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SOMMARIO
SOMMARIO ... 1
INTRODUZIONE ... 2
BREVI CENNI DI ANATOMIA DELL’ANCA. ... 8
FINALITÀ ED INDICAZIONI ALL’INTERVENTO DI PROTESI D’ANCA. ... 11
BREVI CENNI SULLA NASCITA DELLE PROTESI D’ANCA... 18
PROTESI D’ANCA CEMENTATE ... 20
PROTESI D’ANCA NON CEMENTATE ... 22
INDICAZIONI GENERALI PROTESICHE ... 25
Condizioni locali: ... 26
Intervento chirurgico vero e proprio. ... 27
Decorso Post – Operatorio. ... 29
SOPRAVVIVENZA PROTESICA. ... 30
RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE DEL MEDICO IN AMBITO CIVILE E PENALE. ... 32
Caratteri generali ... 32
PROBLEMATICHE GENERALI E RIFLESSI MEDICO LEGALI CON RIFERIMENTO ALLE PROTESI D’ANCA. ... 47
Responsabilità professionale in ambito ortopedico e contenzioso in tema di chirurgia ortopedica. ... 47
CONCLUSIONI ... 62
INDICE DELLE FIGURE ... 63
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INTRODUZIONE
I procedimenti legali nei confronti dei medici sono aumentati di circa il 150% negli ultimi dieci anni, causando un aumento vertiginoso del contenzioso giudiziario sia in ambito civile che penale per casi di presunta malpractice1.
3 Tale fenomeno ha influito negativamente sulla pratica medica spingendo gli operatori sanitari ad un atteggiamento sempre più difensivo, condizionato dal costante timore di azioni giudiziarie intraprese da parte di pazienti insoddisfatti delle cure ricevute.
La responsabilità professionale riveste, dunque, un ruolo cruciale nello svolgimento dell’attività medica quotidiana.
Le specialità maggiormente coinvolte sia nelle statistiche nazionali che internazionali risultano essere quelle chirurgiche. In particolare l’ortopedia occupa i primi posti tra le discipline maggiormente coinvolte nei contenziosi giudiziari e rappresenta circa il 13% di tutte le cause di responsabilità professionale.
In tale ottica è necessario investire risorse atte ad approfondire e studiare le cause di questo fenomeno, al fine di evidenziare le criticità di un sistema tanto complesso ed elaborare proposte utili a prevenire gli eventi avversi in ambito sanitario. Conoscere gli aspetti peculiari della responsabilità professionale risulta essere indispensabile.
Per entrare nello specifico molto interessante è lo studio effettuato dall’Agenzia Regionale Toscana di Sanità, sulla “Sorveglianza degli interventi di Protesi d’Anca in Toscana … storia di un viaggio … ” a cura di S. Rodella, L. Gnaulati di cui di seguito si riportano i dati più rappresentativi.2
4 Figura 2: Sorveglianza Interventi Protesi D’Anca della Regione Toscana.
5 Figura 4 Risultati Statistici Regionali Toscana Ottenuti Analizzando Le SDO.
6 Figura 6 Elenco Completo con Percentuali di utilizzo delle Protesi d’Anca in Toscana.
In Italia invece vengono effettuati ogni anno circa 80.000 interventi di protesi d’anca, mentre nel mondo si calcolano circa un milione di impianti di protesi primaria dell’anca all’anno, la complessità dei fattori che influenzano i risultati degli interventi in termini clinici non rende facile l’uso di indicatori di esito ed esiste la necessità di mettere a punto una validata metodologia di raccolta dati.
Figura 7 Artroprotesi d’Anca su base Nazionale.
Dalla Figura 7 si apprezza il trend di crescita che può essere spiegato, in ragione del progressivo invecchiamento della popolazione. Possiamo affermare quindi che la protesi d’anca rappresenta uno dei maggiori successi della moderna ortopedia in quanto consente ai pazienti affetti da
7 numerose patologie invalidanti di migliorare la loro qualità di vita ripristinando la funzionalità articolare e abolendo la sintomatologia dolorosa. Grazie al continuo perfezionamento della tecnica chirurgica, delle caratteristiche degli impianti e dell’esperienza degli operatori il numero di interventi è in continuo aumento e tale tendenza è destinata ad evolvere ulteriormente.3
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BREVI CENNI DI ANATOMIA DELL’ANCA.
L'articolazione dell'anca (o coxo-femorale) è una tipica enartrosi che unisce il femore all'osso dell'anca. L'osso dell'anca vi concorre con una cavità articolare quasi emisferica, l’acetabolo,e il femore con la testa femorale che rappresenta circa i 2/3 di una sfera piena di 4 o 5 cm di diametro. Analogamente a quanto accade nell'omologa articolazione scapolo-omerale, le superfici articolari non sono perfettamente corrispondenti. Un cercine glenoideo, il labbro dell'acetabolo, provvede ad ampliare la superficie della cavità e a renderla atta a contenere la testa del femore. A differenza del labbro glenoideo dell'articolazione scapolo-omerale, che non ha altra funzione se non quella di ampliare la corrispondente cavità, il labbro acetabolare ha un'importante ruolo nell'unione tra femore e anca; è quindi un mezzo di contenimento dell'articolazione. Il labbro acetabolare inoltre passa a ponte sull'incisura dell'acetabolo, convertendola in foro. Non tutta la cavità glenoidea prende parte diretta all'articolazione; nel suo centro, infatti, si trova una depressione quadrilatera, la fossa dell'acetabolo, non rivestita di cartilagine articolare, ma di periostio. Da questa fossa si diparte un legamento, a sezione rettangolare, il legamento rotondo del femore,che va a terminare sulla fovea capitis della testa femorale e che, di regola, non supera i 35 mm di lunghezza.I mezzi di unione sono rappresentati dalla capsula articolare cui si appongono tre legamenti di rinforzo, e da un legamento a distanza intra articolare, il legamento rotondo.
9 La capsula articolare è un manicotto fibroso, inserito prossimalmente sul contorno dell'acetabolo e sul labbro acetabolare e distalmente sulla linea intertrocanterica, in avanti, e su una linea posta al limite fra terzo medio e terzo laterale del collo femorale, in dietro. In tal modo, la faccia anteriore del collo anatomico del femore è intracapsulare, mentre la faccia posteriore lo è solo nei 2/3 mediali.
Non dissociabili dalla capsula sono i legamenti di rinforzo longitudinali, ileofemorale, ischiofemorale e pubofemorale. Essi non sono altro che porzioni ispessite della capsula e vengono anche denominati legamenti ileocapsulare, ischiocapsulare e pubocapsulare. Accanto a questi si descrive la zona orbicolare che è un fascio di rinforzo profondo, con fibre ad andamento trasversale. Il legamento ileofemorale ha forma di ventaglio; origina al di sotto della spina iliaca anteriore inferiore, con due fasci che divergono a ventaglio, il fascio obliquo, diretto al margine anteriore del grande trocantere e il fascio verticale,verso la parte più bassa della linea intertrocanterica. Il legamento pubofemorale nasce dal tratto pubico del ciglio dell'acetabolo, dall'eminenza ileo-pettinea e dalla parte laterale del ramo superiore del pube per perdersi nella capsula davanti al piccolo trocantere. Il legamento ischiofemorale è triangolare e dal lato ischiatico del ciglio cotiloideo si porta in fuori, alla fossa trocanterica. La zona orbicolare, ricoperta dai precedenti legamenti, si stacca dal margine dell'acetabolo e dal labbro acetabolare, profondamente all'inserzione del legamento ileo femorale e, passando dietro al collo del femore che abbraccia ad ansa, ritorna a fissarsi al punto d'origine.
Il legamento rotondo del femore si estende dalla fovea capitis, dalla quale discende, allargandosi e restando applicato sulla testa del femore, per raggiungere poi, con due radici, i bordi dell’incisura dell'acetabolo. Piatto
10 e laminare, il legamento rotondo non è teso come lo sono abitualmente i legamenti interossei.
La sinoviale presenta la caratteristica disposizione delle diartrosi. Riveste la superficie interna della capsula e, pervenuta alle sue inserzioni, si riflette con tragitto ricorrente a rivestire le porzioni intracapsulari dei capi ossei fino ai limiti delle cartilagini articolari. Essa forma guaina completa al legamento rotondo.4
Figura 8 Anatomia dell’Anca.
11 Figura 9 Articolazione Coxo – Femorale alla sezione Sagittale.
FINALITÀ ED INDICAZIONI
ALL’INTERVENTO DI PROTESI D’ANCA.
Lo scopo di un’articolazione artificiale è quello di realizzare un sistema che, in accordo con la cinetica fisiologica, consenta di sopportare i carichi, minimizzare l’usura e l’attrito, garantendo la necessaria stabilità e ed evitando l’insorgere di reazioni dannose nell’organismo.Nel progettare, realizzare ed impiantare una protesi d’anca, occorre tenere in considerazione le specifiche anatomiche, funzionali e di biocompatibilità di un tale dispositivo.
Quindi una protesi d’anca deve:
Consentire i gradi di libertà rotazionali permessi dall’articolazione naturale tra femore e bacino;
Resistere alla fatica meccanica derivante dall’applicazione ciclica del carico durante il passo. In genere si ritiene che l’articolazione
12 dell’anca sia sottoposta a circa 10 milioni di cicli di carico in 10 anni da un soggetto che conduce una normale attività;
Avere delle superfici articolari resistenti all’usura o comunque tali per cui l’usura non produca danni funzionali ne induca risposte indesiderate dai tessuti ospiti;
Essere fabbricata con materiali biocompatibili nel senso che non devono indurre alterazioni o reazioni indesiderate dei tessuti ospiti, o devono provocare una risposta biologica che favorisca la stabilità meccanica tra protesi e bacino;
Garantire la stabilità meccanica delle interfaccie sia subito dopo l’impianto (stabilità primaria) sia nel tempo (stabilità secondaria);
Avere un corretto modulo elastico, cioè avere una elasticità simile a quella dell’osso ospite perché una elasticità inferiore tende a creare una microinstabilità, mentre una instabilità maggiore porta all’effetto opposto.
L’obbiettivo è dunque tentare di ricostruire un’articolazione il più vicino possibile dal punto di vista bio - funzionale, all’acetabolo ed al femore anatomico; oggi si ha la possibilità di restituire una funzione articolare “parafisiologica” con una durata nel tempo ancora limitata.5
L’interevento elettivo di protesi d’anca quindi viene praticato principalmente allo scopo di alleviare il dolore, la rigidità, la deformità, la limitazione funzionale causati dalle malattie che colpiscono l’articolazione dell’anca. Sir Charnley, negli anni 70, indicava come soggetto a cui impiantare selettivamente una artroprotesi d’anca il “paziente con età maggiore di 65 anni, sedentario ed affetto da coxartrosi primaria”. Oggi, come già affermato nel 1994 dal Consensus Conference dell’istituto nazionale americano della Sanità, l’indicazione ad una protesi d’anca è rappresentata da “dolore e limitazione funzionale
13 moderati o gravi, associati all’evidenza radiografica di una compromissione articolare, e che non sono stati sostanzialmente modificati da un ciclo completo di trattamenti non chirugici”.
Oramai grazie alla evoluzione della tecnica di revisione, non si guarda al paziente anziano (maggiore di 65 anni) come unico soggetto a cui indicare una protesi d’anca, ma ad una fascia di età molto più larga, visto che lo scopo di questa tecnica chirurgica è quella di migliorare la qualità di vita di ogni paziente di qualsiasi età. L’età del paziente, secondo molti, rimane un parametro fondamentale da valutare nel porre l’indicazione all’impianto di artroprotesi d’anca. Infatti la durata delle protesi risulta tuttora limitata nel tempo per la usura dei materiali.
In letteratura si evidenzia come i dati del registro svedese, riferiti agli impianti eseguiti dal 1987 al 1997, abbiano portato alla luce come la percentuale di revisione a 10 anni nei pazienti con età inferiore ai 55 anni sia nettamente superiore ai soggetti con una età maggiore. Ecco perché si ritiene che una protesi all’anca sia più indicata nei soggetti con una età maggiore di 60 anni, relativamente indicata nei soggetti tra 50 – 60 anni, indicata in casi particolari in pazienti con età inferiore a 50 anni.
Attualmente le patologie che possono richiedere una protesi d’anca si distinguono in:
Patologie con indicazioni elettive:artrosi primaria e secondaria in stato avanzato, artrite reumatoide, asteonecrosi asettica della test del femore, spondilite anchilopoietica, artropatia psoriasica, frattura mediale collo del femorein età superiore ai 60 anni, lesioni tumorali metastatiche.
Patologie con indicazioni relative: artrite reumatoide giovanile, malattia di Paget, tumori ossei primitivi, frattura mediale collo
14 femore in età minore di 60 anni, esiti artriti (tubercolosi ossea, osteomielite), esiti di artrodesi, displasia dell’anca, fratture dell’acetabolo.
Queste cause, sebbene diverse, alterano tutte la struttura morfo funzionale dell’articolazione dell’anca provocando invalidità con dolore, impotenza e zoppia. Queste caratteristiche semeiologiche possono essere ponderate e quantificate tramite sistemi di valutazione a punteggio che uniscono i risultati di una buona anamnesi ad un corretto esame obiettivo del paziente.
Tra queste scale valutative bisogna ricordare: la Womac ( Fig.10 - 11 ), l’Harris hip score, la S – F 36 6
(Fig.12)
15 Figura 11 Finalità della WOMAC
16 Figura 13 Finalità della Hip Score Scale
Alla semeiologia si associa la ricerca radiografica dell’articolazione coxo – femorale, che visualizza e consente di studiare le patologie dell’articolazione, evidenziando eventuali alterazioni morfologiche.
Figura 14: Rxgrafie di un’Anca Priva di Alterazioni Figura 15: Rxgrafie con Alterazioni Patologiche Per approfondire la ricerca diagnostica vengono in aiuto la TC spirale e la RM che riescono a svelare situazioni anatomiche e/o patologiche non ben distinguibili con la radiografia convenzionale.
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BREVI CENNI SULLA NASCITA DELLE
PROTESI D’ANCA.
Ciò che da sempre ha affascinato i chirurghi è stata la possibilità di poter ripristinare la corretta mobilità articolare e la possibilità di eliminare al paziente il dolore, da questa spinta culturale e formativa nascono i primi interventi e tentativi di protesizzazione d’anca. A inizio 900, furono Smith – Petersen (1919) ad interporre una cupola metallica, in cromo – cobalto tra la testa del femore ed il cotile.
Successivamente, fu opera dei fratelli Judet 7 (1943 circa) l’utilizzo di una testa di femore, in polimetilmetacrilato, collegata ad uno stelo infisso nel collo femorale fino alla corticale laterale e successivamente abbandonata per problemi di cedimento della zona di impianto, di usura, persistenza di dolore e limitazione funzionale della testa del femore. A questa protesi ne seguì un’altra, ideata da Austin Moore nel 1943, fu la prima ―endoprotesi‖d’anca a larga diffusione e che prevedeva l’utilizzo di uno stelo endomidollare, di cromo – cobalto, fenestrato per consentire la ricrescita ossea e dotata di un colletto per l’appoggio sul calcar femorale.
Ma la prima sostituzione totale dell’articolazione coxo-femorale si deve a McKee e Ferrar 8 che per primi realizzarono una protesi in cromo – cobalto costituita da una testa di grandi dimensioni (40 mm) collegata ad uno stelo tipo Thompson infisso nel canale midollare ed articolato con un cotile anch’esso in lega di cromo – cobalto.
Ma la diffusione delle protesi d’anca su larga scala si deve a John Charnley 9 con l’introduzione della “Low Friction Arthroplasty” e dell’impiego del cemento acrilico come mezzo di fissazione dello stelo
19 protesico nel canale midollare femorale e della coppa acetabolare al bacino. Tale tipo di protesi è ancora in uso ed è costituita da uno stelo di acciaio inossidabile che viene infisso nel canale midollare femorale opportunamente fissato con del cemento acrilico (PMMA) e di una testa di piccole dimensioni (22 mm). Il cotile dapprima in Teflon, venne poi successivamente sostituito da quello che si rivelò essere il miglior tipo di materiale, ossia il Polietilene ad altissimo peso molecolare (UHMWPE). Negli anni successivi la ricerca si spostò, data la notevole diffusione delle protesi d’anca, sulla fissazione dell’elemento protesico all’osso in virtù del fatto che la maggior parte dei fallimenti protesici erano dovuti alla mobilizzazione del complesso protesi – cemento, a cedimenti meccanici del cemento acrilico e alla formazione di osteolisi, tanto che si inizò a parlare di “Malattia da cemento”.
La fissazione delle componenti, un tempo sempre demandata al cemento acrilico, è oggi più spesso biologica, ovvero affidata alla penetrazione dell'osso nella superficie porosa degli elementi. E' la cosiddetta protesi
non cementata. Questa è la tecnica di elezione nel paziente giovane, in
quanto in caso di successivo intervento per sostituire la protesi vecchia e usurata, la rimozione sarà più agevole e i tessuti saranno meglio rispettati: di conseguenza l’intervento di impianto della nuova protesi sarà più semplice e meno invasivo. Le indicazioni sono determinabili sulla base di quattro parametri chiave: età, sesso, stadio dell’osteoporosi e morfologia del femore. Ad ogni parametro viene attribuito un punteggio e dalla somma dei punti di ogni singolo parametro si ottiene l’indicazione che determina la scelta dell’impianto.
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PROTESI D’ANCA CEMENTATE
Consistono in uno stelo che viene infisso nella parte restante del collo femorale resecato e nel canale midollare; tale stelo nella sua estremità superiore ha una sfera che si articola con il cotile. La sfera ha dimensioni variabili a seconda del tipo di protesi da un massimo di 32 mm ad un minimo di 22 mm. L’asse di inclinazione formato dallo stelo infisso nel canale midollare, asse del collo ed asse della testa varia da 117° a 142° anche se in nella stragrande maggioranza delle protesi questo angolo corrisponde al normale angolo di inclinazione del collo femorale (125° - 128°). Sono composte da 2 parti, una rappresentata da una parte fissa, comprende lo stelo ed il collo e la seconda parte mobile rappresentata dalla testa del femore. La superficie degli steli può essere liscia senza colletto o irregolare, rugosa o rivestita ed avere o meno il colletto. Le differenze tra questi due tipi di protesi corrispondono a linee di pensiero diverse sull’applicazione delle protesi cementate stesse. Infatti la prima linea di pensiero utilizza protesi lisce lucidate a doppio cono, senza depressioni o rilievi perché ritiene che la protesi non debba essere strettamente ancorata al cemento, ma che nel corso degli anni essa debba avere la possibilità di piccoli spostamenti nel senso dell’affondamento ma senza che però vi siano fratture del mantello di cemento in quanto quest’ultimo subisce una deformazione plastica nel tempo.10
La seconda linea di pensiero utilizza invece un tipo di protesi con steli che hanno rilievi o depressioni, spallette, sabbiature, plasma – spray, coating di materiali polimetilmetacrilato in quanto sostengono che l’interfaccia
21 cemento protesi sia l’origine dei primi cedimenti della protesi e che lascierebbe presagire lo scollamento protesico. L’utilizzo di queste protesi favorirebbe una migliore coesione del cemento all’elemento protesico evitando la creazione di falde e riducendone notevolmente lo stress. Ne consegue che anche il disegno di questi elementi protesici è improntato a realizzare il minor stress possibile sul cemento eliminando spigoli vivi, trasmettendo quindi prevalentemente forze di compressione. Per ciò che concerne i materiali usati per la costruzione di queste protesi, ne vengono impiegati diversi, si va dall’acciaio inossidabile, alle leghe di cromo – cobalto a quelle in titanio, anche se per le protesi cementate si utilizzano principalmente quelle in lega cromo – cobalto in quanto hanno un’elasticità maggiore rispetto agli altri tipi di protesi e questo si traduce in un minor stress sul cemento. Per ciò che riguarda i cotili cementati, sono attualmente in uso due tipi, uno in polietilene ad altissimo peso molecolare (UHMWPE) ed uno in metal – backing ed inserto interno in polietilene anche se esistono altri tipi di cotili in ceramica, in ceramica e polietilene non attualmente utilizzati in quanto non hanno superato un sufficiente follow – up. Il cemento utilizzato per fissare questo tipo di protesi è costituito da una resina in Polimetilmetacrilato (PMMA) che viene preparato mescolando la polvere di PMMA (89%) perossido di benzoile (0,75%) e solfato di bario, mentre la componente liquida è costituita per il 97% da monomero. Le tecniche di cementazione attualmente utilizzate si basano generalmente su un riempimento retrogrado dell’osso ed una pressurizzazione del cemento mediante l’uso di tappi per il canale femorale e pressurizza tori che permettono una migliore penetrazione del cemento stesso negli spazi trabecolari, migliorando la fissazione della protesi.
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PROTESI D’ANCA NON CEMENTATE
In questo tipo di protesi la fissazione all’osso dell’elemento protesico avviene attraverso un legame biologico determinato dalla crescita dell’osso stesso intorno all’impianto. Occorre quindi dimensionare ed adattare perfettamente l’elemento protesico all’osso per ottenere una “stabilità primaria” sul quale la successiva crescita ossea, dovuta alla scelta dei materiali e alle caratteristiche della superficie protesica, darà origine alla “stabilità secondaria”. Ne consegue che il disegno di tali protesi è di estrema importanza. Vi sono infatti 3 tipi fondamentali di protesi tra quelle più comunemente usate: “ a steli retti”, “a steli curvi” e “a steli modulari”. Esistono poi degli altri tipi di steli chiamati “custom made” e i così detti steli “isoelastici”. Gli steli retti non presentano curvature sul piano sagittale ma soltanto sul piano frontale con inclinazioni tra asse del collo ed asse dello stelo. Gli steli curvi, detti anche steli anatomici, ricalcano perfettamente la normale curvatura femorale conservando sia l’antiversione che la procurvatura naturale dell’osso, consentendo quindi una migliore fissazione, aderenza e distribuzione dei carichi. Gli steli modulari sono invece costituiti da più componenti, ciascuna presente in numerose misure e che assemblate insieme consentono di ottenere una perfetta corrispondenza all’osso ospite. Quest’ultime vengono quindi utilizzate nei casi di femori dislessici o nei casi in cui la morfologia dell’osso sia notevolmente alterata da processi osteolitici periprotesici.11 Infine vi sono le protesi “custom made” che vengono assemblate secondo la morfologia dell’osso23 ospite e il loro impiego è giustificato in quei casi di grave deformità del femore prossimale. I materiali impiegati in questo tipo di protesi sono gli stessi di quelli utilizzati nelle protesi cementate, rappresentati da leghe in Cromo – Cobalto e leghe in Titanio anche se quelle in Cromo - Cobalto sono quelle maggiormente usate in quanto consentono un migliore trasferimento dei carichi dall’impianto all’osso per via della miglior elasticità che questo tipo di lega possiede. Ciò che differenzia questo tipo di protesi quindi è il rivestimento esterno. Sia infatti la stabilità primaria che la successiva fissazione biologica possono essere ottenute mediante l’utilizzo di “press – fit” e “press – fit” associati a “porous coating” accorgimento quest’ultimo maggiormente utilizzato nelle comuni protesi attualmente in uso. Lo spessore di questi pori varia da un diametro di 100 ad uno massimo di 500 µm. Il rivestimento esterno delle protesi non cementate è costituito di idrossiapatite (HAP) in quanto l’utilizzo di questo materiale dovrebbe accelerare e migliorare l’osteointegrazione, anche se non viene ancora utilizzato in larga scala a causa di alcune problematiche relative al distacco di particelle che migrando creerebbero ulteriori danni all’osso. Per ciò che riguarda i cotili non cementati, attualmente si fa comunemente uso di cotili che possiedono un metal – back, generalmente “porous coated” per fa si che avvenga la stabilità primaria e successivamente quella biologica. Tre sono i principali modelli di cotili attualmente utilizzati. Il primo tipo è rappresentato dai cotili avvitati , emisferici o troncoconici. Il secondo tipo da cotili emisferici con o senza fori per viti e con peg, spikes e lugs. Ed il terzo tipo rappresentato dai cotili a doppia geometria. I primo tipo di cotili attualmente non vengono utilizzati, mentre i cotili emisferici sono quelli oggi più comunemente utilizzati. Il cotile senza rilievi e senza viti va inserito in una cavità fresata di 2 mm di diametro inferiore a quello della
24 coppa che verrà impiantata. Se non può essere garantita una stabilità primaria, a causa delle condizioni anatomiche stesse, si fa ricorso a cotili con appendici e viti in maniera tale da garantire la stabilità primaria. Le viti applicate nel cotile devono essere opportunamente posizionatela dove non vi siano zone a rischio di lesioni vascolari o nervose. In sintesi gli impianti protesici non cementati sono un’ottima soluzione se vengono rispettati i principi fondamentali di una buona stabilità primaria. Infatti vi è la possibilità di raggiungere una buona osteo - integrazione, data la tipologia dei materiali e la conformazione protesica stessa, a patto che gap tra la protesi e l’osso sia inferiore a 0,5 mm affinché si determini una buona crescita ossea. È stato infatti osservato che un gap di 2 mm o maggiore rallenta o addirittura impedisce il così detto bone ingrowth.1213
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INDICAZIONI GENERALI PROTESICHE
L’utilizzo di una protesi cementata rispetto ad una protesi non cementata avviene di norma seguendo alcuni criteri generali che vanno dalla durata della protesi, al sesso, stato generale, precedenti familiari, livello di attività fisica, qualità dell’osso e preferenze del chirurgo. In un paziente anziano, dove l’aspettativa di vita è pressoché in linea con quella protesica, si predilige utilizzare una protesi cementata in quanto essa consente una rapida stabilità, minore perdita di sangue sia durante l’intervento che nel post operatorio consentendo infine un immediato ed eccellente risultato dal punto di vista clinico. Di contro in un paziente giovane 14 si opterà per una protesi non cementata, 15 essendo la vita media di una protesi stimata in 15 anni, esso nel corso degli anni andrà incontro ad intervento di riprotesizzazione. Se infatti non sarà il tipo di protesi a modificare la durata della protesi stessa, vi sono diverse fattori/complicanze in grado di influire negativamente su questo dato come ad esempio l’infezione, lussazione o cedimento, ossificazioni, eterometrie, complicanze tromboemboliche, vascolari generali e lesioni nervoseCosa fare prima dell’intervento di protesi d’anca
.Condizioni generali:
Occorre eliminare con una adeguata dieta l’eventuale eccesso ponderale che è assolutamente controindicato sia per le possibili complicazioni intra
26 e postoperatorie sia per l’accentuato sovraccarico funzionale dell’anca operata.
Si sottolinea che qualora il paziente assuma farmaci anticoaugulanti (aspirina, cardioaspirina, tiklid, coumadin) deve sospenderli 5 giorni prima del ricovero per intervento e sostituirli con eparina a basso peso molecolare da assumere per via iniettiva una volta al giorno.
Condizioni locali:
Può essere utile ―prepararsi‖ all’intervento con un’idonea fisiochinesiterapia. A tale scopo è importante rinforzare i muscoli glutei,
27 quadricipite, addominali e flessori del ginocchio tramite massaggio stimolante, ginnastica (solo se non provoca dolore), contrazioni isometriche, eventuale ciclo di elettroterapia a scopo trofico. Al contrario, se è presente dolore intenso, il paziente deve mettersi a riposo e praticare fisioterapia a scopo antalgico (elettroanalgesia, laserterapia, magnetoterapia) con l’associazione di eventuale terapia farmacologica. Anche la terapia farmacologica va sospesa 5 giorni prima dell’intervento.16
Intervento chirurgico vero e proprio.
Esistono 2 tipi di intervento di sostituzione di protesi d’anca:
La sostituzione totale (artroprotesi), che prevede di intervenire su entrambe le componenti articolari, acetabolare e femorale.
La sostituzione parziale (endoprotesi), che prevede di mantenere l’acetabolo naturale e di sostituire solo la componente femorale sia con uno stelo intramidollare, sia con una testa di grandezza simile alla testa femorale appena sostituita che si articola direttamente con il cotile anatomico.
L’intervento può essere eseguito mediante vie differenti (anteriori, laterali o posteriori), ciascuna caratterizzata da una corrispondente posizione della ferita chirurgica.
28 Figura 18: Es. Principali Vie D’Accesso Figura 19:Es Fasi Iniziali Intervento
Figura 20: Es. di posizionamento della protesi Figura 21Adattamento della protesi
Figura 22: Es. di Protesi Inserita Figura 23:Fasi finali intervento.
Non esiste una via ideale e la scelta dipende prevalentemente dall’esperienza personale dell’operatore. L’intervento inizia con l’incisione della capsula articolare ed esposizione delle componenti ossee acetabolari e femorali. Il collo e la testa vengono asportati in una protesi standard, perché questa sostituirà entrambi.
Lo stelo viene così posizionato all’interno del canale midollare del femore, dopo un’apposita preparazione dello stesso. Analogamente la coppa viene inserita nell’acetabolo dopo la rimozione del rivestimento cartilagineo residuo. In genere nelle protesi non cementate si impianta una coppa leggermente più grande delle sede acetabolare preparata, ottenendo così un “incastro a pressione”(press – fit) che garantisce la stabilità. Se l’osso non è sufficiente resistente, come nell’osteoporosi
29 severa, può essere necessario ricorrere ad alcune viti accessorie. Al termine, i tessuti vengono accuratamente reinseriti al fine di rendere più stabile la protesi con minor rischi di lussazione e possibilità di iniziare a deambulare precocemente dopo l’intervento (già il giorno dopo l’intervento)e abbandonare i bastoni entro 30 giorni dall’intervento stesso.
Decorso Post – Operatorio.
Dopo l’intervento, il paziente rimane ricoverato nel reparto chirurgico per un tempo variabile tra 4 e 8 giorni in funzione dell’età, delle malattie coesistenti, della capacità di seguire il programma riabilitativo. La deambulazione inizia in genere in seconda giornata con l’ausilio delle stampelle per evitare di caricare l’arto operato. Negli impianti cementati è possibile eliminare le stampelle precocemente, non appena siano guariti i tessuti molli (entro 2 settimane), mentre in quelli non cementati è preferibile attendere 4 – 6 settimane per non disturbare il processo di osteointegrazione delle componenti. La riabilitazione precoce dopo protesi d’anca, dovrebbe limitarsi all’insegnamento della deambulazione in appoggio sfiorante e degli esercizi di mantenimento del tono muscolare.
Dopo 6 – 8 settimane, in presenza di un decorso regolare, il paziente può tornare ad una vita normale.
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SOPRAVVIVENZA PROTESICA.
La sopravvivenza delle protesi d’anca a lungo termine dipende in gran parte da due fenomeni, il primo è rappresentato dallo scollamento asettico della protesi stessa ed il secondo dalla formazione di aree di osteolisi periprotesiche. Il distacco di piccole particelle di polietilene, delle dimensioni intorno ad 1 µ, determina infatti una reazione da corpo estraneo 17 con presenza di macrofagi e fibroblasti e con produzione di fattori quali IL – lb , IL – 6, TNF – A, PGE2, che inducono il riassorbimento osseo. Importante quindi alla luce di quanto sopra esposto, effettuare un buon accoppiamento protesico testina – cotile, sia per ciò che riguarda i materiali impiegati, sia per le dimensioni della testa e del cotile e sia per il grado di finitura. I materiali impiegati per la costruzione delle protesi devono sostanzialmente rispondere a due caratteristiche principali, ossia “durezza” e ―adattabilità” ed ad un’altra non meno importante caratteristica principale rappresentata dalla “finitura superficiale”. I materiali attualmente utilizzati sono le leghe di Co – Cr e la ceramica in quanto altri materiali quali il titanio e l’acciaio inossidabile sono insufficientemente duri e vanno incontro nel tempo a fenomeni di usura. Per questo motivo quest’ultimi vengono utilizzati solo per la realizzazione degli steli, mentre le testine sono interamente realizzate in Co – Cr o in ceramica. I diametri di quelle attualmente in uso variano, si parte da 22, 26, 28 per arrivare a 32 mm come diametro massimo. I diametri maggiormente utilizzati sono il 26 – 28 mm in
31 quanto rappresentano il miglior compromesso tra attrito ed usura lineare. Tuttavia il diametro della testina deve essere scelto anche in base alle dimensioni del cotile per evitare l’usura del polietilene, di cui è composto il cotile. I cotili sono infatti composti nella stragrande maggioranza dei casi in polietilene ad altissimo peso molecolare (UHMWPE), lo spessore del materiale di rivestimento non devessere inferiore agli 8 mm in quanto spessori minori vanno incontro ad una rapida usura. Nella scelta degli accoppiamenti protesici, diversi sono stati i tentativi fatti, se da un lato il problema da risolvere era quello della formazione di detriti, dall’altro emergeva un problema di durezza e di fragilità facendo uso di testa e cotile in ceramica, mentre in quello metallo – metallo il problema è rappresentato dai detriti metallici e dagli effetti che gli ioni metallici determinano sull’organismo oltre che la loro cancerogenicità.
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RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE DEL
MEDICO IN AMBITO CIVILE E PENALE.
Caratteri generaliNei nostri codici, non si fa menzione specifica dell’errore o della colpa del medico, che rientrano nelle più generali disposizioni sull’errore e sulla colpa del cittadino e del professionista, ma è la giurisprudenza di legittimità in particolare che traccia le norme di condotta all’interno delle quali l’errore e la colpa possono essere riconosciuti e sanzionati.18
La responsabilità professionale del medico deriva da una errata applicazione delle regole della tecnica medico chirurgica, da cui scaturisca un danno per il paziente. Nella valutazione di eventuali profili di responsabilità professionale si dovrà valutare quindi se la condotta del sanitario (commissiva od omissiva) sia stata corretta, se da essa sia derivato un danno ingiusto al paziente e se sussista un rapporto di causalità tra condotta e danno lamentato. 19 E’ora importante passare ad analizzare i profili di responsabilità attinenti al nesso causale attualmente vigenti, sia in ambito civile che in quello penale.
A tal proposito l’art.40 C.P.(nesso di casualità): “Nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato non è conseguenza della sua azione od omissione. Non impedire un evento che si ha l’obbligo di impedire equivale a cagionarlo”.
L’art. 41 del C.P. relativo (concorso di cause) recita: “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti
33 dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di casualità fra l’azione od omissione dell’evento. Le cause sopravvenute escludono il rapporto di casualità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. In tal caso, se l’azione od omissione precedentemente commessa costituisce di per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita. Le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui”.
Profili di responsabilità medica, si possono configurare sia in ambito civile che penale.
In ambito civile la responsabilità è regolamentata dal Codice Civile secondo cui l’azione è volta esclusivamente al risarcimento del danno (patrimoniale e non patrimoniale) e la colpa si configura in caso di “mancata diligenza”del prestatore d’opera professionale. Non esiste una definizione di colpa in ambito civile per cui ci si rifà a quanto previsto in penale. I riferimenti normativi del codice civile sono i seguenti:
art. 1176 C.C. Diligenza nell’adempimento: “Nell'adempiere l'obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia. Nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata”.
Sul concetto di “diligenza”si è espressa la Cassazione nella sentenza n. 5885/1982 che afferma quanto segue:
―In tema di responsabilità professionale, l'inadempimento […] va valutato alla stregua del dovere di diligenza che in tale materia prescinde dal criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia e si adegua, invece, alla natura dell'attività esercitata. Consegue che
34 l'imperizia professionale presenta un contenuto variabile, da accertare in relazione ad ogni singola fattispecie, rapportando la condotta effettivamente tenuta dal prestatore alla natura e specie dell'incarico professionale ed alle circostanze concrete in cui la prestazione deve svolgersi e valutando detta condotta attraverso l'esame nel suo complesso dell'attività prestata dal professionista‖.
Art. 1218 C.C.: Responsabilità del debitore.
Art. 2229 C.C.: Esercizio delle professioni intellettuali: ―La legge determina le professioni intellettuali per l'esercizio delle quali è necessaria l'iscrizione in appositi albi o elenchi. L'accertamento dei requisiti per l'iscrizione negli albi o negli elenchi, la tenuta dei medesimi e il potere disciplinare sugli iscritti sono demandati alle associazioni professionali sotto la vigilanza dello Stato, salvo che la legge disponga diversamente. Contro il rifiuto dell'iscrizione o la cancellazione dagli albi o elenchi, e contro i provvedimenti disciplinari che importano la perdita o la sospensione del diritto all'esercizio della professione e ammesso ricorso in via giurisdizionale nei modi e nei termini stabiliti dalle leggi speciali”.
Art. 2230 C.C.: Prestazione d'opera intellettuale: ―Il contratto che ha per oggetto una prestazione di opera intellettuale è regolato dalle norme seguenti (att. 202) e, in quanto compatibili con queste e con la natura del rapporto, dalle disposizioni del Capo precedente. Sono salve le disposizioni delle leggi speciali”.
Art. 2236 C.C.: Responsabilità del prestatore d'opera: ―Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave (1176)‖.
35 Art. 2043 C.C.: Risarcimento per fatto illecito. “Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno (Cod. Pen. 185)”.
In ambito civile è importante ricordare che esistono due tipi di rapporto, uno di tipo “contrattuale” regolamentato dall’art.1218 C.C. che recita: ―il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione da causa a lui imputabile” ed uno di natura “extracontrattuale o aquiliana” regolamentato dall’art. 2043 C.C.:“qualunque fatto illecito, doloso o colposo, che abbia cagionato ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
Nel rapporto di tipo contrattuale, i tempi di prescrizione previsti per muovere un eventuale azione risarcitoria sono di 10 anni e l’onere della prova spetta al sanitario che deve dimostrare di non aver violato i doveri di “diligenza, preparazione ed attenzione”, andando quindi a dimostrare la “speciale difficoltà dell’intervento, l’avere eseguito in modo diligente la prestazione professionale e che gli esiti peggiorativi sono da ritenersi imprevisti ed imprevedibili”(sent. Cass. Civile a Sezioni Unite n.13533/2001). Al paziente quindi spetterebbe solo di provare l’esistenza del contratto in essere tra le due parti, l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie. Una sentenza la n.577 del 2008 SS.UU. mette il punto su come al pazienti spetti provare l’esistenza del contratto e di come questo contratto non si sia realizzato rispetto invece a quanto normalmente avviene. Di contro il medico è tenuto a dimostrare che ciò che il paziente afferma è dovuto a cause a lui non imputabili e che pertanto il danno non è a lui attribuibile. Il contratto, medico – paziente, è stipulato anche nel caso in cui il professionista
36 sanitario sia dipendente di una struttura, pubblica o privata, anche in assenza di un rapporto economico negoziale tra le parti, in quanto si instaura un vincolo, derivante dal così detto“contatto sociale”, al momento in cui il paziente affida la propria salute all’operato del professionista che si deve impegnare a fornire la prestazione idonea al miglioramento delle condizioni cliniche del paziente. Sia l’ente ospedaliero che il dipendente rispondono quindi a titolo di responsabilità contrattuale. Si viene quindi ad instaurare un contratto atipico così detto ―di Spedalità‖o di assistenza sanitaria (Cass. Civ. SS. UU. ,n.9556/2002) in cui la struttura sanitaria instaura sempre con il paziente un rapporto di tipo contrattuale, sia in relazione ai propri fatti sia per quanto concerne il comportamento dei propri medici dipendenti regolamentato dall’art. 1228 C.C. secondo cui “ … il debitore che nell’inadempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi, anche se non alle sue dipendenze, risponde anche dei fatti dolosi o colposi dei medesimi”(Cass. Civ. sez. III, 8826/2007).
Si rende necessario a questo punto introdurre il concetto dell’onere della prova. Essendoci diversi orientamenti giurisprudenziali, in ambito civile, alla luce degli ultimi pronunciamenti della Corte di Cassazione, possiamo ritenere che nelle situazioni cliniche definite ―banali‖ o ―routinarie‖ e quindi di “semplice esecuzione” è sufficiente che il paziente dimostri che pur trattandosi di un intervento facile ed ordinario, il suo caso ha avuto esito peggiorativo rispetto a ciò che ci si aspetta comunemente da quel tipo di trattamento. Al medico spetta invece provare, che di aver seguito tutte le regole con diligenza ( art.1176 C.C.) e che quanto lamentato deriva da cause a lui non imputabili ovvero da un “evento imprevisto ed imprevedibile”. Vige quindi il principio, secondo quanto affermato dalla Corte di Cassazione, della “id quod plerumque accidit”, ossia della
37 presunzione che il medico convenuto abbia agito negligentemente solo perché si è verificato il danno. Per gli interventi invece che richiedano la soluzione di problemi tecnici di “speciale difficoltà” il medico è tenuto a spiegare il tipo di intervento che ha messo in atto e quali erano le difficoltà pratiche che ha dovuto affrontare, di contro al paziente (danneggiato) resta da dimostrare quali siano state le modalità di esecuzione ritenute inidonee (sentenze Cass. n. 3957/1974 e 1127/1998). In tale situazione di incertezza in tema di ripartizione dell’onere della prova è infine intervenuta la Cassazione Civile a Sezioni Unite che ha affermato che il paziente deve provare l’esistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie, al sanitario o all’ente invece spetta provare la speciale difficoltà dell’intervento, che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile; in questo caso si è applicato il principio della ―vicinanza della prova‖, inteso come apprezzamento dell’effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla (è più facile per il medico dimostrare la riuscita o meno di un intervento perché si tratta della sua professione). Il meccanismo della ripartizione dell’onere della prova vale sia nel caso in cui il creditore (ovvero il paziente) agisca per l’inadempimento della obbligazione sia per l’inadempimento contrattuale. La ripartizione dell’onere della prova, secondo i principi enunciati dalla sentenza delle SS.UU. sopra indicata è stata poi ribadita in ulteriori sentenze della Corte di Cassazione Civile, anche a Sezioni Unite.
Nella sentenza n.8826/2007 si afferma infatti che sussistendo un “rapporto”di tipo contrattuale tra medico e paziente, quest’ultimo deve provare l’esistenza del contratto e la difformità della prestazione ricevuta
38 rispetto a quanto normalmente si realizza correlata a inesattezza della prestazione ricevuta; il medico invece è tenuto a dimostrare che l’inesattezza è dovuta a causa a lui non imputabile. Parimenti nella sentenza n.577/2008 SS. UU. viene affermato che il medico dovrà dimostrare che il suo comportamento non è stato la causa del danno. Per ciò che concerne la valutazione del grado della colpa, necessaria a concretare la responsabilità del medico, essa ha subito cambiamenti radicali; può essere infatti distinta in:
“ordinaria” o “lieve”, che si configura in caso di inosservanza della diligenza media del buon padre di famiglia o della diligenza richiesta dalla natura della attività professionale;
“grave”, che consiste nella condotta di colui che agisce con straordinaria ed inescusabile imprudenza e che omette di osservare non solo la diligenza del buon padre di famiglia, ma anche quel grado minimo di elementare diligenza che tutti osservano (Cass. Civ. 2260/1970). Altra definizione della colpa grave si ritrova nel decreto legislativo 203/1998, art.2: ―la colpa è grave quando l’imperizia o la negligenza del comportamento sono indiscutibili e non è possibile dubitare ragionevolmente del significato e della portata della norma violata, e di conseguenza, risulta evidente la macroscopica inosservanza di elementari obblighi tributari”. Sino agli anni 60 – 70 il medico veniva punito solo per “errore inescusabile”, cioè solo se commetteva errori grossolani; per tutti gli altri tipi di errori non si procedeva penalmente: si riteneva infatti che la colpa del medico nell’esercizio della sua professione dovesse essere valutata con ―larghezza di vedute‖ (Cass. Pen. 4/2/1972); sulla scia di questo pensiero si riteneva che la colpa penalmente rilevante fosse soltanto
39 quella ―grossolana‖, dipendente cioè da ignoranza dei principi elementari incompatibile con il minimo di cultura e di esperienza che dovrebbe legittimamente pretendersi da chi sia abilitato all’esercizio della professione sanitaria (Cass. Pen. 15/2/1978).
Negli anni 60 – 70 il punto di riferimento giuridico della responsabilità civile del medico divenne l’art.2236 del codice civile, secondo cui ―se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso si dolo o colpa grave”;anche il medico quindi veniva punito per colpa grave. La ratio di questa limitazione di responsabilità consisteva nell’esigenza di contemperamento di due opposti interessi: da un lato, la necessità di non mortificare l’iniziativa del professionista nella risoluzione di casi di particolare difficoltà, esponendolo a continue rappresaglie risarcitorie da parte dei pazienti; dall’altro, non indulgere verso atteggiamenti improntati a leggerezza e negligenza.
Nello stesso periodo il principio dell’art. 2236 C.C. venne esteso anche all’ambito penale a seguito della sentenza n.166/1973 della Corte Costituzionale: ― … Ne consegue che solo la colpa grave e cioè quella derivante da errore inescusabile, dalla ignoranza dei principi elementari attinenti all’esercizio di una determinata attività professionale o propri di una data specializzazione possa nella indicata ipotesi rilevare ai fini della responsabilità penale”.
Successivamente la Corte di Cassazione ha affermato il contrario, ovvero che ―in nessun caso la norma dell’art. 2236 sia estendibile all’ordinamento penale onde determinare un’ipotesi di non punibilità per fatti commessi con colpa media o lieve‖; tale concetto è stato ulteriormente sviluppato nella sentenza della Cass. Pen. del 22/2/1991.
40 La Cassazione Civile, con sentenza della II sez. n. 1544/1981 (e successivamente confermato nelle sentenze n.1282/1991 e 11440/1997), ha comunque sostenuto che il principio dell’art.2236 del C.C. doveva applicarsi anche in caso di responsabilità extracontrattuale in quanto l’enunciato dell’art. si riferisce all’attività professionale in genere, a prescindere dell’esistenza o meno di un contratto.
Successivamente la Suprema Corte ha confermato che si rispondeva di ―colpa grave‖ soltanto in caso di imperizia, mentre per negligenza ed imprudenza si rispondeva di tutti i gradi della colpa (Cass. Civ. 6937/1996 : ―la disposizione di cui all’art. 2236 … non trova applicazione ai danni ricollegabili a negligenza ed imprudenza …”). Ad oggi non è ancora stata fatta chiarezza e permangono orientamenti tra loro contrastanti anche se quello preminente è che il medico – nei casi ― di speciale difficoltà dell’intervento‖ – risponde di colpa grave solo in caso di imperizia, mentre per negligenza ed imprudenza risponde anche per colpa lieve: ―la limitazione della responsabilità professionale del medico ai soli casi di dolo o colpa grave a norma dell’art.2236 C.C. si applica nelle sole ipotesi che presentino problemi tecnici di particolare difficoltà (perché trascendono la preparazione media o perché non sono stati ancora studiati a sufficienza, ovvero dibattuti con riguardo ai metodi da adottare) e, in ogni caso, tale limitazione di responsabilità attiene esclusivamente all’imperizia, non all’imprudenza e alla negligenza, con la conseguenza che risponde anche per colpa lieve il professionista che, nell’esecuzione di un intervento o di una terapia medica provochi un danno per omissione di diligenza ed inadeguata preparazione”(Cass. Civ. n. 5945/2000).
41 Recentemente la Cassazione ha limitato ulteriormente i campi di applicazione dell’art. 2236 C.C. con le sentenze n. 10297/2004,
9471/2004 e la sentenza 5846/2007. 20
Per quanto riguarda l’accertamento del nesso causale, in ambito civile recentemente ci si è discostati dai concetti attualmente seguiti in sede penale, laddove si afferma che – come vedremo più dettagliatamente in seguito – affinchè sussista la responsabilità medica, è necessario che la condotta (omissiva o commissiva) del medico sia stata condizione necessaria dell’evento lesivo, “con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica”.Con la sentenza n. 4400/2004 (e non solo) la giurisprudenza civile ha infatti affermato che, in caso di responsabilità sia di tipo omissivo che commissivo, al criterio della certezza degli effetti della condotta, nella ricerca del nesso di causa, si sostituisce quello probabilità di tali effetti. La stessa sentenza si discosta dall’ambito penale anche in merito alla tipologia di danno,prevedendo, quale figura di danno risarcibile la “perdita di chances di sopravvivenza”, inesistente in sede penale, rappresentata da un pregiudizio patito dal paziente che, a causa di un errore medico, non ha avuto la possibilità di sottoporsi a cure adeguate con innegabile riduzione della possibilità statisticamente definita ―chances‖ di guarigione.
Di fronte alle molteplici e spesso contraddittorie pronunce della Cass. Civile, nel 2005 intervenne una sentenza(n.7997) con cui si è cercato di ―mettere ordine‖ su alcuni concetti fondamentali per l’accertamento della responsabilità professionale del medico, in particolare sul nesso di causalità.
42 ―— il nesso di causalità è elemento strutturale dell'illecito, che corre — su di un piano strettamente oggettivo, e secondo una ricostruzione di tipo sillogistico — tra un comportamento (dell'autore del fatto) astrattamente considerato (e non ancora qualificabile come damnum iniuria datum), e l'evento dannoso;
— nell'individuazione di tale relazione primaria tra condotta ed evento si prescinde in prima istanza da ogni valutazione di prevedibilità, tanto soggettiva quanto « oggettivata », da parte dell'autore del fatto, essendo il concetto di previsione insito nella fattispecie della colpa (elemento qualificativo del momento soggettivo dell'illecito, motivo di analisi collocato in un momento successivo della ricostruzione della fattispecie); — il nesso di causalità materiale tra condotta ed evento è quello per cui ogni comportamento antecedente (prossimo, intermedio, remoto) che abbia generato, o anche soltanto contribuito a generare tale, obbiettiva relazione col fatto, deve considerarsi « causa » dell'evento stesso;
— il nesso di causalità giuridica è quello per cui i fatti sopravvenuti, idonei di per sé soli a determinare l'evento, interrompono il nesso col fatto di tutti gli antecedenti causali precedenti;
— la valutazione del nesso di causalità giuridica, tanto sotto il profilo della dipendenza dell'evento dai suoi antecedenti fattuali, sia sotto quello della individuazione del « novus factus interveniens », si compie secondo criteri: a) di probabilità scientifica, se esaustivi, b) di logica aristotelica, se appare non praticabile o insufficiente il ricorso a leggi scientifiche di copertura, con l'ulteriore precisazione che, nell'illecito omissivo, l'analisi morfologica della fattispecie segue un percorso « speculare », quanto al profilo probabilistico, rispetto a quello commissivo, dovendosi, in altri termini, accertare il collegamento evento — comportamento omissivo in
43 termini di probabilità inversa, per inferire che l'incidenza del comportamento omesso è in relazione non/probabilistica con l'evento stesso (che si sarebbe probabilmente avverato anche se il comportamento fosse stato attuato), a prescindere, ancora una volta, da ogni profilo di colpa intesa nel senso di mancata previsione dell'evento e di inosservanza di precauzioni doverose da parte dell'agente;
— il positivo accertamento del nesso di causalità, che deve fornire oggetto di prova da parte del danneggiato, consente il passaggio, logicamente e cronologicamente conseguente, alla valutazione dell'elemento soggettivo dell'illecito, e cioè della sussistenza o meno della colpa dell'agente (a tacere, ovviamente, del dolo), che, pur in presenza di un nesso causale accertato, ben potrebbe essere esclusa secondi i criteri (storicamente « elastici ») di prevedibilità ed evitabilità del danno‖.
In ambito penalistico la condotta del medico, se da essa sia derivato un danno (lesione personale o exitus del paziente), viene valutata facendo riferimento agli articoli 40, 41, 43, 589 e 590 del Codice Penale.
A tal proposito risulta utile richiamare tali articoli:
―art. 40 C.P.: come sopra‖.
―art. 41 C.P.: come sopra‖.
―art. 43 C.P. (elemento psicologico del reato): “il delitto: è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, e dell’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione; è preterintenzionale, o oltre la intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o
44 più pericoloso più grave di quello voluto dall’agente; è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imperizia o imprudenza, ovvero per inosservanza di leggi regolamenti, ordini o discipline. La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico”.
art.589 C.P.: omicidio colposo ―Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni …”.
Art.590 C.P.:lesioni personali colpose “Chiunque cagioni ad altri per colpa una lesione personale è punito con la reclusione fino a 3 mesi e con la multa fino a € 309 … ”.
In penale quindi si configurano due profili di colpa, la colpa così detta ―generica‖ e la colpa ―specifica‖.
La prima rappresentata da negligenza, imperizia ed imprudenza, la seconda fattispecie è rappresentata da inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Una delle differenze importanti in materia di responsabilità professionale, è rappresentato dall’onere della prova, che in ambito penale, nella fase giudiziale spetta all’accusa, poiché per l’indagato vige la presunzione di non colpevolezza. Anche in merito al nesso di causa, ci sono delle notevoli differenze tra civile e penale, in quest’ultimo la giurisprudenza più volte si è espressa ed in maniera contrastante, specialmente per ciò che riguarda le modalità di accertamento del nesso di causa. Infatti si è passati da un criterio possibilistico ad uno probabilistico (Cass. Penale Sent. 12/5/83), le cui connotazioni sono andate lentamente delineandosi. Con la sentenza della
45 corte di cassazione n°371/91 si afferma: “al criterio della certezza degli effetti della condotta si può sostituire quello della probabilità di tali effetti, anche se limitata nel caso si specie al 30%”, nell’accertamento del nesso di casualità tra la condotta omissiva dell’imputato e l’evento si afferma il criterio delle così dette:“poche probabilità di successo”, per passare poi successivamente con la sentenza delle Sezioni Unite Penali n.30328/02, al criterio del così detto:“alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica”.
In quest’ultima sentenza viene altresì introdotto il ragionamento controfattuale applicabile in caso di condotta omissiva da parte del professionista e che consistente in un procedimento logico con il quale si esprimere un giudizio valutativo sull’operato del sanitario, prendendolo in esame il suo operato e quale sarebbe stato l’esito da attendere se lo stesso si fosse adoperato secondo l’arte medica. In caso di omissione di un atto medico, il sanitario deve essere ritenuto colpevole soltanto dei casi in cui vi sia la certezza o una probabilità molto vicina alla certezza, che qualora fosse stato compiuto quell’atto, il danno al paziente non si sarebbe verificato.
In una importante Sentenza della Cassazione viene affermato quanto segue: “il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza, o di una legge scientifica – universale e/o statistica – si accerti che ipotizzandosi come realizzatasi dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento hic et nunc; questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore e con minore intensità lesiva”.
46 In questa sentenza viene quindi affermato che, in ambito di casualità omissiva, la “conditio sine qua non” affinchè si configuri un profilo di colpa medica è che la condotta omissiva del sanitario sia stata condizione necessaria dell’evento lesivo, “con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica”;in assenza di questo il medico non può essere ritenuto responsabile del danno lamentato dal paziente. Per concludere possiamo affermare che in ambito penale prevalga un atteggiamento ispirato al principio della presunzione di non colpevolezza da parte del medico mentre in quello civile si va via via delineando un approccio decisamente svantaggioso per il professionista. 21
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PROBLEMATICHE GENERALI E RIFLESSI
MEDICO LEGALI CON RIFERIMENTO
ALLE PROTESI D’ANCA.
Responsabilità professionale in ambito ortopedico e
contenzioso in tema di chirurgia ortopedica.
Tra gli aspetti più interessanti e tuttora oggetto di riflessioni, vi è il ruolo della scelta terapeutica (trattamento medico, chirurgico o combinato), la tipologia chirurgica più idonea, la correttezza della sua esecuzione tecnica, l’acquisizione del consenso ed infine il follow – up pre e post – operatorio. Infatti, in caso di richiesta di risarcimento da parte del paziente per un possibile danno subito, al medico – legale spetta esaminare in maniera critica gli aspetti salienti della vicenda, rilevando se vi è stata una condotta erronea cui ascrivere l’evento lesivo o se, altrimenti si è verificata una evenienza “imprevista ed imprevedibile”pertanto estranea all’operato del professionista. Per poter procedere in tal senso il medico – legale dovrà consultare le linee guida internazionali, qualora vi fossero, o riferirsi alla letteratura scientifica di merito, nonché coinvolgere lo specialista, così come previsto anche dal Codice di Deontologia medica all’articolo 62, al fine di verificare se la prestazione fornita dal sanitario sia stata corretta e, in caso contrario, se da essa sia scaturito il danno lamentato. 22
In materia Ortopedica le cause del contenzioso, sebbene similari a quelle di altre specialità mediche, presentano alcune particolarità connesse al rischio insito che ogni intervento chirurgico riserva: un errore valutativo
48 nello scegliere la protesi, nell’applicarla o nel valutare se un soggetto presenta o meno le caratteristiche per essere protesizzato possono avere gravissime ripercussioni sia da un punto di vista funzionale che sulla qualità della vita del soggetto ed in casi estremi possono addirittura portare all’exitus del soggetto stesso.
La protesizzazione dell’anca è un intervento molto frequente, ma trattandosi di un intervento di chirurgia maggiore, come tale comporta dei rischi e delle complicanze. Elenchiamo di seguito le possibili complicanze o anche dette “advers events”analizzandone per ognuna i vari aspetti medico – legali di più frequente riscontro in caso di contenzioso:
I. L’infezione periprotesica è la complicazione più temibile, poiché la superficie metallica dell’impianto costituisce un terreno ideale per la crescita dei batteri al riparo delle difese immunitarie dell’organismo. Secondo recenti statistiche, la frequenza di questo tipo di complicanza si aggira ad oggi mediamente tra lo 0,5-1 % 23 dei casi trattati, questo anche in presenza di un’asepsi ottimale, di una procedura chirurgica corretta e di una profilassi antibiotica adeguata. In passato questo tipo di complicanza era statisticamente molto più elevata essendo compresa tra il 7 – 11% dei casi trattati. 24 25
Il diabete mellito e le condizioni di immunodeficienza comportano un rischio significativamente maggiore. Sebbene la maggior parte delle infezioni si presenti nell’immediato post – operatorio, esiste la possibilità che un’infezione si manifesti anche a distanza di anni. Il verificarsi di tale complicanza passa quasi sempre attraverso una ripresa chirurgica rappresentata da un intervento di pulizia se si interviene precocemente (nelle ultime settimane dall’impianto) ma che può anche consistere in una
49 sostituzione della protesi se l’infezione è cronicizzata ed in via eccezionale anche nell’amputazione. L’infezione quindi rappresenta un frequente motivo di rivalsa nei confronti della struttura e dell’operatore in quanto motivo di insuccesso dell’intervento nell’ottica di una possibile contaminazione in un ambiente chirurgico ospedaliero. Quando parliamo di infezione periprotesica ci riferiamo quindi a quelle infezioni contratte in ambiente ospedaliero e che comprendono varie entità nosologiche e segnatamente sono infezioni insorte nel corso di un ricovero ospedaliero, non manifeste clinicamente nè in incubazione al momento dell’ingresso e che si rendono evidenti o già durante il ricovero o eventualmente in un periodo successivo alla dimissione, ma comunque causalmente riferibili, per tempo di incubazione, agente eziologico e modalità di realizzazione al ricovero medesimo. Le infezioni ospedaliere rappresentano uno dei problemi più rilevanti della medicina moderna sia per la loro frequenza che per le caratteristiche del fenomeno, in quanto, seppur prevenibili con l’adozione di scrupolose e sempre più avanzate misure precauzionali, risultano non eliminabili in modo definitivo, costituendo pertanto un rischio o per meglio dire un’alea tipica indissolubilmente connessa con l’attività sanitaria ed in particolar modo connessa con l’attività chirurgica ortopedica. Numerosi programmi di sorveglianza e controllo del fenomeno nonché protocolli sanitari e linee guida sempre più specifici sono stati emanati da organizzazioni internazionali e governi nazionali, in particolare, a partire dagli anni ’70. I dati emergenti dalla letteratura mondiale dimostrano che è possibile, soprattutto attraverso scrupolose misure precauzionali, prevenire