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L'impresa intellettuale di Erodoto: il campo del discorso

Capitolo 1: nel par 1.1 fornirò, partendo dall'aneddoto riportato da Plutarco, le

2.1 L'impresa intellettuale di Erodoto: il campo del discorso

Erodoto parte da un problema concreto: se e come ordinare, raccontare,

discutere eventi, detti, lógoi di ogni tipo, nel campo della discorsività umana. È il

primo in assoluto che si ponga un problema del genere, non solo mettendo a punto una sua risposta razionale, ma realizzandola pienamente in un'impresa discorsiva inedita, in un nuovo tipo di discorso primario capace di riferirsi a quelli e valutarli in

182 I due furono protagonisti tra l'altro della celebre colonizzazione di Turi, un'impresa che dovette avere grande risonanza anche come progetto politico-culturale nell'Atene dell'epoca.

183 Cfr. per esempio Bernard Williams, Genealogia della verità nell'ambito di una concezione della verità dalla quale dissento.

modo adeguato184. Erodoto si trova di fronte al campo estremamente eterogeneo della produzione discorsiva umana – detti, aforismi, responsi oracolari, testi dei

sophoí, raccolte di notizie di vario tipo (da quelle dei templi egiziani ai logografi

ionici), miti e racconti letterari (cioè appartenenti alla tradizione scritta), tutta la memoria e la tradizione orale dei fatti e su ogni tipo di argomento, infine il modo notevole e memorabile di parlare degli stessi protagonisti degli eventi narrati; la valutazione di tutte queste dimensioni del linguaggio “materiale” umano è alla base della sua impresa e della definizione del suo discorso185.

Che alla base dell'opera di Erodoto ci sia una profonda riflessione razionalistica sul discorso umano, si può vedere subito da un fatto: la trattazione erodotea dipende

184 È inutile tentare di attribuire primati individuali all'interno di tradizioni e retroterra culturali di cui non sappiamo praticamente nulla. Possiamo solo dire che qualcosa si presenta per la prima volta nella tradizione umana. Forme di discussione razionale degli eventi e delle loro versioni ci furono sempre e non poterono che esserci all'interno di civiltà organizzate anche molto precedenti; ed è proprio il genio di Erodoto che fa provocatoriamente presente questo fatto, attribuendo ai persiani sconcertanti (per i greci) dibattiti politici fittizi. Il fatto è solo che a un certo punto della storia umana quella discussione razionale riesce a sedimentarsi in un progetto discorsivo e in una tradizione, e per questo bisogna aspettare il nome di Erodoto. Ma le competenze razionali, di secondo livello, che permettono di valutare e intendere discorsi, versioni fatti ecc. sono una competenza umana, non erodotea (e nemmeno specificamente occidentale). Queste osservazioni sono importanti anche per capire cosa Erodoto abbia realmente “inventato”, e con che tipo di “razionalismo” abbiamo veramente a che fare qui.

185 È il caso di notare che quello di cui si parla qui non sono “fonti” nel senso spoglio con cui questo termine è centrale nella pratica storica come disciplina autonoma, che deve raccontarci innanzitutto

cosa è accaduto (a vari livelli di descrizione, ovviamente). In Erodoto siamo in un certo senso agli

antipodi dell'idea che la “storiografia” abbia a che fare con una materia specifica e in sé alinguistica (con fatti, e con fonti/documenti che ci conducono a essi): l'opera di Erodoto è in modo primario un'indagine sui discorsi umani e su ciò che essi sono in grado di dire, attraverso l'elaborazione di un modo più generale di gestire e discutere questa materia. Non c'è nulla (è ovvio) della determinazione disciplinare, ma questo anche perché qui gioca un ruolo preponderante la riflessione sulla stessa possibilità espressiva (che non è scontata e va tutta guadagnata) di un discorso generale sull'uomo, su ciò che è notevole nell'esperienza umana, e su ciò che è possibile

saperne. Pur con mezzi diversi (e già con un campo più limitato), questo livello di riflessione

caratterizza in modo profondo ancora Tucidide. È comune considerare quest'ultimo solo come una tappa più avanzata nella definizione del genere della “scienza” storica moderna, ma in realtà questi intellettuali fanno molto di più e qualcosa di diverso: la loro opera è direttamente antagonista a quella di generi di riflessione che noi separiamo invece automaticamente, come quella di sophoí e (discorsi) socratici (cfr. Finley, Ancient History. Evidence and Models).

da una scelta capitale, che ha grande importanza nel quadro dell'argomento generale di questo capitolo. Erodoto tira una linea decisa - che guida il suo modo di orientarsi nella realtà e di valutare ciò che si dice - tra due tipi di discorso o dimensioni del linguaggio, che non hanno nemmeno lo stesso modo di significare: da un lato c'è il linguaggio della dimensione sacrale, ossia il linguaggio da attribuire al “dio”186 (formule e racconti sacri non divulgabili, verdetti oracolari, sogni), dall'altro c'è il discorso umano. Si tratta di due dimensioni comunicative parallele e completamente diverse: il dio parla e sa, in modi che non possiamo congetturare187; nel campo della conoscenza umana, il ruolo fondamentale è assunto invece dallo

eikós, da ciò che pare più evidente e credibile, dalla valutazione propria del dokeîn188. Si tratta della stessa soluzione di Protagora: l'oggettività e la razionalità si posizionano decisamente sul lato del dokeîn; Erodoto accetta con deferenza la divinità e il sacro, ma li scinde in modo deciso da ogni contaminazione con il discorso umano189.

186 V. più avanti sulla celebre formula “ho theós”.

187 Erodoto ha un grande rispetto della manifestazione divina, ma questa appartiene per lui a una dimensione speciale, e ha caratteri del tutto non intuitivi per noi. C'è intanto ben poco di visivo in quello che “accade” in questi casi: la manifestazione del dio non si misura in sé, ma nella capacità

di fondare un culto o di iniziare una tradizione. E in questi casi l'elemento decisivo è che il dio

insegna o impone un linguaggio: cioè nomi, formule, racconti e procedure e riti sacri, oltre a una certa fisionomia/attributi della divinità stessa; tutto ciò che Erodoto nel Libro II sintetizza nel complesso sotto il termine “onómata”. La divinità istituisce un linguaggio, o lo impiega direttamente come negli oracoli e nei sogni: e questa dimensione concreta del linguaggio è impermeabile alla capacità umana di sottoporla a procedure razionali e al dokeîn (se ci si prova infatti si fallisce miseramente, oltre a commettere empietà). Di più: quando l'uomo “assorbe”, reimpiega quelle vicende mitiche nelle sue creazioni poetiche, non può dire nulla di vero - Erodoto condanna in blocco Omero ed Esiodo, e tutta la mitografia.

188 A suo modo Wittgenstein adotta la stessa formula duale (e che è similmente antiscettica e antiriduzionistica) criticando Frazer: “Un simbolo religioso non poggia su opinione” (Note sul

“Ramo d'oro” di Frazer, p. 21, cfr. anche le “Lectures on religious belief” I e II in Lectures and Conversations, pp. 53-64). Cfr. anche Veyne sulla “molteplicità delle modalità del credere” (I greci hanno creduto ai loro miti?, p. 31): faccio mio questo orientamento, con l'aggiunta che tali modalità

sono per l'appunto tipi di discorso di cui abbiamo competenza. Si potrebbe infine aggiungere che verso questa dimensione cognitiva di secondo livello, che è emersa pienamente solo nel mondo moderno, esiste un tipico rapporto insieme mitico e scettico, cfr. Cavell, The World Viewed e vari esempi infra in questo capitolo.

189 Nota come si tratti di una posizione in via di principio non in contrasto col celebre incipit protagoreo sugli dei: Protagora infatti nega la possibilità di una indagine razionale su

L'opera di Erodoto è talmente permeata da questa posizione che una rassegna e un commento di passi notevoli sarebbe un lavoro a sé: faccio solo alcuni esempi illustrativi. Tanto il tentativo di ricostruire la realtà sul piano scientifico, quanto il modo giungere alle decisioni politiche e morali appropriate sono esplicitamente situati nel campo del dokeîn: è su questo piano che si svolge tanto la lunga digressione scientifica sull'Egitto (in cui Erodoto espone ciò che gli “sembra” detto “giustamente” (orthôs), sulla base delle più varie evidenze, cfr. II, 5190 e 13), tanto in ogni discussione umana, come quelle di capitale importanza messe in bocca ai capi persiani. Quello che dice in proposito Artabano a Serse all'atto di contraddirlo, è una specie di manifesto protagoreo: “O re, quando non vengono esposti pareri contrari l'uno all'altro non è possibile scegliendo prendere il migliore, ma bisogna attenersi a quello che è stato esposto; se invece vengono esposti191 è possibile, così come l'oro puro da sé solo non lo riconosciamo, ma quando lo strofiniamo con altro oro, allora distinguiamo il migliore” (VII, 10 α). E poco più avanti (10 γ) fa un'altra asserzione capitale: “Io non per una personale sapienza [sophíēi oikēíēi] faccio queste congetture, ma (...)”, che suona come una critica radicale del modello sapienziale, in cui i sophoí esprimono il proprio giudizio ispirato su ogni cosa: il modello di sapere che propone Erodoto è al contrario collegato al confronto e alla valutazione di tutto il campo del discorso disponibile e dal suo punto di vista persuasivo. Il nocciolo della verità e del sapere192 umani è situato nella dimensione doxastica193.

quell'argomento.

190 In questo passo non c'è alcuna traccia di contrasto tra sensi (vista) e sýnesis (comprensione, intelligenza), e non è affatto vero che la vista “parli” da sola: gli uomini sono più facilmente convinti da quello che vedono, dice Erodoto altrove, ma questo non è in alcun contrasto con l'ascoltare, anzi: è solo a livello linguistico e discorsivo che io realizzo cosa è evidente. Tutto ciò che è “ottico” ci giunge comunque attraverso una voce, un racconto da valutare (ed è rilevante anche proprio perché è stato capace di generare tale racconto e la sua persistenza): è in ogni caso in qualche modo intrinsecamente linguistico, come lo è la nostra capacità di intendere e individuare qualsiasi

azione (v. le osservazioni semplici quanto illuminanti di Austin in proposito, Come fare cose con le parole, pp. 80-81; cfr. anche Putnam, Mente corpo mondo) . Questa considerazione è

perfettamente in sintonia con l'impostazione di Protagora, se si pensa che la disputa del giavellotto è specificamente un'interrogazione su chi agisca e su quale azione si abbia realmente a che fare nel caso in questione.

191 Si noti anche il ruolo essenziale dell'asserzione.

192 Quando Erodoto ha evidenza netta delle cose non si fa problemi a dire “oîda”, “so”, e non è certo solo per aver “visto”!

Il sapere divino funziona in modo del tutto diverso, e inconciliabile. Il “dio” parla e sa (cfr. lo splendido esordio del dio nella Pizia in I, 47, “Oîda (...)”); ma si tratta di un sapere del tutto estraneo all'uomo (cfr. II, 3: “ritengo che degli dei tutti gli uomini sappiano [epístasthai] lo stesso”, cioè nulla), e di un linguaggio che non si può sottoporre a procedure di comprensione razionale194, né a qualunque impiego epistemico o strumentale (che sarebbe empio e destinato comunque al fallimento, cfr. I, 159 e VI, 86 γ). È un linguaggio che non costituisce giudizio, perché non è ad

hominem, è un linguaggio senza asserzione. Non c'è approccio razionale che possa

affrontarlo, perché il dio può contraddirsi, cioè può manifestarsi anche attraverso la contraddizione195: si veda l'episodio, uno dei tanti che vengono collocati da Erodoto a fini chiaramente programmatici, di Aristodico e l'oracolo (I, 159). Tornerò più avanti su questo punto, che è una radice importante tanto del problema dell'asserzione che dell'autoconfutazione nel V secolo.

È importante osservare come la ripartizione in questione (discorso umano/divino) sia una risposta profonda agli stessi problemi che in ambito eleatico da un lato e protagoreo dall'altro scaturivano proposte del tutto divergenti. Senofane, come si è visto, critica il mondo del “linguaggio comune”, dell'asserzione

“colpa” o la “responsabilità” di qualcosa (di un'azione), ossia l'attribuzione della aitía. Cfr. per es. IV 119, dove il giudizio sui “colpevoli di ingiustizia” (“aitíous tês adikíēs”) sia motivato dal dokeîn (“dokéomen”). In I, 45 ci si imbatte in un giudizio di responsabilità su chi abbia agito veramente che è parallelo all'aneddoto di Plutarco su Protagora: in questo caso il giudizio riguarda una morte accidentale (quella del figlio di Creso) a causa di un giavellotto! È possibile persino (non è così importante stabilirlo) che si trattasse di un esempio standard su questo tipo di problemi.

194 I libri VII-VIII affrontano in molti passi il problema dell'antiléghein e dell'antíthesis di convinzioni (il loro intento tematico e programmatico in proposito è molto chiaro): essi sono centrali nel discorso umano (non si tratta di antifasi formali, socratiche, ma di opzioni alternative, che devono essere concretamente fornite e argomentate), ma sono considerati empi e insensati se esercitati sugli oracoli (VIII, 77); in generale il dokeîn non si applica a queste cose (IX, 65). Chi vede nella tecnica dei discorsi uno scarto rilevante tra Erodoto e Tucidide non considera che Tucidide non fa che continuare e allargare - con i propri strumenti intellettuali e le proprie tesi, che sono differenti – una stupefacente invenzione erodotea, quella per cui i discorsi materiali nel corso delle Storie sono l'elemento in cui opzioni intellettuali generali vengono sperimentate, messe alla prova, vagliate. In un certo senso è come se si testasse la loro evidenza e la loro capacità di funzionare in modo

generale nell'atto concreto di essere usate come argomenti e nei loro contesti; qui si esercita una

valutazione di secondo livello che è il centro della posizione protagorea. Si potrebbe argomentare come qui ci si trovi di fronte a un'alternativa radicale rispetto al dialogo/discorso socratico.

(“nec...nec...”); il suo “sapere” è dato un accesso a una dimensione razionale che rifiuta il giudizio comune, e assume anche un tono sacrale (cfr. Parmenide, Eraclito). Erodoto, come Protagora, sceglie il versante opposto: è muovendo dal confronto e

dalla valutazione delle opinioni comuni e dei lógoi disponibili che si esercita

realmente l'impegno razionale; la dimensione sacra è invece una realtà serissima ma

completamente distinta dalla razionalità e dal sapere umano. Tutto il contrario per la sophìa eleatica, almeno quella dei suoi due grandi iniziatori Senofane e Parmenide:

essa non nasconde la propria ispirazione a un modello sacrale, anzi il suo razionalismo si situa nell'area del discorso tradizionalmente attribuita al sapere

divino. È impossibile non vedere qui un contrasto radicale tra due indirizzi

antagonisti, che si svolge in buona parte sul campo della concezione della dimensione del discorso196.

Erodoto assume dunque uno spazio discorsivo generale, trasversale, in cui vengono messi a confronto e valutati discorsi, espressioni (trópoi), asserzioni umane di ogni tipo. L'idea stessa che esista una dimensione discorsiva di questo tipo, e che

196 Come si vede si tratta di una storia molto diversa, più consapevole e più conflittuale della consueta autonarrazione occidentale del progressivo allontanarsi dal mito verso l'analisi razionale dei fatti e della religione, spesso incarnato da varie sequenze generiche i cui entrano filosofi ionici, Ecateo, Senofane ecc. In particolare Senofane ed Erodoto hanno chiaramente approcci antagonisti, basti leggere la notizia di Plutarco sulle obiezioni di Senofane ai sacerdoti egiziani: Senofane obietta loro di autoconfutarsi, applicando al sacro il suo procedimento dialettico- confutativo! C'è oltretutto una fonte notevole dell'esistenza di una tradizione di contrasto tra i due: l a Poetica di Aristotele. Non solo Aristotele, come è noto, esprime qui la propria disistima della

historia (e di Erodoto, 51b, 1-7); egli pensa chiaramente a Erodoto, pur senza nominarlo, quando

più avanti parla dei discorsi che vengono impostati secondo “come dicono o come sembra” che siano le cose invece che come esse sono (60b, 9-11); e a proposito del “così se ne parla”, ne sottolinea la differenza netta dal discorso secondo “verità”, per il quale tira in ballo proprio Senofane e la sua critica dei giudizi comuni sugli dei (60b 35 - 61a 1; cfr. ancora Metaph. Gamma 1010a 5-7 per la stessa associazione Senofane-verità vs. eikós!). Erodoto veniva correntemente identificato con l'uso sistematico dell'eikós e del dokeî (così per esempio nell'Elena di Euripide, che bersaglia molti pattern erodotei); e probabilmente ancora contro il razionalismo erodoteo è l'osservazione aristotelica, sempre nella Poetica (poco più avanti, 61b 14-15), che nelle opere poetiche (tra cui viene confinata, in vesti dimesse, la storiografia) l'impossibile spesso non è “illogico [álogon]: perché è verisimile (eikós) che accada qualcosa contro la verisimiglianza” - con l'eikó s sia Erodoto che Aristotele pongono acutamente un problema molto serio, un problema

metarazionale del tipo di quello riassunto dal bel titolo di un articolo di Lewontin: “Is Nature

sia da questa posizione obliqua che noi comprendiamo il linguaggio e possiamo valutare la portata di ogni asserzione, è un fatto che accomuna Erodoto a Protagora (che aveva probabilmente un approccio ancora più razionalistico) ed è in decisa controtendenza con la gran parte degli indirizzi culturali e intellettuali di cui abbiamo notizia del mondo greco antico.

Accenno qui in che senso: un fenomeno generale del mondo greco del V-IV secolo – e che dal punto di vista moderno è spiazzante - è la discrasia evidente fra una produzione culturale e artistica vertiginosa e la sua categorizzazione, ovvero il modo parallelo di riferirsi a ciò che si sta facendo. Il problema è che mentre di fatto la produzione linguistica mostra una consapevolezza acutissima delle diverse dimensioni del linguaggio e una capacità trasversale di impiegarli e combinarli con esiti inediti (si pensi per esempio a Euripide), il modo di riferirsi a quella produzione, di discuterla, è singolarmente povero. Il che vale non solo per l'approccio riduttivo dei filosofi verso i lógoi di ogni tipo (cfr. il Fedro o la Poetica), ma è un fatto culturale generale, che consiste nell'attitudine a guardare le produzioni linguistiche come

téchnai197. Inquadrati in questi termini linguaggi e arti hanno un carattere locale, discontinuo, specifico rispetto al resto del linguaggio: i “generi” sono qualcosa di “oikeíon”198, inquadrati da canoni spesso elementari, e da categorie che sembrano più dare un qualche nome a forme conosciute, date per scontate, che non modi di guardarci dentro, di discuterle199. Ciò che si afferma e si sedimenta come “genere” non sembra ricevere significatività dal fatto di essere una applicazione da una dimensione generale, trasversale del linguaggio, ma viene piuttosto guardato come una istitutio determinata; e ciò parallelamente al fatto che i sophoí e filosofi fanno piazza pulita del linguaggio comune in quanto fonte di aporie, per affermare alcuni

pattern selezionati. Certo, Socrate e Platone istituiscono un livello di analisi generale

del linguaggio, ma l'incongruenza profonda nella discorsività socratica è che il suo

197 Si pensi anche a come Sesto Empirico completa come si è visto nel suo Contra Professores la sua rassegna scettica con lo scetticismo verso tutte le discipline e le forme di discorso, fondendo insieme in modo spesso incongruo scetticismo verso la disciplina o “teoria” e scetticismo verso la stessa produzione linguistica.

198 Cfr. la sophía oikeíē (propria, particolare) che ho considerato sopra in un passo di Erodoto. 199 Cfr. Bachtin, Dostoevskij, p.179 sulla differenza fra genere letterario antico e moderno. Lo

squilibrio che si avverte è che un Euripide mostra una competenza del discorso che non ha nulla da invidiare ai giganti moderni, e tuttavia il discorso antico su queste cose è praticamente inesistente, o si incaglia subito al livello di aporie elementari.

modello di verità resta di natura diversa, non discorsiva, quello della trasparenza di

una téchnē determinata (come la matematica, cfr. il Teeteto)200, e per il resto dal confinamento dei lógoi in una dimensione di arbitrarietà e inconsistenza sofistico- retorica. Si veda nell'ultimo capitolo (par. 3.5) la posizione di Aristotele.