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Autoconfutazione? Protagora e la tradizione antiprotagorea

Capitolo 1: nel par 1.1 fornirò, partendo dall'aneddoto riportato da Plutarco, le

1.2 Autoconfutazione? Protagora e la tradizione antiprotagorea

Alla luce di quanto ho sviluppato nel paragrafo precedente vorrei ora affrontare il celebre problema dell'accusa di autoconfutazione (peritropḗ) mossa a Protagora pare già dalla metà del V secolo (Democrito), e che in ogni caso torna puntualmente in tutte le nostre fonti principali: Platone, Aristotele, Sesto Empirico. L'analisi del problema può secondo me dire molto sia su Protagora che sulle tradizioni e sulle scelte proprie di questi autori.

L'idea che il “principio” del dokeîn sia intimamente aporetico, così come l'accusa o l'attribuzione di un intento scettico nel pensiero di Protagora, sono in realtà il prodotto di quelle tradizioni antagoniste a quella protagorea. Si può infatti subito notare, a mo' di considerazione preliminare, che se il dokeîn di Protagora viene inteso nel senso che ho suggerito, e cioè come accettazione, valutazione e confronto di tutte/i le asserzioni/discorsi sensati, portatori di una qualche evidenza, nemmeno sua la formulazione generale (il frammento dell'homo mensura e possibili formulazioni analoghe) risulta aporetica: l'enunciazione del dokeîn è affidata, per

venire accettata, allo stesso principio evidenziale che essa enuncia85. Se si considera quanto ho osservato sopra sul “metodo” di discussione protagoreo, è altrettanto impossibile associare Protagora a esiti scettici: la sua posizione è al contrario radicalmente antiscettica: essa consiste proprio nell'accogliere il campo più esteso possibile dell'evidenza del discorso, e insieme la possibilità di scegliere la formulazione migliore, e addirittura di correggere e riformulare le nostre convinzioni. Per quanto possa suonare sorprendente, Protagora non fu un relativista, almeno non nel senso filosofico più banale che gli viene attribuito, e anche alcuni recenti tentativi interpretativi simpatetici di riabilitarlo insieme a un certo relativismo mi sembrano fuorvianti86. Il “relativismo” come categoria filosofica87 e come accusa fu elaborato da una tradizione antagonista, ed è una specie di spada di Damocle tesa sulle alternative profonde, culturali e intellettuali, che tale tradizione dovette esorcizzare.

85 In esso viene formulata a sua volta un'evidenza generalissima, che non impedisce tra l'altro di asserire e valutare un'enunciazione antitetica: si tratta eventualmente solo di valutare-affermare che la formula dell'evidenza resta più generale, più evidente, preferibile rispetto all'altra! Per cui non si tratta nemmeno di difendere per così dire l'eccezionalità dell'enunciazione generale o del principio rispetto a tutti gli altri asserti (che sarebbe comunque una posizione sostenibile). - Il problema filosofico generale che sta dietro la presunta contraddizione logica qui in gioco è l'idea che un'enunciazione del genere sia qualcosa di teorico, cioè che sottostia alle leggi che imponiamo formalizzando qualunque porzione di linguaggio materiale: “teoria” è esattamente ciò che funziona in questo modo, assumendo un ruolo assoluto della negazione e dell'identificazione dei suoi termini (le costanti predicative o proposizionali come “p”). Ma si può invece sostenere che le “teorie” siano sempre porzioni locali del linguaggio: il linguaggio materiale o “naturale” preso nel suo complesso può essere pensato invece come una capacità transteorica, schematica di elaborazione e attribuzione “di volta in volta”; e il principio protagoreo dell'evidenza doxastica punta proprio a una dimensione transteorica di questo tipo. Chiarirò meglio questi aspetti affrontando il caso di Erodoto, secondo capitolo.

86 Per questo filone cfr. Zilioli, Protagoras and the Challenge of Relativism, e Margolis, The Truth of

Relativism. La questione del relativismo è comunque troppo ampia per essere affrontata qui, e

necessiterebbe di un inquadramento terminologico: anche le posizioni pluraliste di Putnam cui ho accennato sopra potrebbero essere considerate relativistiche. Nel rifiutare la categoria del relativismo per Protagora mi limito a rigettarne la sua versione banale, soggettivistica e autoconfutativa. Nei suoi due famosi saggi su Protagora e l'autoconfutazione, Burnyeat distingue una posizione “soggettivistica” (che sarebbe stata attribuita a Protagora da Aristotele in poi) e una “relativistica”, formulata nel Teeteto, che sarebbe quella autentica; non credo che la distinzione regga realmente, e in ogni caso questo lavoro rifiuta entrambe le tesi.

87 C'è invece un “relativismo” erodoteo che è tutt'altra cosa e che è molto vicino, come si vedrà, a Protagora.

Credo possa essere illuminante a questo proposito distinguere due tradizioni/opzioni parallele radicalmente differenti, che si trovarono in conflitto tra loro, anche se sono curiosamente associate dalla tradizione scettica attraverso la quale molti frammenti essenziali ci sono pervenuti. Nel Contra Logicos (libro I, sezione “Sulla verità”) Sesto Empirico mette nello stesso orientamento di fondo – quello dello scetticismo verso il criterio e della debolezza delle opinioni - tanto la posizione di Protagora quanto atteggiamenti sapienziali e formule eleatiche88: Senofane e Protagora sono addirittura riportati come i due esempi iniziali di questo scetticismo

ante litteram89. Qui ci si trova in realtà di fronte a un tipico riflesso filosofico, cioè quello di leggere lo ad hominem e la posizione iperinclusiva del dokeîn di Protagora come immediatamente equivalenti ad esiti soggettivistici e quindi scettici90. In realtà la modalità dossografica di Sesto ignora completamente il deciso contrasto intellettuale e culturale che si può leggere nei frammenti che riporta. In una formula, se Protagora sostiene lo “et...et...”, Senofane afferma invece un chiaro “nec...nec...”: questi inizia una linea “italica”, di derivazione sacrale, per la quale il sapere è per così dire incommensurabile, e le opinioni-asserzioni opposte tra loro sono egualmente inadeguate a coglierlo/esprimerlo91. Proprio Senofane sembra inoltre

88 Contra Logicos, I 48-64 (cfr. anche gli Schizzi pirroniani I, capp. 32 e 33 in cui Senofane è inserito nella tradizione accademica, con Platone).

89 È significativo tuttavia come il posizionamento di Protagora sia per Sesto solo ipotetico, inferito: “E costui Protagora], come alcuni hanno supposto, rifiuta il criterio” (64; poco dopo è inserito anche il nome di Eutidemo).

90 Per Sesto Empirico il fatto che di ogni enunciazione se ne possa formulare una opposta equivale senz'altro a un esito scettico: cfr. per es. il commento di Sesto all'espressione “ad ogni argomento è opposto un argomento eguale [pantì lógộ lógos ísos antíkeitai]” negli Schizzi pirroniani (libro I cap. 27). L'associazione dello “et...et...” e del “nec...nec...” in una sola situazione aporetica indistinta si ripete in parte anche in Aristotele, nel suo complesso approccio ai principi di non contraddizione e del terzo escluso in Metaph. Gamma, v. capitolo terzo.

91 Lo schema del “nec...nec...” emerge in modo esplicito e ripetuto tanto nei frammenti quanto nelle principali esposizioni del pensiero di Senofane, costituendone la formula distintiva. Cfr., tra i passi più rilevanti, la trattazione dello pseudo Aristotele del De Melisso Xenophane Gorgia (DK 21 A28), Sesto Empirico che ne riporta il “tutto è falso” (Contra Logicos I 54) e il “mēdetérōs” (“né in un modo né nell'altro”) con cui Aristotele riassume la posizione di Senofane in Poet. 25 (1460b 35- 1461a 1, passo che riprenderò a proposito di Erodoto). V. ancora il framm. DK 21 B34 (sempre dal

Contra Logicos di Sesto, I 49) in cui Senofane rivendica l'alterità radicale del sapere rispetto all'enunciazione e all'opinione: “Nessuno raggiunse la certezza, né alcuno saprà a proposito degli

essere il primo a formulare un'aporia del giudizio che avrà grande fortuna in Socrate- Platone, quella per la quale solo chi è esperto (“ho technítes”) può giudicare chi è tale e cosa è fatto a regola d'arte92. In generale Senofane inaugura una linea di pensiero “bipartita”93, in cui da un lato c'è il sapere divino inesprimibile, la sua ragione, dall'altro sensazioni e linguaggio/giudizi/ragione umani destituiti di valore94. Protagora ed Erodoto (in modo sicuramente collegato tra loro) fecero l'esatto

contrario: spostarono l'intero carico della ragione e dell'oggettività sull'unico lato

gestibile di quella dualità, ossia l'opinione/asserzione umana e la sua persuasività, tò

eikós95. E si osservi come l'opinione, a differenza della sapienza o delle rivelazioni cultuali, sia essenzialmente pubblica.

Vorrei a questo proposito avanzare una valutazione collaterale a proposito di Parmenide, che prosegue a suo modo la via bipartita e aporetica aperta da Senofane. Il problema strutturale nel quale si imbatte qualsiasi lettore del Poema parmenideo è che non si capisce come “far quadrare” le due parti del trattato, ossia l'identità di essere e pensiero da un lato e l'opinione dall'altro: dal lato dell'opinione infatti si situa tutta la sua impresa scientifica (che invece usa due principi), che doveva avere non minore importanza della prima. Di fronte a questo rompicapo sembra che si debba attribuire una dimensione preferenziale a uno dei due ambiti (come fa la gran parte delle interpretazioni), e in ogni caso che ci sia da accettare

egli tuttavia non le saprebbe, perché tutti gli uomini sono dominati dall'opinione [dókos]”. Il sapere

è dunque scisso dal linguaggio umano; e si noti come tale posizione, in cui Senofane dice, sia intimamente (e pragmaticamente) aporetica. Impossibile non notare infine come il frammento suoni

in modo diametralmente opposto a quello di Protagora sugli dei: in quest'ultimo il problema non è che non si può dire nulla, ma 1) che la base evidenziale è incerta, 2) che si tratta di una ricerca

troppo vasta!

92 In Sesto Empirico, Contra Logicos I 55-59: senza entrare nei particolari qui, tale aporia investe chiaramente il giudizio e l'asserzione umani in generale. Anche su questo punto (giudicare o meno secondo la téchnē) Protagora sostiene una posizione diametralmente opposta e secondo me anaporetica, v. infra.

93 Sesto Empirico, Contra Logicos I 14. Sesto riporta che le due parti sarebbero (“come alcuni dicono”, anche qui è solo un'interpretazione a uso dossografico) fisica e “logica”, ma è abbastanza chiaro che si tratta dell'ambito dell'esperienza ecc. umana contrapposto a quello della “ragione” divina.

94 Senofane “rigetta”, insieme alle sensazioni, “il lógos [umano] in generale” (Plutarco, DK 21 A32) 95 Come mostrerò nel secondo capitolo, l'invenzione intellettuale di Erodoto consistette in molta parte

nel tracciare una linea discorsivamente sostenibile (e anaporetica) fra i due ambiti, divino e umano. Cfr. parr. 2.1-2.3, in cui rileverò una precisa linea di contrasto fra Erodoto e Senofane.

che pensiero e opinione stiano l'uno accanto all'altro, come due dimensioni diverse, pur non essendo chiaro come e in che senso96. A me pare sia molto più sensato assumere che la tesi di Parmenide non fosse affatto né unitaria né diadica (che alla fine è la stessa cosa, dipende solo da dove si mette l'accento), ma apertamente

aporetica. L'aporia è fra la natura del pensiero e il suo contenuto: consiste cioè nel

fatto che 1) pensare qualcosa significa stabilire un'unità trasparente con l'essere, e se è così tutto è uno (in ciò l'uso “assoluto” della negazione non lascia scampo); 2)

tuttavia ciò che sappiamo (così come il giudizio in cui lo esprimiamo) è molteplice:

qualunque giudizio (asserzione) o argomento (o narrazione, visto che molta scienza presocratica assomiglia più a una genealogia fisico-naturale) deve contenere almeno due termini, o due princìpi ecc. La verità è in rotta col giudizio e con

l'argomentazione. E, ancora peggio, l'argomentazione positiva è incompatibile con la negazione. Volendolo dire in termini logico-formali: negazione e implicazione

materiale non si possono incontrare, non riescono a stare insieme (come due elementi chimici instabili, che messi insieme esplodono); o ancora, è il principio di non contraddizione (enunciato in modo assoluto nella prima parte del trattato) che, se inteso in modo costitutivo del pensiero, è aporetico, annullando qualsiasi contenuto determinato. In ogni caso qui c'è un sostanziale “nec...nec...”, almeno nel senso che nessuno dei due poli della razionalità riesce a sostenere l'istanza forte

contenuta nell'altro. Che significato, sapienziale o meno (probabilmente globalmente

scettico solo nei suoi sviluppi successivi, Zenone), potesse avere questa aporia, non credo sia facile da immaginare (di certo non è il principio di non-contraddizione a ricomporla o a tenerla insieme!); ma essa costituisce il lascito problematico di Parmenide a chi in seguito vi si confrontò. Ora, se si considera che c'è anche notizia di una polemica di Protagora contro Parmenide e gli eleati97, appare più che sensato pensare che Protagora criticasse proprio questa linea aporetica e sacrale, a favore di una posizione antiscettica e favorevole alla capacità discorsiva di toccare i

96 Che poi equivale a considerare tutta questa storia un esotismo, una parto strano, immaginifico della razionalità ancora arcaica.

97 Porfirio parla addirittura di un trattato di Protagora Sull'essere contro quanti “sostengono l'unicità dell'essere”, DK 80 B2; cfr. anche la querelle tra Protagora e Zenone in DK 29 A29.

contenuti98: il mio modo di leggere il dokeîn è coerente con questo quadro99.

Aggiungo a questo punto alcune osservazioni sul trattato Sul non essere di Gorgia. La questione è molto dibattuta, ma a me sembra che lo scritto assuma un senso molto più chiaro se lo si legge in chiave antiprotagorea100. Protagora aveva difeso infatti la capacità umana di giudicare, attraverso la dimensione enunciativa e

la sua evidenza, sia ciò che è sia ciò che non è101: sia affermazione che negazione sono così pienamente oggettivi (e questo era probabilmente anche una posizione direttamente polemica contro Parmenide). Gorgia, nell'intento di gareggiare con Protagora in bravura retorica, ribalta le tesi di Protagora, e lo fa riprendendo una serie di argomenti eleatici (di Senofane e Zenone in particolare), basati essenzialmente sull'uso del “nec...nec...”. Inteso così questo testo di Gorgia102 è di estrema importanza, perché dà una conferma di molti aspetti della mia lettura di Protagora. Tenendo conto infatti che con la prima tesi Gorgia attaccava la verità enunciativa di Protagora, la seconda e la terza tesi confermano il senso essenzialmente antiscettico e oggettivo (non relativista/soggettivista) delle tesi protagoree: a) dalla seconda tesi si ricava che Protagora sostenesse che entro l'evidenza umana si presenta il più e il meno, e che in tal modo c'è spazio per il falso: Gorgia ribatte invece asserendo una formula direttamente opposta, il “non più”103; b) dalla terza tesi si ricava che Protagora asseriva la possibilità di dire le cose

attraverso il discorso, cioè il fatto stesso dell'intenzionalità del linguaggio; e inoltre

che ci fosse da parte sua una piena accettazione del funzionamento intersoggettivo del linguaggio (e della generalità di ciò che asseriamo, dunque): Gorgia invece argomenta al solito modo zenoniano che queste posizioni ingenerano una serie di

98 Si può anche ipotizzare, ma ovviamente non è possibile averne conferma, che la critica protagorea a Parmenide e Senofane potesse avere a che fare con la contraddizione pragmatico-discorsiva in cui incorrono parlando dell'essere/dio.

99 Anche se Protagora impiega strumenti antilogici, il suo obiettivo non sarebbe dunque affatto l'aporia, l'empasse (come Zenone), ma al contrario lo spostamento della verità (essere) sul lato dell'asserzione, della discorsività.

100 Così Di Benedetto, “Il περί τοῦ μὴ ὂντος di Gorgia e la polemica con Protagora”, non ne condivido però l'interpretazione più restrittiva del pensiero di Protagora.

101 V. supra il mio modo di intendere il testo del frammento dello homo mensura.

102 Da leggere innanzitutto nella versione dell'Anonimo del De Melisso Xenophane Gorgia (cfr. la nuova edizione dei frammenti di Gorgia a cura di R. Ioli).

103 È pensabile dunque che il “non più” degli scettici, che è centrale in Sesto Empirico, sia stato formulato per la prima volta qui, cioè come risposta diretta al “più” di Protagora!

aporie insuperabili.

Torno a questo punto sul problema dell'autoconfutazione. Come ho osservato, credo che il punto di vista di questo problema possa gettare luce anche sulle tre fonti che la argomentano (Platone, Aristotele e Sesto Empirico); e addirittura si può ritrovare la situazione per cui il peso dell'aporia finisce per gravare sulla posizione dei suoi avversari o interpreti. Riprendo le mosse dallo “et...et...” di Protagora come principio generale: ho osservato nel paragrafo precedente come l'elemento doxastico che esso invoca sia la base tanto della comprensione del linguaggio (significato), quanto della dimensione del giudizio, della scelta fra le enunciazioni messe a confronto. A sostegno di questa idea si può osservare che essa può produrre due tipi diversi di esito critico. Due tipi di obiezione vengono infatti mossi all'“et...et...” preso in generale, ossia due tipi di invalidamento: 1) obiezione di tipo semantico: se lo si accetta non si dice o non si significa nulla (la posizione distintiva di Aristotele, ma, sorprendentemente anche di Sesto Empirico in un lungo passo in cui si fa difensore della “immagine manifesta”: Contra Logicos I, 388-400); 2) rifiuto di essa come

giudizio: se lo si accetta si afferma qualcosa (che si comprende), ma questo

qualcosa è ritenuto insostenibile, perché ha come conseguenza che non si può più

valutare o stabilire nulla, non si può più distinguere il vero dal falso: dunque fine della

nozione di verità (Platone). Anche per Sesto Empirico, in generale, si tratta di un argomento sensato, ma che viene rifiutato come giudizio, asserzione. La posizione dello scettico addirittura fa un pezzo di strada insieme a Protagora: in un certo senso infatti Sesto accetta in generale lo “et...et...”, ossia il mondo degli argomenti contrapposti più vari, per inferirne tuttavia una conseguenza del tutto divergente da Protagora, che non è né loro verità né la loro falsità, ma l'impossibilità

dell'asserzione.

L'accusa di peritropḗ mossa a Protagora consiste di fatto in queste due opzioni. Come è noto essa è formulata facendo leva specificamente sulle conseguenze che deriverebbero dall'asserire il suo principio (nella formula dell'homo mensura o del

dokeîn): esso può essere infatti immediatamente riapplicato a se stesso e

neutralizzato, essendo valida allora anche l'asserzione contraria. La differenza la fa, di nuovo, il chiedersi perché tale asserzione non funzioni; e i modi di proporre l'obiezione o di darle senso sono due, da tenere distinti: 1) posso cioè ridurla a una contraddizione logica, lineare, e con ciò la trasformo in un nonsense (con l'enunciarla dunque in realtà non si asserisce nulla di sensato, così Aristotele quando attacca lo

“et...et...” in Metaph. Gamma104); 2) oppure l'accetto come sensata (visto che la

comprendo perfettamente), tuttavia la rifiuto per ciò che dice, o per le conseguenze

che essa comporta, perché la sua pretesa di verità è incompatibile col suo contenuto (Platone, Teeteto): non è un problema di tipo “logico” ma semplicemente un'asserzione o un giudizio falso, non sostenibile. Ciò che intendo mostrare è che in entrambe le possibilità di invalidamento non sono in realtà autonome e conclusive, ma sono cariche in realtà delle assunzioni dei loro sostenitori. Le analizzo qui di seguito separatamente.

1) Sull'obiezione di tipo aristotelico. Se si guarda bene, la lettura protagorea che propongo comporta di fatto un posizionamento diverso rispetto ad Aristotele sull'impiego e sulla natura della negazione e della congiunzione105: a differenza che per Aristotele, per Protagora in generale l'“et...et...” (per il quale, per esempio, dico una cosa e la sua negazione) non costituisce una singola asserzione, ma due asserzioni differenti che non soggiacciono a ciò che oggi chiamiamo legge dell'introduzione della congiunzione. È proprio perché non posso ridurre due o più asserzioni a un'unica asserzione (pena il fatto otterrei qualcosa di diverso, rispetto al quale entra in gioco una valutazione differente) che mi trovo di fronte a un

assessment e a una scelta fra quelle opzioni. E come si è già visto all'inizio di questo

paragrafo, anche la formulazione dell'uomo-misura può essere valutata accanto alla sua antitesi (per dirlo in altri termini: accosto gli enunciati a livello pragmatico, ma senza che ne scaturisca, come equivalente, la loro congiunzione logica).

Si noti come qualcosa di simile si verifichi anche per l'altra costante logica in gioco, la negazione: se prendo in considerazione due o più enunciati (anche antitetici fra loro) accade che assumerò alcuni106 e che ne scarterò altri; ora, si noti come anche qui il fatto di scartare p sia una faccenda diversa dall'asserire non-p (o negare

p107): anche qui ci si ritrova di fronte al fatto che “non-p” è un enunciato

104 È il quarto argomento a favore del principio di non contraddizione, ma si veda il capitolo terzo per i particolari.

105 Nel terzo capitolo farò un esame dettagliato del confronto di Aristotele con Protagora in Metaph. Gamma, cfr. infra.

106 Come ho osservato nel par. 1.1 posso assumere anche una antifasi, se p e non-p hanno sensi diversi: non è una contraddizione.

107 In realtà “negare p” (negazione nel senso di denial) è un'espressione che può essere fatta corrispondere sia ad “asserire non-p” che a un fatto pragmatico, illocutorio, e quindi essere avvicinata piuttosto a “escludere p”, “scartare p”. L'importante è avere chiara la differenza tra le due

materialmente differente da p, da considerare a parte da esso. Dal che è anche chiaro che da un punto di vista protagoreo, se si può argomentare (come sto facendo) che il principio di non contraddizione non viene violato, sicuramente invece è rifiutato quello del terzo escluso come strumento di inferenza.

Tutto questo vuol dire in altri termini non che la logica non funzioni, ma che nel campo della valutazione protagorea non siamo ancora entrati nel “regno” della logica