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Sull'asserzione nel V secolo

Capitolo 1: nel par 1.1 fornirò, partendo dall'aneddoto riportato da Plutarco, le

2.4 Sull'asserzione nel V secolo

Nel cuore dei dibattiti del V secolo ciò che noi oggi chiamiamo il problema dell'asserzione ha, come si è già visto per molti riguardi, un ruolo centrale. Detto schematicamente, si tratta di due questioni interconnesse: 1) che qualsiasi enunciato è mediato e condizionato dall'atto di dire e da “chi” dice; 2) che il linguaggio non “parla” da solo, ma la sua significatività è relativa a un dokeîn in relazione ad esso.

223 L'uomo come, essenzialmente, “ciò che opina, giudica” (tò doxázon), come sintetizza Aristotele in

Metaph. Gamma, v. infra par. 3.4.

224 È invece la posizione naturalistica che “soffre” il condizionamento ad hominem proprio dell'asserzione: cfr. quanto osserva H. W. Johnston all'inizio di “Philosophy and Argumentum ad

Hominem”. Le critiche di Putnam al naturalismo di Quine (e del suo doppio, il relativismo rortyano)

in saggi come “Why Reason Can't Be Naturalized” (Philosophical Papers, Volume 3) sono considerazioni (metarazionali) tutte riconducibili al problema interno all'asserzione dei princìpi razionali.

Questa formulazione basilare mi pare capace di intercettare e dare una chiave sull'orientamento di buona parte del pensiero greco antico, dettando molto presto due vie radicalmente alternative: a) rifiuto della componente assertiva, denuncia di essa come aporetica o inficiante se stessa, tentativo di costruire un qualche livello “assoluto”, anassertivo di ragionamento/conoscenza e/o un tipo speciale di discorso che non sia affetto dalle aporie dell'asserzione (da Senofane e gli eleati a Socrate- Platone, e ancora agli esiti scettici compendiati da Sesto); b) accettazione dell'asserzione come il terreno in cui ci muoviamo, come un fatto di per sé anaporetico225, in cui anzi il riferimento al discorso e la sua valutazione sono il nucleo della possibilità di conoscenza razionale. La presenza dell'“atto” del dire è anzi nel caso di Protagora un principio di valutazione: come ho già mostrato, è proprio la concordanza interna fra l'“atto” e il suo “contenuto” che decide la valutazione di correttezza.

Vorrei ora rapidamente mettere in rilievo come il ruolo determinante dell'“atto” del dire, dell'asserzione, che condiziona l'esito o la validità di qualunque enunciato (il punto 1 qui sopra), costituisse un problema culturale profondo nel V secolo. La tradizione filosofica ce lo tramanda in una serie di aporie del giudizio che sono ben rappresentate dagli argomenti antiprotagorei, ma si tratta di un problema che va ben oltre l'analisi a latere della filosofia, investendo tutti gli ambiti del confronto pubblico della metropoli ateniese. L'asserzione sembra piuttosto l'enigma collettivo del V secolo.

Non è forse scontato osservare che ciò che oggi chiamiamo “sofistica” (sulla scorta di tradizioni nemiche) corrisponde a un prodotto avanzato della società umana, alla situazione per molti aspetti moderna in cui i princìpi e le scelte in ogni campo sono mediate in modo decisivo dal dibattito (e anche dal conflitto) pubblico della metropoli e dal confronto trasversale tra asserzioni, posizioni, tipi di discorso. O si può anche semplicemente dire che il fenomeno della prevalenza di opinioni e opzioni diventa pubblico, e diventa più chiaramente funzione del discorso. È esattamente in questi quadri che si “scopre” o entra in gioco il ruolo della dimensione del “dire” (con la sua caratteristica contestuale, pragmatica ecc.): essa viene

225 Come si vedrà nell'ultimo capitolo, per forza di cose il più corposo, la posizione di Aristotele è intermedia fra queste due alternative: egli accetta da Protagora il carattere anaporetico dell'asserzione, ma lo impiega nella costruzione di un discorso speciale, l'unico autenticamente oggettivo o epistemico.

importata nell'apparato retorico e diventa oggetto di argomentazione226.

È evidente come questa situazione sia anche problematica, intaccando la possibilità che qualunque enunciato o termine chiave si sostenga, per così dire, da sé, anche nel contesto di istituzioni religiose, sociali, politiche. Per un verso si sperimenta il fatto concreto che il linguaggio ha un'autonomia significante, che produce istanze comprensibili, è aperto a nuove introduzioni e produce esiti diversi, per l'altro questo comporta che gli enunciati rivelino una portata locale o contestuale, che non funzionino più sic et simpliciter, come una qualunque istituzione che si sia imposta227. Nómoi, detti notevoli, formule religiose, sophíai ecc. funzionano proprio come institutiones, ossia per la loro capacità di “parlare” - e decidere - in modo “assoluto”, senz'altro; costituiscono profili irregolari, non sistematici, uno spazio linguistico tipicamente discreto, come quello delle téchnai; la loro forza è anassertiva, e fa leva proprio su un certo grado di arbitrarietà, come nel caso delle leggi vere e proprie228. Attraverso i processi di integrazione sistematica, anche transculturale, della metropoli ateniese nel V secolo, questi costrutti entrano in uno spazio discorsivo generale, per così dire di secondo livello, e in esso si trasferisce almeno in parte il problema della loro decisione229.

226 Le antitesi del tipo lógos-érgon, lógos-prágma, nómos-phýsis, che sono moneta corrente nel linguaggio e nell'argomentazione del V secolo, non sono altro che modi di importare nell'apparato linguistico e categoriale il ruolo di questa “dimensione” del dire, che diventa anch'essa un termine della discussione. Si tratta di qualcosa di più e di diverso da termini di dottrine specifiche: sono, più alla base, formule che permettono il riferimento linguistico/argomentativo a tale dimensione. Sono già luoghi comuni nelle Storie di Erodoto, cfr. per esempio il discorso di Dario in III, 72.

227 Già Eschilo, pur senza ancora trattare direttamente il linguaggio, mette al centro la difficoltà sociale contenuta nella non univocità delle istituzioni umane: il suo “divino” non è che la complessa costruzione intellettuale di un'istituzione dall'evidenza non ambigua (cfr. lo “ouk amphilógōs” in uno stasimo che celebra il nómos, Persiani v.904). L'opera di Euripide, che poggia arditamente sui dibattiti culturali contemporanei, si può poi considerare addirittura come una mappa dei blackout enunciativi notevoli del suo tempo, che costituivano anche problemi profondi di convivenza collettiva (sembra quasi che la forma dei suoi drammi sia costruita a partire da quelli).

228 Cfr. per es. il ruolo retorico decisivo, insuperabile per i greci antichi, del “legislatore” o di colui che “introduce”. È come immaginare un'asserzione iniziale che si impone; è qualcosa di antitetico al modello moderno del “patto” sociale.

229 “Sofistica” non è altro che ciò che nel linguaggio delle discipline filosofiche è “metaetica” e simili. Evito questo tipo di terminologia (e preferisco usare una nozione “trans-” e non “meta-” linguistica) perché penso che metta sulla strada sbagliata: essa suggerisce l'idea, in sostanza socratica, che la nostra competenza etica - che è sempre nient'altro che una competenza linguistica – si eserciti

Protagora ed Erodoto sono come si è visto gli esempi più evidenti di cui abbiamo notizia di una posizione radicale che 1) accetta la possibilità delle nostre competenze discorsive di gestire con successo il conflitto e l'eterogeneità dei “princìpi” o di ciò che si dice; 2) sviluppano e indagano nozioni di secondo livello, cioè capaci di riferirsi e definire realtà discorsive. Qui bisogna però tenere conto di un aspetto profondo della produzione intellettuale del V secolo, che lascia non poco interdetti noi moderni: il fatto che essa si presenta come un incrocio molto difficile da dirimere fra “arcaicità” e “modernismo”. Mi riferisco alla convivenza fra quelle nuove competenze discorsive e contestuali e il gusto tipicamente greco per l'espressione primaria, per l'enunciazione semplice, che “parla” da sé. La realtà intellettuale si esprime in buona parte in tale forma assertiva semplice230 (un tratto distintivo dell'intelligenza è anzi proprio la capacità di afferrarla senza altre spiegazioni), in cui le antitesi-antifasi sono prodotte ma al tempo stesso lasciate tranquillamente coesistere come luoghi mentali, almeno fin dove è materialmente possibile. Percepiamo una naïveté, sentiamo che oscuramente manca qualcosa (o viceversa puntiamo troppo su di loro) perché troviamo un linguaggio primario, proprio sentenzioso, di questo tipo laddove noi moderni chiamiamo in causa (anche senza accorgercene) nozioni discorsive, di secondo livello231. In una certa misura (difficile

operando quella che Quine chiamava “ascesa semantica”, e che sia a questo livello (se si vuole trascendentale) che noi troviamo ciò che serve per poter decidere. Sostengo al contrario che anche la competenza etica non è che competenza di contesti di linguaggi primari, e capacità di riferirsi discorsivamente ad essi: è questo che ci fa vedere i fenomeni generali.

230 Anche gli “argomenti” hanno un tipico carattere di brevità, concisione, come asserzione associata in modo “notevole” ad asserzione.

231 Faccio un esempio: qualsiasi ordinamento politico che lasci spazio alla possibilità collettiva di decidere, cioè di decidere in base a discussione (che è il punto cruciale di qualsiasi democrazia) comporta uno o più momenti necessariamente aporetici al suo interno. C'è infatti sempre un punto di aporeticità fra legge/ordinamento e possibilità di rimetterlo in discussione (come di rimettere in discussione qualsiasi decisione), e ho già osservato come questa possibilità positiva, analoga ai problemi che pone in generale l'asserzione, fosse probabilmente al centro della concezione politica protagorea. Ora, se per gli antichi l'aporia resta (con l'eccezione di Protagora), ed è decisa di volta in volta a un altro livello, quello materiale (il successo o meno di un appello o di una riforma, per esempio), noi guardiamo le cose diversamente. Si consideri già l'invenzione moderna delle leggi costituzionali per arginare il più possibile l'aporia, di gestirla istituendo gradi normativi diversi (ma il problema si può solo arginare, mai neutralizzare); il punto rilevante secondo me è però è il seguente: noi portiamo la nostra competenza doxastica e decisionale a un livello superiore, nel quale per esempio, di fronte alle situazioni aporetiche o indecise, crediamo sia possibile individuare

trovare il giusto bilanciamento parlando di queste cose) essi cercavano di trovare in tale forma semplice la risposta a problemi che nascono invece dalla pluralità ed eterogeneità degli enunciati e dalla struttura insidiosa e problematica (che analizzavano) dell'asserzione. È per questo che le aporie antiche hanno un aspetto così statico, come delle incongruità non superabili, “luoghi notevoli” di impasse; e che anche posizioni di orientamento diverso come quella di Protagora furono esposte o ebbero fortuna filosofica (è purtroppo impossibile oggi per noi stabilirlo) in formule, in un linguaggio apodittico o sentenzioso232. Da questa differenza radicale viene il nostro problema cronico: usiamo questi autori, ma senza sapere mai bene se parlino delle stesse cose di cui parliamo noi.

Non entro oltre in questo tipo di considerazioni, rilevo schematicamente altre due cose importanti: 1) La fortuna dei grandi del V secolo ad Atene è una fortuna anche popolare, ed è fortuna di formule espressive e di giudizi semplici prima ancora che di “dottrine”. Euripide dà bene la misura di questo fatto: per riferirsi immediatamente a Socrate, Erodoto, Protagora, a concezioni scientifiche o posizioni intellettuali di ogni tipo, gli basta reimpiegare formule, parole d'ordine, pattern subito riconoscibili233. 2) Tuttavia: ciò che viene “detto” e che come tale entra nella ridda

di volta in volta la soluzione più “coerente” col “principio” o lo “spirito” democratico. E al di là di come si formuli comunemente e storicamente la questione (“spirito”, “sostanza”, “principio” sono solo alcuni dei modi moderni di chiamarla), quello che facciamo in questi casi è cercare ciò che sia più “assonante” e coerente, sounding – restiamo sul nostro esempio – col discorso “democratico”: noi ci stiamo esattamente riferendo a e valutando discorsi. Ciò che ci consente di provare a risolvere aporie e conflitti di istanze, di elaborare pratiche concrete o essere insoddisfatti delle soluzioni è cioè una competenza del discorso “democratico”; il che implica tra l'altro che ci si basi di fatto su una convinzione profonda della sua esistenza e consistenza (come discorso rilevante e inerente a noi). Con un discorso di questo tipo si stabilisce un rapporto mitico (il “mito” della democrazia) e scettico insieme; un rapporto che non è diverso da quello che intratteniamo con qualunque linguaggio: allo stesso modo noi investiamo di rilevanza e consistenza, poniamo, il grande cinema americano o la “Great Black Music”; le cose non sono differenti per il linguaggio scientifico, per il posto che esso ha nel nostro orizzonte generale. Tutto il rapporto con il “contemporaneo” è esattamente un problema di rilevanza di questo tipo.

232 Come, si è visto, i celebri pronunciamenti dello ad hominem e sugli dei. L'alternativa filosofica è la costruzione di una “teoria” completamente sostitutiva del “linguaggio comune” e delle sue enunciazioni, che sia cioè capace di rendersi del tutto autonoma, non debitrice di esso per quanto

riguarda il significato: come l'ambito limitato dell'essere di Parmenide, o quello (considerato

completo) della costruzione platonica.

degli enunciati notevoli o delle dóxai, non è esattamente ciò che oggi chiamiamo “linguaggio comune”, una nozione carica del fatto che, ci facciamo caso o meno, è nel confronto col suo fondo materiale e con le sue molteplici dimensioni che noi testiamo ogni pensiero o asserzione, che troviamo l'“ultima istanza”, l'evidenza sulla quale diamo valutazioni. Il modo antico di rappresentare il linguaggio pare differente, e probabilmente risente di quell'elemento arcaico o apoftegmatico cui ho accennato sopra: asserzioni, dóxai, nómoi, generi di discorso sono intesi più come istituzioni, stanno lì, per così dire, perché qualcuno a un certo punto le ha tirate fuori con

successo. L'idea del linguaggio comune come base profonda è invece – suona

strano dirlo ma è così – un prodotto molto avanzato della società umana, come ho tentato di argomentare nell'Introduzione.

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Che l'asserzione e il problema del valore dell'enunciazione siano centrali nella cultura ateniese del V secolo, con ricadute concrete nel dibattito pubblico, si può mostrare agilmente pescando nella tradizione superstite che è manifestamente parte di quel dibattito e vi prende posizione: Erodoto, Euripide, Tucidide.

Si è già visto come in Erodoto il problema dell'aporeticità dell'atto dell'asserzione sia già affrontato con una soluzione articolata: per un verso se ne rifiuta l'applicabilità al linguaggio divino, per l'altro se ne accetta fino in fondo la realtà nel linguaggio umano234; l'asserzione è il medium in cui si realizza ogni pensiero e comunicazione umana. Fa parte del razionalismo e della novità delle Storie il fatto che non esista linguaggio umano senza assertore, che cioè tutto ciò che “si dice” (légetai) sia mediato da uno o più “chi” a cui bisogna fare capo. Un passo notevole delle Storie sembra enunciare (alla maniera euristica ed episodica tipica di Erodoto) questa dimensione iperstratificata del linguaggio umano: l'ambasceria agli ateniesi costruita con triplice discorso diretto in VIII 140α235. Ogni informazione – e in ultima

marcato dall'uso del dokeîn, v. oltre. 234 Cfr. supra la posizione contro Senofane.

235 A chiusura di ogni citazione interna (Serse-Mardonio-ambasciatore) viene aggiunta la valutazione del nuovo parlante introdotta da un “io per conto mio vi dico..”. La costruzione è talmente artificiosa e superflua che sembra chiaro che sia l'occasione per mostrare qualcosa; non le è estraneo nemmeno l'umorismo erodoteo cui ho già accennato, visto che ognuno ci tiene a confermare da sé

analisi tutto ciò che sappiamo - è il risultato di una stratificazione di giudizi, di un filtraggio di questo tipo, di cui dobbiamo tenere conto a nostra volta: dobbiamo

credere nella capacità dell'asserzione di veicolare evidenza (e di poterla valutare a

nostra volta) se vogliamo credere in/sapere alcunchè236. Ogni volta che valutiamo ed esprimiamo giudizi noi rifiltriamo e ridiciamo “in prima battuta”; il linguaggio non “parla” per virtù semplicemente propria, semantica, ma è ogni volta il nostro

assessment e la nostra asserzione che lo fa riparlare; verità è giudizio, non enunciato

(o proposizione)237.

Ancora, proprio a Erodoto dobbiamo un'idea dell'impiego del discorso diretto che mostra all'opera la situazione dell'asserzione e le sue condizioni pragmatiche. Ai discorsi diretti che si svolgono entro alcuni dibattiti fittizi sono affidati i grandi temi intellettuali della sofistica238: chi parla fa leva su ragioni ed evidenze, ed esprime posizioni sul modo corretto di ragionare; ma qualsiasi argomento – anche quelli protagorei – è soggetto alla condizione di essere un'asserzione e di essere valutabile solo attraverso il contesto di chi dice e della situazione in cui è detto239. Nell'impiego dei discorsi Tucidide non inventa nulla: sviluppa piuttosto in modo sistematico questo procedimento, indagando a fondo (sulla scorta di convinzioni differenti sul linguaggio) il rapporto fra ciò che viene detto e la sua componente pragmatica: è il campo di indagine che Protagora ha inventato, e che in questi scrittori viene impiegato e

quanto già detto. Solo una catena di assensi, di giudizi, veicola l'informazione umana. Che volto al contrario, potrebbe suonare: non c'è un rapporto diretto, “autoptico” o non mediato dall'asserzione, con la realtà o la verità.

236 Come ho già rilevato (e a differenza di ciò che si usa ripetere) non è l'autopsia lo standard epistemico erodoteo. Con l'autopsia non si potrebbe, letteralmente, sapere nulla.

237 Aggiungo - argomento cui ho già accennato – che questo giudizio non è solo l'enunciazione di primo livello ma è anche un giudizio sul discorso che si sta ascoltando. O c'è una comprensione discorsiva, di secondo livello, oppure non si capisce nulla. Noi propriamente non “vediamo” nulla, nemmeno che la neve è bianca. I trivia non stanno in piedi da sé, e la nostra pietra angolare non è la certezza elementare.

238 È curioso fare caso al fatto Erodoto e Tucidide fanno esattamente il contrario di uno storico moderno: affidano al discorso diretto (e alla sua valutazione contestuale) molte questioni teoriche e ideologiche per loro centrali.

239 Cfr. supra gli esiti non facili da gestire della discussione persiana sulle forme di governo, in cui anche la posizione protagorea risulta relativa. O si vedano per esempio i discorsi di Serse nel settimo libro (capitoli 8,11,50), che usano argomenti analoghi a quelli di Dario (III 71-72), eppure nel loro contesto, e in rapporto al modo di procedere di Serse, manifestano chiaramente la sua parzialità e la sua adikía.

indagato in concreto.