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Il tipo di relazione che lega i genitori Putman (2000) afferma che gli individui costituiscono capitale sociale su due fronti: uno su un piano formale e in quel

Secondo Report: quando i punti di vista si incontrano

2. Il tipo di relazione che lega i genitori Putman (2000) afferma che gli individui costituiscono capitale sociale su due fronti: uno su un piano formale e in quel

caso gli attori protagonisti di queste interazioni sono denominati macher e, schmoozer, quando il capitale sociale generato ha luogo tra attori sociali su un piano informale. Dalle interviste alle famiglie si evidenzia come tutte si sentano una parte attiva dell’associazione. Tali sensazioni sono giustificate da diversi

16 Gli operatori e i volontari spesso si riferiscono ai membri del gruppo, utilizzando questa

105 motivi: perché partecipano alla raccolta fondi, perché sono coinvolti in progetti in cui ad essere inseriti sono i loro figli e tanti altri ancora. Dichiarano che le occasioni di incontro con le altre famiglie sono numerose, tanto quanto lo sono i canali di comunicazione che usano (riunioni in sede, confronti nel gruppo whatsapp..). La rete tra di loro è solida, e a dichiararlo è anche il padre della famiglia iscritta all’associazione da solo 1 anno e mezzo. Eppure, dall’intervista alla famiglia n.1, vediamo come l’interlocutrice confessi di sentire molto la mancanza di contatti casuali, con gli altri nuclei familiari. Infatti, essendo madre di un ragazzo che è stato inserito in associazione da quando era piccolo, ha vissuto l’evoluzione del percorso non solo di suo figlio, ma anche dei figli delle altre famiglie, e ad oggi che è parte del progetto “Vita Indipendente”, riconosce che in precedenza, quando si doveva ancora lavorare molto sulle autonomie, e i figli erano molto più dipendenti dai genitori, questi avevano più possibilità e necessità di confronti informali. Ad oggi, questo genere di interazioni vanno a svanire, lasciando intatti i contatti previsti a livello formale (riunioni con l’assemblea con pranzi annessi). Rispetto a quanto descritto, è possibile affermare che la rete familiare è percepita come solida quando le capacità di autonomia dei figli sono ancora in formazione e l’età non è avanzata (ad eccezione del gruppo “Fare Centro”) e che l’assestamento delle abilità, in maniera secondaria, influenzi il rapporto diretto informale tra i genitori. Detto ciò è possibile pensare che il ruolo di macher e schmoozer coincide nelle stesse persone fino a quando i figli non hanno acquisito piena autonomia e indipendenza, e poi una volta avvenuto questo, si assiste al venir meno del ruolo di schmoozer, lasciando intatto quello di macher. Voglio precisare che quanto detto non riguarda tutte le famiglie, ma solo quelle, il cui figlio raggiunge capacità e autonomie significative.

La ricerca da me condotta è stata di tipo evidentemente qualitativa. Ho raccolto le impressioni, percezioni, sensazioni di tutti gli interlocutori coinvolti a scapito di dati rigidi, più precisi che, però non avrebbero potuto cogliere sfumature e andare in profondità nelle diverse questioni. Faccio questa specifica, implicita della teoria metodologica, per quello che sarà il proseguimento del nostro report incrociato.

106 Come dedotto dal primo report, l’iter di inserimento dedicato ai volontari è poco articolato e non subisce variazioni nel caso in cui, il potenziale volontario si approccia all’associazione perché indirizzato da una terza persona di comune conoscenza. Questa conclusione viene ribadita ulteriormente dalla testimonianza della volontaria n.1. La stessa anche se ha in comune con l’associazione, il fratello inserito da tempo nell’organizzazione, ha comunque partecipato alla riunione prevista prima dei corsi, per adempiere così all’esigenza dell’associazione, di impostare un percorso di preparazione e accompagnamento del volontario.

Per quanto riguarda l’atteggiamento, solo un’operatrice su cinque dichiara che al primo colloquio conoscitivo, se a confrontarsi con lei è una persona indirizzata da una terza di loro conoscenza, la “chiacchierata avviene in maniera più serena, rispetto alla lente di ingrandimento che si applica su chi non è conosciuto da nessuno”. Per i restanti quattro, la questione rimane irrilevante.

L’operatrice, che rappresenta il caso isolato, è la medesima che sostiene in modo netto, come ai potenziali volontari con determinati “trascorsi di vita”, non si possa consentire l’accesso, quando invece gli altri quattro operatori su questo punto, si dimostrano più inclusivi (concependo per questi casi un affiancamento dell’operatore al volontario). Questi operatori quindi, si mostrano generalmente più inclusivi di quell’unico caso isolato, ma non ammettono di essere più “sereni” quando a parlare con loro è una persona indirizzata da un’altra di loro conoscenza. Ciò non spiega come il capitale sociale, che l’associazione intrattiene con gli ex volontari, o con personalità con cui hanno a che fare da lungo tempo, non assuma nessun tipo di rilievo.

La ragazza dell’intervista n.1 dichiara di aver preso il primo contatto recandosi direttamente in associazione e alla sua proposta di voler diventare volontaria, di aver ricevuto subito un consenso al riguardo, da parte dell’operatrice n.1 (il caso isolato). Sarebbe stato interessante se quel giorno a ricevere la volontaria fosse stato uno degli altri 4 operatori e verificare quale sarebbe stata la reazione, che io sono portata a credere, non si sarebbe discostata da quella avuta dall’operatrice. Sulla base di quanto raccolto, posso confermare, quanto detto nel primo report, ovvero che l’inserimento dei volontari è inclusivo, quindi alto è il grado di Bridging, ma che nel processo decisionale sui volontari, la teoria di Granovetter (1973) all’opposto di quanto

107 affermato nel primo passaggio, abbia il suo peso. Ritengo che il caso isolato dia su questo aspetto una lettura più autentica dei fatti che si attivano all’interno dell’organizzazione. Inoltre, dalle interviste alle famiglie n.3 e n.1, si evidenzia come la stessa teoria, si riscontri anche in altre situazioni. Nel primo caso, le conoscenze in comune sono state fondamentali per le unioni delle famiglie fondatrici, e nel secondo, per l’inserimento del figlio in associazione. La madre intervistata dichiara che ha scelto di diventare socia di questa associazione perché, si fidava della persona che gliel’aveva presentata e l’inserimento è stato istantaneo e poco formale.

Nel terzo capitolo, le tabelle proposte mostrano quali sono gli strumenti di comunicazione usati nelle varie circostanze: dal reclutamento dei volontari, a quelli impiegati per farsi conoscere dalle famiglie che potrebbero avere interesse nell’inserire il figlio in questa associazione, e ancora, quelli per la sponsorizzazione degli eventi esterni prodotti ogni anno in alcuni giorni precisi, le attività che vengono quotidianamente svolte all’interno dell’associazione da parte dei vari gruppi, e i progetti che coinvolgono famiglie, operatori e i beneficiari diretti dell’organizzazione. Oltre agli strumenti classici (volantini, cartelloni, brochure..), grande rilevanza ha il passaparola, di cui gli operatori, volontari e famiglie sono autori in contesti diversi. Gli operatori, come dichiarato dall’operatrice n.1, usano molto la comunicazione interpersonale soprattutto nel loro lavoro educativo ordinario, durante gli incontri con gli altri tecnici che seguono lo stesso caso (insegnanti, pediatria, neonatologia, assistenti sociali..), i volontari, nello specifico i giovani, diffondono il passaparola nel setting che più li accomuna, ovvero l’università e derivati (biblioteche, aule studio..), le famiglie invece, in contesti in cui si ritrovano spesso a conoscersi, ossia la sala d’attesa delle sedi riabilitative. Dalle interviste degli operatori e non solo, vengono raccontati molti episodi in cui gli attori direttamente coinvolti, hanno sentito parlare dell’associazione da parte di altre persone, le quali hanno ricevuto queste informazioni attraverso altri individui non conosciuti, restituendo così l’idea che in qualche modo ci sia una catena di passaparola, il cui inizio può coincidere con l’azione degli attori direttamente coinvolti, ma l’evoluzione ha un seguito, grazie all’intervento di altre persone, che diffondono in maniera informale. La mobilitazione quindi è notevole.

108 La “Cena in Bianco”, registrando numeri elevati di partecipazione locale, aiuta nella diffusione della conoscenza dell’AIPD, anche se come sostenuto in precedenza, ancora molto lavoro deve esser fatto per far conoscere chi sta dietro le quinte e il motivo per cui ha luogo l’evento. Nell’intervista del volontario n.3, questa costatazione trova una ulteriore affermazione. Certo è che, dopo le varie edizioni, il numero delle persone che seguono la pagina dell’AIPD su facebook, aumenta, quindi è da ipotizzare che il messaggio arriva, anche se non a tutti.

Per lo più, i progetti vengono resi noti grazie ai social. Le attività interne, oltre ad essere pubblicate sui social, hanno luogo sul territorio pisano, e questo favorisce una visione diretta da parte del pubblico locale, stimolando curiosità e magari la volontà di far parte di quel gruppo, come è successo alla volontaria n.2.

A proposito della divulgazione sul territorio di quanto avviene nelle attività interne, si registra una criticità, denunciata nel primo report dagli stessi operatori.

Infatti come dichiarato dalla operatrice dell’intervista n.5, gli operatori non sono molto bravi a comunicare in generale, ma, in passato quando la comunicazione è rientrata nelle loro priorità, si sono dimostrati efficaci. La difficoltà consiste nell’essere costanti nella produzione di foto e aggiornamenti online, e come racconta l’operatore n.2, per far questo, l’AIPD dovrebbe munirsi di una redazione a parte. La difficoltà quindi sta negli operatori che non riescono a conciliare questo obiettivo col lavoro educativo e la restituzione minuziosa degli aggiornamenti richiederebbe un impegno e un coinvolgimento di più dipendenti, che quindi peserebbe a livello economico. Come sosteneva Pizzorno (2001), se il riconoscimento esterno è predittivo di capitale sociale, la mancanza della comunicazione costante degli aggiornamenti, porta a pensare a una tendenza da parte dell’associazione a voler rimanere autoreferenziale, e a non ricercare un riconoscimento esteso, non circoscritto ai singoli eventi. In realtà, l’associazione AIPD punta al riconoscimento, ma c’è una carenza nei mezzi e nella prassi, finendo in questo modo per organizzare progetti come quello del calcetto, che rimane a se stante perché non abbastanza pubblicizzato, come sostenuto dal volontario n.3, e confermato la mamma della famiglia n.1.

Per quanto riguarda la “Cena in Bianco”, dai dati raccolti è evidente che sia un evento produttore di capitale sociale rinnovabile da edizione a edizione. A confermare ciò non

109 sono tanto i numeri dei partecipanti effettivi, che soffrono del limite massimo di persone che Piazza dei Miracoli può contenere, ma dalla lista di attesa che aumenta di anno in anno.

L’osservazione dell’operatrice n.5 sul coinvolgimento mancato da parte dei ragazzi con Sindrome e anche dei loro rispettivi nuclei familiari, soprattutto nelle prime edizioni, è parzialmente riscontrato nelle interviste poste alle famiglie.

Partecipazione alla “Cena in Bianco” delle famiglie campione

Fam.1 Non hanno mai partecipato

Fam.2 Hanno partecipato a tutte le edizioni

Fam.3 4 su 5 edizioni

Fam.4 Non hanno mai partecipato17

Delle 4 famiglie intervistate, l’ultima dichiara di non aver potuto partecipare. Tra le altre tre invece sono riscontrabili due estremi (Fam.1 e Fam.2) e una la cui partecipazione è regolare (Fam.3). In aggiunta a queste, riporto anche quanto riferito dalla volontaria n.1, la cui famiglia è associata all’AIPD e dichiara che negli ultimi anni, lei e la famiglia non hanno più partecipato, inserendosi quindi in questo quadro, come una via di mezzo.

La mamma della Fam.1 e la volontaria spiegano che il figlio e il fratello in questione, in quanto beneficiari diretti dell’AIPD, aderiscono alla serata insieme agli altri ragazzi e loro per primi li invogliano in questo e per quanto riguarda il primo caso, la famiglia sostiene e supporta l’iniziativa, ma da lontano, perché come sostenuto dall’interlocutrice, è un progetto maggiormente rivolto alla comunità pisana, invece che alle famiglie dell’AIPD. Ciò rispecchia una recezione parziale del messaggio che l’associazione intende lanciare. L’inclusione che si vuol riprodurre attraverso l’evento

17 Questa famiglia si è trasferita a Pisa nel luglio 2018. Il padre riferisce di non aver partecipato

all’evento nel luglio 2019 per impegni urgenti sopraggiunti in quel periodo, e non per mancanza di adesione intenzionale, come nel caso della Fam.1, che rispetta l’evento e la risonanza che produce, ma si astiene dal prenderne parte.

110 della “Cena in Bianco”, riguarda i membri diretti dell’associazione, ma anche le famiglie.

Tutti gli altri elementi osservati nel primo report e non sviluppati ulteriormente in questa parte di lavoro, rimangono confermati, come l’alto grado di Bridging verso le famiglie.