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Il capitale sociale come principio delle relazioni sociali dentro e oltre i confini associativi. Un'indagine sull'Associazione Italiana Persone Down di Pisa.

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UNIVERSITÀ DI PISA

FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN

SOCIOLOGIA E POLITICHE SOCIALI

Tesi di laurea

Il capitale sociale come principio delle relazioni sociali dentro

e oltre i confini associativi.

Un’indagine sull’Associazione Italiana Persone Down di Pisa

Relatore

Candidata

Prof. Riccardo Guidi

Claudia Longo

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Indice

Introduzione ... 4

PRIMO CAPITOLO: IL CAPITALE SOCIALE ... 8

Definizioni del capitale sociale ... 8

Processo di oggettivazione vs registro del simbolico: una corrispondenza è possibile? ... 12

La fiducia sociale ... 15

La sfiducia come alternativa per sopravvivere ... 19

Mito della trasparenza per esorcizzare il pregiudizio ... 20

La logica dell’onore ... 22

Clientelismo e sfiducia nelle istituzioni: il terreno fertile della mafia ... 24

Il lato oscuro del capitale sociale ... 31

Erosione del capitale sociale ... 32

SECONDO CAPITOLO: LA PARTECIPAZIONE ASSOCIATIVA ... 35

Le associazioni come arene per sviluppare comunità civica e democrazia ... 35

Il riconoscimento: elemento connaturato nelle associazioni tradizionali e predittivo del capitale sociale ... 37

Bridging e Bonding. Quanto apre e quanto serra? ... 40

L’imprevedibilità del capitale sociale ... 44

AIPD di Pisa: l’articolazione interna del nostro caso specifico ... 46

Dalla teoria alle ipotesi di intervento ... 52

La rete degli altri attori sociali ... 57

TERZO CAPITOLO: L’INDAGINE ... 58

Intervista agli operatori, riflessioni sul grado di inclusione verso volontari e famiglie ... 58

Percorsi di inclusione tra iter e parametri. Divario di opinioni al riguardo ... 59

Strumenti promozionali riservati alle attività interne e agli eventi locali ... 69

Quadro complessivo degli strumenti di comunicazione: ... 71

Cena in Bianco Unconventional Dinner: un modo per celebrare la disabilità e la tradizione italiana ... 72

La coesione interna dell’organizzazione... 75

Attaccamento associativo, col rischio di inibire capacità autoreferenziali ... 76

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QUARTO CAPITOLO: PUNTI DI VISTA A CONFRONTO... 86

Letture dei vari aspetti che legano volontari e Associazione Italiana Persone Down di Pisa ... 86

Quando la fiducia in prestito contribuisce alla formazione di capitale sociale ... 87

La correlazione positiva tra età e capacità di autonomia come ammortizzatore dei conflitti ... 89

La comunicazione per sensibilizzare al tema della disabilità e incrementare la partecipazione ... 91

Reazioni diverse: dal rinforzo di un’identità comune all’emarginazione ... 93

Interviste telefoniche alle famiglie ... 96

L’evoluzione dei ruoli: macher e shmoozer ... 97

La tradizione del “passaparola” lunga più di trent’anni vs gli strumenti recenti ... 100

Secondo Report: quando i punti di vista si incontrano ... 103

Restituzione delle osservazioni complessive all’AIPD di Pisa ... 110

CONCLUSIONI ... 114

Riferimenti bibliografici... 118

Sitografia ... 119

Ringraziamenti ... 120

APPENDICE: ... 121

ALLEGATO A: Intervista agli operatori sul grado di Bridging e Bonding ... 121

ALLEGATO B: Intervista ai volontari ... 124

ALLEGATO C: Intervista telefonica alle famiglie ... 124

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Introduzione

Una tradizione di studi mostra come il capitale sociale rappresenti un pilastro per la qualità della vita comunitaria. Alexis De Tocqueville (1982) fu tra i primi ad averne fatto riferimento, il quale, non usando nello specifico il termine capitale sociale, ha sostenuto che l’associazionismo e in genere i circuiti virtuosi, insieme all’impiego della stampa, offrono grandi possibilità ai cittadini. Possibilità che andrebbero ad alimentare inevitabilmente la trama democratica e viceversa.

Nel suo testo classico sulla Democrazia americana sostiene che una comunità civile è contraddistinta da una cittadinanza attiva, dotata di una forte coscienza sociale, da egalitarismo politico e da un tessuto sociale che è frutto di fiducia nel prossimo e di cooperazione (A.D. Tocqueville, 1982).

Alcune delle nostre regioni italiane sono attrezzate di una rete capillare di associazioni e di complessi di norme che richiedono un forte impegno civile, mentre altre hanno la sfortuna di avere una politica verticale, accompagnata da una vita pubblica caratterizzata dalla frammentazione e dall’isolamento e quindi permeata dalla cultura della sfiducia.

In tali contesti, in cui scarsa è la considerazione del prossimo, in cui quindi non vi sono regole condivise, gli associati non si sentiranno tali, e saranno portati a violare le leggi, e quindi un ruolo cruciale sarà rivestito dagli organismi di controllo, utili affinché non si perpetuino ingiustizie.

Tali sistemi rappresentano inevitabilmente un peso sia economico che culturale e molti studiosi sostengono che potrebbero essere evitati se si facesse un uso opportuno della comunità civica o civicness, così come definita da Putman (1993).

La fiducia, in una comunità civica, diviene, da questo punto di vista, un lubrificante che concede di agire all’unisono, più efficacemente e senza violare le libertà del prossimo.

La civicness corrisponde al riconoscimento e al perseguimento fedele del bene pubblico a scapito di obiettivi esclusivamente individuali e privati; inoltre permette di pensare all’interesse personale propriamente inteso, valutato nel contesto di un globale interesse generale. È un interesse illuminato, perché aperto al bene pubblico.

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5 In sintesi, rafforzare rapporti verticali, ma parallelamente alimentare quelli orizzontali, predispone alla cooperazione, al pensarsi tutti uguali, e quindi a lavorare non solo per se stessi, ma anche per l’Altro generalizzato in una logica di reciprocità.

Putman (1993), attraverso i suoi studi, ha avvallato la tesi secondo cui, una società che si consideri di qualità, deve essere dotata di una tradizione di capitale sociale, poiché è questo il fattore illuminante che genera un buon governo. La qualità riguarda il suo funzionamento interno, nonché la realizzazione degli output esterni.

È importante infatti, che il buon governo sappia rispondere adeguatamente alle richieste dei cittadini e nel farlo deve puntare in maniera prioritaria alla partecipazione di questi ultimi. Il capitale sociale crea questa stimolazione continua nel cittadino ad esserci, sia attraverso reti formali (partecipazione a sindacati, organizzazioni religiose, attività di volontariato in associazioni di terzo settore..) sia attraverso reti informali ( partecipare ad attività ludiche, incontri con amici, organizzare cene in casa..) mantenendo così vive delle relazioni che seppur considerate secondarie, molti studi hanno valutato come diventino essenziali nella vita ordinaria degli individui. Ad esempio, come sostengono gli studi di Granovetter (1973:1360-1380), al giorno d’oggi, trovare un’occupazione per conoscenza, che ancora, è importante precisarlo, non vuol dire clientelismo, è un fenomeno presente nei percorsi di vita dei singoli. I legami deboli così vengono rivalutati, perché diventano ponti verso contesti inattesi, rispetto ai legami forti che invece legano ad un’identità ben definita.

Le associazioni sono lo specchio a livello locale di un assetto democratico, garantito centralmente dallo Stato. I membri sono percepiti come uguali tra di loro e alimentano una fiducia interna notevole. Molti studi si sono posti un interrogativo, ovvero se dalla fiducia prodotta dalla partecipazione associativa derivasse quella istituzionale. Da premettere che, come affermato da Sciolla (2003), la fiducia sociale interpersonale ha una natura necessariamente diversa da quella istituzionale, ma entrambe sono legate da una correlazione, infatti secondo l’autrice, la fiducia istituzionale cresce in rapporto diretto alla fiducia interpersonale. All’opposto, Diani (2000) sostiene che tra le due fiducie non esiste necessariamente una connessione. L’assenza di una non implica l’assenza dell’altra ed entrambe possono sovrapporsi su un individuo, o ancora, è possibile ritrovarne solo una. Ciascuno infatti sceglie di aver fiducia nella stretta

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6 cerchia che lo circonda, ma può, anche essere guidato da un certo cinismo, e non avere fiducia nelle istituzioni, e ciò, come afferma Diani (2000), non implica assenza di senso civico, ma anzi potrebbe testimoniare al contrario, troppo civismo.

Infatti coloro che sono impegnati e attivi nella società, sono anche più critici verso quegli attori politici, che dovrebbero rappresentarli e quindi diventano più sensibili alla questione, prendendo anche posizioni avverse e contrastanti.

Altri studi hanno cercato di capire se esistesse o meno una correlazione, tra la fiducia nutrita all’interno del gruppo, quindi dettata da una partecipazione associativa, e quella innescata all’esterno verso la comunità. Diani (2000) afferma che la connessione reale esiste tra la partecipazione associativa e la fiducia interpersonale, la quale tende a generare vitalità non solo all’interno del gruppo associazione, ma anche verso il contesto di appartenenza. Egli parla di capitale sociale trasferibile, intendendo tutti quei legami instaurati e che vengono comunque mantenuti, anche col venir meno del contesto di nascita originario rappresentato dall’associazione.

È un dato di fatto che le istituzioni forgiano la politica e che a loro volta queste sono state plasmate e decise sulla base di un retaggio storico imponente.

Per avere un buon rendimento istituzionale occorre, non solo essere dotati di tutti gli elementi pratici per agire, ma anche e soprattutto godere di una tradizione civica non indifferente.

Putman (1993) ha potuto constatare nel suo lavoro come, a parità di possibilità economiche, si siano comunque riscontrate delle differenze significative all’interno delle regioni italiane, pervenendo quindi alla conclusione che, a fare la differenza, fosse proprio il capitale sociale. Esiste una forte correlazione quindi tra civicness e rendimento delle istituzioni e tra civicness e livello economico, ma non esiste correlazione inversa tra prosperità economica e civicness. Infatti avere maggiori profitti, non incide sul creare maggiore capitale sociale. Allora da dove deriva il capitale sociale? Come possiamo fare in modo che non si perda nel tempo, attraverso processi di modernizzazione a cui il sistema sociale è sottoposto? Le associazioni sono ancora fautrici di capitale sociale? Riescono a innescare circuiti virtuosi e influenzare la cultura di un territorio? Nel primo capitolo mi sono soffermata sulla descrizione delle caratteristiche interne del capitale sociale, partendo da alcune definizioni date da

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7 diversi autori, comparandoli tra loro, così da avere un quadro complessivo dei molteplici aspetti che lo compongono. Inoltre ho raccontato di come le “esternalità” positive siano capaci di generare la fiducia, e casi in cui le stesse logiche vengono usate per fini antisociali, erodendo il capitale sociale, tipicamente inteso, per creare una tradizione culturale completamente opposta.

Nel secondo capitolo quindi, il focus si è spostato sulla partecipazione associativa, su come ogni associazione in maniera spontanea si dia dei confini, identificabili attraverso la capacità di “serrare”, Bonding e la capacità di “aprirsi”, Bridging, così come denominati da Putman (1993), passando poi per descrivere il mio oggetto di studio e in ultimo definire la metodologia, che questa ricerca intende adottare. Essa vuole valutare l’apertura e la chiusura dell’associazione AIPD di Pisa sul territorio locale, al fine pervenire a dei risultati coerenti sulla capacità di generare circuiti virtuosi nel contesto di appartenenza.

Il terzo e il quarto capitolo sono dedicati alla ricerca e all’analisi dei dati a cui si è pervenuti, traendone le dovute conclusioni.

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PRIMO CAPITOLO: IL CAPITALE SOCIALE

Definizioni del capitale sociale

Nel tempo si sono susseguite varie definizioni su questo concetto. In questa sede andremo ad analizzare le differenze per i diversi autori e soprattutto i punti in comune. Secondo il professore Cartocci, il capitale sociale si riferisce ad

Aspetti della vita associata che non sono riconducibili direttamente alla sfera politico-istituzionale, ma che hanno precisi riflessi sugli assetti politici e sulla legittimità delle istituzioni in un ambito locale o nazionale (2000: 1).

E ancora

Il capitale sociale […] per designare un particolare tipo di risorse immateriali cui gli individui possono accedere mediante la loro rete di rapporti, utilizzandoli in vista dei loro progetti di azione (Ibid.).

Come evidenziato, il capitale sociale nasce dall’associazione di individui, ed è inteso sia a livello formale, che informale. È una componente culturale che riesce a coinvolgere i diversi sistemi sociali a livello locale, ma se di grandi intensità, anche a livello nazionale.

Pensiamo ad esempio ai grandi movimenti sociali che hanno spinto migliaia di individui ad unirsi e mettere in campo azioni di protesta. Tali movimenti hanno creato legami sociali e di solidarietà duraturi, generando identità collettive condivise dai partecipanti e talvolta divenendo patrimonio ereditato dalle generazioni successive, ancorando così gli individui a una cultura partecipativa, che contribuisce ad ampliare i temi di interesse sociale. Inoltre i traguardi raggiunti dai movimenti sociali, che siano a livello locale o addirittura nazionale, arrecano benefici non solo a chi vi ha preso parte, ma alla comunità tutta, presente e futura. Questa rappresenta la stessa conseguenza del capitale sociale quando agito da un aggregato. I benefici si estendono sempre ad oltranza e non colpiscono solo gli interessati. Questo aspetto ci dice che esiste una forte correlazione tra movimento sociale e capitale sociale; infatti la prima incorpora e produce la seconda, radicando sul territorio un assetto civico tramandabile alla pari di una tradizione.

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9 Putman definisce il capitale sociale così:

intendo quelle caratteristiche della vita sociale -reti, norme e fiducia˗ che mettono in grado i partecipanti di agire più efficacemente nel perseguimento di obiettivi condivisi (1996:34).

Per l’autore il nostro oggetto di interesse è privo di un contenuto morale specifico. Il capitale sociale racchiude valori, ma possono essere di natura diversa (religiosi, inerenti all’ambientalismo e quant’altro) valori che non solo diano senso all’agire dell’aggregato collettivo, ma che facciano riferimento ad un registro diverso da quello che usiamo quotidianamente nel nostro processo di oggettivizzazione della realtà, ovvero il registro del simbolico, che avrò cura di approfondire tra poco.

Gli individui sulla scorta di questo potenziamento dettato dal capitale sociale, si prefigurano scopi che non sarebbero in qualunque altro modo raggiungibili.

Come Putman (1996), Coleman concorda su questo punto. «Il capitale sociale è produttivo rendendo possibile la realizzazione di certi finiche non si potrebbero ottenere in sua assenza.» (1990:390). Entrambi sostengono quindi, che una caratteristica del capitale sociale è il suo collocarsi non all’interno del singolo individuo, ma nella interazione sociale fatta di almeno due o tre persone (Ibid.) e che la coesione che ne deriva diventa produttiva per il raggiungimento degli scopi.

Il capitale sociale trascende gli individui e designa una struttura in cui gli stessi si muovono attraverso logiche di reciprocità, solidarietà e fiducia.

Questa struttura è alternativa a quella che si imposterebbe in assenza di capitale sociale, ovvero quella di cui oggi si ha timore di incorrere. Una struttura sostenuta da civicness, è una struttura che dona qualità, perché offre un ventaglio di funzionalità significative a cui ciascuno può far riferimento, senza l’infiltrazione di agenti esterni. La società quindi si predispone in forme articolate e intrinseche di regolamentazione interna che gli permettono di migliorarsi con facilità.

A

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10 In questa rappresentazione ad esempio A, B, C rappresentano gli individui portatori del loro capitale umano, ovvero l’insieme di tutte quelle qualità intrinseche e particolari, che si rifanno anche ad abilità e competenze peculiari; invece il capitale sociale si collocherà nell’interscambio che esiste tra ogni punto. Una terza forma di capitale è quello materiale che permette l’utilizzo pratico di alcuni strumenti utili al raggiungimento degli scopi.

Il capitale sociale per Coleman (1990) è formato dagli altri tipi di capitale e quindi si inserisce in un livello di astrazione più alto.

Il capitale sociale secondo Bourdieu, rinvia a un quadro del tutto diverso di fenomeni. Egli afferma che

Il capitale sociale equivale al possedere una rete durevole di relazioni più o meno istituzionalizzate d’intercorrenza e d’inter-riconoscimento, o in altri termini all’appartenenza a un gruppo […]. Il volume di capitale sociale posseduto da un particolare agente dipende dunque dall’ampiezza della rete di legami che egli può efficacemente mobilitare e dal volume di capitale (economico, culturale e simbolico) detenuto da ciascuno di coloro cui egli è legato (1980:2).

La differenza sostanziale di questo autore con gli altri citati in precedenza, verte soprattutto nella seconda parte della nostra definizione. Egli ammette che il capitale sociale è posseduto da ogni singolo individuo e si riferisce non solo al legame diretto con l’altro, che conosce e in cui si riconosce, ma ad essere posseduta è anche tutta la rete di appartenenza di quest’ultimo, contemplando quindi legami anche in forma indiretta.

A (a,b,c,d..)

B (l,m,n,o..) C (f,g,h,i..)

Nel grafico sopra esposto, ripropongo gli stessi individui, ma in più ad essere contemplati sono tutti gli altri legami che appartengono ai singoli interlocutori.

A non è, adesso, solo legato a B e C, ma anche a tutta la rete in cui entrambi si ritrovano collocati.

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11 Il capitale sociale quindi non è una proprietà dell’azione interindividuale, ma nasce da tutta la rete a cui ciascuno appartiene. In questo caso, A può vantare una rete che includa non solo gli attori diretti, ma anche (l,m,n,o..) e ancora (f,g,h,i..).

Ogni individuo quindi è titolare di uno stock di capitale sociale; esso sarà tanto più ricco di capitale sociale quanto più gli altri individui, cui egli è connesso, sono ricchi di altre forme di capitale come il capitale economico, culturale e simbolico (Bourdieu,1980).

L’autore definisce il capitale sociale, come una risorsa del singolo, utilizzabile per i suoi interessi privati.

È evidente che esistono notevoli differenze col capitale sociale inteso in precedenza dagli altri autori. Putman (1993) e Coleman (1990) ad esempio lo indicano come proprietà di un collettivo, mentre Bourdieu (1980) lo intende come proprietà del singolo.

E ancora, Putman (1993) pensa che una dimensione valoriale, seppur a-specifica, faccia sempre parte del capitale sociale e si insedia in un contesto comunitario, statico, mentre per Bourdieu (1980) la rete dei legami è intesa in senso utilitaristico per fini privati e ciò che smuove tali cambiamenti non solo non ha niente a che vedere con i valori, ma può anche abbracciare obiettivi completamente discordanti, come il successo economico. Una tale prospettiva aderisce ad un contesto concepito come in continuo mutamento, in cui network sociali di relazioni agiscono continuamente.

Il capitale sociale quindi può avere due accezioni differenti:

- una in scienza politica, in cui assume il ruolo di dotazione di risorse di un collettivo;

- una in sociologia, in cui diviene dotazione di risorse individuali.

È possibile che le due accezioni si sovrappongano? Hirshman afferma che amore e spirito civico non sono assimilabili a valori economici (1983: 94). Il fine utilitaristico non aderisce a quella dimensione valoriale che, come sosteneva Sciolla (2003), è intrinseco nel capitale sociale.

Il taglio individualistico quindi non si confà pienamente al capitale sociale inteso come agito di un collettivo, poiché questo collega gli uni agli altri da un rapporto di

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12 reciprocità e fiducia, elementi che impegnano un sistema interattivo a-simmetrico, al contrario dei rapporti economico-contrattuali che sono caratterizzati da simmetria. La fiducia infatti segue una logica simile a quella del dono. Il dono è sempre un fattore predittivo di legami sociali, ma i legami che ne derivano non sono obbligatori. È la libertà che caratterizza l’azione, sia di chi dà, che di chi riceve.

In una logica asimmetrica, il donatore dà gratuitamente senza pretesa di un contro-dono; il donatario riceve liberamente il dono e può decidere di contraccambiarlo o meno. La fiducia segue una logica molto simile; quando si decide di fidarsi di qualcuno, non si può pretendere che questa venga ripagata e la persona che la riceve si senta obbligata a dimostrarsene degna. Non è possibile nemmeno pensare di meritarsi di essere contraccambiati, in quanto sia la fiducia che l’amore, non vengono concesse per merito, salvo quando si parla di amore condizionato (Marzano, 2012: 202).

Fiducia e reciprocità impongono una valutazione differente che si rispecchia nei comportamenti umani, che vengono, in definitiva, orientati da un registro totalmente diverso dal solito.

Processo di oggettivazione vs registro del simbolico: una corrispondenza è possibile?

L’individuo free rider è colui che sceglie di agire valutando costantemente costi-benefici che da ogni azione gli possono derivare. In molti casi, potrebbe scegliere quindi di astenersi, puntando sul fatto che saranno gli altri ad attivarsi per lui e quindi riuscirà a trarne vantaggio in ogni caso.

L’attore sociale pensa e si comporta razionalmente in vista di un’utilità. Molti studi testimoniano come l’uomo tenda ad agire sia per razionalità, ma soprattutto perché guidato dall’emotività. Pensiamo alla paura o alla felicità o al senso del sacrifico. La razionalità è quella intrinseca nel processo di oggettivazione, usato per rendere riconoscibile la realtà che ci circonda e riuscire così a costituire quello che è il nostro patrimonio concettuale. Il processo di oggettivazione conferisce senso alla società creando il giusto distacco tra l’uomo e gli altri. È un processo di polarizzazione che, invece, è completamente escluso quando si usa il registro del simbolico.

Tullio-Altan (1992) dichiara che l’esperienza simbolica si espleta attraverso tre passaggi:

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13 - Destorificazione: quando un elemento della realtà viene trasferito in una

dimensione a-temporale;

- Trasfigurazione simbolica: fase in cui all’elemento destorificato si affibbia un significato mitico esemplare;

- Identificazione: il soggetto identifica quell’elemento con l’immagine mitica scelta.

I tre passaggi consentono alla persona di non perdere il contatto con l’elemento che ha di fronte, che sia il prossimo generalizzato, o un oggetto qualsiasi. La perdita dell’aspetto temporale, ovvero la sua destorificazione, non permette di creare la distanza che solitamente intercorre quando nel processo di oggettivazione si fa pieno uso della razionalità.

Questo oggetto destorificato, quindi ancora vicino alla persona, viene per di più caricato di significato, valore anch’esso, che non ha tempo. Questa immagine mitica attecchisce sull’individuo mantenendosi viva a lungo, in proporzione diretta alla credenza che gli conferisce il suo autore.

L’esperienza simbolica si pone infatti al di fuori di ogni strumentalità e non permette di porre oggetti o persone in un’ottica utilitaristica, quindi l’individuo non li identifica come mezzi per arrivare ai propri scopi.

Sono sicuramente due forme di fare esperienza, ma in antitesi tra di loro; infatti se il concetto si pone al servizio della ragione e dell’occasione strumentale, il simbolo nutre l’immaginario, divenendo esso stesso valore, un dover essere (Cartocci, 2000).

È evidente, sulla base dei ragionamenti esposti, che una sovrapposizione tra le due accezioni diventa alquanto difficoltosa.

Cosa succede se al contrario si presenta tale concomitanza? Col rischio di creare ancora più confusione, pensiamo all’assunto del Dilemma del Prigioniero. A. Smith (1776), esponente promotore del self-interest, in quanto filosofo morale, spiega come l’amore per se stesso rappresenti la chiave dello sviluppo economico: la scoperta dei vantaggi della cooperazione e dell’interesse verso l’altro, sono intrinseci nel processo di utilità.

L’interesse generale non è che il risultato della somma degli interessi particolari e che di conseguenza, l’uomo lasciato libero farà buone scelte (1995:584).

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14 In sintesi, quando provvede per se stesso, implicitamente provvede anche per gli altri, divulgando nel complesso il benessere collettivo.

La massima utilità viene raggiunta attraverso lo scambio, che diventa possibile solo quando la società rappresenterà una solidarietà organica, come quella proposta da Durkheim (1893) nella sua opera La divisione del lavoro sociale, in cui la società non si fonda più sull’uguaglianza, ma sulla differenza del lavoro e dei talenti. In questa prospettiva nessuno è autosufficiente e può lavorare per il proprio love-self in maniera autoreferenziale, ma piuttosto si crea un legame di interdipendenza che unisce soprattutto nell’attività dello scambio.

Lo scambio è il vero motore della ricchezza, quindi la cooperazione con l’altro acquista il suo valore utilitaristico, e l’altro generalizzato riveste un ruolo di mezzo per il raggiungimento della felicità individuale. Esiste quindi una confusione tra fiducia e interesse. Secondo A. Smith (1995), l’interesse personale serve per creare benessere collettivo e instillare circuiti virtuosi sociali.

Il dilemma del prigioniero, accennato in precedenza, stravolge questo assetto teorico. Se due uomini vengono accusati di un reato, ma non si dispone di prove per arrestarli, si sceglie di farli confessare condizionandoli in tre maniere diverse:

- Se uno dei due denuncia e l’altro non lo fa, il primo verrà liberato e l’altro condannato a dieci anni di carcere;

- Nel caso in cui entrambi decidessero di denunciarsi a vicenda, verrebbero condannati a cinque anni di carcere;

- Nel caso in cui i due scegliessero di astenersi dal denunciarsi, verrebbero condannati a un anno di carcere.

La scelta razionale compiuta da un singolo, che fa solo il proprio interesse, dovrebbe consistere nel confessare senza confidare nel complice, e quindi rischiare di prendersi almeno cinque anni, ma la scelta ottimale, paradossalmente, coincide con la scelta più irrazionale, che implica affidarsi all’altro e cooperare.

È un paradosso simbolico, che indica come la cooperazione in molte circostanze sia più fruttuosa dell’agire egoistico e non ultimo, racchiude il significato intrinseco di capitale sociale. Il sentimento di fiducia è una scommessa senza garanzia, quindi un ostacolo alla valutazione tipica del free rider dei costi- benefici, ma allo stesso tempo, perseguire

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15 il proprio interesse senza cooperare, fa vacillare la fiducia reciproca e origina un clima di diffidenza diffusa e di sospetto. Le due accezioni, ancora, tornano ad essere incompatibili.

Come afferma Fukuyama (1996),

ogni manifestazione di fiducia da parte dei singoli concorre ad alimentare la dotazione complessiva di fiducia come bene pubblico (Cartocci, 2000: 444).

Ovvero la cosiddetta fiducia sociale. È mediante quest’ultima che si riesce a condividere

un assetto normativo che rende disponibili a subordinare gli interessi individuali a quelli collettivi. Condizione irrealistica nell’ottica di un attore inteso esclusivamente a massimizzare i benefici individuali, ma che diventano un esito certo quando i singoli conferiscono un senso a se stessi in quanto parte di una comunità (Ibid.).

La fiducia sociale

La fiducia sociale è la caratteristica fondamentale del capitale sociale, che come detto diviene lubrificante tra le varie parti del sistema comunitario. Infatti attraverso questo connotato, l’organizzazione sociale migliora la sua efficienza e diviene più semplice trovare comuni accordi senza l’intromissione della legge, o circuiti terzi.

Il senso di fiducia nasce dalle norme che regolano la reciprocità e dalle reti di impegno civico, incrementate dall’associazionismo diffuso (Putman,1993) oltre ad essere frutto di caratteristiche psicologiche individuali, infatti generalmente

chi si sente meno degno di fiducia, si fida anche meno degli altri. La fiducia sociale può infatti creare spirali viziose (o circoli virtuosi), poiché la mia aspettativa di affidabilità degli altri influenza la mia affidabilità che, a sua volta, influenza il comportamento degli altri(Putman, 2000: 171).

Le norme che regolano la reciprocità, nascono come conseguenza inintenzionale di altri processi sviluppati in vista di diversi scopi. Il capitale sociale si annida tra gli individui, assumendo diverse forme, il tutto sempre contraddistinto da un binomio di fiducia e cooperazione (Embeddedness).

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16 In questo modo, diventa parte integrante della vita quotidiana (Ferialità), confermando continuamente una identità collettiva, incrementandola, perché come sostiene Hirshman (1984) la maggior parte dei capitali sociali, come la fiducia, sono risorse morali, ovvero risorse la cui fornitura, aumenta con l’uso, invece di diminuire, e si esauriscono se non sono usate. Lo stesso ribadiremo per l’associazionismo.

Le norme interne conferiscono il diritto di controllare l’agire degli altri, producendo delle sanzioni nel caso in cui la reazione prodotta le trasgredisca. Le regole della buona convivenza, ad esempio, sono dettate dal senso civico assunto, grazie a tutti gli agenti socializzanti che vanno dal nucleo primario, ovvero la famiglia, a quelli secondari, come le istituzioni scolastiche o le associazioni di varia natura in cui l’individuo entra in diverse fasi della sua vita (associazioni sportive, religiose, di lettura... ).

Tali regole permettono di adeguarci al contesto di vita, pena l’ostracismo da parte degli altri che in questo modo si sentono più sicuri.

La loro esclusione o marginalizzazione si presume serva a cancellare le paure collettive e salvaguardare il legame sociale (Marzano, 2012:70).

La reciprocità è possibile intenderla in due modi differenti. Può essere bilanciata o specifica e implica lo scambio simultaneo di favori o articoli di valore, quindi in un arco di tempo immediato, oppure generalizzata e diffusa; quest’ultimo tipo assume una rilevanza interessante.

Si riferisce a favori interscambiati in momenti differenti; ciò proietta aspettative nei confronti del prossimo, che per non venir meno al gesto di altruismo ricevuto, ricambierà in un secondo momento, così che non si crei un assetto deficitario tra i protagonisti. Cicerone (2013) assume questo concetto alla base dei rapporti reciproci di amicizia.

Niente è più dolce dell’affetto corrisposto, dello scambio di cortesie e favori (2013: 71).

Pur non essendo ancora stato concepito il concetto di capitale sociale, nella terminologia del suo tempo, anche Cicerone getta le basi di una nozione che indica come la virtus, da lui pensata, sia la qualità degli uomini onesti e perbene che con essa garantiscano il mantenimento dell’ordine sociale.

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17 La fiducia sociale viene comunemente distinta in fiducia interpersonale e fiducia istituzionale.

La prima può essere focalizzata su particolari esperienze, su attori sociali specifici, o su reti ristrette o generalizzata verso l’insieme dei concittadini, quindi la comunità e le istituzioni (Sciolla,2003). La fiducia interpersonale quindi nel complesso,

1. quando è ristretta, coinvolge familiari, conviventi e parenti, 2. quando è di rete, si riferisce ad amici e vicini,

3. quando è estesa, si intende diffusa verso tutta la struttura sociale nel suo complesso (fiducia istituzionale o sistemica).

La fiducia istituzionale è quella concessa alle istituzioni ed è più a rischio, poiché il singolo, come spiegherò tra poco, nutre sfiducia, nel momento in cui le istituzioni accumulano poca credibilità e non si dimostrano essere rappresentative dei principi democratici dettati dalla civicness (Ibid.).

I legami che si instaurano all’interno dei diversi aggregati, che si tratti di gruppi formali o informali, si dividono in legami forti e legami deboli. I primi vengono acquisiti o ereditati e solitamente, le sanzioni sono minime, perché massima è la conformità alle aspettative. La socializzazione del senso civico è alta, generando così circuiti di capitale sociale ben integrati e saldi. Sono di questo tipo i legami con i familiari, amici, conviventi e tutti quelli che potenzialmente potrebbero rientravi, come colleghi di lavoro, vicinato, e membri della chiesa. Altro genere di legame è quello debole, rappresentato da conoscenze casuali e occasionali, che rappresentano secondo la filosofa Sciolla (2003), ponti verso il nuovo: da inedite circostanze di lavoro, all’introduzione di aggregati ancora non conosciuti dal singolo. Quest’ultime costituiscono le situazioni ottimali per creare e rinvigorire il capitale sociale.

Le reti di impegno civico, che possono essere o meno formalizzate attraverso l’associazionismo diffuso, inseriscono la fiducia e la reciprocità in contesti ampi (Putman,1993) qualificando il capitale sociale da un’indeterminatezza etica e ampiezza della comunità (Cartocci, 2000).

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18 In contesti più grandi, in cui è difficile creare fiducia, si alimentano reti forti di confianza, reti in cui la fiducia è in prestito, ovvero quei circuiti in cui i soggetti diventano garanti dell’affidabilità dell’altro, perché si conoscono personalmente, applicando un meccanismo che complessivamente rafforza la solidarietà tra i membri (Putman, 1993).

Le reti possono essere orizzontali, in cui vi è parità di ruolo, o verticali se contraddistinte da una gerarchia interna, da rapporti asimmetrici e di dipendenza. Le reti di impegno civico hanno il merito di accrescere la potenziale sanzione che il trasgressore deve pagare in caso di defezione, di incrementare l’interazione e l’interconnessione interindividuale, rendendo più salde le norme, e tendono a normalizzare comportamenti accettabili da tutti e a trasmettere reciproche aspettative. Ancora, migliorano il flusso delle informazioni riguardanti l’affidabilità di una persona, rendendo più facilmente conoscibile la reputazione individuale.

In ultimo, ma non meno importante, mettono in campo pratiche che hanno una forte assonanza valoriale e che entreranno a far parte integrante di una piattaforma culturale, rappresentando a lungo termine una tradizione civica a cui la comunità si rifarà anche nel futuro.

È la stessa tradizione di cui Putman (1993) denuncia la mancanza nella sua opera sulle regioni italiane, nelle zone del sud. Infatti nelle regioni meridionali, caratterizzate da assetto politico autocratico, il potere non veniva confluito in associazioni rappresentative come invece accadeva nel centro-nord in cui le gilde erano corporazioni volte ad assicurare l’assistenza reciproca e centro di condivisione di altre finalità sociali. In queste regioni vi erano aggregati riconosciuti come le confraternite, l’università e il potere confluiva nei comuni, che nacquero come associazioni volontarie con l’obiettivo di difendersi a vicenda e di cooperare dal punto di vista economico. Agivano in difesa dei membri e nel loro interesse.

Nel sud, al contrario, era il sovrano ad adempiere al potere e quindi il sistema gerarchico ha ostacolato la nascita di gruppi che compartecipassero alla formazione di reti orizzontali invece che verticali.

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19 Inoltre le reti gerarchiche contribuiscono al clientelismo, che non è altro che un’amicizia sbilanciata, contravvenendo al rapporto di fiducia inteso precedentemente da Cicerone.

Ad esempio, in un assetto societario o lavorativo rigido gerarchicamente, i clienti o i dipendenti di lavoro si relazionano principalmente col datore di lavoro o col referente più alto in grado, e difficilmente sono spinti a una collaborazione tra loro stessi, non creando così una reciprocità interna generalizzata.

Le organizzazioni strutturate in maniera gerarchica incidono sulla conformazione dello Stato, rendendolo forte a livello strutturato, ma debole rispetto al rendimento interno generale (Putman, 1993:207) e poco aperto al miglioramento delle sue potenziali capacità. Se consideriamo che le sanzioni difficilmente possono essere imposte dal basso verso l’alto, le reti sociali verticali raramente possono stimolare relazioni fiduciarie, ragion per cui troppe reti verticali incidono sulla diffusione della sfiducia e ostacolano il formarsi del capitale sociale.

La sfiducia come alternativa per sopravvivere

In una società in cui reti verticali, clientelismo e rapporti asimmetrici dettano le linee guida a discapito di una società regolata dalla fiducia sociale, chiunque, per non essere tagliato fuori, aderisce, anche solo perché obbligato dalla necessità.

Quali sono le dinamiche interne di una società caratterizzata dalla sfiducia?

A orientare il legame con il prossimo è il sentimento della paura; chi si discosta dagli obblighi comunitari, viene visto come un male morale e quindi un pericolo per la società che sente di non essere più sicura. La diversità, in questo senso, scappa al controllo sociale e genera sentimenti di ansia, e preoccupazione. L’allontanamento è il metodo che, già nel medioevo fino a tempi più recenti, alla legge Basaglia (180/1978) sulle strutture manicomiali, si preferiva usare per preservare il buono, e non destinare cure a ciò che veniva concepito come cattivo, perché immeritevole di attenzione.

La diversità consiste in tutto ciò che impone novità e cambiamento e si discosta dalle strade già tracciate e facilmente diviene fonte di sentimenti di sospetto. Di fronte al dubbio che l’altro non sia degno di fiducia, si invocano regole rigide contribuendo alla formazione di un risultato paradossale. Infatti, più queste vengono applicate, più si

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20 alimenta la diffidenza e all’aumento della paura si tenta di irrigidire ulteriormente le regole sociali, concorrendo alla costituzione di un circolo vizioso della sfiducia (Marzano, 2012). I nuovi criteri inseriti dovranno sempre rispondere all’esigenza dell’individuo di sentirsi collocato in un gruppo in cui è capace di riconoscersi e riconoscere gli altri, in cui quindi le differenze si assottigliano.

Il diverso, infatti parla al nostro lato oscuro, quella parte che in generale siamo più reticenti ad accettare. Escludere il diverso, vuol dire escludere questo lato oscuro e ciò permette alla fiducia di tornare. A forza di braccare si finisce per nutrire sospetto verso chiunque, inclusi se stessi. Paura e sospetto minacciano il legame sociale, impedendo la relazione con legami deboli, e quindi ostacolano l’apertura al nuovo.

Mito della trasparenza per esorcizzare il pregiudizio

Mediante l’uso del principio di trasparenza, si cerca di esorcizzare il pregiudizio, la diffidenza, nonché il sospetto, soprattutto quando si fa riferimento alla cosa pubblica. Lo Stato, come gli enti locali, nella gestione dell’amministrazione interna, hanno il dovere di render conto delle scelte che compiono, ai cittadini, che rappresentano i veri detentori della cosa pubblica.

Ogni scelta deve essere giustificata, e mediante questi tentativi, si finisce per diventare rispetto al loro operato ancora più sospettosi, invece che più sereni. Consiste in questo il paradosso della trasparenza. Questo assunto, implica che i cittadini possono controllare la condotta dello Stato, o degli enti pubblici di ogni livello, ma la fiducia concessa da questi, è chiaramente condizionata, poiché prende in considerazione la possibilità che gli attori politici, o le intere istituzioni possono tradirli.

In quest’ottica quindi, la fiducia è intesa come mancanza di essa, quindi sfiducia, controllo, vigilanza e rappresenta una garanzia, affinché il buon governo agisca correttamente (Locke, 1689).

La studiosa Marzano (2012) non si stupisce che verso la politica si debba riservare una fiducia “condizionata”. Spiega che in politica, ma anche in altre occasioni, più si cerca di esser trasparenti, che vuol essere sinonimo di un atteggiamento pulito e onesto, più si genera sospetto e sfiducia.

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21 I politici nel dichiarare i loro programmi nelle campagne elettorali, finiscono per confondere la verità con la franchezza. La studiosa, infatti pensa che oggi, si dovrebbe enfatizzare più la riservatezza, invece che la trasparenza (Marzano, 2012: 76- 81). La trasparenza porta a fare promesse come se si avesse tutto sotto controllo, quando invece è impossibile poter prevedere il quadro completo.

Le promesse non mantenute si accumulano, e la credibilità viene meno. Essere trasparenti, non può voler dire essere ingenui o alimentare verità che ancora non esistono. Se non si conoscono le circostanze nel complesso, non si può promettere che la crisi finanziaria finirà. Nessun politico, come d’altronde nessun essere umano, può trovarsi mai in una condizione di totale controllo del sistema sociale, in quanto costituito da più sistemi aperti e complessi in cui i fattori e le variabili da considerare sono infinite, soprattutto quando ci si riferisce a problemi di ampia portata come la crisi economica di una nazione.

Significativi studi sulla razionalità limitata, di cui Herbert A. Simon (1966) è portavoce, sostengono che nel processo decisionale, la razionalità di un individuo è limitata da vari fattori come le informazioni di cui si dispone, i limiti cognitivi della mente, la quantità finita di tempo per prendere la decisione.

Nel processo decisionale si afferma, che è impossibile arrivare a compiere una scelta ottimale, anche se dettata dall’uso della razionalità. Si assume che le condizioni sono finite e quindi anche il raziocinio è relativo e mai pienamente illuminato.

Non solo le capacità sono limitate, ma anche le risorse che si posseggono sono sempre riferite a tempo e spazio precisi. Può accadere che le scelte ottimali siano chiare, ma non possano applicarsi per mancanza dal punto di vista strumentale e che allora ci sia necessità di ripiegarsi sulla scelta migliore possibile in quel momento storico.

In questo caso, la razionalità si muove tra scelte e opzioni che esistono in quel momento e che rappresentano le condizioni più adatte. Si può quindi, utilizzando la razionalità, arrivare alla decisione più soddisfacente, ma non a quella ottimale in assoluto.

Il buon senso dovrebbe portare chiunque di noi a enfatizzare il riserbo e l’onestà intellettuale e rispettare quell’altrui non facendo promesse, che non si è sicuri di poter mantenere; l’unica sicurezza è che una volta che la parola data non è stata mantenuta,

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22 proprio perché inserita nel registro del simbolico, quindi carica di valore, oltre a generare un generale malcontento, avrà di certo a quel punto alimentato la diffidenza. L’accumulo di questo sentimento influenza i rapporti interpersonali, non crea fiducia reciproca e quindi capitale sociale.

Tornando al nostro esempio, il politico che promette, rifacendosi a quello che rappresentano i suoi desideri, rischia di confondere il piano di astrazione dell’immaginario individuale e il piano della realtà. La crisi finanziaria, oltre a dipendere da molti fattori, implica la compartecipazione di volontà altrui che non dipendono dallo stesso. Il volontarismo politico promesso dal singolo non basta. Le sue parole, se non guidate da buon senso e integrità, risulteranno ben presto come errate o, peggio, bugie, intaccando anche la sua buona fede.

Lo stesso vale per chi, pur non ricoprendo cariche pubbliche, promette, dando la sua parola, a cui però successivamente non dà seguito. In questo caso, la sua immagine e reputazione saranno alla mercé di tutti, e verrà meno la credibilità verso quest’ultimo.

La logica dell’onore

La parola ha il valore di un atto per la carica simbolica che gli viene conferita. Implica delle obbligazioni informali che il soggetto, chiunque esso sia, deve portare a compimento. Più l’individuo riesce a conformarsi alla altrui aspettativa in ogni tipo di rapporto, che sia amicale, amoroso o lavorativo, più sarà degno di onore e rispetto, elementi che diventano garanzia di fiducia reciproca all’interno di questa logica tradizionalista.

Come afferma Putman, allo stesso modo in cui

se molti individui sono virtuosi, ma isolati tra loro il capitale sociale non rappresenta una ricchezza (2000), quando invece i legami sociali sono molto stretti facilitano i pettegolezzi come fanno altri modi preziosi per curare la reputazione, elemento essenziale per la fiducia in una societàcomplessa (ibid.).

Nella società moderna in cui si tende a porre sotto i riflettori la fiducia in se stessi, come prima qualità da possedere, sottolineando il grado di dipendenza o meno che ciascuno ha verso l’altro, l’interesse privato acquista valore più di quello collettivo.

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23 Si perdono gli obblighi che legano alla comunità, si elogia l’indipendenza, e l’onore diventa una “cosa vecchia” a cui non occorre più attaccarsi. Non si biasimano più comportamenti che difettano di onorabilità, ed è solo quando qualcuno ancora crede in questo assunto, che si sveglia il senso di vergogna.

Perché è importante per l’essere umano mostrarsi degno di fiducia e quindi mantenere una buona reputazione? Mantenere una buona reputazione personale, accresce di riflesso la nostra credibilità ed è utile per non essere estromessi dal circolo virtuoso della cooperazione, che in ogni caso gioca sempre a favore di tutti i suoi componenti. La filosofa Marzano, discutendo sulla fiducia da cui deriva l’affidabilità, ripercorre la linea dettata dalla teoria degli interessi incapsulati di Hardin (encapsulated interests). Tale teoria sostiene che nella prospettiva delle buone intenzioni, occorre tener sempre presente l’interesse del beneficiario della nostra fiducia. Infatti gli interlocutori coinvolti instaurano un rapporto di fiducia sulla base di obiettivi che, una volta raggiunti, arrecano benefici che soddisfano interessi complementari.

Quindi si decide di dare fiducia a qualcuno, se si avrà ragione di credere che questo avrà tutto l’interesse a mostrarsi degno di fiducia, in modo appropriato, nel momento opportuno. Quindi solo se, gli interessi si dimostrano essere incapsulati tra loro.

Hardin contempla anche l’amicizia e l’amore come rapporti rientranti in questa logica, venendo a costituirsi così un paradosso. È possibile infatti pensare a rapporti affettivi come prodotto di un incapsulamento di interessi? La motivazione alla base del self-interest è pienamente strumentale ed esclude la motivazione del piacere intrinseco che invece sottostà al legame affettivo (2012: 102).

Nei rapporti di amore e amicizia spesso per rinsaldare il legame, la fiducia diviene oggetto di promessa. La parola data sulla fiducia non può considerarsi valida.

Come afferma Rousseau, la nostra natura è fatta per cambiare continuamente ed è necessario ammettere la fragilità dei sentimenti, che non sono statici, ma mutevoli.

Con che diritto pretendete di essere amata oggi perché eravate amata ieri? Ma allora conservate lo stesso volto, la stessa età, lo stesso amore; siate sempre la stessa e sarete sempre amata, se è possibile. Ma cambiare continuamente e volere che vi si ami sempre, è come volere che a ogni momento si smetta di amarvi; non è cercare cuori costanti, bensì cercarne di volubili quanto voi (Marzano, 2012: 104).

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24 I sentimenti autentici essendo mutevoli, non possono garantire una costanza nel tempo. Quando qualcuno promette amore eterno, o che avrà fiducia a tempo indeterminato in una persona, sta giurando su un sentimento che nutre in quel momento storico, ma che inevitabilmente subirà dei cambiamenti. I sentimenti sfuggono in buona parte al nostro controllo. Ciò che si può promettere è il rispetto e il mantenimento di un rapporto sincero, che è la base su cui poggia qualsiasi vincolo, o impegno significativo. La fiducia non è qualcosa che possiamo stabilire; si nutre delle debolezze e degli smarrimenti degli uni e degli altri. Non rimane intatta neanche se inserita in un contesto contrattuale. La parola data, ancora, è minacciata e quando non si onora, si incorre al pregiudizio sociale. Infatti quando le relazioni matrimoniali finiscono si viene meno alla parola data, alla fiducia formale su cui si aveva prestato giuramento. Il tradimento della parola non mantenuta non è solo rivolta al coniuge, ma a tutta la società.

Il buon cittadino, in sintesi, è colui che dotato di senso civico, presta attenzione al prossimo, generando aspettative le più veritiere possibili, che coincidono con quelle praticamente sostenibili dallo stesso, mantenendo sempre alto il senso dell’onore sia verso se stesso che verso il prossimo.

Clientelismo e sfiducia nelle istituzioni: il terreno fertile della mafia

L’uso continuo di forme di clientelismo e favoritismi ha ostacolato nel tempo lo sviluppo del capitale sociale, alimentando la sfiducia sociale diffusa, causata dall’ incremento nel sud a livello storico di più reti verticali che orizzontali.

Nonostante i tentativi per cambiare tale contesto, il sentimento di rassegnazione in quelle comunità ha incancrenito gli animi.

Putman (1993) nella sua ricerca sulle differenze di capitale sociale, partendo dall’analisi del rendimento delle istituzioni, decide di usare quattro indicatori, due dei quali si riferiscono al comportamento politico. Uno testimonia la partecipazione politica, attraverso la presenza alle urne elettorali: l’indice è stato dedotto dalla partecipazione offerta in cinque referendum e non nelle votazioni ordinarie, per una motivazione ben precisa.

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Chi utilizza il voto come occasione di “scambio” ha scarse motivazioni di andare alle urne quando le elezioni (come nel caso dei referendum) non gli offrono la possibilità di ottenere vantaggi personali immediati (Cartocci, 1985: 441)

Il risultato a cui perviene l’autore conferma una minore partecipazione nelle regioni meridionali (solo il 60% in Calabria), rispetto a quelle del nord (89% di partecipazione), nel momento in cui si vota per un’ideologia e non per accaparrarsi un favore da parte del partito, o del singolo attore politico.

Il secondo indicatore in questione invece registra i voti di preferenza, come libera espressione di personalismi e faziosità. Tale modalità si conferma come indicativa di arretratezza della comunità civica.

Putman evidenzia come da decenni, al sud se ne faccia più uso che al nord (50% in Campania e Calabria contro il 17% in Emilia Romagna e Lombardia) (1993: 110).

Gli indicatori sono utili perché descrittivi di una situazione socio-culturale conclamata nel tempo ed interiorizzata nei comportamenti e nei modi di pensare dei singoli. Il primo indicatore infatti riflette la politica delle idee, quanto è contraddistinta o meno dal sentimento di indifferenza e quanto dal valore civico. L’altro sottolinea invece l’uso dei favoritismi che alimentano il fenomeno del clientelismo (1993: 111).

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26 Il grafico 4.3 (Putman,1993: 112) mostra che le regioni del sud nutrono meno interesse pubblico in quanto tale, quindi sono meno spinti dall’ideologia e piuttosto concepiscono il voto come un mezzo di scambio.

A fare la differenza non è tanto la quantità, quindi le volte in cui si va a votare, ma piuttosto la qualità, quindi il valore che il voto assume da regione a regione.

Come affermato dalla teoria del Familismo amorale di Banfield (2006), il cittadino si espone alla cosa pubblica solo nel momento in cui pensa di poterne ricavare dei vantaggi per se stesso o per il suo nucleo familiare. Secondo la ricerca da lui condotta, chi si interessa alla cosa pubblica da privato cittadino è da ritenersi anormale e addirittura sconveniente; un problema riguardo la cosa pubblica deve essere affrontato da chi è pagato per farlo, ovvero il funzionario pubblico.

Considerato che il privato cittadino da solo non può nulla, in caso di trasgressioni alle norme, essi non si sentono in diritto di intervenire, sono reticenti a denunciare poiché temono ripercussioni di varia natura, e non sentono il bisogno di esporsi, soprattutto quando “l’ingiustizia” è lontana da sé e non intacca il proprio nucleo familiare. L’onere del controllo è lasciata ai superiori gerarchici.

E ancora, chi dichiara di accettare un incarico pubblico perché ha interesse affinché la cosa pubblica funzioni, non viene creduto, e ci si aspetta sempre che ogni funzionario ceda alle dinamiche della “bustarella” o che ne condivida il credo.

Nell’ottica del familismo amorale, le promesse non hanno valore. I partiti non godono di alcuna credibilità, per cui l’individuo dà il voto in cambio di benefici già ricevuti, piuttosto che per vantaggi promessi (Banfield, 2006).

Questo atteggiamento di disinteresse per le questioni politiche, espresso dall’astensionismo alle urne, è correlato con le condotte che assume la classe politica e quindi anche le adesioni a iniziative o la progettazione di programmi politici.

Nelle regioni con più senso civico, gli esponenti politici sono più propensi a incoraggiare l’uguaglianza politica e maggiore partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica; tra i politici del sud invece, Putman evidenzia come ci sia un atteggiamento di diffidenza verso il concetto del potere del popolo, ritenuto più come principio che

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27 alimenta la retorica, invece che riconoscerlo come l’assunto fondamentale della democrazia (1993: 119). Questa diversità di pensiero si rispecchia nell’implementazione dei programmi politici, che apparentemente mantengono le direttive statali, ma sono condotte con modalità latenti, ma conosciute da tutti (es. la “bustarella” che si usava fare a Montignoso).

La mancanza di capitale sociale e l’aiuto selettivo degli enti locali, che agiscono in rappresentanza dello Stato centrale, ha portato un atteggiamento di rassegnazione dei cittadini che quindi cominciano a non aver fiducia nelle istituzioni.

Questo clima corrotto inizia ad agire dapprima all’interno delle istituzioni centrali nei confronti degli enti locali, nel periodo successivo alla costituzione dell’Unità d’Italia, con il fenomeno del trasformismo, in cui sistemi di protezione clientelare a struttura gerarchica divennero i canali principali per assegnare i lavori pubblici.

In questo modo in cambio del sostegno elettorale e parlamentare, gruppi di potere locali e deputati nazionali venivano a compromessi per favorire gli interessi locali a scapito delle direttive nazionali (Putman, 1993: 23).

Dal 1948, con la nascita della Costituzione, si disciplinano le normative che prevedono governi regionali eletti direttamente dal popolo, ma le resistenze a tali disposizioni sono tante, e il centralismo continua ancora per altri vent’anni.

Nel 1968, infatti viene approvata la L.108 che regola i meccanismi elettorali per i governi regionali a statuto ordinario, seguita nel 1970 dalla L.281 che disciplina gli stazionamenti finanziari alle regioni, in un anno in cui ci sono le prime elezioni dei consigli regionali. Nonostante la L.382 del 1975 definisce le funzioni da affidare a livello regionale, ancora il potere centrale, che in quel momento era previsto come potere facoltativo teso alla “direzione e al coordinamento degli affari regionali”, continua ad esistere e ad essere fortemente presente. Il malcontento dei funzionari locali è generale ed è evidente nel primo ciclo di interviste condotte da Putman (1993), che si orientano proprio intorno a quel periodo.

È solo negli anni’80, che le amministrazioni locali cominciano a godere dell’autonomia, che per legge avrebbero dovuto avere trent’anni prima e anche nei cittadini si

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28 evidenzia un atteggiamento diverso, più fiducioso verso il futuro. Le interviste condotte durante quel periodo nelle regioni, mostrano che solo il 10% degli esponenti locali dichiarano che le regioni contano «poco» sul territorio; la maggior parte concordano nel rispondere «molto» o «alquanto» (circa il 60%).

Come sostenuto in precedenza, le reti messe in campo sul territorio nazionale italiano furono pressappoco di due tipi. Al centro- nord, reti orizzontali, e al sud reti verticali, per di più connotati da condotte clientelistiche. In questo clima, il sentimento di sfiducia è stato colmato dall’introduzione di nuove organizzazioni di profilo diverso, atte a vendere nuova fiducia.

Gambetta (1992), così come citato nell’articolo Le interpretazioni della mafia e le scienze sociali di E. Luca, afferma che:

è l’assenza di un contesto di fiducia a giocare un ruolo chiave nello sviluppo di tale industria. Tanto maggiore sarà l’incertezza e l’instabilità del mercato, tanto maggiore sarà la necessità di far ricorso alla garanzia mafiosa per il successo delle transazioni. La fortuna dell’industria della protezione sembra essere collegata alla sfiducia del contesto generale, per cui il mafioso finisce per vendere un bene che alcuni compratori riescono a consumare con profitto, solo perché negato ad altri; un gioco apparentemente contraddittorio che vede, nel tentativo di superare la sfiducia, la sua perpetuazione e proliferazione (2013: 5).

Le organizzazioni di stampo mafioso, originarie delle zone del sud Italia, assumono un potere diffuso a livello nazionale e incidono in maniera importante sullo Stato centrale. Si è discusso ampiamente sulla sua struttura che gode della compartecipazione di organi che lo rendono uno Stato parallelo, o meglio l’anti-stato, quindi un’alternativa possibile a quello legale. Esso infatti è dotato di un popolo militante, un sistema normativo e apparati organizzativi. Rappresenta uno Stato rigido, inteso come monopolista della violenza, della politica e del diritto (Romano S., 1918).

Esprime una cultura politica, poiché determina i legami politici interni ad ogni suo organo. È un fenomeno da non analizzare solo per le istituzioni di cui si compone, ma anche per le relazioni che viene a costituire tra i suoi membri e la comunità. Infatti ha la

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29 peculiarità di costruire identità e continuità simboliche, soprattutto collettive (Bourdieu, 1995).

Nel tempo è stata capace di evolversi e adattarsi ai nuovi contesti sociali, passando da una tradizione chiusa di villaggio con connotati di arretratezza e contraddistinti dai concetti di giustizia privata, omertà e senso dell’onore a contesti sociali industrializzati e moderni. L’onore, in questo caso, diversamente da quanto sostiene la Marzano (2012), sottrae l’individuo alla percezione di proprie responsabilità di fronte a una collettività più vasta di quella primaria.

Hess (1970), rifacendosi ad una lettura offerta dalla sociologia culturalista, ha spiegato come la mafia, non esista in quanto organizzazione o setta, ma esistono i mafiosi, come singoli attori sociali che scelgono di aderire a condotte avverse a quelle legittimate dallo Stato, e quindi collega gli atteggiamenti mafiosi di onorabilità e omertà come forme nuove di costumi sociali, prodotti dall’arretratezza culturale siciliana, non esaurendo però questioni poste sulla non uniformità registrata sul territorio siciliano. Infatti se sono condotte legate alla cultura del sicilianismo, perché non si rilevano ovunque distribuite in ugual misura sul territorio? Questa domanda rappresenta il primo limite dello studio di Hess (1970).

I piccoli villaggi siciliani sono la prova di come il capitale sociale, con le sue peculiarità positive, non sia sempre stato frutto di contesti di piccole comunità. Infatti la ristrettezza culturale, antropologica non ha sempre creato legami sociali sani, guidati da un assetto valoriale positivo. La nostalgia del piccolo è bello di fronte a questa verità, deve venir meno.

L’omertà e il senso di farsi giustizia da sé sono comportamenti interiorizzati, ritenuti illegittimi dallo Stato, ma pienamente condivisi dalla morale popolare e quindi dal sistema normativo subculturale. Hess (1970) definisce questo fenomeno come prodotto del perpetuarsi di una “doppia morale”. Questa ipotesi rischia di ancorare l’agire mafioso a valori, se non ad aspetti prettamente psicologici del popolo siciliano.

Per lungo tempo si sono confuse la mafia e la mentalità mafiosa, la mafia come organizzazione illegale e la mafia come semplice modo di essere. Quale errore! Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale (cit. Giovanni Falcone).

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30 Il fenomeno mafioso non è ascrivibile a determinati tratti caratteriali e psicologici, ma è parte integrante di una cultura che contribuisce a plasmare modi di pensare, adottabili anche in circostanze non criminose.

Il limite della concettualizzazione di Hess (1970) consiste nel non poter spiegare il perché la mafia, se legata alle tradizioni arcaiche, abbia saputo nel tempo adeguarsi a contesti più moderni.

Santoro (2007), esponente della sociologia culturale contemporanea, spiega come i mafiosi non siano solo un prodotto di comportamenti di resistenza allo Stato, e non costituiscono un circolo chiuso e settario, ma siano autori e produttori di un fenomeno costituito da una dimensione simbolica prepotente che connota il processo di interazione, portando a una continua negoziazione e ridefinizione di significati.

Al fenomeno mafioso viene riconosciuta la capacità peculiare dei membri di fare networking, impostare rete di scambi comunicativi, così che il collettivo possa definirsi come gruppo sulla base dell’identità condivisa. Le credenze e le pratiche messe in comune favoriscono la nascita della mafia; in questo modo Santoro (2007) svincola da un collegamento a cui Hess (1970) era affezionato, tra sicilianismo e comportamenti mafiosi.

La sua teoria spiega che la mafia è un’organizzazione capace di riprodursi su ogni territorio che adotta valori opposti a quelli conformati alla cosa pubblica. Tali condotte, caricate di significati, sono potenzialmente pratiche adottabili ovunque.

Tale capitale sociale deviante, costituito da norme e reti organizzative, diventa ereditario per le generazioni future.

La prospettiva interazionista applicata alla mafia, sembra considerare adeguatamente i processi di mutamento culturale di cui è portatrice, evitando il pericolo di riproporre un concetto statico di mafia come subcultura, che non spiegherebbe la sua capacità evolutiva. Le interpretazioni simboliche dettate all’interno delle interazioni cambiano con esse, e se rinvigorite continuamente non si disperdono, ma mutano e si adeguano. Come per il capitale sociale, a cui si rifà un forte registro simbolico, che non si consuma col suo utilizzo, lo stesso vale per questi comportamenti che rappresentano un capitale sociale alternativo, deviante, definibile come il suo lato oscuro.

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31 Le organizzazioni criminali, che siano ricollegabili alla mafia siciliana, camorra o ‘ndrangheta, permettono il proliferare su tutto il territorio nazionale di una struttura culturale che affonda le sue radici in un retaggio storico ben definito e che come un camaleonte riesce a vestire i cambiamenti sociali, evolvendo la sua morale interna con annessi riti e simboli.

Il lato oscuro del capitale sociale

La forza del capitale sociale, quando promossa dallo Stato e dalle organizzazioni che si esprimono in associazioni territoriali, incide positivamente su tutti e lascia poco spazio alla proliferazione di culture parallele antitetiche.

Come visto, il capitale sociale incrementa la solidarietà tra i membri del gruppo, crea interazioni di fiducia, e reti formali e informali di reciprocità, e non solo predispone i singoli alla tolleranza verso i consociati, ma anche verso la comunità in cui è stato costituito. Annidandosi tra i suoi interlocutori (Embeddedness), entrando a far parte della vita ordinaria di ognuno di essi (Ferialità), costituisce bene pubblico che tutela la collettività. Quando queste logiche consolidano invece un capitale sociale deviato e criminale come quello mafioso, col monopolio della violenza

la mafia non si propone come una società di servizi che opera a favore della collettività, bensì un’associazione di mutuo soccorso che agisce a spese della società civile e a vantaggio solo dei suoi membri,

così, come sostenuto da G. Falcone, diventando “bene” privato.

La mescolanza tra società sana e quella mafiosa è sotto gli occhi di tutti e costituisce la realtà di ogni giorno, si normalizza e alimenta una ferialità di segno opposto. Questi processi portano a ritenere la mafia un modello vincente, perfettamente sostituibile allo Stato, che si ritiene inefficiente.

Il magistrato P. Borsellino, che insieme a G. Falcone sono stati vittime eccellenti della mafia, ha lasciato in eredità un compito non solo alle generazioni che verranno, ma anche allo Stato, che non può negare l’esistenza di modelli operativi mafiosi, ma ha l’obbligo di contrastarli con durezza.

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32 E ancora, sperando che si dimostri essere una profezia che si auto-avvera, dice

Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo.

In sintesi, l’assunzione della democrazia come modello di valore potrà promuovere diritti e libertà individuali, evitando di cadere nel relativismo etico che confonde la solidarietà comunitaria con l’omertà, alimentando non il lato oscuro, ma piuttosto quello benevolo del capitale sociale.

Erosione del capitale sociale

Il capitale sociale, essendo un elemento che si annida nelle relazioni in maniera trasversale, è una materia vasta, un difficile oggetto di studio. Come sostenuto da Putman (2000) nel suo libro il Capitale sociale e individualismo, esso è mutato nel tempo, ed è stato fortemente influenzato dai cambiamenti sociali avvenuti nelle diverse dimensioni sociali.

Putman (2000), nel suo elaborato analizza tutti i fattori che potenzialmente hanno contribuito in tutto o in parte al processo di erosione del capitale sociale nel contesto americano, spiegando le possibili cause.

Dalle sue analisi emerge che: in campo lavorativo, il mercato ha portato più pressioni sul singolo, distogliendolo dalle attività tipiche di cui il capitale sociale si nutre; rispetto alla questione della differenza di genere, con l’entrata delle donne nel mercato del lavoro, esse non occupano più a tempo pieno il ruolo di schmoozers, che sono quegli attori sociali immersi nelle reti informali, come li definisce Putman (2000).

Agli schmoozer si antepongono i macher, che si occupano delle reti formali e sostengono l’impegno civico, ma parallelamente è necessario che i primi, incrementando un reticolo sociale adeguato, predispongano il campo per saper accogliere la civicness.

L’istruzione è il fattore maggiormente correlato al capitale sociale ed è costituito dalle reti formali scolastiche e universitarie di cui fanno parte molti macher. Nonostante rispetto al passato, questo ambito sia migliorato, paradossalmente il capitale sociale diminuisce. Lo stesso vale per le reti informali, a cui si correla, come fattore principale,

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