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Sull’analisi del grado di apertura da parte dell’associazione verso i volontari, si registra quanto segue:

Qual è l’iter per diventare volontario?

Ci sono criteri/parametri nella selezione dei

volontari?

Quando si ritiene che i criteri/parametri siano posseduti solo

parzialmente, gli step di selezione

cambiano? Intervista N. 1 Colloquio conoscitivo Età;

Disponibilità; Trascorsi di vita.

Si. Dopo il primo colloquio, l’operatrice si consulta con la coordinatrice e nel caso si procede per un secondo

colloquio, immediato o dopo poco tempo. Intervista N. 2 Colloquio conoscitivo Età;

Motivazione personale; No. L’inclusione avviene, ma si fa un lavoro in parallelo col volontario. Intervista N. 3 Colloquio conoscitivo Età;

Motivazione personale;

No. L’inclusione avviene e poi si affianca nel suo ingresso. Intervista N. 4 Colloquio conoscitivo Età;

Motivazione personale; Disponibilità; Trascorsi di vita. No. L’inclusione avviene, ma si fa un lavoro in parallelo col volontario. Intervista N. 5 Colloquio conoscitivo Età, ma fino a

qualche anno fa; Trascorsi di vita, ma in molti casi non c’è una chiusura a-priori.

No. L’inclusione avviene, ma si fa un lavoro in parallelo col volontario.

Tab. 1

Gli operatori intervistati riportano lo stesso iter d’ingresso rappresentato dal primo colloquio conoscitivo.

In tale setting spiegano la mission dell’associazione, e cercano fin da subito di far presente quello che è il loro punto di vista sulla Sindrome di Down.

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Spieghiamo.. il nostro punto di vista sulle persone con Sindrome di Down, cercando di rompere un po’ gli stereotipi dell’assistenzialismo, con il concetto di affiancamento e soprattutto nel caso dei volontari con la creazione di relazioni sincere con le persone che sono all’interno dell’associazione. Quindi facendogli capire che non sono operatori, che lavorano qui dentro, ma sono persone che affiancano l’operatore, ma soprattutto affiancano le persone che fanno parte del gruppo nel quale vengono inserite (Intervista n.1) e ancora ..perché il fatto che la Sindrome di Down sia così conosciuta crea sicuramente dei lati positivi, ma dall’altra questa sindrome è associata a uno stereotipo infantile, quindi è importante spiegare come ci si rapporta agli adulti (Intervista n.3).

Ognuno di loro precisa che non ci sono dei veri e propri criteri che usano per selezionare un volontario. Tutti quanti individuano nell’età, il parametro più importante, non tanto per l’inclusione, quanto piuttosto per la collocazione più adatta al gruppo in cui adoperarsi come volontario. Il quinto operatore, che è quello con maggiori anni di lavoro (16 anni), precisa inoltre, che questo rappresentava un parametro di selezione di qualche anno fa, ma che, di pari passo con l’evoluzione dell’associazione, c’è stato questo cambiamento di pensiero:

Ci sono stati fino a qualche anno fa, legati più che altro all’età. Abbiamo avuto per tanti anni l’idea che il volontario dovesse essere una persona giovane, infatti quando io ho iniziato nel 2003, c’erano 20 ragazzi tutti più o meno della stessa età, dai 15 ai 25/26, ora sono più di 80 e raggiungono l’età anche di 50 anni, quindi c’è stata un’evoluzione da parte dell’associazione e anche rispetto al tipo di volontario, è venuta un po’ meno questo tipo di barriera. Intervista n.5.

L’ ”età” diventa fondamentale rispetto a una scelta educativa, in quanto nei gruppi dei più giovani, se non dei bambini, gli operatori si adoperano ad evitare il rischio di creare attaccamenti genitoriali e piuttosto si sceglie di collocare i volontari adulti con il gruppo “Fare Centro”, che accoglie adulti con Sindrome di Down, così da favorire una relazione tra pari.

Ancora, la “disponibilità”, insieme all’età aiuta, nel collocamento della persona nel progetto di volontariato più ad hoc per lui.

61 Infatti, se si tratta di adulti lavoratori, il tipo di volontariato più facilmente abbinabile a loro è quello previsto per gli eventi esterni (dalla fase di sponsorizzazione, al giorno effettivo in cui ha luogo l’evento), più che il lavoro frontale con i membri dei gruppi. Per quanto riguarda la “motivazione personale”, gli operatori dichiarano che sono rari i casi in cui, chi si presenta come volontario, ricerca in quel percorso qualcosa di diverso dal piacere di aiutare e poter socializzare con i ragazzi o adulti con Sindrome Down. In linea di massima i volontari, si dimostrano essere una grande risorsa. Eppure nei casi in cui la motivazione personale sembra non coincidere con la mission dell’associazione, l’inclusione non è ostacolata. Si lascia che la persona frequenti e che durante il percorso, in cui verrà affiancato dall’operatore, capisca insieme a lui, che forse quello non è il luogo adatto.

I “trascorsi di vita” sembrano essere il maggiore fattore predittivo sulla fattibilità del percorso del potenziale volontario. Nelle interviste, due punti di vista al riguardo appaiono contrastanti. Da una parte, un’operatrice dice

a volte arrivano persone che stanno affrontando momenti della loro vita particolarmente complicati, magari con dei disagi piuttosto forti e in quei casi, purtroppo, noi non riusciamo ad inserirli nei gruppi, perché ovviamente ci deve essere, da una parte la salvaguardia delle persone che frequentano i gruppi, ma anche del volontario stesso.. e ancora ..dove riusciamo, cerchiamo comunque di mettere sicuramente dei confini e dei limiti, magari dicendo loro che quello non è il momento giusto per inserirsi in questo contesto. Abbiamo accolto persone che magari avevano delle fragilità, ma compatibili al nostro cotesto. Intervista n.1.

Dall’altra:

Una delle cose sulla quale alle volte ci troviamo a discutere è se il volontario quando ha un percorso particolare suo, cioè casi in cui una persona, che viene qui da noi, ha un momento di debolezza.. in quel caso non c’è mai una chiusura a-priori, a meno che questo problema non possa essere tale da mettere in pericolo. Intervista n.5.

Nello stesso intervento, quest’ultima operatrice afferma che anche in casi di persone con patologie psichiatriche non si osteggia l’inclusione, ma invece gli si chiede una collaborazione diversa, magari non necessariamente frontale con i gruppi.

62 Alla domanda in cui si chiede se gli step di selezione cambino qualora dal primo colloquio conoscitivo, si arrivi solo ad una sicurezza parziale verso il potenziale volontario, la differenza tra i due punti di vista si nota ancora di più.

Se il colloquio viene fatto da uno degli operatori, in particolare un’operatrice ..se questa persona, nella sua fase di conoscenza, valuta e gli viene qualche dubbio, chiede consulto al coordinatore, che incontra il potenziale volontario nuovamente in un secondo colloquio, o subito dopo il primo e se è il caso, sarà il coordinatore stesso a comunicare che quello non è il momento giusto per poter entrare in associazione. Intervista n.1.

Si, in quel caso ci confrontiamo sicuramente, quando vediamo che c’è qualcosa che non va del tutto, in genere facciamo delle chiacchierate, ma non un colloquio per dire “puoi continuare o meno”. Cerchiamo di lavorare con quella persona su casi particolari per fargli capire che cosa qui va bene fare, che cosa no. Più che altro perché.. almeno questa è la mia idea, ma penso sia condivisa, chi viene qui, non ha conoscenza di cos’è la Sindrome di Down e come noi lavoriamo. Io nel 2002, non avrei fatto con le persone con Sindrome di Down, le cose che faccio ora... Però questo è il mio cambiamento, perché io conosco un nuovo punto di vista, quindi in genere presupponiamo che un volontario.. sia in buona fede e pensiamo che ragionare con lui sul nostro punto di vista, lo porti a cambiare, anche perché l’obiettivo di chi fa volontariato qua è sì, creare un gruppo misto per i ragazzi, ma soprattutto che quella persona finito questo percorso, esca di qua con un’idea differente della persona con Sindrome di Down. Quindi chiudere un percorso sarebbe un fallimento perché in quel caso, questa persona ritorna a casa con la stessa idea che aveva prima. Intervista n. 5.

Se rispetto ai parametri quali età, motivazione personale, disponibilità, le opinioni degli operatori sono conformi, lo stesso non si registra per quanto riguarda il parametro trascorsi di vita. La causa della dissonanza tra le opinioni, a mio parere, è riconducibile alla rarità dei casi in cui gli operatori si trovano a dover far uso di questa parte del “protocollo”.

I colloqui conoscitivi dei volontari sono condotti dalla coordinatrice dei volontari, la quale, nell’intervista n.4, racconta che raramente si confronta con trascorsi di vita significativi da non poter conciliare con le esigenze associative. Se in associazione non si presentano casi che mettono in difficoltà l’interlocutrice, è probabile che non si crei

63 molto spesso un contesto in cui i punti di vista differenti emergono e che non ci sia quindi la necessità e l’urgenza di darsi dei paletti definitivi al riguardo, risultando comunque efficace la scelta di procedere caso per caso.

Nelle interviste si evince come l’associazione faccia un uso continuo, anche non voluto, dei legami deboli. Non voluto nel senso che i legami deboli, rappresentati dai tirocinanti si trovano spesso a indirizzare autonomamente altri giovani, per lo più colleghi universitari, consigliando un percorso non solo di tirocinio, ma anche di volontariato all’interno dell’organizzazione. Ciò rinvigorisce l’idea che i legami deboli, aprano a nuove frontiere, ma dall’altro canto, quando si entra nel merito dei rapporti, in cui la fiducia è “prestata” dalla presenza di un terzo, che in quel caso ha quasi un ruolo da garante, solo 1 operatore su 5, dichiara che questa circostanza influenza l’approccio nella fase di reclutamento di quel volontario. Alla domanda «Dal tuo punto di vista: quando un potenziale volontario si presenta perché indirizzato da un terzo di vostra conoscenza, rispetto a quando si presenta da solo.. ci sono delle differenze nell’iter di reclutamento? Cambia qualcosa per voi?», l’operatrice dell’intervista n.1 risponde:

Sicuramente. Noi costruiamo una fiducia forte verso chi ha già fatto volontariato o esperienza qui in associazione, quindi se quella persona ci porta qualcuno qui in associazione, per noi la gran parte dei parametri di valutazione sono già superati, a differenza della maggiore attenzione che devi mettere quando la persona non è conosciuta da nessuno. Soprattutto quando sono persone che hanno fatto esperienze piuttosto lunghe qui da noi, ovviamente ci fidiamo molto del parere di quella persona e quindi sì, facciamo comunque una chiacchierata, però molto più tranquillamente, di quando facciamo un primo incontro, perché c’è completa fiducia.

La motivazione per cui l’atteggiamento di questa professionista è differente dalla prassi, avvalora il peso del capitale sociale che l’associazione accumula con chi interagisce con loro da diverso tempo.

Dalla sua affermazione si evidenzia come il capitale sociale rappresenti un lubrificante nella fase di selezione del volontario, rimarcando quanto sostenuto dagli autori su cui ci siamo soffermati nei capitoli precedenti. Per gli altri operatori, invece la situazione rimane invariata, inclusa la coordinatrice dei volontari dell’anno in corso. Il concetto contenuto nella teoria di Granovetter (1973), se non contestualizzata, può esser

64 fraintesa con un altro elemento di dubbia moralità, come la raccomandazione6. Nonostante, precisassi la differenza che esiste tra l’uno e l’altro, sono portata a credere che le risposte dei restanti operatori siano state razionalizzate e non calate nelle situazioni che vivono ogni giorno.

Ognuno di loro offre esempi di possibili conoscenze in comune che l’associazione ha intrattenuto con persone che poi si sono proposte come volontari. Infatti: nell’intervista n. 2, l’operatore ricorda di molti episodi, ancora attuali, in cui la conoscenza in comune è il fratello o la sorella con Sindrome di Down, e quindi nella valutazione del potenziale volontario si è posta maggiore attenzione, per capire se fosse opportuno o meno integrarlo in quel ruolo.

Nell’intervista n. 5, viene raccontato di un episodio in cui ad essere coinvolto è stato il fidanzato di una volontaria. In quel caso, si è deciso di inserirlo in un progetto diverso dalla fidanzata, così da attivare percorsi differenti, nonostante il colloquio conoscitivo fosse stato affrontato insieme.

E infine, nell’intervista n. 4, l’operatrice racconta di un episodio risalente una settimana prima di questa intervista, in cui a indirizzare un potenziale volontario è stata proprio una conoscenza di tanti anni, che ancora adesso, frequenta l’associazione anche se solo sporadicamente. In quell’occasione, questa persona conosciuta in risposta ad un annuncio su “spotted:unipi7”, ha reso noti i riferimenti dell’associazione a chi chiedeva

dove poter fare del volontariato.

In tutti gli episodi elencati, i cambiamenti vertono sulle valutazioni dei casi specifici, ma non sul piano dell’inclusione intesa alla maniera di Granovetter (1973); d’altronde come testimonia l’operatrice n.4 «Il volontariato è molto soggettivo».

In conclusione, da quanto dichiarato dalla maggior parte degli operatori, la fiducia reciproca tra operatore e volontario durante il colloquio conoscitivo, ha la stessa rilevanza della fiducia in prestito, generata dalla presenza di un terzo, durante il perpetuarsi dello stesso setting d’azione. Quindi sia l’approccio, che l’iter di

6 Generalmente ha una connotazione negativa e non etica. Inoltre rimanda all’idea di Fukuyama

(1996), secondo cui il capitale sociale se attivato nelle cerchie ristrette può indurre a nepotismo o familismo.

7 Le pagine "Spotted" sono gruppi online, dove gli studenti di una stessa università possono

inviare messaggi che verranno pubblicati sulla pagina e commentati dagli altri studenti che ne fanno parte. Il messaggio rilasciato può mantenere la forma dell’anonimato.

65 reclutamento dei volontari non cambiano e rimangono costanti in entrambe le circostanze e solo in un unico caso, si pensa invece che il capitale sociale aiuti nella selezione delle personalità dei volontari.

Sulla base delle risposte prodotte alle domande che riguardano gli strumenti che vengono messi in campo per la ricerca dei volontari e quelli che effettivamente vengono citati dai potenziali volontari durante il colloquio conoscitivo, si registra sicuramente una coincidenza.

Infatti, tutti gli operatori citano come strumenti di cui si adoperano: facebook, sito ufficiale dell’associazione, annunci su siti universitari come “spotted:unipi”, volantini affissi nei quartieri circostanti, o esercizi commerciali, annunci nei centri di aggregazione giovanile, soprattutto università. Come fa notare un’operatrice i social sono più facilmente raggiunti dai giovani, mentre il cartaceo è più alla portata degli adulti.

Tra gli strumenti a risuonare particolarmente è il “passaparola”, soprattutto tra i giovani. Infatti, tanti sono i tirocinanti che avendo fatto esperienza in associazione, passano da un percorso “obbligato”, a scegliere di fermarsi spontaneamente per intraprendere un percorso di volontariato e come conseguenza diretta c’è quella di diffondere tra i colleghi o amici informazioni sull’associazione, soprattutto nel periodo di ricerca dei volontari, che coincide con il mese di settembre.

Tra le risposte riportate nel primo colloquio conoscitivo da parte di chi si propone come volontario, ci sono tutti gli strumenti sopra citati, ma in aggiunta acquista notevole valore il “passaparola”, e la conoscenza attraverso non solo gli eventi come la “Cena in Bianco”, che registrando un alto numero di partecipanti, ha risonanza sul territorio, ma anche attraverso le attività dei gruppi che hanno luogo per lo più all’esterno dell’associazione: «Ci vedono fuori a fare delle attività, comunque questo nostro esserci sul territorio fa tantissimo, perché le persone si incuriosiscono» Intervista n.4 .

Dopo aver approfondito il grado di apertura verso i volontari, sono passata ad esplorare il grado di apertura verso l’altro target coinvolto, ovvero quello delle famiglie e quindi anche dei figli, che poi entrano come membri dell’associazione.

66 L’associazione ha l’obbligo di ospitare e accogliere tutte le famiglie, in cui vi è un membro con la Sindrome di Down, così come previsto per statuto. L’unica riserva esiste nel momento in cui, la famiglia si presenta ad uno stato avanzato di crescita di tale persona, che corrisponde molto spesso a una mancanza di autonomie sviluppate e curate nel tempo. In quel caso, si decide di inserirla, in un percorso domiciliare per l’acquisizione di quelle capacità che occorrono per inserirsi nell’organizzazione; percorso che, come sostenuto nelle interviste (operatrice n.1 e operatrice n.5), in alcuni momenti potrà intrecciarsi con l’associazione. Non c’è una chiusura a-priori, ma si cerca di dare tutti gli strumenti affinché al momento di ingresso, la persona con Sindrome di Down abbia un rapporto alla pari con gli altri.

Negli ultimi anni, l’associazione si è inoltre aperta a persone con ritardi cognitivi aspecifici, o sindromi affini ai ritardi cognitivi (Sindrome di Williams, o altre sindromi genetiche..). In questi casi quindi, dopo una valutazione iniziale, la persona può accedere come tutti gli altri.

Come registrato invece, un confine ben chiaro esiste nei confronti del disturbo autistico o che rientrano nello spettro autistico. Il motivo è racchiuso in quanto segue:

Ci siamo trovati invece a mettere dei confini chiari con persone con autismo e spettro autistico; infatti in quei casi non ci sentiamo assolutamente preparati ad accogliere sia le persone con autismo e spettro autistico, che le famiglie di queste. Sono delle famiglie con dei bisogni molto diversi, rispetto a quelli delle famiglie con Sindrome di Down.. Già il fatto di sapere, prima della nascita o dalla nascita, di avere un bambino con la Sindrome di Down, in qualche modo, questo crea fin a subito delle aspettative su quella che può essere la disabilità del figlio. Al contrario nel caso dell’autismo, le famiglie ad un determinato punto dello sviluppo di quel bambino, sono spettatori a volte di una regressione o comunque si rendono conto delle difficoltà gradualmente, non subitissimo, e allora ovviamente la parte traumatica arriva successivamente. Intervista n.1.

I membri dell’associazione possono scegliere di tesserarsi e servirsi dello sportello di ascolto, rivolto soprattutto alle famiglie con bimbi appena nati, così da essere indirizzati su tutta quella parte burocratica che li riguarda (L.104/93, etc.) o in generale prendere parte alle iniziative, agli eventi, ma astenersi dal partecipare alle attività interne.

67 Coloro che decidono invece di iscriversi ai corsi, devono pagare una quota che differisce in base al corso, ma come riportato da due operatori (operatore n.2 e operatrice n.1), questo non diviene fattore vincolante che pregiudica l’accesso alle famiglie che non hanno possibilità di contribuzione. Infatti, una volta capito il momento storico della famiglia, e dopo un confronto diretto col Consiglio di Amministrazione, si cerca di ovviare con altre soluzioni, la prima tra tutte, servirsi della quota di tutti gli altri, per sostenere chi non ce la fa. Ovviamente, facendo in questo modo, non possono essere mantenute più di due famiglie l’anno.

La tabella 1.2, “Inclusione ed esclusione delle famiglie” riassume quanto spiegato finora. Sindrome di down Ritardi cognitivi aspecifici Famiglie che non possono contribuire Autismo e spettro autistico Percorsi domiciliari per chi non ha, o ha

solo in parte, capacità e autonomie L’associazione si apre, offrendo un lavoro educativo a famiglie con un componente con Sindrome di Down, o con ritardi cognitivi aspecifici; a famiglie che non hanno possibilità di contribuzione e ancora, verso quei nuclei familiari, il cui soggetto con ritardo o Sindrome non abbia sviluppato adeguatamente le sue capacità di autonomia. In quest’ultimo caso, l’ingresso ufficiale in associazione è posticipato, ma non precluso. L’unico confine posto si ha verso famiglie con un componente che riporti il disturbo autistico, che l’associazione indirizza verso altri enti, più preparati nel campo.

L’iter per l’accesso da parte delle famiglie consta di due colloqui. Il primo conoscitivo, in cui le coordinatrici degli inserimenti, spiegano l’articolazione interna dell’associazione nei vari gruppi, e come procedono per collocare il figlio/a all’interno di uno di essi. Per stabilire il progetto più adatto, gli operatori fanno riferimento non solo all’età anagrafica della persona, ma soprattutto alle capacità sviluppate fino a quel momento. Non è raro trovare situazioni in cui magari, così come ci racconta l’operatrice dell’intervista n. 4, un giovane di 19 anni, se non ha ancora sviluppato