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TRA EFFETTIVITA' ED EFFICIENZA AMMINISTRATIVA: I NUOVI CONFINI DELLA TUTELA DEL CITTADINO

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Indice

Introduzione 4

Capitolo

I:

I

principi

regolatori

dell’attività

amministrativa

1.1. Il principio di legalità 7

1.2. Il principio di buon andamento 12

1.3. Il principio del “giusto procedimento” 16

1.4. Il principio del “giusto processo” 22

1.5. Il diritto ad una buona amministrazione nell’ordinamento europeo 25

Capitolo II: L’inerzia della pubblica amministrazione,

una situazione patologica individuale

2.1. La prima forma di interpretazione del silenzio quale atto amministrativo negativo 28

2.2. L’evoluzione del concetto di silenzio come mero inadempimento del dovere di provvedere della pubblica amministrazione 32

2.2.1. Nozione di interesse legittimo e inerzia dell’Amministrazione 38

2.2.2. Gli elementi caratteristici della doverosità della pubblica amministrazione 41

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2

2.3. L’inerzia e l’efficienza dell’Amministrazione a

confronto 44

2.4. La responsabilità dello Stato in una visione d’insieme 47

Capitolo III: La tutela processuale nei casi di

silenzio-inadempimento dell’Amministrazione

3.1. Premessa. L’effettività della tutela 50

3.2. Il rito avverso il silenzio dell’Amministrazione 52

3.2.1. I poteri del giudice del silenzio 57

3.2.2. Il commissario ad acta 65

3.3. Lo strumento della sostituzione interna 69

3.4. Considerazioni conclusive 71

Capitolo IV: L’azione per l’efficienza della pubblica

amministrazione e dei concessionari di pubblici servizi

4.1. Inquadramento normativo del nuovo istituto nel sistema normativo 74

4.2. I presupposti dell’azione 77

4.2.1. La lesione e le singole situazioni legittimanti 79

4.2.2. La legittimazione attiva 81

4.2.3. La legittimazione passiva 84

4.3. Il procedimento 86

(3)

3

Capitolo V: La responsabilità dell’Amministrazione per

ritardo e inefficienza

5.1. Introduzione allo studio dei profili della responsabilità

dell’Amministrazione 94

5.2. La tutela risarcitoria per danno da ritardo 96

5.2.1. L’indennizzo per il ritardo amministrativo 101

5.2.2. Il profilo risarcitorio nell’azione per l’efficienza pubblica 104

5.3. Uno sguardo alle forme di tutela indirette del ricorrente 105

5.3.1. La responsabilità penalistica 106

5.3.2. La responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del funzionario inadempiente e del dirigente 108

Conclusioni 113

Bibliografia

115

Giurisprudenza

124

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Introduzione

Il presente lavoro si propone di delineare i tratti essenziali degli strumenti di tutela a disposizione del cittadino leso dall’inerzia ingiustificata della pubblica amministrazione.

Inizialmente, attraverso l’analisi dei principi fondamentali che regolano l’attività delle autorità pubbliche, viene fornito un quadro dei principali limiti ai quali l’attività amministrativa è soggetta. Successivamente, all’interno di questa immagine che rappresenta i requisiti a cui l’agire degli amministratori deve rispondere al fine di garantire efficienza dei poteri pubblici, viene inserita la fattispecie patologica dell’inerzia non giustificata dell’Amministrazione. In relazione alla portata lesiva degli interessi privati, dei quali viene impedito il soddisfacimento entro termini certi e rapidi, lo studio ne ripercorre prima i passaggi giurisprudenziali e dottrinali che hanno portato alla sua attuale definizione, per potere esaminare poi gli strumenti di tutela a disposizione del cittadino. Si vedrà infatti come il superamento della precedente interpretazione del silenzio in termini di mero rigetto dell’istanza presentata dal cittadino e l’introduzione della nuova qualificazione del fenomeno quale condotta inadempiente degli amministratori rispetto alle proprie funzioni, abbia imposto all’Amministrazione adita di fornire pur sempre una risposta a colui che presenta una domanda. Saranno ricordati altresì gli interrogativi sollevati dalla dottrina in merito alla nuova veste del potere pubblico vincolato ad adempiere nelle cosiddette ipotesi di doverosità amministrativa, poiché soltanto in presenza di un obbligo è possibile riconoscere una forma di responsabilità. In particolare, oggi l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo nei termini prestabiliti, risulta essere una condotta esigibile da coloro che a ciò sono preposti dall’ordinamento, tale per

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5

cui il silenzio o il ritardo assumono le vesti di inadempimento. A questo proposito, il terzo capitolo si propone di illustrare gli elementi principali della tutela processuale attualmente prevista, a favore del cittadino, quando gli interessi legittimi siano stati lesi da tale comportamento silente. A tale proposito, la situazione di incertezza giuridica nella quale il singolo si trova a fronte del mancato adempimento dell’obbligo di conclusione dei procedimenti amministrativi mediante un atto finale, è ben in grado di causare pregiudizi di natura economica. Tuttavia, in linea con le esigenze di assicurare una tutela effettiva ed altresì di migliorare l’efficienza dell’attività amministrativa, pregiudicata indubbiamente laddove le funzioni alle quali gli stessi sono preposti non vengono rispettate, il quarto capitolo lascia spazio alla cosiddetta “class action” amministrativa, meglio definita come l’azione per l’efficienza della pubblica amministrazione e dei concessionari di pubblici servizi. Attraverso l’esame del d. lgs. n. 198 del 2009 che ne disciplina i presupposti e le caratteristiche procedurali, sarà possibile individuare il reale obiettivo di tale strumento di tutela e di conseguenza anche la sua effettività utilità per il singolo pregiudicato dal malfunzionamento o dal disservizio pubblico.

In ragione dello stretto collegamento tra il bisogno di una maggior efficienza dell’azione amministrativa e di strumenti in grado di tutelare effettivamente il cittadino pregiudicato da tali inefficienze delle quali l’inerzia è un esempio, l’ultimo capitolo illustra le figure di responsabilità codificate dal nostro ordinamento, nelle quali i funzionari e i dirigenti incorrono in quanto incaricati di regolare gli interessi pubblici e privati in gioco nelle singole fattispecie oggetto della loro attenzione. In particolare, con l’evoluzione dei rapporti tra i poteri pubblici e i cittadini, anche la classica immagine dell’Amministrazione è venuta meno, tanto è vero che ponendo le due parti del procedimento su un piano paritario, i cittadini non vengono

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6

più ad essere considerati oggi come meri destinatari passivi di atti unilaterali ed imperativi. L’ampliamento delle funzioni a questa riservate infatti, ha permesso di guardare all’Amministrazione pubblica in termini di risultato, ovvero ha fatto sì che alla sua classica funzione di gestione dei rapporti all’interno dell’ordinamento venissero affiancati ulteriori compiti di fornitura di beni e servizi nel rispetto del generale principio di buon andamento di cui all’art. 97 della Costituzione.

Peraltro, al fine di illustrare gli strumenti in grado di garantire tale scopo principale dell’operato amministrativo, sono stati inseriti alcuni riferimenti al diritto comunitario, il quale per poter assicurare il diritto ad una buona amministrazione, tutela la tempestività procedimentale come un bene autonomo. Il legislatore europeo, a differenza di quello nazionale, ravvisa nei ritardi e nelle omissioni poste in essere dai poteri pubblici una violazione in primis del legittimo affidamento dei singoli ad una risposta tempestiva delle autorità amministrative. Il tema dunque, oscillando tra esigenze da una parte di tutela del singolo nei confronti delle violazioni dei poteri pubblici e il bisogno dall’altra di assicurare alti livelli di efficienza dell’apparato amministrativo, sarà oggetto di una puntuale analisi nelle prossime pagine all’esito della quale saranno messi in luce gli aspetti critici degli strumenti volti al ristoro dei pregiudizi sofferti dai privati.

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7

Capitolo I

I principi regolatori dell’attività amministrativa

SOMMARIO: 1.1. Il principio di legalità; 1.2. Il principio di buon andamento; 1.3. Il principio del “giusto procedimento”; 1.4. Il principio del “giusto processo”; 1.5. Il diritto ad una buona amministrazione nell’ordinamento europeo.

1.1. Il principio di legalità

L’attività amministrativa può essere considerata un insieme di operazioni, comportamenti e decisioni assunti da una pubblica amministrazione, la quale esercita le proprie funzioni perseguendo gli scopi prestabiliti dalle norme dell’ordinamento. Questa prima indicazione proviene direttamente dall’art. 1 della legge sul procedimento amministrativo n. 241 del 1990, che ha costituito una vera rivoluzione, anche grazie alle sue successive modifiche, sia nell’ambito della delimitazione delle garanzie procedurali dell’attività dell’amministrazione, sia in quello della cosiddetta amministrazione di risultato, prevedendo strumenti volti a garantire il raggiungimento di determinati obiettivi attraverso l’esercizio delle funzioni pubbliche1. Ai fini della ricostruzione della natura dell’agire degli amministratori pubblici, verranno qui analizzati i principi fondamentali in grado di vincolare, significativamente, coloro che vengono chiamati a regolare i possibili rapporti esistenti fra gli interessi privati e pubblici.

1

G. Pastori, Attività amministrativa e tutela giurisdizionale nella legge 241/1990 riformata, in L. R. Perfetti, Le riforme della legge 7 agosto 1990, n. 241 tra garanzia della legalità ed

(8)

8

Pertanto, il principio considerato un pilastro nel settore del diritto amministrativo è quello di legalità, tanto da essere sancito persino dall’art. 97 della nostra Costituzione, a conferma del fatto che, i padri costituenti avessero già ravvisato la necessità di delimitare, per quanto possibile, l’esercizio del potere pubblico, individuando nella legge, espressione della sovranità popolare, un fattore di legittimazione e guida dello stesso. Autorevole dottrina infatti, riconosce nella legalità lo strumento capace di rendere tipici e prevedibili gli atti della pubblica amministrazione, tale per cui, riservando alla fonte legislativa il compito di realizzare le regole dell’ordinamento, i cittadini vengono così garantiti dal possibile “dispotismo degli amministratori”2

. I protagonisti della rivoluzione francese, mossi dal bisogno di affrancamento dalla volontà assolutistica del sovrano, sono i primi a ravvisare, nella tipizzazione degli atti, una tutela per il popolo ricostruita, in origine, in termini teorici da Romagnosi3. Analizzandolo più da vicino, se ne ravvisano molteplici chiavi di lettura. Tradizionalmente, la dottrina distingue il principio in termini formali e sostanziali; secondo il primo significato, è soltanto la fonte legislativa il fondamento e la legittimazione dell’esercizio dei poteri pubblici, nel rispetto delle caratteristiche tipiche dello Stato di diritto. L’altra accezione invece, si riferisce strettamente all’obbligo di svolgimento dell’attività amministrativa, nei limiti e secondo le modalità stabilite dalle norme. Tuttavia, partendo dalla distinzione generalmente diffusa, la dottrina ha elaborato un’ulteriore argomentazione valida. Da un punto di vista negativo infatti, il principio può essere interpretato come uno dei limiti finalizzati ad evitare l’abusivo ed arbitrario esercizio delle funzioni pubbliche, una

2

F. Merusi, Sentieri interrotti della legalità: la decostruzione del diritto amministrativo, Il Mulino, Bologna, 2007.

3

G. D. Romagnosi, Principj fondamentali di diritto amministrativo onde tesserne le

istituzioni, Il Tipografo editore, Milano, 1814, ravvisava nelle norme la necessità di duplice

oggetto ovvero “l’interesse pubblico considerato” e “la maniera prescritta agli stessi funzionarj onde agire in vista dell’autorità loro delegata dal governo, avuto riguardo al fine della cosa pubblica”. In questi termini veniva cosi esplicato il principio di legalità.

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9

garanzia esterna, o meglio, un principio in grado di assicurare “ una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa”4. Queste le parole usate dalla stessa Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 115 del 7 aprile 2011, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 4 dell’art 54 del Testo unico degli enti locali (d.lgs. n. 267 del 2000), il quale attribuiva un ampio potere al sindaco, relativamente all’emanazione di possibili ordinanze, in caso di gravi pericoli per l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana5

.

Infine, una lettura positiva del medesimo principio, consente di mettere in luce una caratteristica peculiare dell’attività degli amministratori, ovvero la doverosità. Lo stesso art. 2, della legge n. 241 del 1990, definisce obbligatoria l’emanazione di un provvedimento espresso, da parte della pubblica amministrazione, all’esito di un procedimento avviato su istanza di parte o d’ufficio. Il carattere doveroso dell’attività, individuato innanzitutto nella consumazione del potere pubblico in senso stretto, vale a dire nell’esame di un’istanza e nella conclusione del relativo procedimento, nondimeno può manifestarsi in termini di soddisfazione delle situazioni giuridiche soggettive dei privati, quando possibile, mediante un provvedimento amministrativo6. In altre parole, la dottrina riscontra la presenza di un generale “dovere di soddisfare i pubblici interessi affidati in cura all’amministrazione”7

, un dovere cioè di perseguire i risultati e gli scopi determinati dalle singole leggi. Questa affermazione, supera nettamente la posizione di M. S. Giannini il quale sosteneva, a metà del Novecento, come fosse la stessa

4

Corte. Cost., 7 aprile 2011, n. 115, in www.cortecostituzionale.it. 5

In particolare la Corte, riscontrando nella disposizione l’assenza di parametri oggettivi delimitanti l’esercizio del potere pubblico, ossia di un ancoraggio normativo volto a consentire la facoltà di incidere nella sfera di libertà dei privati, constatò che l’art 54 fosse in contrasto sia con il principio di legalità in senso sostanziale, sia con quello d’imparzialità dell’amministrazione previsto anch’esso dall’art 97 della Costituzione.

6

A. Police, Doverosità dell’azione amministrativa, tempo e garanzie giurisdizionali, in L. R. Perfetti, Le riforme della legge 7 agosto 1990, n. 241 tra garanzia della legalità ed

amministrazione di risultato, Cedam, Padova, 2008.

7

A. Cioffi, Dovere di provvedere, in L. R. Perfetti, Le riforme della legge 7 agosto 1990, n.

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10

Amministrazione e non una fonte normativa, a dover stabilire, mediante una ponderazione comparativa degli interessi pubblici e privati, quelli da soddisfare, alimentando però in tal modo, possibili scelte arbitrarie8. Appare dunque fin da subito chiaro che, riconoscere un profilo obbligatorio all’agire pubblico inteso in senso lato, rischia di porsi in contraddizione con tutte quelle fattispecie in cui l’attività amministrativa non risulta essere vincolata e quindi facilmente sindacabile dagli organi giurisdizionali, sulla base dei classici criteri di legittimità. Con riferimento infatti a tutte le fattispecie in cui la funzione amministrativa si sostanzia in un’attività ricognitiva e valutativa degli interessi privati e pubblici coinvolti, è possibile affermare indubbiamente che, la creazione di progressivi vincoli, volti a misurare l’operato pubblico, è frutto dell’evoluzione dei rapporti fra lo Stato ed i propri consociati. In altre parole, il bisogno di una maggior cura della posizione giuridica del privato, ha fatto sì che, nei casi in cui l’agire amministrativo non risulta essere vincolato da precise disposizioni di legge, ma si sostanzia in una scelta degli interessi preponderanti, la Pubblica Amministrazione debba rispettare il principio di proporzionalità e di ragionevolezza. Di conseguenza, in base a questi ultimi, i diritti e le libertà dei privati possono essere limitati soltanto qualora ciò sia, secondo una ricostruzione logica, ragionevole ed indispensabile per la protezione degli interessi pubblici predominanti. Al riguardo, l’effettiva difficoltà di un controllo ex post del cosiddetto merito amministrativo, ormai percepito come una sorta di sfera intangibile, il sindacato del giudice amministrativo si sostanzia, in questi casi, soltanto nella verifica della proporzionalità della statuizione finale e della ragionevolezza dell’iter procedimentale, in relazione ai fini perseguiti. Evitando di approfondire, qui, lo studio dell’istituto dell’eccesso di potere, ciò che risulta interessante, ai fini

8

M. S. Giannini, Il potere discrezionale della pubblica Amministrazione, Giuffrè, Milano, 1939, p. 46 ss.

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della nostra ricostruzione, è essenzialmente che, l’evoluzione che ha caratterizzato i limiti posti all’esercizio del potere pubblico, rappresenta un chiaro abbandono del passato, contraddistinto dall’imperatività amministrativa difficilmente contestabile. Pertanto, a chiusura dell’analisi del concetto di ponderazione all’interno dell’area operativa degli apparati preposti alla cura degli interessi della collettività, per una miglior comprensione della natura del giudizio di ragionevolezza e proporzionalità, può essere ricordata la sentenza n. 21 del 1984 del T. A. R. del Lazio9.

Definito come “fondamento ontologico” di tutto il potere amministrativo, il principio di legalità, viene spesso considerato dalla giurisprudenza un principio di razionalità, poiché è in grado di guidare l’interpretazione degli amministratori e dei giudici, laddove la legge non ha previsto alcuna disciplina; per queste ragioni dunque, risulta possibile ricostruire gli istituti del diritto amministrativo in termini di conseguenze di tale principio10.

9

T.A.R. Lazio, sez II, 13 gennaio 1984, n. 21, in www.gazzettaufficiale.it. In occasione del ricorso presentato da un’associazione di commercianti contro una delibera del Comune di Roma, avente ad oggetto la costruzione di un’isola pedonale nei pressi di Piazza di Spagna e via Condotti a causa del traffico della zona, il giudice amministrativo, riconoscendo la natura discrezionale della valutazione effettuata dal Comune, ne ha considerato irragionevole il provvedimento poiché basato su un’istruttoria inadeguata. I ricorrenti infatti, avevano sostenuto come tale decisione, oltre a causare evidenti pregiudizi economici ai propri affari, avrebbe anche comportato un incremento dell’afflusso del traffico verso le zone limitrofe. Sulla base di queste considerazioni, il T.A.R. Lazio ravvisa una mancata ragionevolezza all’interno dell’iter procedimentale.

10

In questi termini F. Merusi, Sentieri interrotti della legalità: la decostruzione del diritto

amministrativo, Il Mulino, Bologna, 2007, riprende il pensiero di G. D. Romagnosi, il quale

in Principj fondamentali di diritto amministrativo onde tesserne le istituzioni, Il Tipografo editore, Milano, 1814, costatando l’impossibilità per le leggi di disciplinare tutte le fattispecie del “mutevole e variabile” diritto amministrativo, suggerisce di usare l’interpretazione per ricavare la volontà del legislatore e, qualora questa non sia possibile o non dia risultati, gli amministratori sono tenuti all’osservanza dei “principj della ragion pubblica naturale” ovvero devono “ottenere la maggiore prosperità e sicurezza pubblica interne ed esterna,

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1.2. Il principio di buon andamento

Delineati i tratti essenziali della legalità amministrativa, risulta oggi evidente il superamento della fiducia nel mero giudizio di legittimità sull’atto, quale unico strumento in grado di garantire il buon andamento dell’operato della p.a.. L’art. 97 della Costituzione prima, e l’art. 1 della legge sul procedimento poi, pongono difatti l’attenzione su un’ulteriore caratteristica tipica dell’attività amministrativa, ovvero il proprio andamento, affinché da una parte venga salvaguardata la posizione giuridica dei privati e, dall’altra, possa essere valutata la performance degli apparati amministrativi11. In questi termini, la norma costituzionale prescrive due principi guida, ossia l’imparzialità e il buon andamento; il primo, ponendosi in continuità con il principio d’uguaglianza secondo l’art, 3 della stessa Carta, è volto a garantire la parità di trattamento nello svolgimento delle funzioni amministrative e nell’organizzazione degli uffici pubblici. Il secondo, invece, risulta essere un’espressione ricca di significato, tale per cui, l’art. 1 della legge n. 241 del 1990, al primo comma, ne richiama i corollari; l’economicità, l’efficacia, l’imparzialità, la pubblicità e la trasparenza sono difatti finalizzati al raggiungimento di una “buona” amministrazione pubblica. Sulla base di una logica aziendale, è possibile valutare l’efficacia sulla base del rapporto esistente tra i bisogni soddisfatti e i servizi erogati. In particolare, l’amministrazione si definisce efficiente, quando raggiunge il miglior risultato, impiegando minor costi possibili; pertanto, l’economicità riflette la capacità di soddisfazione, nel lungo periodo, delle necessità della collettività, considerate dagli amministratori in termini di propri obiettivi, sulla base dell’impiego efficiente delle risorse disponibili. Tuttavia, il sistema aziendale si differenzia dalla realtà pubblica poiché, i due criteri appena richiamati non sono ancorati soltanto a

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mere valutazioni quantitative, legate a dati economici, ma piuttosto qualitative, in relazione ad un sistema di valori12. La dimensione personalistica ma anche sociale della pubblica amministrazione incidono inevitabilmente sui propri aspetti organizzativi, ragion per cui, i principi di imparzialità e buon andamento possono definirsi “due aspetti complementari di un’unica realtà”13

.

Continuando l’analisi dei vincoli dell’attività amministrativa, emergono gli ultimi due corollari del principio generale di buon andamento, ovvero la pubblicità e la trasparenza. Quest’ultima tuttavia, è opportuno precisarlo, è stata introdotta soltanto con la legge di riforma delle norme in materia di attività amministrativa, n. 15 del 2005. Originariamente infatti, si riteneva sufficiente ai fini della garanzia del buon andamento della pubblica amministrazione, soltanto la messa a disposizione della collettività di informazioni concernenti quest’ultima mediante albi, bollettini o siti internet, in modo tale da poter essere, sostanzialmente, consultabili e verificabili ex post. Tuttavia, il legislatore nel 2005 sente la necessità di prevedere espressamente un ulteriore elemento guida dell’operato degli amministratori, ovvero la trasparenza, sulla base delle influenze derivanti dal diritto europeo. Omero Manzi, riconoscendone la portata, la definisce come “un valore giuridico strumentale” alla concretizzazione dei principi contenuti dall’art. 97 della Costituzione, in quanto permette, al contempo, una percezione e un controllo diretto dell’agire dell’amministrazione14

.

12

E. Borgonovi, Principi e sistemi aziendali per le amministrazioni pubbliche, Egea, Milano, 2002.

13

Sul tema M. R. Spasiano, in Studi sui principi di diritto amministrativo, (a cura di) M. Renna e F. Saitta, Giuffrè, Milano, 2012, sottolinea il rapporto garantistico e reciproco dei due principi nell’ordinamento non soltanto sotto un profilo organizzativo statico, ma anche relazionale. A proposito, l’autore ricorda una nota sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n. 2 del 1972, nella quale si afferma che le norme di un sistema organizzativo non possono definirsi legittime qualora non rispettino tali principi ricordati. 14

O. Manzi, Trasparenza e partecipazione nella riforma della legge sul procedimento, in L. R. Perfetti, Le riforme della legge 7 agosto 1990, n. 241 tra garanzia della legalità ed

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14

Delineati, così, i primi tratti essenziali dei vincoli garantistici della legge sul procedimento amministrativo è possibile comprendere, fin da subito, l’intento legislativo di superamento dell’immagine dell’Amministrazione classica di “regolazione” e la comparsa di quella cosiddetta di “prestazione”15. Il primo modello caratterizza soprattutto l’ Ottocento, anche se nel secolo successivo non scompare totalmente, mentre il secondo sistema nasce e si sviluppa progressivamente con l’avvento dello Stato sociale, trovando maggiore o minore espansione, in relazione alle risorse amministrative disponibili. Già dalla definizione dei due sistemi ne risulta chiara la loro diversità, tanto è vero che, per quanto riguarda l’amministrazione di regolazione, nella quale l’agire pubblico coincide con l’applicazione delle norme che hanno per oggetto la regolazione degli interessi dei privati mediante meri atti autoritativi, nell’altra non vi è alla base una necessità di tutela dai possibili abusi degli apparati amministrativi, quanto piuttosto l’esigenza di erogare beni e servizi ai privati e alla collettività, nel rispetto dei principi di imparzialità, efficienza ed efficacia. Tuttavia, riconoscere l’esistenza di una pluralità di funzioni in capo all’amministrazione, significa prendere atto dell’evoluzione dei rapporti tra poteri pubblici e cittadini. Originariamente, questi ultimi venivano considerati mere figure passive di fronte agli atti imperativi ed unilaterali della Pubblica Amministrazione, la quale, sulla base della legge, veniva chiamata a regolare gli interessi dei privati tanto che, contro gli atti amministrativi in violazione delle norme in materia, l’unica tutela si individuava nel mezzo impugnatorio. Il progressivo ampliamento delle funzioni amministrative e delle istanze dei cittadini ha condotto il legislatore verso l’allontanamento dalla tipica posizione di soggezione degli amministrati, cercando di colmare le disparità

15

G. Arena, Una nuova legittimazione per la pubblica amministrazione, in AA.VV., Valori

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sostanziali fra questi e gli amministratori16. Di conseguenza, il binomio “autorità-libertà”, tipico del modello di regolazione, lascia il posto ad un nuovo rapporto definibile in termini di “funzione-interessi”; nascono così nuovi istituti e principi regolatori dell’agire amministrativo, sulla base del riconoscimento, in capo al singolo, del diritto di partecipazione alla produzione degli atti che incidono sui propri interessi17. Indice dell’innovativa qualificazione del privato come detentore di diritti nei confronti della pubblica amministrazione, è la codificazione del principio di trasparenza e pubblicità che impone al pubblico potere di rendere note le valutazioni e decisioni effettuate, nell’esercizio delle proprie funzioni.

Nella legge sul procedimento amministrativo, molte sono le disposizioni che denotano la mutata gestione del potere pubblico, non più unilaterale ed imperativa, ma “partecipata”18. L’art, 7, che prevede la comunicazione dell’avvio del procedimento a coloro che saranno destinatari degli effetti del provvedimento e a quelli che hanno l’obbligo di intervenirvi, e l’art 3, che dispone l’obbligo di motivare ogni provvedimento amministrativo (salvo gli atti normativi e a contenuto generale), sono solo due degli esempi che confermano la volontà del legislatore di superare l’immagine tradizionale della Pubblica Amministrazione, quale detentrice di un mero potere di regolazione dei rapporti con gli altri soggetti dell’ordinamento, attraverso atti autoritativi.

Per quanto riguarda invece, il significato dell’espressione stessa “buona amministrazione”, molteplici possono esserne le interpretazioni. Di natura giurisprudenziale, si tratta innanzitutto di un

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In materia l’Ad. Plen., 23 marzo 2011, n. 3, in seguito all’entrata in vigore del c.p.a. ha affermato la trasformazione del giudizio amministrativo, precedentemente basato sul modello impugnatorio, in un accertamento “della fondatezza della pretesa sostanziale azionata”sulla base del rapporto regolato dall’atto.

17

Opera già citata, G. Arena.

18

L. Maccari, Le garanzie di partecipazione al procedimento amministrativo dopo la riforma

introdotta con la legge n. 15/2005, in L. R. Perfetti, Le riforme della legge 7 agosto 1990, n. 241 tra garanzia della legalità ed amministrazione di risultato, Cedam, Padova, 2008.

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diritto fondamentale riconosciuto agli individui, in nome di una nuova posizione paritaria e democratica assunta da questi nei confronti dei soggetti pubblici. Secondo una breve ricostruzione dell’evoluzione di cui è stato oggetto, in primo luogo, l’originaria natura garantista dell’efficienza dei pubblici poteri ha lasciato il posto ad una nuova funzione di tutela degli individui dall’operato degli amministratori. Rispetto invece alla propria portata, parlare di diritto ad una buona amministrazione, non significa soltanto riconoscere al privato una serie di diritti procedurali, quali l’accesso ai fascicoli che lo riguardano, il cosiddetto “right to be heard”, l’ottenimento di una decisione motivata, ma comporta fissare determinati vincoli all’attività amministrativa, tale da renderla sindacabile da parte del giudice amministrativo. Con riferimento al rispetto dei principi di imparzialità, ragionevolezza, equità, obiettività, coerenza, proporzionalità e al divieto di discriminazioni, il diritto europeo fornisce un ampio e valido contributo19.

1.3. Il principio del “giusto procedimento”

Concluso questo breve, ma necessario excursus sulle disposizioni normative che regolano l’attività amministrativa, o meglio il procedimento amministrativo, offrendo un quadro dei valori giuridici alla base di ogni rapporto pubblicistico, risulta pacifico, in dottrina ma anche secondo la giurisprudenza, che ciascun atto amministrativo rappresenta una sorta di “simbiosi” fra l’esercizio di un potere riservato ad un’autorità pubblica e la regolazione della libertà dei consociati, tale per cui il procedimento stesso viene ad essere

19

S. Cassese, Il diritto alla buona amministrazione, in European Review of public law, vol. 21, n. 3, 2009, pp. 1037-1047.

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17

considerato un essenziale strumento di convivenza sociale e politica20. Riconosciuto il valore sociale della funzione amministrativa, ben si comprende la necessità di fornire un tutela giurisdizionale a coloro che risultano pregiudicati dall’operato degli apparati pubblici. La Costituzione, pur non riservando molte norme alla pubblica amministrazione, tuttavia disciplina, all’art. 113, il diritto di agire contro tutti gli atti della pubblica amministrazione, sulla base del diritto di difesa giurisdizionale riconosciuto ai privati, dall’art 24 della stessa, allo scopo di ottenere una tutela dei propri diritti ed interessi legittimi. Le due disposizioni condividono, sostanzialmente, la medesima volontà dei costituenti di consentire una difesa giurisdizionale, nelle ipotesi di attività pregiudizievole della pubblica amministrazione. Le direzioni verso le quali si è diretto il legislatore ordinario, in questi anni, sono due; la prima, in accordo con la nuova visione paritetica della posizione giuridica degli organi pubblici e del singolo cittadino, ha consentito l’elaborazione graduale di molte forme di partecipazione agli affari tipici della burocrazia pubblica, con il conseguente diritto ad ottenere una tutela giurisdizionale, dinnanzi ad un giudice, in presenza di eventuali pregiudizi lamentati dai privati. La seconda invece, attraverso la diffusione dei molteplici corollari del principio generale di buon andamento della pubblica amministrazione, si è concretizzata in interventi volti ad istituire forme di responsabilità per gli incaricati alla cura degli interessi pubblici, i quali non avessero eseguito in modo efficiente ed imparziale le proprie funzioni.

Prima di esaminare con precisione l’aspetto patologico dell’attività amministrativa, in particolar modo le possibili ipotesi di inerzia e la rispettiva tutela riservata ai singoli dal recente c.p.a., oggetto delle prossime pagine, ritengo di dovermi ancora soffermare su un aspetto importante.

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L. Buffoni, Il rango costituzionale del giusto procedimento e l’archetipo del processo, in

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18

I principi, le diposizioni e i valori fin qui esaminati infatti, secondo la dottrina giuspositivitica perseguono un comune ideale di giustizia, tanto che, possono essere sintetizzati nella significativa espressione di “giusto procedimento”, riconosciuto inizialmente dalla Corte Costituzionale, indipendentemente dal proprio rango costituzionale o meno, come uno strumento volto a garantire i diritti inviolabili dei cittadini, nei confronti dei poteri pubblici21. Nel 1999 invece, è lo stesso Consiglio di Stato a qualificarlo in termini di principio generale riconosciuto dall’ordinamento22

, mentre la legge sul procedimento amministrativo si è occupata di circoscriverne la disciplina. Dal punto di vista generale, può definirsi come la sintesi di una sorta di “democrazia procedimentale”, sulla base della quale, una decisione finale, ovvero il provvedimento amministrativo, viene ad essere emanato una volta effettuati gli opportuni accertamenti e, soltanto, dopo aver dato la possibilità ai privati di esporre le proprie ragioni. Tralasciando qui le disposizioni che regolano le forme partecipative o di cooperazione degli interessati alla formazione della volontà amministrativa, ai fini della individuazione degli istituti, espressione dell’interesse del legislatore alla realizzazione di una tutela effettiva dei singoli, emblematico è l’art. 2 della legge n. 241 del 1990, concernente la conclusione del procedimento. Oggetto di riforma, prima da parte della legge n. 69 del 2009 e successivamente dalla n. 190 del 2012, attualmente il primo comma dell’art. 2 disciplina l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di emanare un provvedimento espresso, all’esito di un procedimento che ha preso avvio su istanza di parte o d’ufficio, consentendo soltanto la possibilità di utilizzare una forma semplificata in presenza di una domanda manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata. Il provvedimento, quale manifestazione della volontà

21

Corte Cost., 29 maggio 1995, n. 210, in www.giurcost.org. 22

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dell’Amministrazione procedente, ricopre dunque un ruolo di garanzia anche per quanto riguarda la certezza dei rapporti giuridici, ovvero, nel comma successivo dell’art. 2, il legislatore, conformemente anche alla Carta Europea dei diritti fondamentali, individua un “termine ragionevole” (art 41, comma 1) di svolgimento del procedimento stesso. In altre parole, tutte le volte che le norme o l’amministrazione procedente, con atti di natura regolamentare, non fissano i limiti temporali dell’iter procedimentale, il legislatore ha previsto un termine residuale di trenta giorni. Gli enti pubblici nazionali possono difatti stabilirne la durata secondo il proprio ordinamento e nel rispetto, in ogni modo, dei novanta giorni massimi fissati dal terzo comma, potendovi derogare soltanto nei casi di particolare complessità, i quali consentono ulteriori accertamenti nel limite di centottanta giorni. Caratteristica dunque dell’attività degli apparati pubblici è, o meglio dovrebbe essere, la celerità, la quale, oltre a costituire una tutela degli interessi dei soggetti coinvolti, permette anche di valutare l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa; in seguito avremo modo di analizzare meglio quest’ultimo aspetto, usualmente definito con l’espressione di performance organizzativa in quanto, il d.lgs. n. 150 del 2009 ha introdotto un ulteriore strumento di protezione degli interessi degli utenti, al verificarsi di ipotesi di mancata efficienza e produttività delle pubbliche amministrazioni. In altre parole, è ravvisabile una duplice tutela nella delimitazione temporale dell’attività pubblica ovvero, da una parte, il legislatore coglie non soltanto la necessità di garantire la soddisfazione delle pretese dei privati che si rivolgono ad un’Amministrazione pubblica, al pari di un soggetto che ricerca una tutela davanti ad un organo giurisdizionale vincolato dal principio di non liquet, ma provvedere nei termini prestabiliti dalle disposizioni di legge, implica un adempimento anche dei criteri regolatori della funzione

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amministrativa, evitando così di incorrere in forme di responsabilità23. Lo stesso principio di tempestività può considerarsi diretta espressione del più ampio obiettivo di buon andamento, in nome del quale l’amministrazione nel suo complesso esplica le proprie funzioni; il legittimo affidamento dei privati in una risposta da parte dell’amministrazione procedente e le esigenze di razionalizzazione della spesa pubblica, convivono all’interno di questo parametro a tal punto da poter giustificare l’attenzione crescente, della giurisprudenza e del legislatore, verso la cosiddetta amministrazione di risultato. Molto spesso la dottrina, quando si trova ad analizzare l’evoluzione del modello di gestione e di organizzazione delle Pubbliche Amministrazioni, non dimentica di fare riferimento alla cosiddetta “legalità di risultato” per esprimere l’applicabilità del principio di buon andamento all’attività amministrativa. In altre parole, la prestazione degli amministratori, in seguito alla legge n. 241, si delinea come un servizio a favore della collettività, ragion per cui, anche i parametri volti alla sua valutazione, sono soggetti a modifiche. Al tradizionale principio di legalità, che permetteva di verificare se l’Amministrazione procedente fosse legittimata all’emanazione di determinati atti autoritativi, si è affiancato difatti il principio di efficienza il quale permette, invece, un’ulteriore valutazione della prestazione amministrativa. È nel raggiungimento di scopi e risultati che soddisfano i bisogni della collettività che la pubblica amministrazione può definirsi efficiente e garante del principio di buon andamento, quindi la locuzione precedentemente ricordata ben sintetizza il nuovo funzionamento degli apparati pubblici. Il singolo dunque, coinvolto all’interno dell’iter procedimentale, permette di

23

M. Ramajoli, Forme e limiti della tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento, in Diritto processuale amministrativo, fasc. n. 3, Giuffrè, Milano, 2014, pp. 709 ss.

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arricchire l’istruttoria e dunque di giungere ad una decisione definita “giusta” 24

All’interno di questa nuova impostazione, il fattore “tempo” esercita sicuramente un forte peso soprattutto nella valutazione del grado di efficienza della Pubblica Amministrazione e, nonostante il legislatore colga la necessità di codificare procedure snelle e semplificate, a discapito di una maggior completezza delle fasi procedimentali, non sempre questo assicura una risposta certa e tempestiva dell’Autorità pubblica, poiché, in concreto, molteplici sono i casi di inerzia o inattività amministrativa 25. Il tempo, come bene prezioso della vita dei singoli, viene ad essere infatti confermato oggi, oltre che dai successivi commi dell’art. 2, dall’art 9 bis della medesima legge, il quale disciplina il meccanismo di sostituzione interna in caso di mancata conclusione del procedimento, dal codice del processo amministrativo, il quale all’art. 31 disciplina l’apposito rito, codificato dalla legge n. 205 del 2000, sul “silenzio-inadempimento” della pubblica amministrazione, la quale omette oppure ritarda l’emanazione del provvedimento conclusivo di un procedimento, regolarmente avviato. Il bisogno di una normativa, avente ad oggetto l’inattività degli organi amministrativi, prende avvio dalla constatazione che, il privato che versa in una situazione di attesa, ben potrebbe venirne pregiudicato. Conseguenze negative possono verificarsi tanto nel caso dell’omessa o ritardata emanazione di un provvedimento favorevole, basti pensare ad un’autorizzazione, quanto ad uno sfavorevole ad esempio, un diniego di autorizzazione. In

24

Sulla necessità di realizzare una migliore amministrazione mediante decisioni redatte in seguito al coinvolgimento dei privati cfr. E. M. Marenghi, Procedimenti e

processualprocedimento, Cedam, Padova, 2009. L’autore osserva come renderli parte della

valutazione dell’amministrazione evita spesso il ricorso al processo utilizzato per risolvere “il

problema del risultato al di fuori del processo” ovvero per garantire un risultato in termini di

buona amministrazione. Soltanto assicurando una partecipazione effettiva dei singoli sia nella fase procedimentale che in quella processuale, viene migliorata la funzione stessa della pubblica amministrazione creando così provvedimenti più consapevoli.

25

A. Colavecchio, Semplificazione amministrativa e tempi del procedimento, in www.ilmerito.org.

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entrambi i casi, la situazione di incertezza in cui si trova l’interessato alla pronuncia dell’Autorità pubblica ritardataria, determina indubbiamente una serie di pregiudizi di carattere soprattutto economico-finanziario derivanti, ora dal mancato esercizio di un’attività economica nei tempi prestabiliti, ora dall’impossibilità di poter impiegare diversamente le proprie risorse soprattutto quando il provvedimento, emesso in violazione della durata codificata, risulta essere di diniego26.

1.4. Il principio del “giusto processo”

Nonostante il principio del giusto procedimento rimanga ancorato alla legge n. 241, possono esserne ravvisati però molti punti di contatto e di assonanza con il principio del giusto processo, richiamato oggi, in seguito alla riforma del 1999, dall’art. 111 della Costituzione. Il processo, quale luogo di garanzia della tutela giurisdizionale per coloro che si avvalgono dell’intervento di un organo a ciò destinato, secondo la Costituzione deve sostanzialmente rispettare un principio analogo a quello di cui la legge sul procedimento si fa portatrice. In particolare, tre sono le garanzie da assicurare ovvero il contraddittorio, la presenza di un giudice terzo ed imparziale e la ragionevole durata del processo. Tuttavia, queste stesse indicazioni del legislatore italiano non appaiono nuove a livello internazionale poiché, nel 1950, il Consiglio d’Europa, con l’emanazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), aveva cristallizzato, all’art. 6, gli adempimenti necessari a qualificare, in termini di correttezza-giustizia, un processo. Già cinquant’anni prima si parlava dunque, di equità a livello processuale realizzabile mediante la garanzia di un

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23

dialogo tra accusatore e accusato, il quale oltre ad avere diritto ad una difesa in giudizio, veniva considerato titolare del diritto ad essere giudicato da un tribunale imparziale entro un termine breve, o meglio ragionevole, sulla base della natura della controversia. Riprendendo quanto precedentemente sostenuto, a proposito della tempestività a livello procedimentale, è possibile effettuare dunque un parallelismo con la disciplina processuale. L’attenzione costante dell’ordinamento al fattore temporale ne consacra il ruolo fondamentale, ai fini della garanzia della certezza del diritto e delle posizioni giuridiche; inizialmente è la legge n. 241 del 1990 ad introdurre, a livello di principio generale del diritto, l’obbligo per l’Amministrazione di concludere la propria attività procedimentale nei brevi termini prestabiliti ,affinché venissero correttamente soddisfatti gli interessi dei singoli e, contemporaneamente, della collettività. Successivamente invece, la riforma dell’art. 111 della Costituzione introduce, all’interno del concetto di giustizia del processo, il contraddittorio e la parità tra le parti, la presenza di un giudice imparziale e la tempestività, sottolineando nuovamente, anche se in ambito processuale, il dovere di assicurare una tutela certa e soprattutto celere.

Una volta individuati, persino all’interno della Costituzione, gli elementi necessari a definire corretto e giusto il processo, il successivo codice del processo amministrativo non poteva che afferrare le indicazioni contenute nella fonte suprema ed applicarle in ambito pubblicistico. È così che, tra i principi fondamentali della giurisdizione amministrativa, il Governo colloca al primo comma dell’art. 2 il già ricordato “giusto processo”, richiamando direttamente gli elementi individuati dall’art. 111 della Costituzione, mentre al comma successivo codifica espressamente la necessità di collaborazione reciproca fra il giudice amministrativo e le parti, per assicurare una ragionevole durata dello stesso. La creazione di un

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codice amministrativo non ha contribuito soltanto a mettere ordine nella vasta normativa in materia, ma ha permesso di ravvisare, all’interno del concetto di interesse legittimo, gli elementi tipici di un diritto soggettivo pubblico connesso all’esercizio di un potere amministrativo, proprio perché l’intervento giurisdizionale è volto al soddisfacimento di una pretesa del singolo contro la Pubblica Amministrazione27.

Dunque, la ratio alla base della codificazione dei limiti temporali dell’iter procedimentale e di quello processuale è la medesima, ovvero assicurare una risposta ed una soddisfazione effettiva ai privati interessati che solo la celerità è in grado di garantire. L’omissione, e altresì, il ritardo possono configurarsi, da una parte, come due fattispecie generatrici di lesioni agli interessi privati, mentre dall’altra sono un chiaro indice di malfunzionamento e ineffettività di un organo in quanto incapace di “dare risposte” a coloro che vi si rivolgono. Pertanto, le amministrazioni pubbliche e al contempo, coloro che sono preposti a garantire una tutela giurisdizionale sono parimenti tenuti al rispetto dei termini fissati per la conclusione della propria attività e, per queste ragioni, laddove vengano rilevate eventuali violazioni, l’ordinamento ha previsto precise sanzioni e rimedi, dovuti anche alle ripetute condanne, inflitte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, all’Italia.

27

F. Merusi, La legalità amministrativa, altri sentieri interrotti, Il Mulino, Bologna, 2012. Egli osserva come il processo amministrativo, lasciato per molti anni alla “creativita dei giudici” ovvero del Consiglio di Stato, abbia trovato nel 2010 una propria identità grazie alla redazione del c.p.a.; tuttavia però il traguardo raggiunto si è rivelato per cosi dire in parte insoddisfacente vista la diffusa difficoltà per la giurisprudenza amministrativa di realizzare pienamente un giusto processo amministrativo.

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1.5. Il diritto ad una buona amministrazione nell’ordinamento

europeo

Delineati i tratti essenziali dei vincoli nazionali riconosciuti all’attività amministrativa, pare doveroso non tralasciare le indicazioni offerte dal diritto europeo. I principi generali, funzionali al perseguimento degli obiettivi del sistema comunitario, sono stati elaborati mediante una tecnica di “incorporazione” del diritto internazionale e di quelli nazionali degli Stati membri, al fine di assicurare la supremazia e l’uniforme applicazione del diritto europeo28

.

In particolar modo, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ha influenzato, senza ombra di dubbio, la codificazione italiana dei principi regolatori del diritto amministrativo, a conferma dell’art. 1 della legge sul procedimento amministrativo che vincola l’attività amministrativa al rispetto dei principi dell’ordinamento comunitario. Firmata e proclamata il 7 dicembre del 2000 la Carta di Nizza, così comunemente nota, sancisce i diritti riconosciuti ai cittadini dell’Unione Europea, ma è soltanto con il Trattato di Lisbona del 2009 che le viene riconosciuto il medesimo valore vincolante dei trattati. Dal punto di vista strutturale, si compone di sei parti denominate dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia all’interno delle quali vengono ad essere collocati cinquantaquattro diritti fondamentali ed indivisibili. Per quanto riguarda le norme inserite all’interno della categoria della cittadinanza, l’art. 41, intitolato “diritto ad una buona amministrazione”, ha svolto un ruolo fondamentale nell’emanazione della legge n. 15 del 2005, recante le disposizioni di riforma della legge sul procedimento amministrativo. Così denominata, la norma prevede l’obbligo per le istituzioni dell’Unione di trattare le questioni

28

D. de Pretis, I principi del diritto amministrativo europeo, in Studi sui principi del diritto

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con i singoli cittadini nel rispetto dei principi di imparzialità, uguaglianza ed immediatezza, riconoscendo contemporaneamente il diritto di ogni individuo ad essere ascoltato prima dell’emanazione, nei propri confronti, di un provvedimento pregiudizievole e, altresì, di accedere al fascicolo a lui destinato, nel rispetto del principio di riservatezza e del segreto professionale29.

Il legislatore nazionale, nel 2005, difatti recepisce le indicazioni provenienti dalla normativa europea e aggiunge un inciso all’art. 1 della legge sul procedimento amministrativo, stabilendo un’ulteriore condizione dell’agire degli amministratori pubblici, ovvero la propria conformità ai principi dell’ordinamento comunitario. Secondo un’interpretazione estensiva dell’articolo così riformulato, la precisazione della soggezione ai principi dell’ordinamento europeo si riferisce non soltanto all’attività amministrativa svolta all’interno della Comunità, ma anche direttamente a quella nazionale a conferma dell’art. 117 della nostra Costituzione, il quale dispone la vincolatività del legislatore nazionale e regionale al diritto europeo e internazionale30.

La buona amministrazione di cui si fa portatore il diritto europeo e, prima ancora, la Costituzione italiana, non si sostanzia in una richiesta di adeguatezza del provvedimento amministrativo, quanto piuttosto nel rispetto delle regole prestabilite e nella coerenza della decisione finale con i risultati dell’attività istruttoria 31

. L’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea si articola, dunque, in garanzie procedimentali e processuali; ciò nondimeno la Corte di Giustizia ha utilizzato spesso detto principio in senso più ampio, non limitandosi a considerarvi all’interno le caratteristiche di imparzialità,

29

Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, in www.europarl.europa.eu. 30

M. Cocconi, Il giusto procedimento fra i livelli essenziali delle prestazioni, Il Mulino, Rivisteweb fascicolo n. 5, settembre-ottobre 2010.

31

Sul tema, G. della Cananea, I principi del diritto pubblico globale, in Studi sui principi di

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27

equità e tempestiva delle decisioni amministrative 32 . Già nel preambolo della Carta infatti, è possibile individuare il centro dell’azione dell’Unione, quale la persona destinataria di diritti e di doveri, intorno al quale è stato costruito l’intero ordinamento giuridico europeo, ragion per cui, anche l’art. 41 risente dell’impostazione individualistica descritta33.

32

Ricorda infatti, L. R. Perfetti, Diritto ad una buona amministrazione, determinazione

dell’interesse pubblico ed equità, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2010,

come all’interno dell’espressione “buona amministrazione” trovi spazio il principio generale di parità delle armi, il quale si esplica nel riconoscimento, al singolo, della partecipazione al procedimento amministrativo. Egli aggiunge poi che in una prospettiva organizzativa, invece, in base alla propria “dimensione utilitarista e concreta”, il parametro di valutazione dell’efficienza e della diligenza amministrativa viene ad essere rappresentato dalla complessità della fattispecie.

33

Sul punto F. Vetro in, (a cura di) M. Renna e F. Saitta, Studi sui principi del diritto

amministrativo, Giuffrè, Milano, 2012.

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28

Capitolo II

L’inerzia della pubblica amministrazione, una situazione

patologica individuale

SOMMARIO:

2.1. La prima forma di silenzio quale atto amministrativo negativo; 2.2. L’evoluzione del concetto di silenzio come mero inadempimento del dovere di provvedere della pubblica amministrazione; 2.2.1. Nozione di interesse legittimo e inerzia dell’Amministrazione; 2.2.2. Gli elementi caratteristici della doverosità della pubblica amministrazione; 2.3. L’inerzia e l’efficienza dell’Amministrazione a confronto; 2.4. La responsabilità dello Stato in una visione d’insieme.

2.1. La prima forma di interpretazione del silenzio quale atto

amministrativo negativo

A seguito dell’analisi dei principi regolatori e dei limiti tipici dell’operato delle pubbliche amministrazioni, per contro si procederà qui con l’esame del caso in cui queste vengono meno al proprio dovere poiché sono inerti davanti alle pretese dei cittadini che vi si rivolgono.

Le ipotesi di mancato o ritardato esercizio della funzione amministrativa vengono indicate con il termine di inerzia. Per potersi ravvisare una tale condotta giuridicamente rilevante tuttavia, è necessario prima considerare doverosa l’attività che la pubblica amministrazione non ha posto in essere regolarmente. L’obbligatorietà dell’agire, trova il proprio fondamento direttamente nel principio di legalità, inteso sia in termini di conformità dell’attività amministrativa

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29

alle disposizioni normative, sia come dovere di porre in essere gli atti necessari al perseguimento degli scopi fissati dalle stesse1.

Per quanto riguarda il nostro ordinamento infatti, a fianco delle classiche fattispecie di silenzio qualificate dal legislatore, con valore di assenso o di diniego, vi è la presenza di un’ipotesi ulteriore di silenzio attualmente ravvisabile in termini patologici. In altre parole, quest’ultima condotta, intesa in senso inconcludente, viene qualificata oggi dal legislatore in termini di rifiuto o inadempimento dell’obbligo di agire degli amministratori poiché, è in grado di causare un’insoddisfazione degli interessi pubblici. Per questa ragione, l’art. 2 della legge sul procedimento, imponendo un limite temporale al potere amministrativo, ha circoscritto la doverosità soltanto alla fase finale dell’iter procedimentale, vincolando, in tal modo, la pubblica amministrazione a rendere nota la propria valutazione al privato che presenta una domanda o di agire d’ufficio, qualora vi ravveda il bisogno di tutelare determinati interessi pubblici2. Con riferimento a questo punto di arrivo, molteplici sono state le pronunce della giurisprudenza e le posizioni della dottrina, ai fini della previsione di una tutela giurisdizionale agli interessati lesi dall’inattività amministrativa.

L’attuale testo dell’art. 2 della legge sul procedimento amministrativo prevede infatti che la legge e le singole amministrazioni possono, nel rispetto dei propri ordinamenti, stabilire il termine di durata dei procedimenti amministrativi avviati su istanza di parte o d’ufficio, nel rispetto dei novanta giorni massimi fissati dal legislatore, dei quali potrà essere concesso un aumento fino a centottanta giorni, nei casi di

1

Sul punto, A. Police, Doverosità dell’azione amministrativa, tempo e garanzie

giurisdizionali, in AA. VV., Diritto e processo amministrativo, Edizioni scientifiche italiane,

2007, fasc. 2, osserva come la legalità, oltre a costituire uno strumento di controllo della legittimità dei provvedimenti amministrativi, rivesta anche una funzione positiva in quanto vincola l’autorità pubblica ad esercitare, in tempi ragionevoli, il proprio potere.

2

In questo senso, E. Guicciardi, Interesse occasionalmente protetto e inerzia amministrativa, in Giur. it., 1957, III, 21, considera la doverosità amministrativa strettamente conseguente alla norma che disciplina il potere degli amministratori, tanto da non potersi parlare di una mera facoltà di agire.

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30

riscontrate difficoltà di accertamento della fattispecie. Nelle ipotesi di mancata fissazione invece, troverà applicazione il termine suppletivo quantificato in trenta giorni.

Per quanto riguarda il periodo antecedente alla redazione della legge n. 241 del 1990, non vi erano disposizioni in grado di vincolare con precisione l’amministrazione ad una ragionevole durata del procedimento, tanto che tutto veniva rimesso alla discrezionalità del potere amministrativo il quale, sulla base delle proprie esigenze, fissava l’an e il quando delle risposte. Pertanto, inizialmente gli studiosi del diritto civile che si erano interrogati sul valore da attribuire all’inattività, risposero che potesse essere considerata al pari di un provvedimento tacito di rigetto, ravvisandovi in tale silenzio, una sorta di comportamento concludente degli amministratori3. Così argomentando, i giuristi oltre ad ammettere l’esistenza di una forma non scritta degli atti amministrativi, allo stesso tempo, mossi dal bisogno di individuare il significato di tale condotta atipica, non avevano fatto altro che riconoscere un dovere in capo a colui che non aveva adottato il provvedimento finale richiestogli4. Secondo questa teoria infatti, il problema concernente la tutela processuale dei privati lesi da tale “volontà”, non riscontrabile tramite un provvedimento espresso, rendeva così applicabili gli artt. 24 e 36 del T.U. n. 1054 del 1924 sul Consiglio di Stato5. La dottrina, inoltre, ha cercato di definire il contenuto del provvedimento tacito per poterne stabilire gli effetti, positivi o negativi, ai quali fossero sottoposti gli interessati

3

Così O. Ranelletti, Il silenzio nei negozi giuridici, in Scritti giuridici scelti, Napoli, vol III, 1992, ravvisa che, l’iniziale interpretazione del silenzio amministrativo si basava su elementi tipici della volontà contrattuale, tale per cui l’inerzia veniva considerata la manifestazione di una tacita volontà degli amministratori.

4

Sul punto, F. Cammeo, Corso di diritto amministrativo, Cedam, Padova, 1960, sostiene che un volontà implicita si ricava non semplicemente interpretando come condotta concludente il silenzio della pubblica amministrazione, ma sostenendo in capo a tale soggetto pubblico, un dovere di provvedere.

5

Osserva A. Cioffi, Dovere di provvedere e pubblica amministrazione, Giuffrè, Milano, 2005, che, qualificando l’inerzia in termini di provvedimento tacito, può essere applicato l’art. 24 del T.U. n. 1054 del 1924 sul Consiglio di Stato il quale disciplina il ricorso al giudice contro gli atti della p.a. e, l’art. 36 dello stesso, che richiede, a sua volta, il deposito di tale provvedimento impugnato.

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31

all’esercizio del potere amministrativo. Per questa ragione, la teoria maggioritaria ha suggerito di interpretare in senso negativo la volontà amministrativa, dunque quale diniego dell’istanza del ricorrente, al pari di un rigetto espresso6. La prevalenza di tale significato rispetto ad un’interpretazione positiva di accoglimento, trova giustificazione sulla base di un ragionamento logico; da una parte, si può notare che, secondo la legge sul procedimento amministrativo, nei casi di mancata qualificazione in termini di assenso, tale silenzio debba essere inteso negativamente. A conferma di tale previsione infatti, le operazioni poste in essere dalla pubblica amministrazione che riceve un’istanza, si sostanziano in una ponderazione degli interessi privati e pubblici in gioco, individuando nel provvedimento finale di tale accertamento, quelli preponderanti. A tale riguardo, convalidare il valore negativo dell’inerzia, significa riconoscere conseguenze meno gravose per gli interessati ad un rapporto con la pubblica amministrazione, poiché l’effetto tipico del rigetto è il mantenimento della posizione giuridica di partenza dell’istante7

.

Tuttavia, si osserva che, indipendentemente dalla conformazione positiva o negativa riconosciuta a tale volontà, è sempre necessario compiere una finzione per poterla qualificare come una modalità di esplicazione della funzione amministrativa8.

6

M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Il Mulino, Bologna, 2013. 7

Sulla riflessione, R. Resta, Il silenzio come esercizio della funzione amministrativa, in Foro

amm., IV, 1929. Si aggiunge infatti che, la complessità delle valutazioni alla base dell’istanza

del privato, spesso induce le autorità amministrative a non pronunciarsi per non dover sottostare all’obbligo di motivazione. Si avvalora, in questi termini, ulteriormente la tesi della natura negativa dell’inerzia amministrativa.

8

In tal senso, R. Resta, Il silenzio come esercizio della funzione amministrativa, in Foro

amm., IV, 1929, osserva che presumere all’interno del silenzio l’esercizio della funzione

riservata agli amministratori, può trovare fondamento nella discrezionalità del potere amministrativo, soltanto qualora questa non sia limitata al mero contenuto del provvedimento. In sostanza, soltanto se gli amministratori detengono un certo grado di discrezionalità nell’emanare o meno i provvedimenti amministrativi, allora è possibile accettare il significato negativo delle ipotesi di silenzio non qualificato in altro modo.

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32

2.2. L’evoluzione del concetto di silenzio come mero

inadempimento del dovere di provvedere della pubblica amministrazione

La prima interpretazione del silenzio amministrativo come strumento in grado di incidere in modo negativo nella sfera giuridica degli interessati, confermata anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato9, si contrappone a quella dottrina che, invece, non ravvisa la capacità di una condotta inerte di produrre effetti giuridici, in assenza di una norma che lo preveda10. Quello che viene evidenziato in verità, è che la mancanza di strumenti normativi in grado di assicurare l’avvenuto svolgimento della funzione amministrativa, anche tramite una finzione cioè imputando al silenzio dell’ente pubblico una volontà di rigettare l’istanza del privato ricorrente, non permette di stabilirne con certezza gli effetti. Il silenzio dunque, veniva ad assumere una nuova connotazione e, abbandonando i precedenti tentativi di ricostruzione della propria portata in termini negativi o positivi, parte della dottrina ne ha ravvisato una possibile lettura in termini di violazione di un dovere sussistente in capo alla pubblica amministrazione. In tal senso, si ricorda l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 3 maggio 1960, n. 8, che ha accolto tale lettura “comportamentale” dell’inattività amministrativa, ai fini di assicurare una maggior certezza ai rapporti giuridici11. Seguendo questa nuova

9

Si veda, Cons. Stato, sez. IV, 22 agosto 1902, n. 429, ovvero la prima pronuncia che segnò l’accettazione delle opinioni dottrinali maggioritarie. Si affermò infatti, che l’omissione amministrativa equivalesse ad un rifiuto espresso.

10

In particolare, U. Borsi, Il silenzio della pubblica amministrazione nei riguardi della

giustizia amministrativa, in Giur. it, 1903, IV, 252 ss., sostiene come la mancanza di una

norma che prescriva di riconoscere all’interno dell’inattività amministrativa, una qualsiasi volontà dell’organo pubblico, crea soltanto una situazione di ambiguità in quanto, non garantisce la certezza di una previa valutazione dell’istanza, da parte degli amministratori stessi.

11

Sul punto, M. Corradino e S. Sticchi Damiani, Il processo amministrativo, Giappichelli, Torino, 2014, ricordano come la pronuncia in questione abbia sancito l’impossibilità di estendere in ambito pubblicistico la modalità di formazione della volontà privata. Pertanto, la precedente qualificazione provvedimentale dell’inerzia veniva abbandonata a favore di una concezione comportamentale omissiva, confermata ulteriormente dalla pronuncia

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