti specifici della soluzione erodotea. Erodoto mette in scena infatti una disputa indecidibile su base strettamente razionale: tutti i protagonisti, non solo il “democratico” Otane, parlano un linguaggio razionale e offrono argomenti cogenti, e la discussione non è in grado di mostrare alcuna evidenza decisiva a favore della scelta migliore. L'argomento dirimente, di fronte alla parità dei discorsi contrapposti, sarà al contrario la considerazione (di tipo completamente diverso) di proseguire con le proprie tradizioni, con i propri nómoi, che fino ad allora si sono mostrati vincenti.

Si intravedono qui alcuni problemi e soluzioni alternative di fondo: per quanto Erodoto sia convintamente democratico218, la democrazia non sembra avere per lui un'evidenza razionale generale (come probabilmente argomentava invece Protagora); o, forse più propriamente, tale evidenza è attingibile, ma non è l'elemento decisivo, e pertinente, nell'affermazione di istituzioni determinate. In generale l'introduzione di linguaggi, culti, forme politiche contiene per lui un elemento di particolarità che non si lascia decidere su base strettamente razionale: nómoi e

trópoi hanno un carattere in certa misura arbitrario, opaco, non controllabile. Erodoto

non esclude riforme radicali in campo tanto religioso quanto politico, ma il successo di una istitutio è qualcosa di imponderabile, scisso dalla valutazione dello eikós219.

218 Erodoto considera la democrazia sia il sistema più giusto che quello più funzionale a una politica di potenza, come nel caso di Atene (si noti invece come il nesso fra potenza ateniese e democrazia non compare invece tra le spiegazioni adottate da Tucidide): si veda nello specifico V 68 e 91 e VII 164.

Linguaggi e nómoi sono in certo senso convenzionali, arbitrari – Erodoto, come Protagora, sceglie una via decisamente antinaturalistica - ma non abbiamo un controllo, una facoltà di decidere queste convenzioni220. Qui è probabile che gli accenti dei due fossero diversi: Protagora spinge sulla linea di un principio di determinazione di tipo razionale del discorso (cfr. anche le sue riforme linguistiche, in generale il suo “modernismo”); per Erodoto la decisione sui propri trópoi è in buona misura inattingibile. Noi abbiamo una capacità generale di comprensione del linguaggio materiale221 e di riferimento ad esso (costruendo un nuovo discorso, di secondo livello), ma non abbiamo una facoltà di deciderlo in base a questa stessa

indagine. Se si considerano quei trópoi essenziali che sono le forme linguistiche, la

situazione in termini di idea del linguaggio è la seguente: noi li comprendiamo, ne cogliamo il significato, ma non siamo in grado dire perché usiamo certi modi specifici di dire, perché funziona ciò che funziona – detto altrimenti, li comprendiamo dall'interno, come dokeîn222.

Vorrei osservare infine brevemente come per leggere questi pensatori colga

sperimentato, anzi tipico in special modo del mondo greco, ed è un argomento centrale nelle

Storie. Nell'indagine di Erodoto un passaggio fondamentale è quello in cui il racconto individua il

momento dell'istituzione, nel quale si presenta una sorta di azione “primaria” che è impermeabile alla spiegazione razionale e persino al tentativo di raccontarla; è qualcosa di contiguo all'ambito del divino. C'è poi un umorismo erodoteo (che è anche una grande invenzione letteraria, cfr. già supra Artabano sui sogni) che colpisce il tentativo umano di affrontare razionalmente, di controllare certi processi decisionali profondi. Si legga la scena strepitosa, quasi cinematografica, in cui Meandrio, salito al potere a Samo, riunisce i cittadini con l'intento di deporre la tirannide e consegnare loro la democrazia, introducendo un nuovo culto di Zeus Eleuterio (III 142): con uno scarto inatteso e spiazzante la risposta è violenta e la mossa fallisce clamorosamente.

220 Anche qui si tocca un problema molto moderno: accettare la componente convenzionale del linguaggio non significa necessariamente attribuirci un potere decisionale o istitutivo sul suo funzionamento. Siamo in grado di scegliere, inventare e allargare l'area della significatività, ma non ne “decidiamo” gli esiti: per così dire, operiamo sempre dall'interno.

221 In Erodoto c'è un fascino profondo per il linguaggio primario nella sua forma ellittica, lapidaria e

discontinua, che emerge cioè all'improvviso all'interno di azioni ed eventi. Da qui anche la potenza

spontaneamente cinematografica di certe scene, come quella appunto di Meandrio o quella fantastica di III 128. Le Storie sono se si vuole l'impresa di riferirsi a quel linguaggio con un inedito discorso generale, ma di lasciarlo insieme parlare nella sua forza non risolvibile e non sostituibile: le Storie non fagocitano il linguaggio come i discorsi socratici.

poco nel segno l'opposizione nómos-phýsis, che è considerata genericamente uno dei problemi-chiave della sofistica, e sarà centrale più tardi nelle formulazioni di Antifonte e Crizia. Essa, come altre diadi riferite al rapporto problematico fra linguaggio e realtà (per es. lógos-érgon, che si trova qua e là nei discorsi delle

Storie), è una formula corrente del linguaggio, ma da sola significa poco, e non

costituisce, né per Protagora né per Erodoto, un'alternativa teorica o una situazione aporetica. Per Erodoto è invece un fatto strutturale, che la natura umana si articoli attraverso la specificità e la convenzionalità di linguaggi e nómoi (cfr. la famosa dichiarazione erodotea sul nómos in III 38), e al contempo che esista una capacità

generale di comprendere e valutare discorsi e manifestazioni umane. Il relativismo

affermato in III 38 non è in contraddizione con la generalità del pensiero e della comprensione umana: del resto senza una capacità transculturale di valutare ciò che è più notevole, più degno d'essere raccontato di ogni popolo, le Storie non avrebbero potuto neppure essere scritte. Per quanto riguarda Protagora, la natura umana nella sua costituzione più generale e più propria sta nello ad hominem, nel fatto di cogliere l'evidenza linguistico-discorsiva223, che è una posizione radicalmente antinaturalistica: anche qualsiasi discorso o spiegazione “naturale” dipende dalla valutazione di quell'evidenza (come si è visto chiaramente in Erodoto)224.