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«The tradition of the fool, you know. Licensed to provoke and tease.» Modalità del comico in Midnight’s Children e Shame di Salman Rushdie

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Academic year: 2021

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Introduzione

In un lavoro dedicato al carattere opposizionale e trasgressivo del comico verbale è bene sottolineare immediatamente di cosa non si tratta. In queste pagine non si vuole elaborare un’ulteriore teoria con pretese di completezza ed esaustività sul fenomeno dello humour come molti studiosi hanno cercato di fare (con risultati mai totalmente soddisfacenti) da tempi immemori.

Si intende piuttosto dimostrare che il comico, in quanto fenomeno intrinsecamente complesso e sfaccettato, non solo non consente ma neppure merita una trattamento “riduzionista” che, attraverso intenti troppo votati a precisione e pulizia formalistica, impone di trascurare molti aspetti che si rivelano, oltre che interessanti, fondamentali.

Se, come vedremo, il comico verbale (ma non solo; è bene a questo proposito sottolineare che il mio interesse è principalmente rivolto al comico in contesti letterari, seppure molte considerazioni potranno risultare valide in generale) non è un fenomeno prettamente linguistico ma coinvolge aspetti pragmatici, cognitivi, psico-sociologici e ideologici, è chiaro che per affrontarlo sarà necessario un apparato di competenze e conoscenze vastissimo, che attinge da campi di studio svariati. Non disponendo certo di tale totale pertinenza, quel che mi prefiggo è comunque di suggerire alcuni spunti in favore di questa direzione multidisciplinare rimarcando quanto eventuali omissioni (anche dolose) siano dannose e fuorvianti.

Nel far ciò sfrutterò come punto di partenza una serie di teorie a base semantico-pragmatica, di cui mostrerò i punti di forza ma anche le manchevolezze conseguenti alla scelta di dedicare ogni attenzione quasi esclusivamente a uno soltanto degli elementi che compongono il meccanismo da cui il comico scaturisce. Proporrò quindi una serie di possibili integrazioni, desunte da altri modelli interpretativi provenienti da campi diversi, in cui le altre componenti riconquistano il ruolo che spetta loro di diritto.

Per verificare la validità e la funzionalità di tali aggiustamenti e per poterne operare, di rimbalzo, una eventuale taratura, mi dedicherò all’analisi degli elementi comici presenti in due romanzi di Salman Rushdie, Midnight’s Children (1981) e Shame (1983) che si riveleranno enciclopedici anche dal punto di vista delle modalità umoristiche. La condizione umana e ideologica dell’autore e lo stile di questi testi sono idealmente fecondi per mettere alla prova le considerazioni sviluppate nella parte teorica: spesso ritroveremo concetti elaborati in queste sezioni come addirittura tematizzati all’interno delle storie narrate, a conferma della grande consapevolezza di Rushdie anche in campo di humour theories.

La tesi quindi si comporrà di una prima parte dedicata alla teoria e una seconda rivolta all’analisi dei romanzi. Nel primo capitolo offrirò una rapida carrellata sulla secolare tradizione degli studi sullo humour, per poter meglio inquadrare le teorie esaminate nello specifico nei capitoli successivi. Sarà interessante insistere sulla classificazione tripartita dei vari approcci speculativi, dal momento che gli studiosi che poi affronteremo più direttamente propongono (con alterni risultati) un auspicabile

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superamento delle divisioni in tre categorie, che si rivelano piuttosto complementari approcci da angolazioni diverse.

Passerò quindi ad illustrare le ipotesi proposte da Raskin e Attardo (capitoli 2 e 3) che sviluppano delle teorie linguistico-pragmatiche dello humour basate sul concetto semantico-cognitivo di script e sulla loro messa in opposizione. Il modello interpretativo elaborato dai due studiosi presenta dei vantaggi ma pecca anche di una serie di rimozioni non accettabili, tra cui quella del ruolo fondamentale e relativizzante degli attanti, strettamente collegata all’importanza del piano contenutistico, ugualmente trascurato.

È necessario quindi rivolgersi ad altri approcci, e nel capitolo 4 esaminerò il lavoro di un gruppo quanto mai eterogeneo di autori che riportano l’attenzione proprio sugli elementi aggirati dalle teorie di Raskin e Attardo. Attraverso l’opera di Billig sarà riaffermato quindi il carattere retorico, contraddittorio e relativo del comico. Una volta aperta la porta ai contenuti si vedrà con Orlando come questi vengono gestiti perché si possa produrre comicità e si esploreranno (con Ceccarelli e D’Angeli e Paduano) le molteplici funzioni che essa svolge all’interno del patto sociale.

Nel capitolo 5 cercherò quindi di integrare i diversi approcci, operando una sintesi (non certo definitiva e priva di residui) che offra un modello per l’analisi del comico più complesso e stratificato, non formalmente impeccabile ma spero adeguato ad affrontare la proteiformità del fenomeno.

La seconda parte darà quindi dedicata alla messa in pratica delle integrazioni proposte sui due romanzi di Rushdie. Dopo una breve introduzione all’autore (capitolo 6) e una esplicitazione dei motivi che mi hanno portato alla scelta di questo campo di prova, affronterò le varie modalità comiche adoperate nei due testi, passando da quelle occorrenze più facilmente gestibili e interpretabili, anche perché spesso accompagnate da un riscontro semiotizzato testuale (il riso è prodotto e anche segnalato nella storia, capitoli 7 e 8) a casi di cui solo modelli più comprensivi di analisi come quelli suggeriti permettono di render conto: forme che addirittura possono non essere avvertite come comiche in quanto coinvolgono nel ruolo di bersaglio gli stessi lettori (capitolo 9) o perché vivono in un mondo di confine con altre forme letterarie quali il linguaggio poetico e il realismo magico (capitolo 10).

Una piccola parentesi terminologica: come sarà già parso evidente da queste prime pagine, spesso oscillo tra l’uso di termini come comico, umorismo, riso e humour, trattandoli come fossero intercambiabili. I tentativi di classificazioni terminologiche tradizionali sono spesso contraddittori e fondati su principi tassonomici confusi e solo apparentemente sistematici. Preferisco quindi adoperare un termine il più generale e includente possibile come “comico”, che per motivi esclusivamente stilistici varierò di tanto in tanto con il corrispettivo inglese humour (cfr. Raskin 1985a:28 e Attardo 1994:9-10, che operano scelte simili) e con l’equivalente “umorismo”, che considero un sinonimo, appoggiandomi alle considerazioni di Eco (2002) secondo cui “La categoria dell’Umorismo non pare avere nessuna

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possibilità di differenziazione teorica da quella del comico”. Per comodità userò anche la parola “riso”, consapevole che si tratta di un effetto (non esclusivamente) del comico (cfr. Ceccarelli 1988) e intendendolo non come concreta manifestazione sonora quanto rimandando alla potenzialità dell’elemento comico di rispondere a condizioni di felicità e causare tale reazione. Chiaramente dove il contesto lo richieda adotterò le distinzioni necessarie: affrontando Freud non si potrà non tenere in considerazione che nella sua analisi umorismo e comico sono fenomeni ben distinti.

In questa scelta è riscontrabile anche una presa di posizione ideologica, che consiste nel rifiuto di tracciare confini artificiali tra i vari fenomeni riconducibili alla famiglia del comico. E uso la parola “famiglia” in senso wittgensteiniano, per indicare un insieme di cui non è possibile dare una definizione univoca ma a cui comunque somiglianze di tratti consentono di rimandare. Proprio la concezione complessa e stratificata del fenomeno del comico che intendo trasmettere in questo lavoro credo possa giustificare una tale decisione terminologica. Come per quanto riguarda l’elaborazione teorica, una formula semplice e precisa potrà offrire un senso superficiale di pulizia e precisione, ma raramente sarà in grado di racchiudere e spiegare un sistema complesso e multiforme come quello con cui abbiamo a che fare.

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PARTE PRIMA

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1. Le teorie del comico

Con questo capitolo si vuole offrire una breve e forzatamente incompleta carrellata sul percorso compiuto dalle teorie del comico a partire dalle prime elaborazioni classiche fino ai giorni nostri. In tal modo si delineerà lo sfondo su cui si staglia la scena degli studi attuali e si potrà usufruire di una impalcatura concettuale di riferimento per prendere in esame le teorie su cui direttamente verterà questo lavoro.

La trattazione, per la cui redazione mi sono rifatto soprattutto a Keith-Spiegel (1972), Raskin (1985a), Ceccarelli (1988) e Attardo (1994), sarà divisa in tre parti: la prima è organizzata cronologicamente e riguarda il mondo antico; la seconda, che tratta delle teorie moderne dello humour, segue la ormai canonica distinzione tripartita della teorie (di cui si dirà meglio più avanti); infine si accennerà a due autori, Bergson e Freud, le cui complesse idee sull’argomento non possono venire catalogate sotto l’una o l’altra categoria.

1.1. Il mondo antico

1.1.1. Il mondo greco: Platone, Aristotele e la tradizione ellenistica

Platone è solitamente indicato come il primo teorizzatore del comico, nonostante egli non elabori un

vero e proprio sistema ma offra soltanto alcune indicazioni sparse soprattutto nel Filebo e nella Repubblica.

Secondo Platone il comico è un sentimento misto (di dolore – invidia – e piacere) dell’anima. Si ride delle qualità ridicole degli amici che si sopravvalutano, di chi ha immotivata alta opinione di sé; in questo senso il filosofo può essere considerato il fondatore della classe di teorie del ridicolo e della superiorità.

Nella Repubblica egli insiste sulla necessità di evitare il riso, manifestazione negativa da reprimere in special modo nelle sue forme eccessive, dal momento che opera uno sconvolgimento dell’anima. Sarebbero necessarie vere e proprie forme di controllo, nonostante esso possa rivelarsi utile, soprattutto per ridicolizzare certe opere letterarie troppo molli.

In Platone è riscontrabile un paradosso di fondo: nonostante egli si schieri apertamente contro il comico, nei suoi Dialoghi ne fa un uso massiccio: continuamente Socrate prende in giro e ridicolizza i suoi avversari.

La (supposta) opera di Aristotele dedicata alla commedia è andata persa. Restano quindi brevi accenni al riso nella prima parte della Poetica, nella Retorica e nell’Etica Nicomachea. Soprattutto nella

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Poetica, il comico è configurato come ridicolo (si imitano e prendono in giro uomini inferiori, brutti); caratteristica di questa derisione è la sua innocuità: non deve procurare dolore o danno.

Il giudizio di Aristotele sul comico è leggermente più positivo di quello di Platone (nonostante qualche remora sul suo uso: gli eccessi sono comunque da rifuggire); egli vi riconosce un principio estetico. Inoltre il comico può essere utilizzato nella retorica, può favorire le argomentazioni dell’oratore (Retorica), ma solo l’ironia è appropriata, mentre le buffonerie andrebbero evitate. Questa distinzione tra due generi di “divertente”, quello degli spiritosi e quello dei buffoni, rimanda alla divisione in classi sociali del mondo greco: il primo è legato alle classi superiori, degli uomini liberi; il secondo alle classi inferiori, ai servi. Billig (2005; cfr. sez. 4.1) rinviene qui la genesi dell’ipocrita dicotomia tra riso positivo e negativo.

Aristotele si dedica brevemente anche a delineare i meccanismi del comico, e in fare ciò, nota Morreall (1987:14), parrebbe anticipare la classe di teorie dell’incongruità: collegando humour e linguaggio figurato sottolinea il ricorso a qualcosa di inatteso che però viene riconosciuto come esatto. L’influsso di Aristotele si ripercuoterà su qualsiasi discorso sul comico successivo, almeno fino all’era moderna.

Teofrasto contribuisce al discorso sullo humour introducendo il concetto di “comico del carattere” e

della “finzionalità” della commedia, distaccandosi in questo caso da Aristotele (solitamente seguito pedissequamente) che connette il genere alla verosimiglianza.

Longino parla di un sublime comico parallelo al sublime “serio” e torna a intessere legami tra

linguaggio figurato e comicità.

Nel Tractatus Coislinianus, di dubbia attribuzione (spesso vi si è visto un vero e proprio riassunto del pensiero aristotelico sulla commedia espresso nel libro perso della Poetica), viene delineata una serie di importanti classificazioni dei meccanismi comici, come quella tra il riso che deriva dai fatti o dalle parole, in un’anticipazione della distinzione tra comico verbale e referenziale che tornerà in Cicerone. Le due categorie sono poi analizzate in riferimento alle tecniche utilizzate per produrre il riso.

1.1.2. Il mondo latino: Cicerone, Quintiliano e Orazio

Come in precedenza Aristotele, Cicerone, secondo cui il riso nasce dal confronto con turpitudine e deformità (di nuovo siamo nell’ambito del ridicolo) e andrebbe evitato in situazioni troppo patetiche, affronta il rapporto tra comico e retorica.

Nel De Oratore distingue tra humour verbale e referenziale: le “facezie” possono dipendere dai fatti (re) o da ciò che viene detto (dicto), distinzione che si è mantenuta funzionale fino ai giorni nostri. Su tale dicotomia di base si elabora una vera e propria tassonomia (la prima della storia, almeno dal punto di

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vista linguistico): il comico referenziale include aneddoti e caricature; quello verbale include ambiguità, paranomasia, false etimologie, proverbi, interpretazione letterale di espressioni figurate, allegoria, metafora, antifrasi e ironia.

Cicerone propone una prova empirica a lungo ritenuta valida per verificare l’opposizione tra verbale e referenziale: è la traduzione che permette il riconoscimento della classe di appartenenza. Se l’effetto comico permane nonostante parafrasi o traduzione, sarà chiaro che esso dipende dal contenuto semantico del testo; se il testo modificato perde il suo effetto comico, ne consegue che questo era concentrato nella forma.

Anche Quintiliano affronta il comico in relazione al suo uso nell’arte oratoria e rimarca, come in Aristotele, il concetto di appropriatezza: vanno evitate le esagerazioni e si devono applicare regole di correttezza. Nota inoltre che il riso può avere fonti psicologiche ma anche fisiche (il solletico) e a questo lega la difficoltà di offrire una spiegazione univoca del fenomeno. L’accento è come al solito sul ridicolo e sul carattere aggressivo della comicità, anche se non si esclude un uso sociale “positivo” del riso, sfruttato per lodare gli altri.

Tra le varie tassonomie proposte (tra cui viene accettata anche la distinzione ciceroniana tra comico verbale e referenziale), Quintiliano distingue tra comico volontario (vi è intenzionalità da parte dell’autore nel dire/fare qualcosa di risibile) e involontario (un gesto o una frase non sono prodotti per far ridere ma ciononostante vengono percepiti come divertenti) ed affronta un’analisi dei diversi soggetti contro cui il riso può rivolgersi: si ride degli altri o di sé stessi, ma esiste anche un terzo tipo di humour, neutrale, in cui si ride di aspettative frustrate. Quintiliano, infine, nota che tutte le figure retoriche possono essere fonte di comico.

Resta da accennare brevemente ad Orazio che sottolinea come la commedia debba far ricorso a uno stile confacente ai suoi temi (non si possono usare versi tragici per un soggetto comico) e possa essere utile per educare, in quanto presenta le idee in una forma accessibile e piacevole.

1.1.3. Dall’età classica all’era moderna

Nei secoli successivi e fino al principio dell’età moderna non si registreranno particolari progressi nel campo delle teorie del comico. Attraverso il recupero dei testi originali, durante Rinascimento e Umanesimo le idee degli autori antichi, greci e latini, verranno riprese e riformulate, senza sostanziali innovazioni. Si pensi al tema dello stile “umile” adatto al commedia e a quello dell’appropriatezza e del decoro, o alla sintesi operata da Trissino delle teorie di Aristotele, Platone e Cicerone.

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Alcuni concetti importanti riceveranno comunque un approfondimento e una maggiore attenzione: Madius sottolineerà l’importanza della sorpresa nella produzione del riso, e Ludovico Castelvetro introdurrà l’elemento sessuale come possibile fonte di comico.

Ma è solo con l’avvento dell’era moderna e con la divisione e la specializzazione del sapere che si arriverà all’elaborazione di vere e proprie teorie dello humour sistematiche e con pretese (più o meno disattese) di completezza.

1.2. L’età moderna e le tre classi di teorie del comico

La definitiva specializzazione del sapere che si compie con l’ingresso nell’era moderna ha portato alla produzione di svariate teorie sul comico, che viene d’ora in poi affrontato da diversi punti di vista. Molti autori hanno tentato di organizzare queste varie teorie e di classificarle; è consuetudine ormai universalmente accettata suddividerle in tre grandi categorie, definite (cfr. Raskin 1985a):

a) cognitivo-percettive (cognitive-perceptual); associate all’incongruo (incongruity);

b) social-comportamentali (social-behavioral); associate alla denigrazione (disparagement) e alla superiorità;

c) psicanalitiche; associate a repressione e liberazione dalla stessa (suppression/repression).

La classe delle teorie basate sull’incongruità può esser fatta risalire a Kant, con la sua definizione nella Critica del giudizio del riso come effetto dell’improvvisa trasformazione di un’aspettativa in nulla, e a Schopenhauer. Oggi è questa classe di teorie ad apparire predominante, soprattutto nella ricerca psicologica, in cui è stata elaborata una successiva distinzione tra teorie dell’incongruità e dell’incongruità/risoluzione (cfr. Goldstein – McGhee 1972). Importante è, per questi teorici, l’elemento della sorpresa (già in Kant). Parte della teoria di Bergson, che si concentra sul contrasto tra umano e meccanico, può essere fatta rientrare in questa classe. Anche le teorie del gioco (Huizinga 1973 e Bateson 1972) chiamano in causa l’incongruo – tra situazione reale e situazione del gioco, che non è “vera”.

Il padrino delle teorie basate sulla superiorità (aggressione, derisione, denigrazione che dir si voglia) è Thomas Hobbes, anche se le radici arrivano fino a Platone e Aristotele e tracce si trovano in Cicerone, Schopenhauer, Freud e Bergson. Negli studi più vicini a noi, Albert Rapp (citato in Raskin 1985a) vede l’ostilità alla base di ogni forma di comico: nel ridicolo, nel wit, nella vittoria contro la repressione c’è superiorità e/o ostilità; ciò non significa che il riso o il comico sia una cosa negativa: serve anzi a minimizzare scontri sociali che altrimenti sarebbero ben più funesti.

Le teorie basate sul sollievo e lo sfogo (“release theory”) partono da Spencer; la più famosa è quella di Freud, che però è molto complessa e come detto non può essere limitata in un’unica categoria.

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Monro prima e Mindess poi (1951 e 1971, cfr. Raskin 1985a) insistono sul concetto di comico come liberazione dalle costrizioni, sulla rottura delle aspettative, degli schemi usuali.

Il principio base di queste teorie è che il riso offre sollievo e scarico all’energia mentale, nervosa e o psichica e assicura omeostasi dopo uno sforzo e una tensione inusitati. Questo sollievo può essere esaminato dal punto di vista fisiologico, psicologico, psicanalitico e dipende dal gran numero di costrizioni sotto cui ci troviamo a vivere, come la necessità di parlare sensatamente, di comportarsi bene… Per Freud tutto il comico deriva da questa liberazione, finanche quello più estremo, quello nonsense, in cui si assiste a una liberazione momentanea dalla logica.

A proposito della liberazione dalle inibizioni, inoltre, oggi si parla di “arousal-safety theories”: l’eccitazione è causata da uno stimolo che poi si rivela inadatto – e il meccanismo ci riporta alla già citata teoria kantiana.

Raskin (1985a e cfr. capitolo successivo) sottolinea come alla fine i tre gruppi siano molto meno incompatibili di quel che sembri (o di quel che vogliono i sostenitori delle varie teorie); non si contraddicono e anzi spesso si supplementano l’un l’altro. Sono piuttosto approcci diversi da angolazioni diverse:

the incongruity-based theories make a statement about the stimulus; the superiority theories characterize the relations or attitudes between the speaker and the hearer; and the release/relief theories comment on the feelings and psychology of the hearer only. (40)

Vedremo come le teorie semantiche sviluppate da Raskin e da Attardo da cui prende le mosse la mia proposta di modello interpretativo del comico intendano appunto superare questa distinzione e affrontare lo humour in modo olistico e definitivo.

Per comodità nelle sezioni successive adotterò questa classificazione, perlomeno fino all’arrivo di due grandi pensatori e teorici che per complessità di idee non consentono un incasellamento preciso nell’una o nell’altra classe: Bergson e Freud.

1.2.1. Le teorie dell’ostilità: da Hobbes a Ceccarelli

Thomas Hobbes può essere considerato il fondatore della classe delle teorie della superiorità, in

quanto mette a punto l’ipotesi appena suggerita da Platone. È celebre il passo di Human Nature in cui si afferma che il riso nasce dalla percezione della nostra superiorità nel confronto con debolezze o difetti altrui:

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laughter is nothing else but a sudden glory arising from sudden conception of some eminency in ourselves, by comparison with the infirmities of others, or with our own formerly: for men laugh at the follies of themselves past, when they come suddenly to remembrance, except they bring with them any present dishonour. (Hobbes 1999:54-55)

Viene sottolineata quindi anche l’importanza del bersaglio della derisione, l’oggetto (in realtà sempre una persona) che ne è vittima (per un’ulteriore discussione della teoria hobbesiana cfr. sez. 4.1.2).

Contemporaneamente ad Hobbes, Cartesio propone un approfondimento dell’aspetto fisiologico del riso: secondo il francese questo deriva da un afflusso di sangue nei polmoni causato da un misto di gioia, stupore e odio (che rimanda al misto di piacere e dolore di Platone). Anche secondo Cartesio ridiamo per la derisione di qualcuno che ritenevamo degno ma che incorre in un piccolo male.

Alexander Bain riprende le idee di Hobbes ed elabora una teoria scientifica logicamente costruita;

egli estende la categoria di bersaglio a idee e istituzioni: il riso si manifesta quando l’oggetto di esso (e quindi non necessariamente una persona), che prima rispettavamo, d’improvviso appare come mediocre o vile.

L’attenzione viene spostata dalla superiorità di chi ride (si può ridere anche per la superiorità di qualcun altro) alla degradazione dell’oggetto del riso. Come già detto, la categoria del bersaglio viene allargata a comprendere non solo esseri umani ma anche oggetti inanimati, idee, concetti e istituzioni politiche. Infine si sottolinea che esistono fattori capaci di inibire il riso, come la pietà.

Ma Bain non si limita ad analizzare il risibile: come Cartesio precedentemente, tenta di tratteggiare una teoria fisiologica secondo cui quando il nostro organismo si trova ad ospitare due sensazioni opposte in rapporto a un solo oggetto (è il caso del prestigio che viene svalutato) si può produrre la risata, che è un ritorno dall’atteggiamento solenne a quello di abbandono per mezzo di scosse convulsive.

Con il tempo il concetto di liberazione prenderò maggior peso, tanto che la degradazione comica verrà da Bain letta come una liberazione da una costrizione: ci si avvicina così a Spencer e alle classe delle teorie del sollievo (cfr. sotto).

Bain si schiera apertamente contro le teorie dell’incongruità – troppe incongruenze non fanno ridere – e smaschera anche gli studiosi precedenti che per negare le teorie di Hobbes sfruttavano esempi in cui erano comunque rintracciabili elementi di degradazione che venivano opportunamente trascurati.

Nel gruppo dei sostenitori della superiorità come fonte di riso si possono poi annoverare Marmontel, autore di molti articoli dell’Encyclopédie, Lamennais, Stendhal, Baudelaire e Dostoevskij (cfr. Ceccarelli 1988:276).

Poi, come vedremo meglio in Billig, la fortuna di questa categoria scema: per il Novecento possiamo citare Alfred Stern, che interpreta il comico sullo sfondo di una filosofia dei valori e connette

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il riso alla degradazione degli stessi; e Charles Lalo, anch’egli sostenitore del principio della svalutazione dei valori.

Lalo torna a distinguere anche tra riso estetico, stimolato da situazioni comiche o spiritose, e riso psico-fisiologico, suscitato da solletico, gioia, trionfo, gas esilarante; perché si dia riso estetico è necessaria una sintesi di contrasto e degradazione che produce una svalutazione, un passaggio tra due termini con perdita di valore. In questo modo egli cerca di sussumere le teorie dell’incongruità all’interno di quelle della superiorità.

Infine il già citato Albert Rapp rintraccia l’ostilità alla base di ogni forma di comico: nel ridicolo, nel wit, nella vittoria contro la repressione c’è superiorità e/o ostilità. Il riso però è una sublimazione di istinti aggressivi, e serve a minimizzare gli scontri, sostituendosi ad assalti reali. Ci inseriamo qui in un filone teorico legato all’antropologia di cui anche Ceccarelli è esponente (cfr. sez. 4.3) secondo il quale i fenomeni connessi allo humour altro non sono che vestigia di antichi comportamenti adattivi, sublimazione di antichi comportamenti di aggressione (si veda la fenomenologia della risata, con l’esposizione dei denti tipica degli animali in fase di minaccia).

1.2.2. Le teorie dell’incongruo: da Kant a Koestler

Le teorie dell’incongruo si sviluppano in reazione alla proposta hobbesiana di un comico negativo, basato sul senso di superiorità. Secondo Billig (cfr. sez. 4.1.2) sono una sorta di tentativo per “salvare” la comicità emendandola da quegli elementi sconvenienti che non possono confarsi alla raffinatezza e all’emancipazione della borghesia dell’epoca illuminista.

John Locke si occupa del wit, unica modalità comica accettabile da opporre al ridicolo, nel suo

Essay Concerning Human Understanding (1690), sottolineando come esso permetta di accomunare cose diverse trattandole come simili. Mark Akenside, nel suo poema didattico The Pleasures of Imagination (1744), è il primo a parlare esplicitamente di “incongruous”. In queste teorie l’attenzione si sposta dagli aspetti emozionali a quelli cognitivi; il comico diventa un’attitudine totalmente intellettuale.

L’accento sul risibile come combinazione insolita di relazioni (apparentemente) incompatibili è posto anche da Beattie e Campbell. Fa eccezione, nel panorama inglese, Shaftesbury, che torna a prendere in esame il ruolo sociale del riso e la funzione disciplinante del ridicolo nel promuovere congruità sociale.

Ma è Kant che viene considerato il padrino delle teorie dell’incongruità, con la sua definizione, nella Critica del giudizio, del riso come effetto dell’improvvisa trasformazione di un’aspettativa in nulla.

Schopenhauer si propone di andare oltre l’approccio cognitivo e intende introdurre una psicologia

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delle emozioni. Ma poi la sua teoria rimane basata sull’incongruità, sull’incongruenza, improvvisamente percepita, tra un concetto e gli oggetti reali pensati mediante quel concetto.

Theodor Lipps (a cui Freud fa continuo riferimento nel suo saggio sul motto di spirito) si ispira a

Kant (pur rivelando influenze anche spenceriane) e ne emenda la teoria, stabilendo che non è indispensabile che l’attesa si risolva in nulla: è sufficiente che conduca a una realtà inferiore alla previsioni.

Interessante espressione novecentesca di questa concezione del comico è la teoria della bisociazione di Arthur Koestler. La bisociazione è definita come “The perceiving of a situation or idea […] in two self-consistent but habitually incompatibile frames of regerence” (1964:35). Il comico è un caso particolare di atto creativo, che si fonda proprio su questo meccanismo concettual-percettivo.

In un certo senso Koestler parte da uno dei principi dell’analisi bergsoniana del riso, il rapporto tra umano e meccanico (cfr. sotto), e cerca di ampliarlo davvero a ogni forma di comico (proposito in cui aveva fallito il filosofo francese). Anche questo tentativo però non risulta soddisfacente, e molti degli esempi forniti si avvicinano molto di più alla categoria della superiorità, nonostante i commenti dell’autore cerchino di convincerci del contrario.

Koeslter pone molto l’accento anche sull’atteggiamento emotivo dello spettatore dell’atto comico: il clima emozionale può mutare un’esperienza risibile in un’esperienza tragica. Ma lo stato d’animo necessario per la produzione dello humour presenta come ingrediente una tendenza aggressiva-difensiva o autoassertiva, e così ci riavviciniamo pericolosamente al modello hobbesiano.

Anche Spencer parla esplicitamente di incongruità, che deve essere di tipo discendente (e in questo può rimandare anche al concetto di superiorità e degradazione), ma il suo contributo è più spesso classificato sotto la tipologia delle teorie del sollievo.

1.2.3. Le teorie del sollievo: da Spencer a Berlyne

Spencer connette il riso allo scarico di un eccesso di energia nervosa accumulata e non finalizzata.

Quest’energia ricerca la via di sfogo che offre la minor resistenza, che viene identificata nell’apparato fonatorio-respiratorio; la fuoriuscita produce la risata.

Come visto sopra, dietro questo meccanismo troviamo la percezione improvvisa di una incongruità discendente. Nel caso opposto, ovverosia quando dopo qualcosa di insignificante si presenta qualcosa di grandioso, la reazione sarà di meraviglia (emozione che non è accompagnata da una contrazione muscolare come quella che determina il riso ma piuttosto da un rilassamento).

Il concetto di sollievo viene poi a metaforizzarsi e a riferirsi a ogni sorta di liberazione cognitivo-psicologica-inibitoria: a questo proposito si possono citare Kline e Gregory. In definitiva ciò che accade

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è che il riso offre uno scarico all’energia mentale, nervosa e/o psichica e così assicura omeostasi dopo uno sforzo, una tensione inusitata, che dipende dalle varie costrizioni sotto cui ci troviamo a vivere.

Allargando l’ambito di queste costrizioni (e vedremo che sarà necessario per elaborare una teoria funzionante) potremo annoverarvi anche le regole del linguaggio, quelle sociali della conversazione e la stessa logica razionale.

Per Freud tutto il comico deriva da una liberazione di questo tipo, ma la sua teoria è talmente complessa da non poter essere confinata in un’unica categoria, per cui vi torneremo tra breve.

In epoca recente sostenitori di teorie del sollievo sono stati Monro e Mindess, che insistono sul concetto di comico come liberazione dalle costrizioni, rottura delle aspettative e degli schemi usuali (e qui ci troviamo di nuovo al confine con l’ipotesi dell’incongruo). A proposito della liberazione dalle inibizioni, inoltre, oggi, come già affermato sopra, si parla di “arousal-safety theories” (cfr. Raskin 1985a:40): il riso si scatena per l’esperienza di una forte eccitazione il cui stimolo si rivela poi inadatto (definizione che riporta a quella di Kant in ambito non psicologico).

Un punto di vista interessante è quello di Berlyne (1972) che prende in esame la causa della tensione che viene a sfogarsi con il riso nel processo della narrazione di una barzelletta: se questa è raccontata in modo corretto genererà tensione sufficiente di cui la battuta finale consentirà lo scarico. Nell’ascoltatore però può accumularsi il tipo sbagliato di tensione, o tensione eccessiva: l’esito sarà allora il disgusto o la rabbia.

Come ben si sarà potuto capire anche da questo brevissimo e parzialissimo excursus, i confini tra le varie categorie sono tutt’altro che ben definiti e sovrapposizioni sono possibili e, come chiarirà Raskin (cfr. capitolo successivo), auspicabili. Due importanti teorici del comico, Freud e Bergson, proprio per la loro complessità, potrebbero essere inseriti in tutte e tre queste categorie, e pertanto verranno trattati separatamente nelle sezioni successive.

1.3. Bergson e la funzione sociale del riso

Il saggio di Bergson sul riso, Le Rire (1900), comincia con tre osservazioni: il riso è umano (ridono solo gli uomini e si ride solo degli uomini); perché esso si produca è necessaria “un’anestesia momentanea del cuore” (Bergson 2003:6): col riso ci liberiamo dalle tipiche restrizioni dell’empatia sociale, l’oggetto del riso diventa davvero un oggetto, la sensibilità tace e lascia il posto al solo esercizio dell’intelletto; il riso è sociale e contagioso (ha una funzione correttiva, contemporaneamente includente ed escludente nei riguardi del consesso in cui si determina).

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Sotto certi aspetti la teoria di Bergson si basa sull’incongruità: il riso è provocato da un comportamento rigido o meccanico, e si ride dell’incongruenza dell’uomo che si comporta come fosse una macchina. Questa premessa è poi sfruttata a fini sociali: la non elasticità è antifunzionale alla società e deriderla significa stigmatizzarla e cercare di correggerla. In questo senso l’aggressività viene diretta contro l’incongruo.

Qui nasce una sostanziale contraddizione che la critica non ha potuto fare a meno di notare: a livello personale il riso mette al riparo da ogni rigidità individuale (del carattere, dello spirito e anche del corpo) ed ha quindi una funzione liberatoria; dal punto di vista sociale, invece, il riso reprime le eccentricità e funziona come mezzo di controllo, istiga al conformismo.

Come rimarcano D’Angeli e Paduano (1999:274), in questa operazione Bergson opera una distinzione tra comico e riso: il primo rappresenta la deviazione dai valori positivi, mentre il secondo rappresenta il recupero dei valori e dell’equilibrio sociale.

Dal punto di vista “tecnico”, della linguistica e della teoria letteraria, il contributo di Bergson non è particolarmente rilevante: egli conviene sulla distinzione tra comico referenziale e comico verbale, comico di situazioni e di parole; e individua tre meccanismi validi in entrambe le categorie per produrre il riso: ripetizione, inversione e interferenza di serie.

Dal momento che il meccanico può esplicarsi in diverse forme, di conseguenza è possibile avere vari tipi di comico: quello delle forme, dei gesti e dei movimenti è il grado più semplice e non ha bisogno della mediazione di creazioni letterarie per esprimersi (la caricatura ne è parte); quello di situazione (esemplificato dal vaudeville Ottocentesco) è prodotto attraverso i tre procedimenti citati, ripetizione, inversione e interferenza delle serie (negativi meccanici di tre caratteri esteriori che contraddistinguono il “vivente”: il continuo cambiamento di aspetto, l’irreversibilità dei fenomeni e l’individualità perfetta di una serie chiusa in se stessa). La ripetizione è la riproduzione meccanica di una situazione; l’inversione è la ripresentazione di una situazione in termini rovesciati (ripetizione con ribaltamento come nel mondo alla rovescia); l’interferenza delle serie è il quiproquo, la confusione, lo spostamento tra serie spaziali o temporali diverse (la trasposizione dell’antico nel moderno, ad esempio).

È possibile poi il comico di parole: è la proiezione sul piano linguistico del comico delle azioni e delle situazioni; l’irrigidimento concerne il flusso vivo del linguaggio. I procedimenti che lo provocano sono gli stessi del comico di situazione: inversione (delle parti del discorso in una frase normale, cfr. p. 77), interferenza di due sistemi di idee nella stessa frase (calembour e gioco di parole, pp. 77-78), trasposizione (corrispondente alla ripetizione; consiste nel tradurre un’idea in un altro tono non consueto all’espressione normale di tale idea; è un procedimento fecondo, che dà luogo alla parodia, alla degradazione, all’esagerazione, all’ironia, allo humour; p. 78 sgg.).

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Infine, il comico di carattere: un personaggio è comico quando il suo comportamento appare un irrigidimento contro la vita sociale (si vedano le commedie di Molière). E l’inclinazione verso il piano sociologico influisce anche nell’analisi che Bergson fa della commedia, che si pone in un terreno intermedio tra arte e vita: accettando la vita sociale come ambiente naturale in cui svilupparsi risulta non disinteressata come l’arte pura, ma ha ricaduta sul piano “civile”.

Resta un residuo, però, che scombina la precisione del sistema: la funzione puramente ludica del comico non può passare sotto silenzio. Bergson esce quindi dalla logica del comico sociale, del riso punitivo, per coglierne il rapporto con aree alternative quali quella dell’infanzia, della follia e del sogno. La logica del comico viene accomunata a quella onirica, con cui condivide i procedimenti: la ripetizione, la condensazione… Sogno e comico sono forme di imitazione della follia, vicine al gioco, anch’esso rottura dei legami normali con le cose e le idee.

Nelle pagine finali Bergson apre la porta a un riso non sempre correttivo e non sempre giusto: è possibile l’identificazione piacevole con il personaggio comico (e in questo senso ci muoviamo verso l’idea sostenuta da Freud a proposito del motto di spirito e poi elaborata da Orlando, cfr. sotto) come anche può darsi il castigo contro innocenti (vedremo quanto ciò sia importante analizzando il saggio di Billig più avanti: se lo humour è un mezzo retorico tutto può diventarne il bersaglio).

Nonostante queste eccezioni, però, Bergson, che non può accettare un riso gratuito, senza fine sociale, accomoda anche questi casi nel suo sistema “provvidenziale”: come la malattia, il riso, “che si compie per vie naturali […] potrà realizzare un risultato di giustizia nel complesso finale, ma non nei dettagli di ogni singolo caso […] Qui, come altrove, la natura ha impiegato il male per il bene” (126-27).

1.4. Freud e le relazioni tra riso e inconscio

L’ultimo accenno al rapporto tra logica del comico e logica del sogno pare rimandare direttamente allo studio di Freud sul motto di spirito (Der Witz und seine Beziehung zum Unbewußten, 1905), in cui il linguaggio della barzelletta è interpretato come fratello di altri linguaggi espressivi dell’inconscio, come appunto il sogno, il lapsus e il sintomo nevrotico.

Freud coniuga il modello psichico-fisiologico elaborato da Spencer (per cui “il riso sorge quando un ammontare di energia psichica prima usato per investire certe vie psichiche è diventato inimpiegabile, così che può sfogarsi in una libera scarica”; Freud 1972:131) con l’aspetto linguistico e formale del comico e, “per questa via, lo mette in relazione con la dimensione psichica” (D’Angeli - Paduano 1999:271). Vedremo quanto risulterà utile tale approccio al momento di elaborare una ipotesi teorica da applicare ai testi letterari.

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Connessioni sono possibili anche con le teorie della superiorità, soprattutto nel caso della comicità (che come vedremo è una delle tre modalità in cui è possibile distinguere il campo del riso):

Il riso scatta secondo Freud […] assecondando un movimento aggressivo che denota la presunzione di superiorità di chi ride verso l’oggetto del riso: è di fatto un rifiuto di identificazione con l’altro, che si ripete ogni volta che l’altro spende un eccesso di energia per compiere prestazioni mentali. Questa superiorità è identificata con quella dell’adulto sul bambino (D’Angeli - Paduano 1999:271)

Dicevamo che Freud distingue, nel campo generale del riso, tre fenomeni: il comico, l’umorismo e il motto di spirito (Witz). Il fondo comune è la stessa ricerca di piacere basata sulle due costanti di dispendio risparmiato di energia psichica e di rapporto con la vita infantile.

È al motto di spirito, che utilizza sempre materiale linguistico e quindi si colloca molto vicino alla letteratura, che Freud dedica la trattazione più ampia, componendo una vera e propria “retorica dell’arguzia”, attenta a forma e procedimenti tecnico-linguistici che creano il Witz. Queste tecniche però vengono spesso utilizzate anche per il comico in generale, e quindi non servono da discrimine tra le due classi (a differenza del rapporto con l’inconscio).

Il secondo capitolo de Il motto di spirito è dedicato proprio all’esame di tali tecniche. Per far ciò Freud applica a una serie di esempi il processo di riduzione, sorta di parafrasi, riconduzione a una forma originaria (a cui si può sempre risalire se il motto è buono), che traduce il senso dell’espressione spogliandola degli effetti risibili. Ciò consente di individuare due meccanismi fondamentali (che possono essere sfruttati contemporaneamente): la condensazione e lo spostamento. Grazie alla prima un significante è in grado di riferirsi a più di un significato; attraverso il secondo si ottiene una diversione del percorso mentale, uno spostamento dell’accento psichico su un tema diverso da quello iniziale che porta a un cambiamento nel modo in cui qualcosa è solitamente considerato. La condensazione è più operative nei motti di parola, lo spostamento in quelli di pensiero.

Dopo aver discusso le tecniche, Freud introduce altri tipi di distinzione, basati su altri parametri: secondo il punto di vista degli intenti, degli scopi che si prefiggono (l’intento è indipendente dalla scelta della tecnica), si possono individuare due tipi di motti di spirito: il motto astratto o innocente e il motto tendenzioso, che attraverso il travestimento linguistico esprime ciò che è proibito esprimere. Il motto tendenzioso è ulteriormente distinguibile in osceno e ostile, a seconda della natura dei desideri che vi si celano.

Entrambi i tipi derivano il loro piacere dal risparmio del dispendio psichico impiegato per conservare l’inibizione. Il motto “rende possibile il soddisfacimento di una pulsione (quella lubrica e ostile) a dispetto di un ostacolo che vi si frappone e genera così piacere da una fonte di piacere che quello stesso ostacolo aveva reso inaccessibile.” (Freud 1972:90). Prosegue Freud:

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il motto tendenzioso dispone di fonti di piacere diverse da quelle del motto innocente, nel quale ogni piacere è in qualche modo legato alla tecnica. […] nel motto tendenzioso non siamo in grado di distinguere con la nostra sensibilità quale parte di piacere provenga dalle fonti della tecnica e quale da quelle dell’intento. Rigorosamente parlando, noi non sappiamo di che cosa ridiamo. (91)

Ma anche la tecnica rappresenta una violazione di certe imposizioni, e anche il motto innocente trae piacere dall’alleviamento della costrizione della critica, dalla liberazione della spesa psichica necessaria per mantenere la razionalità adulta: risparmia sulle inibizioni della logica e dell’autocontrollo e riattiva il desiderio del rapporto con l’infanzia (luogo di minima spesa energetica).

Per Freud il motto ostile diventa la forma ideale nella ribellione contro l’autorità, nella liberazione dall’oppressione che essa esercita (la caricatura funziona allo stesso modo). Ma anche i motti innocenti possono esprimere lo stesso impulso ribelle: se “Nel motto tendenzioso il piacere deriva dal soddisfacimento di una tendenza che, altrimenti, sarebbe rimasta insoddisfatta” (105), attraverso l’aggiramento di un ostacolo che può essere esterno (autorità) o interno (repressione), in parte lo stesso si può dire che avvenga con l’altra classe: anche in questi casi c’è risparmio di dispendio psichico attraverso un alleviamento della costrizione della critica, in quanto ci si comporta come bambini che trattano le parole come cose, si rimane allo stadio pre-razionale.

Nella parole (che poi vedremo riprese anche da Orlando) dello stesso Freud:

Propriamente parlando il motto – anche se il pensiero ch’esso racchiude non è tendenzioso, ossia anche se soddisfa soltanto un interesse intellettuale puramente teorico – non è mai imparziale, ma persegue il secondo intento: favorire, amplificandolo, il pensiero e proteggerlo dalla critica. Qui esso torna a manifestare la sua natura originaria contrapponendosi a una potenza inibitrice e limitatrice, che ora è il giudizio critico. (119)

Freud poi passa a esaminare il contesto sociale (ristretto, limitazione che vedremo criticata da Billig) in cui nasce il motto. Il motto nasce all’interno di una relazione triadica (cfr. Ceccarelli, sez. 4.3.1): serve sempre una terza persona, oltre all’autore e al bersaglio, che lo “confermi”. Questa deve essere ben predisposta, altrimenti non riconoscerà il motto come tale: perché il Witz abbia effetto bisogna che chi lo idea e chi lo riceve (è escluso l’oggetto del motto) abbiano gli stessi desideri e le stesse inibizioni.

Alla terza persona viene risparmiato il dispendio psichico che si accolla il produttore dell’arguzia; da questo dispendio liberato nasce il riso: l’energia d’investimento per l’inibizione diventa superflua, è stornata e viene scaricata con la risata. Risata che viene preclusa al produttore dalla fatica che compie nell’aggiramento della censura e che verrebbe preclusa al destinatario se il motto fosse troppo complesso.

L’ultimo capitolo del saggio è dedicato a una sommaria indagine del comico e delle sue diverse specie. Le persone implicate nel comico sono solo due: chi ride e il bersaglio, in cui è trovato qualcosa

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di risibile. Mentre il Witz va creato, il comico va scoperto. Inoltre il comico viene iscritto al preconscio, mentre il motto ha a che fare con l’inconscio.

Il comico nasce quando ci si trova di fronte a un’incongruità; ciò ci fa risparmiare l’energia rappresentativa che avevamo già pronta. Tutti i procedimenti di degradazione comica (caricatura, parodia…) fanno ridere per il risparmio di energia che avremmo dovuto impiegare per rappresentarci qualcosa di grande e autoritario che invece si rivela piccolo. Ad ogni tipo di comico corrisponde una forma particolare di dispendio rappresentativo risparmiato (alla base c’è un contrasto quantitativo di energia).

La causa del comico quindi è l’oggetto, il bersaglio, che si presenta in modo anomalo rispetto al normale. Questo ci riporta alle teorie di Bergson e di Pirandello, ma mentre costoro cercano di risalire a un valore centrale da propugnare, Freud si attiene al rilevamento del processo psicologico. Il divario tra il bersaglio come è e il bersaglio come dovrebbe essere non è più motivato da gerarchie ontologiche. Ciò relativizza la comicità del bersaglio: l’oggetto del riso per esempio può essere normale per un pazzo e anomalo per noi, e viceversa.

Torniamo però alla differenza con il Witz: l’economia del comico si riferisce all’energia rappresentativa e non inibitoria; viene escluso il rapporto con il desiderio che caratterizza invece il Witz (e l’intervento dell’inconscio; la sintesi delle due topiche viene proposta successivamente da Kris 1988).

Infine, Freud parla dell’umorismo, su cui tornerà con un breve saggio successivo, “Der Humor” (1927), il cui piacere nasce dal risparmio di dispendio affettivo: ci si libera della partecipazione affettiva a qualche evento doloroso scoprendo degli aspetti incoerenti, fuori posto. Il piacere deriva comunque da una liberazione, e in entrambi i casi vi sta alla base la tensione verso un non impiego energetico, verso una piena improduttività psichica riconducibile allo stadio infantile.

Nei capitoli successivi passerò ad esaminare le teorie semantico-pragmatiche di Raskin e Attardo, che tentano un superamento delle divisioni tra le classi presentate in queste sezioni attraverso l’elaborazione di un modello formale basato sul concetto lessical-cognitivo di script. Vedremo come il loro tentativo di sviluppare un sistema oggettivo e scientifico per analizzare il comico però presenti delle pecche e imponga delle rimozioni non ammissibili se davvero si vuol rendere conto di un fenomeno complesso come quello dello humour. Sarà necessario quindi recuperare alcuni temi qui accennati (soprattutto nella sezione dedicata a Freud) che altri autori contemporanei hanno sviluppato (cfr. capitolo 4): grazie a questi contributi sarà possibile proporre un modello maggiormente rispondente alla dimensione complessa e stratificata del comico con cui affrontare opere come i due romanzi di Rushdie, campionari enciclopedici di modalità comiche eterogenee, spesso difficilmente identificabili attraverso strumenti di analisi parziali e limitanti.

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2. La “Semantic Script Theory of Humor” (SSTH) di Victor Raskin.

In questo capitolo prenderò in esame la teoria semantica dello humour basata sugli script di Victor Raskin, primo tentativo, poi rielaborato dallo stesso autore e da Salvatore Attardo, di sviluppare un modello formale di analisi che possa render conto di ogni occorrenza di comico verbale. È questo il modello che cercherò di integrare con indicazioni raccolte da diversi altri ambiti di lavoro (cfr. cap. 4 e 5) per renderlo più funzionale e sopperire a certe “rimozioni” che sottolineerò durante questa trattazione.

Nelle pagine successive illustrerò quali siano i propositi che Raskin si pone e seguirò il processo che dallo sviluppo di una teoria semantica conduce all’applicazione di questa al campo del comico. Ciò ci condurrà all’analisi dell’ipotesi vera e propria della teoria, quella della sovrapposizione e opposizione degli script come cause sufficienti e necessarie per la produzione dello humour.

2.1. Obiettivi della teoria

Victor Raskin propone la sua “Semantic Script Theory of Humor” (SSTH) nel 1985, nel saggio Semantic Mechanisms of Humor. A detta dell’autore si tratta della prima applicazione di una moderna teoria linguistica allo studio dello humour (“no prior research is available on the linguistics of humor and no formal theory of humor has ever been proposed”, Raskin 1985a:1), volta a individuare e spiegare le condizioni necessarie e sufficienti, in termini semantici, del perché un dato testo risulti comico, e dando quindi una base scientifica all’abilità, finora trattata intuitivamente, che un parlante nativo ha di percepire un testo come divertente (Raskin usa il termine humour nel senso più ampio possibile, valido per tutto ciò che è divertente, comico).

Un’affermazione immediatamente successiva modera la pretesa di scientificità: “It is the perceiver’s presence, of course, which makes a humor act a humor act, simply because is the perceiver who laughs.” (3). Vedremo come questo ridimensionamento sia necessario, in quanto, se gli strumenti per l’analisi del comico di questa teoria (e delle successive rielaborazioni di Attardo) risultano efficaci, a monte rimane comunque un altissimo grado di soggettività e intuizione.

Raskin appare comunque consapevole della moltitudine dei fattori chiamati in causa nel tentativo di analizzare lo humour, e mostra il livello di complessità traducendo il comico in una funzione, le cui variabili, anche restringendo il campo alle più semplice barzelletta (“verbal joke”, VJ), sono davvero troppe:

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La riuscita di una barzelletta (F = funny) dipende infatti dal mittente (S = Speaker), dal destinatario (H = Hearer), dallo stimolo comico, cioè il testo (T; si parla di testo dal momento che si è scelto di limitarsi al comico verbale), dall’esperienza (E) dei singoli partecipanti e da quella condivisa, dalla loro psicologia (P), dalla situazione (SI) e dalla società (SO). Se ne evince

[…] the near-impossibility of making a generalization without immediate reservations about the particular circumstances captured by the arguments of the function […] or without caveats and taxonomies. It is also clear that dealing with the arguments of the function, especially the last five of them, is not easy. (ibidem)

Dal momento che molte di queste variabili sono ingestibili (soprattutto quelle che hanno a che fare con la psicologia dei partecipanti all’evento comico), è sempre necessario postulare “an idealized community of speakers and hearers of humor” (16): lo scopo, infatti, è quello di stabilire “a general, “normative,” individual-independent theory of humor” (ibidem).

Quanto sia lecito mettere da parte la componente sociale, quando lo stesso autore accenna poi a varie ricerche che mettono in chiaro come il riso sia “insegnato” ai bambini e dipenda dal gruppo di appartenenza, e al fatto che si possa parlare di un parallelismo tra ontogenesi e filogenesi del fenomeno, lo vedremo più avanti affrontando il testo di Micheal Billig.

Ciò a cui punta Raskin, affrontando il problema da un punto di vista il più asettico e formale possibile, è un superamento (la sussunzione?) della secolare tripartizione delle teorie del comico. Raskin sottolinea condivisibilmente come alla fine i tre gruppi siano molto meno incompatibili di quel che sembri: non si contraddicono e anzi spesso si integrano l’un l’altro, tanto da poter essere considerati, a una disamina più approfondita, approcci da angolazioni diverse ad elementi di uno stesso oggetto:

In our terms, the incongruity-based theories make a statement about the stimulus; the superiority theories characterize the relations or attitudes between the speaker and the hearer; and the release/relief theories comment on the feelings and psychology of the hearer only. (40)

Quel che si propone Raskin – e poi anche Attardo – è il superamento di questa distinzione, per affrontare il comico in modo olistico, definitivo, senza lasciarsi incasellare in modo limitante da alcuna delle categorie preesistenti. La teoria semantica basata sugli script vuol essere neutrale tra le teorie esposte, e anzi compatibile con esse – ha altri scopi e altre premesse: “To account sistematically for the structure of a humor act.” (41).

Questo implica il raggiungimento di una certa oggettività, del superamento dei tanti fattori che sembrano rendere indecifrabile e indefinibile il fenomeno comico. Una teoria linguistica infatti deve determinare e formulare le condizioni linguistiche necessarie e sufficienti perché un testo sia divertente – non lasciando residui.

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Ma tale obiettivo è davvero realizzabile? E a quale prezzo? E soprattutto, davvero il comico può essere classificato come fenomeno esclusivamente linguistico, anche nel caso delle sue forme verbali? Vedremo come il rischio che si corre è espungere elementi che invece non sono soltanto importanti ma necessari perché si possa dare il comico, elementi che inevitabilmente poi torneranno a chiedere considerazione, in un vero e proprio “ritorno del represso contenutistico”.

2.2. Una teoria linguistica

Come procede quindi Raskin? Innanzi tutto opera una limitazione del materiale: prende in considerazione esclusivamente il “verbal humor”, e nello specifico le barzellette (“jokes”). La teoria è passibile di ampliamento, ma mentre la possibilità di affrontare testi più lunghi e complessi delle semplici barzellette pare data per scontata, il comico non verbale rimane fuori portata.

Da un punto di vista teorico tale limitazione di campo è corretta: una teoria linguistica non può affrontare fenomeni non verbali. Resta il fatto che, basandosi sulla nozione di script, che come vedremo permette di ampliare a dismisura il concetto di dizionario attraverso cui immagazziniamo l’esperienza, il meccanismo elaborato dalla teoria può essere applicato senza molti problemi a qualsiasi fenomeno comico, anche al comico visuale, che comunque passa attraverso una rielaborazione mentale dello spettatore (o dell’eventuale ideatore).

Nel creare una teoria linguistica, Raskin si rifà al modello chomskyano (Chomsky 1965), chiamando in causa la relazione tra la teoria formale e l’intuizione del parlante. Semplificando, la teoria di Chomsky si basa sulla proprietà della grammaticalità: un parlante nativo può dare un giudizio intuitivo sulla grammaticalità di un testo; tale competenza linguistica diventa quindi il modello su cui costruire una grammatica (definita pertanto “descrittiva”). Parlare, riprendendo termini chomskyani, di competenza come distinta dalla singola performance, consente di superare un approccio qualitativo per guadagnarne uno quantitativo: non ci sono gradi di grammaticalità (o di comicità) ma coppie di antonimi ben definite e discrete: grammaticale vs. non grammaticale, comico vs. non comico.

Certo, osserva Raskin, la consapevolezza grammaticale non è l’unica abilità su cui una teoria linguistica possa essere fondata: esistono una serie ulteriore di tratti su cui un parlante nativo può dare un giudizio intuitivo di correttezza e che vanno a formare la competenza linguistica. Tra questi vi è anche la comicità:

The ability of the native speaker to pass judgements as to the funniness of a text is also part oh his [linguistic] competence and, therefore, a formal linguistic theory is possible which models the native speaker’s competence ih this particular respect. (Raskin 1985a:51)

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Pertanto sarà possibile elaborare una teoria linguistica che si modelli sulla competenza del parlante nel campo della comicità. In questo caso al concetto di grammaticalità sostituiremo quello di “competenza sul comico”.

Raskin non si ferma a considerare però come la base socio-psicologica che sta dietro la polarità grammaticale/non grammaticale (comunque già di per sé non sempre così chiaramente definibile) è ben diversa e molto più stabile di quella dietro la polarità comico/non comico. Possiamo dire che se la comunità dei parlanti è molto coesa e uniforme, soprattutto grazie alla scuola e al concetto canonizzato di grammatica, quella dei ridenti è molto più eterogenea, ed è molto più difficile trovare uniformità di giudizio sul riso.

Raskin applica quindi all’oggetto di indagine – cos’è il comico – un metodo linguistico, in particolare la teoria semantica degli script, sviluppata dalla semantica linguistica contemporanea.

Molti concetti desunti dal campo della semantica (le presupposizioni, le “implicature conversazionali” di Grice, gli “speech acts”) sono stati spesso utilizzati per spiegare il comico di certe barzellette, ma attraverso di essi non si è potuto mai creare una teoria, in quanto in ultima analisi risultano elementi necessari ma non sufficienti perché un testo faccia ridere. L’applicazione della teoria degli script, invece, intende formulare l’insieme delle condizioni che sono sia necessarie sia sufficienti perché un testo sia comico:

The purpose of the proposed semantic theory of humor is to formulate a set of conditions which are both necessary and sufficient conditions for the text to be funny. […] The semantic theory of humor resulting from the application of the script-based semantic theory to humor is a completely formal system: once formulated, it functions as a mechanical symbol-manipulation device which does not depend on the user’s knowledge or intuition. (Raskin 1985a:57-58)

Non posso nascondere le mie perplessità di fronte alla presunta indipendenza da intuizione o sapere del partecipante, e vedremo come queste pretese di formalismo assoluto dovranno poi fare i conti con l’elemento del contenuto, in pari modo determinante per la nascita del comico. È per questo d’altronde che Raskin deve postulare una “comunità di ridenti ideale”: proprio perché presupposizioni, principi inferenziali e visione del mondo in toto (il piano del contenuto) agiscono sul modo di formarsi del senso dell’umorismo.

2.3. Una teoria semantica

Il primo passo che Raskin compie è formulare una teoria semantica che funzioni, per poi applicarla al comico. Il problema principale nell’elaborazione di una tale teoria è come affrontare il significato delle

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singole frasi: il rischio maggiore è quello di considerarle come occorrenze isolate, limitando così drasticamente la portata del sistema concettuale.

2.3.1. Conoscenza linguistica e conoscenza enciclopedica.

La prima teoria semantica formale sviluppata da Katz e Fodor (1963) incorre proprio in questo intoppo: pur prefiggendosi di fornire un modello in grado di determinare numero e contenuto dei significati di una frase, di identificare le frasi devianti e percepire le relazioni di parafrasi tra le frasi, di fronte al problema del materiale non linguistico, apparentemente ingestibile, esclude il contesto, dedicandosi così alle frasi isolate.

Nella realtà, però, non esistono frasi totalmente isolate (tanto meno quando hanno intento comico): ogni frase è sempre percepita in un contesto, linguistico e/o extralinguistico, che è proprio ciò che permette di chiarificare il senso, di disambiguarlo.

Come dar conto di questo contesto? Come gestire il rapporto tra sapere linguistico e sapere enciclopedico? Riservare alla semantica solo lo studio della conoscenza linguistica intesa come lessico da dizionario e lasciare il secondo, troppo vasto per essere gestito da una teoria formale, alla pragmatica? Resterebbe ben poco su cui lavorare, e la teoria perderebbe ogni valore.

Tanto meno percorribile è la strada che propone Chomsky, che abbandona totalmente la semantica e affida tutto alla pragmatica: per poter prendere in considerazione ogni significato bisognerebbe possedere un sapere troppo vasto, e la semantica in pratica dipende interamente da fattori pragmatici, legati al sistema di valori e credenze del parlante, e quindi è inaccessibile.

Raskin non vuole arrendersi così: intende piuttosto sviluppare una semantica contestuale, che possa dar conto del significato di ogni frase in ogni contesto in cui occorre – senza però dover incorporare l’intera conoscenza del mondo, cosa che sarebbe impossibile, in una teoria formale.

Il che non significa non riconoscere il confine tra conoscenza della lingua e conoscenza del mondo: in quanto teoria linguistica, ci si limiterà alla prima categoria, ma allargandola il più possibile. Dovendo tener conto di informazioni extralessicali (non contenute nel dizionario normalmente inteso ma necessarie per la comprensione di una frase) è necessario allargare il concetto di lessico come inteso finora.

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2.3.2. Un nuovo lessico.

A dar conto della complessità semantica non bastano lessico (inteso come semplice dizionario) e regole combinatorie (attraverso cui gli elementi del primo sono combinati insieme) come nelle precedenti teorie: sono necessarie informazioni extralessicali, cioè quelle proprietà semantiche evocate dalle parole che però non trovano posto nel dizionario. Raskin le definisce ancora extralessicali, ma nella sua teoria questi elementi entrano di diritto a far parte del lessico.

Esempi sono le relazioni tra le parole, tra i campi semantici, o le presupposizioni (“a set of conditions which should obtain in order for a sentence to be comprehended fully”, Raskin 1985a:71; le presupposizioni di cui parla Raskin sono a metà strada tra le presupposizioni logiche di Kiparskys e quelle pragmatiche di Lakoff: non dipendono dal singolo individuo ma sono oggettive. Sono una serie di condizioni che si devono dare perché una frase possa essere compresa pienamente).

Un altro concetto di cui tener di conto a proposito delle condizioni necessarie per la comprensione di una frase è quello di ricorrenza semantica: il significato di una frase è una funzione tra lessico, regole combinatorie e grado di comprensione del discorso precedente e informazioni già possedute dal destinatario. Se esistono frasi totalmente non indessicali, ovvero che si capiscono esclusivamente attraverso il loro contenuto, altre – la maggior parte – necessitano di (più o meno) associazioni con il contesto. Le operazioni di ricorrenza semantica servono a implementare questo tipo di informazioni, ricollegando la frase al discorso precedente o al contesto extralinguistico, ricorrendo a “ganci” (“semantic recursion trigger”) grammaticali o lessicali.

Altri informazioni extralessicali necessarie per la comprensione di una frase, a cui è necessario dar spazio in una teoria semantica completa, sono ad esempio i postulati conversazionali di Gordon e Lakoff, l’implicatura di Grice, gli “Speech Acts” indiretti di Searle; le regole inferenziali, le congetture, i cliché. Sono tutte occorrenze di significati di una frase che vanno trovati oltre il significato convenzionale, letterale, della stessa. Come inserirle in una teoria semantica formale, senza arrendersi all’impossibilità di formularne una completa?

Come abbiamo già accennato, le teorie precedenti si basano su due componenti: il lessico (“lexicon”), inteso come semplice dizionario, e le regole combinatorie (“combinatorial rules”). Ma una parola singola, isolata, ha senso, significato o lo conquista solo in un contesto? Già Wittgenstein (1967) parlava del significato di una parola come equivalente al suo uso nel linguaggio, e poi Firth applica questa intuizione alla semantica, parlando di “meaning by collocation” (Firth, 1957:198), per fare solo due esempi illustri.

Come per una frase, ogni parola ha uno o più significati inerenti, che però possono cambiare in base al contesto. Raskin sviluppa quindi prima una teoria di unità elementari di significato, i monosememi (1985a:79), e poi passa alla teoria semantica degli script, che porta a una nuova idea di

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lexicon (vedi sotto) e al riaggiustamento della nozione di regole combinatorie. È proprio l’introduzione del concetto di script che consente l’elaborazione di un “dizionario” di nuova concezione.

2.3.3. L’enciclopedia di

script

e le regole combinatorie

La teoria semantica basata sugli script riconosce che le parole hanno un significato, immagazzinabile in un dizionario, ma il nuovo lexicon che è necessario ideare cerca di coprire tutti i significati in uso: il concetto di lessico è rielaborato come enciclopedia di script (Raskin 1985a:81-5).

Il concetto di script nasce nel campo della psicologia e della sociologia (cfr. in particolare Bateson 1972 e soprattutto Goffman 1974, che parlano però di “frame”) e poi viene incorporato nella ricerca sull’Intelligenza Artificiale (cfr. Schank – Abelson 1977) e sistematizzato dal punto di vista della linguistica (si veda in questo senso il numero di Quaderni di semantica a cura dello stesso Raskin, 1985b). Per definire un tale tipo di struttura cognitiva sono stati adottati altri termini, come appunto “frame”, “scenario” o “schema”, ma sia Raskin che Attardo preferiscono la dizione script.

Lo script è definito da Raksin (1985a) come “a large chunk of semantic information surrounding the word or evoked by it. The script is a cognitive structure internalized by the native speaker and it represents the native speaker’s knowledge of a small part of the world.” (81).

È immediatamente evidente come un tale costrutto sia utile per trascendere la limitante concezione “dizionaristica” dell’organizzazione semantica dell’esperienza, ma ne determini anche una maggior relativizzazione: molti di questi script sono comuni alla maggior parte delle persone, ma ogni parlante può avere, accanto a questi, degli script individuali, determinati dal proprio vissuto personale, o ristretti (condivisi con un piccolo gruppo).

Vedremo che proprio questa “personalizzazione”, quando amplieremo il campo alla teoria del comico, determina l’importanza della condivisione del contesto nell’interpretazione e percezione di una barzelletta (per un esempio rushdiano si veda la storia della rana nel pozzo, sez. 7.6.1).

Ogni script può essere visto come un diagramma composto di nodi lessicali e collegamenti semantici tra gli stessi. Tutti gli script di una lingua formano un unico diagramma continuo; un singolo lessema viene a coprire una zona del diagramma che si sviluppa attorno al nodo lessicale corrispondente. Le distanze tra i vari nodi variano: certi script sono più vicini ad altri; inoltre certi costituenti sono più importanti di altri (Raskin parla di enfasi, mentre Attardo approfondirà la nozione definendola “salienza”, concetto fondamentale soprattutto in ambito di produzione del comico).

Certe informazioni semantiche necessarie per comprendere una frase non sono presenti in un tradizionale vocabolario, ma sono comunque disponibili immediatamente al parlante: la teoria semantica basata sugli script rende conto di questi costituenti. Ogni parola in una frase evoca il proprio

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