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La prima famiglia con cui sono entrata in contatto, mi racconta che è iscritta all’AIPD, da 19 anni. A quel tempo erano residenti all’estero e grazie a una persona in comune, hanno avuto modo di conoscere uno dei fondatori dell’associazione. Al loro rientro in Italia, il figlio è stato inserito quasi subito. Nel momento in cui chiedo quali sono state le tappe per l’inserimento ufficiale, la signora ha difficoltà a ricordare, non solo per il lungo tempo trascorso, ma anche perché «non ricordo niente di particolarmente formale». Dichiara, in effetti, che il percorso del figlio è diventato operativo nell’immediato. È possibile dedurre, che in quel momento, non ci fosse un iter ben definito per l’ingresso, e che la conoscenza in comune con un fondatore avesse favorito l’entrata del nucleo familiare.

Al tempo del loro ingresso, il figlio aveva 6 anni, per cui quando ho chiesto se fosse stato direttamente inserito in quello che, ad oggi, è il corso del “Gioco e imparo”, la stessa, mi comunica che in quel momento non aveva questo nome e che i corsi non erano così ben organizzati come oggi. Rispetto alla motivazione sottostante alla scelta di diventare soci di questa e non di un’altra organizzazione, la risposta si collega perfettamente alla teoria di Granovetter (1973). La fiducia in prestito ha acquistato valore a fronte di un’esigenza forte della famiglia.

Mah, un po’ quello che ti ho detto prima, cioè il fatto di conoscere delle persone che ce l’hanno presentata positivamente e poi anche il fatto che, pensavamo che Andrea potesse

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conoscere persone come lui. Inizialmente è stato un tentativo, non era detto che funzionasse, però poi le cose sono andate abbastanza bene.

All’epoca a cui fa riferimento la nostra, sicuramente gli strumenti di comunicazione non erano all’ avanguardia come quelli di oggi, per cui le conoscenze e la comunicazione interpersonale, rappresentavano strumenti principali per accedere a nuove occasioni, non previste e creare una rete di capitale sociale.

L’interlocutrice mi riferisce, che lavorando nel campo educativo, si trova spesso a interagire tra insegnanti e famiglie e di prediligere per queste ultime «non tanto un rapporto distante di richieste, ma proprio di interazione», quindi nutre la stessa “pretesa” nella sua collaborazione con l’AIPD di Pisa. Dichiara a nome di tutto il nucleo, che per quanto riguarda il ruolo assunto all’interno dell’associazione, la percezione equivale a quella di essere soci a tutti gli effetti. A sostegno di ciò, mi racconta che nei primi anni, oltre ad aver preso parte come operatrice in associazione, in laboratori di informatica, attualmente conduce, insieme ad altre famiglie e operatori, un progetto dal nome “Vita Indipendente”. E’ consapevole di cosa voglia dire fare un lavoro per coinvolgere le famiglie e indurle all’adesione della mission e riferisce che in associazione, ci sono stati molti cambiamenti a questo proposito.

Infatti, racconta di un episodio in cui quando i giovani arrivavano al laboratorio di informatica, i genitori li accompagnavano, tenendo in mano il portafoglio. Continua argomentando che questa circostanza le è rimasta molto impressa e che dal suo punto di vista, l’approccio della famiglia di quel tempo si confaceva più a una veste di cliente, invece che di parte attiva e vi era più tendenza a delegare.

Ad oggi, riferisce che non è più così. Nonostante il progetto di “Vita Indipendente” si nutra della capacità di autogestione dei ragazzi, la sua e le altre famiglie con cui collabora, interagiscono costantemente con gli operatori, e a fronte di tutto questo, la mancanza avvertita da parte della socia, sta proprio nell’assenza di un legame più informale con gli altri sistemi familiari.

Sì, ad esempio il progetto di “Vita indipendente” è un progetto messo su dalle famiglie e operatori, quindi in quel senso c’è stato uno scambio regolare di incontri, riunioni etc.. Questa nonostante sia molto autogestita, nonostante ci sia un’educatrice, ci siano interazioni con l’associazione, necessariamente tra famiglie dobbiamo comunque

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confrontarci. D’altro canto diciamo che quello che io ho notato e in parte mi manca è, il confronto più ampio. È come con la scuola, quando i ragazzi sono piccoli ci si incontra nei cortili della scuola, si parla, ci si confronta, quando crescono fanno da soli.

Lo stesso con l’associazione, è bellissimo che loro siano autonomi, però viene molto a mancare il contatto, anche casuale, non tanto quello formale (assemblea, il pranzo dell’assemblea..) ma il contatto casuale tra gruppetti ristretti in cui si parli liberamente.

Come direbbe Putman (2000), assumono a pieno titolo il ruolo di macher e poco quello di schmoozer.

Nella seconda intervista, a confrontarsi con me è stato un padre di famiglia, che mi racconta, che l’associazione è entrata nelle loro vite fin dalla nascita della figlia, ovvero 11 anni fa. Il primo contatto è avvenuto nel reparto di Neonatologia e rassicurati dal primo approccio degli operatori, hanno iniziato un percorso di supporto sia morale, che burocratico, fino all’inserimento automatico nel primo corso previsto dall’associazione, al momento in cui la bimba ha compiuto sei anni. Ad oggi, la preadolescente fa parte del corso degli “Esploratori”, e quando questo padre spiega la sua percezione rispetto al ruolo che ricopre in associazione, ammette di sentirsi una parte attiva, quindi macher a tutti gli effetti, e di essere un componente della rete genitoriale, con cui è abituato a confrontarsi anche al di là dell’associazione, assolvendo così anche al ruolo di shmoozer. Probabilmente questa comunicazione continua, sia negli incontri previsti, e voluti dall’associazione, sia in quelli dettati dal caso (così come definiti dalla mamma della precedente intervista) sono legati alla dipendenza che ancora caratterizza la figlia del padre intervistato, come anche gli altri componenti del gruppo “Esploratori”.

La necessità di confronto formale e informale tra le famiglie è accentuato, perché indicativo di un lavoro maggiore da fare in collaborazione, sicuramente con gli operatori, ma anche tra loro, in prospettiva di un’evoluzione auspicata delle capacità di autonomia dei figli.

È possibile ipotizzare che con la crescita dei ragazzi, e della loro capacità di autogestione, si arrivi ad una stabilità e che ciò determini parallelamente una diminuzione di un capitale sociale informale tra i genitori.

100 In questa tesi si afferma, che qualsiasi aggregato, fisiologicamente si dà dei confini per scindere l’interno dall’esterno. Nel rispetto di questo assunto, la prima famiglia, sceglie deliberatamente di mettere dei limiti, al fine di tutelare le loro attitudini e credenze, che costituiscono la priorità nel rispetto della loro identità. Alla mia domanda se avessero mai preso parte alla “Cena in Bianco”, infatti, la stessa dice quanto segue:

Noi personalmente, mai. Non siamo mai riusciti ad andarci. L’abbiamo sempre trovata un po’ complicata, nel cercare gli abiti bianchi.. un po’ fuori dal nostro modo di vedere. Con il tempo sai, abbiamo un po’ imparato a non farci sovraccaricare e influenzare, per cui se è una cosa di cui siamo convinti, la facciamo volentieri, mentre se deve essere proprio in conflitto, sinceramente con il cuore te lo dico.. preferiamo di no. Non siamo molto degli “animali sociali”, cioè i grandi gruppi non fanno parte della nostra mentalità. E quest’evento amplifica questo nostro modo di vedere, nonostante apprezziamo l’iniziativa e anche la risonanza culturale e sociale che ha avuto.

Andrea partecipa con i compagni, l’abbiamo anzi incoraggiato ad andare. In questo caso, lo vediamo però, più un evento per la comunità, per la città, più che un’occasione per noi.

Alla fine dell’intervista, ho cercato di capire se il figlio frequentasse altri progetti e alla risposta positiva sul progetto “Calcio”, ho voluto comparare, il punto di vista del volontario- giornalista, al fine di convalidare o meno la sua opinione sulla poca partecipazione di persone esterne e l’autoreferenzialità dell’attività. Il riscontro si è dimostrato corretto. A sostenere la squadra nelle tifoserie sono principalmente amici e parenti. La mancanza di comunicazione dell’associazione rispetto alle attività interne, come quelle previste per il progetto “Calcio”, non alimenta capitale sociale, ma crea una situazione stagnante in cui a partecipare sono solo i legami forti dei ragazzi. Per quanto riguarda il padre, portavoce della seconda famiglia, alla mia domanda su quante volte hanno potuto prender parte alla “Cena in Bianco”, risponde «a tutte le edizioni», lasciando intendere un’attitudine opposta a quella della famiglia precedente.