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I principi, di cui l’associazione si fa promotrice, elencati dagli operatori durante le interviste, sono:

 Inclusione;

 Rispetto dei diritti della persona con Sindrome di Down;  Autonomia;

 Indipendenza.

Le ultime due, come precisa un’operatrice, non sono equivalenti, e come ancora argomenta l’operatore dell’intervista n.2, può capitare che seppur l’associazione lavori su ognuno di questi principi, i membri stessi, quali le famiglie, alcune volte si pongano non da supporto, ma come un ulteriore problema da affrontare per arrivare all’obiettivo. Ciò prova una mancanza di adesione da parte di questi attori sociali all’approccio d’intervento dell’associazione, ma come precisa lo stesso, questo avviene soprattutto all’inizio dell’inclusione all’associazione. La condivisione effettiva al gruppo infatti, non avviene di certo al momento dell’avvenuta iscrizione, ma con l’inoltrarsi del lavoro e soprattutto al momento in cui i primi, anche i più piccoli, miglioramenti cominciano a delinearsi.

L’adesione da parte dei ragazzi alle regole comportamentali e relazionali, che favoriscono una socializzazione positiva, non è di certo immediata. Dai più piccoli ai

77 più grandi, tutti subiscono una prima fase di assimilazione. Come prevede ogni lavoro educativo, i comportamenti oppositori si presentano quotidianamente. Ma gli altri, come li affrontano?

Op.: Sì, c’è sempre il richiamo del gruppo, che è quello su cui lavora l’educatore..

“condividiamo il gruppo, condividiamo degli spazi, scegliamo insieme le regole..” però poi una volta scelte, è il gruppo a rimandare alla persona quando non sta sui binari.

Inter.: Quindi fate delle riunioni, degli incontri appositi per condividere insieme a loro

principi e norme comportamentali base?

Op.: Sì, tutti i gruppi, a partire dai più piccoli, nella prima fase dell’anno, c’è quello che

noi chiamiamo il “Regolamento”, e così insieme si sceglie come si sta bene con gli amici; sono tutte regole positive.. “come mi piace stare”.. sia per i bimbi, che per gli Esploratori, che per il Club e tante volte anche nell’ATL (attività del tempo libero). Quando non è scontato, non è previsto un momento formale destinato alla scelta delle regole, ci si ferma e si discute nel gruppo di quello che mi piace, quello che non mi piace rispetto allo stare dentro questo gruppo. Intervista n.3.

Come spiegano gli operatori, le reazioni dei membri dei gruppi dipendono molto dalla fascia d’età e gli approcci sono molteplici, anche se in linea generale, riconoscono che le dinamiche di questi gruppi abbiano un andamento diverso. Nei gruppi dei bambini in caso di comportamenti oppositori, è quasi immediato il richiamo all’operatore, in quanto figura di riferimento che ha il potere di far giustizia nel conflitto, mentre nei gruppi degli adulti, naturalmente, c’è una propensione maggiore al dialogo e all’autonomia di scelta su come comportarsi.

Mentre nel caso degli adulti non è tanto l’operatore che interviene quanto invece i ragazzi che si danno delle direttive da soli.. quello che funziona di più a mio parere, è il consiglio dato dall’amico del gruppo, rispetto al richiamo dell’operatore. Intervista n. 2

In questo clima di autodeterminazione, «c’è chi cerca di mediare e quindi di trovare il modo, con i propri strumenti affinché quella persona possa in qualche modo rientrare nella carreggiata del regolamento del gruppo, nel rispetto di tutti quanti. Questo è un approccio quello del mediatore. Poi c’è quello dell’esclusione.» Intervista n. 1.

Dalla fotografia offerta dagli operatori, 4 su 5 affermano che l’esclusione sia un approccio consono all’interno del gruppo, nel momento in cui un suo membro si rende

78 ostico per molto tempo. È pur vero che le dinamiche sono diverse da quelle consone, perché spiegano che il loro grado di tolleranza è sicuramente maggiore rispetto a quello che, gli altri senza difficoltà sarebbero in grado di sostenere normalmente.

L’alto grado di tolleranza è probabile sia frutto «del lavoro del rispetto sulle diversità di ognuno e in genere gli episodi di resistenza, mancanza di rispetto sono dati da persone che hanno una personalità tale, da non riuscire a rispettare alcune regole del gruppo» (Intervista n. 5) e quindi ciò porta a fenomeni di emarginazione.

Ci sentiamo dire dagli stessi ragazzi “io non voglio stare in gruppo con quella persona”, piuttosto che “io non voglio andare in vacanza con quella persona”, “io non voglio fare il fine settimana con quella persona”.. è una cosa anche delle famiglie comunque.

Intervista n.1

L’associazione AIPD, evidentemente rappresenta un caso particolare, poiché abbraccia problematiche psicologiche e una varietà notevole di età diverse tra i membri, quindi è normale che le regole comportamentali implicite di qualsiasi gruppo siano messe in discussione. I motivi sono ovvi: fase di crescita che minaccia l’equilibrio di qualsiasi bambino, adolescente; impossibilità nel contenimento delle emozioni o nella loro corretta canalizzazione a causa del ritardo di cui la persona con Sindrome di Down soffre, etc.. ma la capacità di autodeterminazione e consapevolezza di gruppo è quella che indica come si sviluppi un’unione a prescindere, e non solo grazie agli interventi degli operatori, ma soprattutto agli “aggiustamenti” nelle condotte, di cui loro insieme si rendono partecipi.

A lubrificare meglio questa capacità, c’è il loro senso di tolleranza, a detta degli operatori, accentuato. Danno molte possibilità al prossimo e solo dopo di ciò, decidono di allontanarlo. Gli episodi di emarginazione sono presenti e rispecchiano le esigenze sia del ragazzo che della famiglia.

Rispetto alla capacità di autoreferenzialità, tutti gli operatori alla domanda «Ci sono attività o progetti nati per esplicita richiesta delle persone che frequentano l’associazione?»

hanno dato delle risposte esaurienti su quelli che, secondo loro, sono stati progetti generati dalla spinta dei ragazzi. Ho notato una generale difficoltà a scindere le esigenze dei ragazzi, da quelle espresse dalle famiglie, che avrei rilevato attraverso la

79 domanda successiva, ovvero «Ci sono attività o progetti nati per esplicita richiesta delle famiglie delle persone che frequentano l’associazione?».

Tutti asseriscono che sicuramente il calcetto è nato come progetto frutto dell’esigenza dai giovani di divertirsi e giocare a calcio, in una squadra di pari, accompagnati dall’appoggio familiare che è arrivato subito dopo. È un progetto che è cresciuto nel tempo, e non si è perso, così come invece è accaduto per il progetto chiamato “Cosa faccio il venerdì sera?”, pensato dai ragazzi e per i ragazzi al fine di creare una integrazione serale anche nel fine settimana. Ad oggi questo progetto non esiste più per mancanza di risorse economiche da destinarvi.

Rispetto a progetti nati dalle esigenze familiari, gli operatori hanno affermato che sono tantissimi. Tutti quelli che non riguardano i corsi di autonomia previsti dall’associazione, sono frutto delle richieste familiari.

Le richieste che giungono sono tante, ma non tutte possono essere accettate, perché non sempre collimano bene con i fini dell’associazione. Infatti, seppur sia importante partecipare a laboratori creativi, l’associazione delimita dei confini rispetto agli obiettivi prefissati, ovvero autonomia declinata nei vari aspetti della vita, compresa quella lavorativa. Infatti ad esempio, attraverso il progetto “Fare Centro”, l’AIPD è riuscita a mettere in contatto adulti con Sindrome Down, che non possono spendersi nel mondo del lavoro e ad inserirli in contesti in cui si rendono utili e produttivi, quindi nel tempo, hanno lavorato nell’Orto Botanico di Pisa, o alla mieleria di San Rossore, e dalle foto mostrate sulla pagina facebook, si potrebbe dedurre che siano delle attività creative. In realtà tali attività si discostano dai laboratori e rimandano al giovane-adulto un messaggio specifico, più efficace su un piano dell’autonomia personale.

Come in qualsiasi ricerca qualitativa, le interviste permettono di andare in profondità nelle ragioni e nella comunicazione con la persona intervistata. Alla domanda se si sono mai creati progetti su proposta dei ragazzi che, avessero quindi dato lettura autonoma delle proprie esigenze, mi ha sorpreso positivamente una risposta di un’operatrice, che penso possa racchiudere e raccontare di quell’atteggiamento titubante riscontrato nel non verbale degli altri operatori.

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È difficile questa domanda, perché a me piacerebbe sapere quali sono le richieste dei ragazzi, mi piacerebbe togliergli quella corazza che hanno, costruita dalle richieste di tutti gli altri, noi compresi, per capire quali sono le loro esigenze. Allora.. sì e no, nel senso che se penso realmente a tutti i progetti che abbiamo, la maggior parte vengono o da richieste delle famiglie o da nostre letture di quella che può essere un’esigenza dei ragazzi… Quindi il giorno che verrà fuori un gruppo di ragazzi che si ribellerà alle nostre e alle esigenze delle famiglie e staranno tutto il giorno a guardarsi negli occhi e a chiacchierare, senza uscire, senza fare nulla di educativo.. quel giorno sarà una vittoria per tutti!.. Ma ancora ci vuole un po’. Intervista n.5.

Nello stesso intervento, l’operatrice racconta di quando non molto tempo fa, durante un progetto furono affiancati da un collaboratore, che ebbe modo di parlare sia con i membri dell’associazione, che con gli operatori. Il professionista dopo aver ascoltato entrambe le parti, diede delle letture precise di quanto visto.

I ragazzi avevano la tendenza a esprimere un forte senso di gratitudine ogni qual volta si facesse riferimento all’associazione. Per il professionista esterno, questa gratitudine, più volte sottolineata, non rispecchiava una consapevolezza, che dovrebbe essere implicita nel percorso dei giovani, tant’è che dice loro «E’ importante ringraziare, ma basta farlo una volta, d’altronde sono persone che lavorano per voi e qui si sta parlando dei vostri diritti» e ancora, riferisce agli operatori che dovrebbero essere capaci di «lasciarli andare molto di più», rispetto a quanto fanno già. L’operatrice n.5 mi comunica che di fronte a questa lettura si è accorta che nonostante loro stessi siano portavoce di messaggi di autonomia e indipendenza, molto spesso si ritrovano ad essere protettivi e verso i ragazzi e verso le famiglie. La gratitudine enfatizzata probabilmente è indicativa di quell’attaccamento, che contribuisce all’adesione all’organizzazione, ma che non consente di fare quel salto di qualità, di natura autoreferenziale, descritto dall’operatrice.