Dopo aver analizzato tutti i punti di vista osservati attraverso la somministrazione delle interviste, è stato possibile trarre delle prime conclusioni, con la previsione di convalidarle o meno attraverso l’integrazione delle testimonianze raccolte dagli altri attori sociali che compongono l’organismo oggetto di studio.
81 Da quanto rilevato, l’associazione si apre a livello locale permettendo l’inclusione sia dei volontari che delle famiglie in maniera abbastanza importante. Infatti, sia nella fase di ingresso dei volontari che in quella dedicata alle famiglie, si profila un iter poco complesso, soprattutto per il primo target.
Gli elementi che non permettono l’inclusione, nel primo caso, sono riassumibili in uno: i “trascorsi di vita”, ma anche in quel frangente, la maggioranza degli operatori hanno dichiarato, che è possibile affiancarli durante la fase di ingresso e fare un lavoro con loro in parallelo. In questo modo, mantenendo viva la mission dell’associazione, rispettano uno dei valori che l’organizzazione si propone soprattutto negli ultimi tempi, ovvero l’inclusione. L’inclusione è intesa come apertura reciproca. Come sostenuto da Diani (2000) esiste una connessione reale tra la partecipazione associativa e la fiducia interpersonale, la quale tende a generare vitalità non solo all’interno del gruppo associazione, ma anche verso il contesto di appartenenza. Egli parla di capitale sociale trasferibile, intendendo tutti quei legami instaurati e che vengono comunque mantenuti, anche col venir meno del contesto di nascita originario rappresentato, in questo caso, dall’associazione. Le relazioni che nascono tra volontari e ragazzi, possono instaurare dei legami importanti e sfociare poi in rapporti indipendenti dal contesto di origine in cui hanno avuto inizio e vi è più possibilità che i volontari possano conoscere la disabilità in maniera positiva e strutturata e diffondere questa idea anche al di fuori. Considerato che molti volontari, si presentano grazie al “passaparola” di amici e colleghi universitari, l’idea che l’inclusione sia massima verso questo target, è giustificata. Più volontari vengono accolti per avviare percorsi all’interno, più legami deboli possono diventare forti, e allo stesso tempo aprire a nuove frontiere all’esterno, non solo nel reperire altre personalità nel volontariato, ma anche nella compartecipazione nella fase di pubblicizzazione degli eventi, nella distribuzione di volantini, etc.
In questo modo si alimenta un significativo processo di mobilitazione esterna.
Nonostante i legami deboli vengano riscoperti come risorse necessarie all’associazione per la diffusione di una conoscenza della realtà associativa, la tutela dei membri interni assume sempre un ruolo prioritario. Infatti, nonostante un volontario si presenta in associazione perché indirizzato da un altro di loro conoscenza, l’iter, a detta della
82 maggior parte, non si semplifica, rimane invariato. La fiducia in prestito, non diviene quindi un lubrificante nella procedura di selezione del volontario.
Le famiglie comprese dall’associazione, ovviamente sono tutte quelle con un componente che riporti la Sindrome Down; l’unico confine che implica una valutazione ulteriore riguarda chi si approccia all’associazione in età avanzata, perché questo rispecchia nella maggior parte dei casi, una carenza dello sviluppo delle capacità che occorrono per un corretto lavoro educativo all’interno dei corsi, in cui i giovani- adulti dovrebbero essere collocati.
Il confine però non è netto; infatti si provvede affinché questi adulti con Sindrome di Down possano inserirsi in percorsi di educazione domiciliare, che si prospetta come un intro per l’ufficiale accesso all’associazione.
Ultimamente c’è stata un’apertura verso le malattie genetiche o cognitive a-specifiche, che sviluppano ritardi affini a quelli prodotti dalla Sindrome Down. Il disturbo autistico essendo di natura completamente diversa, non può entrare nel range del loro lavoro educativo, ragion per cui gli operatori si adoperano nell’indirizzare le famiglie a quegli enti che possano dare una risposta più adatta al problema. E quindi solo in quest’unico caso si trovano a dover negare l’ingresso alle famiglie. Neanche la capacità contributiva diviene di ostacolo, infatti esse vengono integrate, dopo un confronto col CDA e dopo aver analizzato le possibilità di presa in carico da parte dell’associazione. È possibile assumere quindi, che il Bridging sia elevato anche nei confronti delle famiglie.
La partecipazione delle famiglie influenza l’adesione dei figli verso quella cultura di cui è portatrice l’associazione. Come dichiarato, il numero di famiglie inviate da altri servizi è minimo, per cui esse cercano aiuto in maniera spontanea, ma al momento iniziale, non riescono ad aderire pienamente agli obiettivi che caratterizzano l’associazione, ovvero quello della autonomia e indipendenza. Il momento dell’iscrizione non coincide con l’accettazione o con la consapevolezza acquisita rispetto a quello a cui stanno andando incontro. Infatti, da una parte, come visto, si pongono non da supporto all’associazione, e dall’altra molte famiglie si iscrivono, limitandosi ad usufruire di alcuni servizi senza frequentare i corsi all’autonomia, o, in
83 altri casi, anche se frequentano i corsi, non prendono parte agli eventi promossi sul territorio, come la “Cena in Bianco”.
Le persone che frequentano l’associazione, ovvero bambini, adolescenti e adulti, rappresentano il campo di azione su cui gli operatori lavorano, ma ad essere presa in carico, non è solo la singola persona, ma tutto il nucleo familiare che quindi si trova ad essere a pieno titolo, protagonista insieme al figlio, in questo percorso di crescita e di fiducia. L’autonomia è declinabile non solo sui ragazzi con Sindrome Down, ma anche sulla famiglia, che deve acquisire controllo sui propri istinti di protezione.
Attivamente l’AIPD, per il reperimento di volontari, usa svariati strumenti, che coincidono con quelli da loro dichiarati al momento del colloquio conoscitivo, ma più di questi è il passaparola tra i giovani a funzionare e ad essere frequentemente dichiarato. È uno strumento su cui l’associazione non ha controllo e viene alimentato costantemente dal fatto che i ragazzi, insieme agli operatori siano molto presenti sul territorio locale, innescando curiosità tra i passanti. Il passaparola acquista valore aggiunto sia nella sponsorizzazione delle attività interne all’associazione, sia per gli eventi esterni. Considerato che questi ultimi vengono promossi ogni anno nello stesso periodo, famiglie e volontari si adoperano nella pubblicizzazione, e oltre a loro si registrano poche altre persone che si prestano come risorsa. L’aiuto esterno maggiore si riscontra in tutta quella rete di esercizi commerciali che permettono l’affissione del volantino o degli altri enti, associazioni con cui l’AIPD è in contatto.
Gli eventi richiedono uno sforzo circoscritto a un determinato periodo; cosa diversa per le attività quotidiane poste in essere nei gruppi che intraprendono questo percorso dal mese di ottobre a quello di giugno/luglio.
Per il gruppo “Fare Centro”, le attività interne vengono aggiornate in maniera puntuale sulla pagina facebook. Esso è composto da adulti con Sindrome Down che non avendo un’occupazione, vengono inseriti in contesti in cui diventano dei lavoratori.
Per le attività di tutti gli altri gruppi, invece si riscontra una incapacità nella comunicazione verso l’esterno. Gli operatori hanno la tendenza a dar priorità al lavoro educativo, e a non lavorare parallelamente sul renderle note, ad esempio a chi segue la pagina online. La condivisione dei traguardi raggiunti è circoscritta ai diretti interessati
84 e prevede solo relativamente la potenziale partecipazione della collettività. Non a caso, la comunicazione interpersonale è lo strumento che riportano come più frequentemente usato da loro per parlare della prassi interna dell’organizzazione; combacia più facilmente con le loro competenze educative perché, mentre si confrontano sul caso specifico con altri specialisti, possono approfittare non solo di rendere nota la realtà associativa, ma anche di creare nuovi legami da inserire nella rete di azione.
L’uso di questo strumento è massimo soprattutto durante l’evento della “Cena in Bianco”, perché permette agli operatori di confrontarsi con più di mille persone, diverse di anno in anno. Infatti il ricambio di capitale sociale prodotto quella sera è significativo. Ogni anno si registra un aumento di partecipanti, e l’elemento che denota una maggiore conoscenza della serata è la lista di attesa che aumenta da edizione a edizione.
È da cinque anni che la “Cena in Bianco” ha luogo a Pisa, ed è stato paradossale apprendere che si dovesse lavorare non solo sul coinvolgimento locale, ma anche su quello delle persone che vivono l’associazione ordinariamente. Nelle prime edizioni la partecipazione dei membri associativi infatti, non era così proficua come quella che si è registrata negli ultimi anni. Al di là di motivi pratici, questo potrebbe essere ricondotto alla partecipazione parziale che qualche volta la famiglia assume nei confronti dell’associazione, ponendosi non come supporto, ma come ennesimo tassello su cui lavorare. La coesione interna quindi è altalenante. All’interno dei gruppi, che abbracciano età diverse, la condivisione di regole per una corretta socializzazione, è minacciata da comportamenti oppositori che rientrano perfettamente nel percorso di crescita, ed è lì che l’operatore deve intervenire. Ma più dell’operatore, nella maggior parte dei casi, è il gruppo a riportare le cose al loro posto.
Quando questo non è possibile, il gruppo ha la tendenza ad allontanare, interagendo di meno o emarginando del tutto la persona.
La coesione non è così alta da esprimere una autoreferenzialità da parte di coloro che frequentano l’associazione, cosa che invece non manca da parte delle famiglie, che, quando mano a mano si accorgono di non trovare nella comunità risposte confacenti ai bisogni dei propri figli, cercano rifugio in associazione, come nel caso del progetto
85 sport, che implica incontri periodici in palestra per alcuni ragazzi. La palestra è un contesto scelto autonomamente dalla persona e solitamente è difficile trovarne qualcuna che sia calibrata sulle disabilità. Insieme all’associazione, i genitori sfruttano la loro capacità autoreferenziale per cercare, attraverso collaborazioni specifiche, di proporre dei setting adatti ai loro figli, che normalmente vengono dati per scontato, ma che invece non lo sono.
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