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Infine Raskin (1985a) offre qualche cenno sulle possibilità di ampliare la teoria a testi più complessi, prendendo in esame quelle che chiama “compound jokes” (134), barzellette in cui sono instanziate più opposizioni in serie, a cui semplicemente va applicata più volte in successione l’analisi.

Casi più complicati sono quelli che non si basano su script linguistici ma su script che sono parte della conoscenza del mondo o conoscenza enciclopedica del parlante (anche se molti di essi sono adiacenti alla conoscenza linguistica) o ancora più ristretti, meno accessibili a un gran numero di persone, veri e proprio script individuali.

L’analisi di una barzelletta che presenta uno o più script non elementari (non linguistici) necessiterà maggior sforzo inferenziale per risalire all’opposizione di script implicati (come specificato subito bisogna postulare un uditorio idealizzato – ma forse anche un analista idealizzato: Raskin non contempla il caso in cui lo stesso analista non sia capace di cogliere l’opposizione comica).

Le barzellette più sofisticate, quelle che oppongono script di natura ristretta, sono le barzellette basate sull’allusione (136): per capirle è necessario possedere la competenza sugli script ad accesso ristretto su cui sono costruite. Le allusioni possono essere multiple e più complesse, e per esempio prendere la forma della parodia (138), fino ad arrivare alla parodia di un’altra barzelletta. In questi casi si parla di “metascript” (139). Come vedremo, spesso il comico che in Rushdie si fonda sulle isotopie segue un modello del genere: in un primo momento vengono offerti al lettore gli elementi contestuali che poi serviranno, in configurazioni diverse (opposizionali) ad innescare il riso (cfr. sez. 7.6.1 e 9.6.1).

Perché la teoria possa essere applicata a questo tipo di barzellette è necessario quindi incorporare tutti gli script, anche quelli ad accesso più ristretto. L’applicazione quindi è contingente all’accessibilità degli script implicati (che significa che se lo script non è accessibile, il comico non sarà capito e la teoria non potrà essere applicata...).

Comunque, l’utilizzo degli script permette di andare oltre il mero dato linguistico e sfruttare una concezione più ampia di semantica, consentendo così la possibilità di estensione continua degli script tanto da poter elaborare elementi altrimenti poco gestibili come le allusioni.

In chiusura, Raskin inciampa nuovamente su quei punti della teoria poco oggettivabili che già abbiamo stigmatizzato: afferma ad esempio che “The success of the joke depends on the speaker’s ability to construct a text evoking another script which will be opposed to the given script in a humorously significant way” (142). Si dà quindi la possibilità che esistano opposizioni di script non

comiche, rientrando in un circolo vizioso/tautologico (l’opposizione deve essere comica per far ridere…)?

Più sotto si afferma la pericolosità di certe opposizioni in occasioni non consone: quelle legate a sesso (in ambiente non intimo), vita/morte (per ragioni religiose o di superstizione), bene/male (in caso di audience varia per quanto concerne i valori ideologici); in tali casi sarebbe bene far ricorso a tecniche più innocue come l’autoironia (“self-disparagement”, 143). È ironico che siano problematiche, proprio perché legate a valori, norme e tabù, proprio quelle opposizioni dette standard; Raskin non si ferma neppure un attimo a chiedersi se non ci sia qualche connessione tra l’offensività di questo materiale e il loro dar adito al riso.

Raskin lascia le ultime righe a quelli che vede come i difetti più grandi della teoria: per adesso non dà spazio a certi elementi essenziali per migliorare le barzellette (“optional embellishments”, 146), limitandosi a prendere in considerazione ciò che le rende tali. Quindi le tecniche di presentazione della barzelletta non vengono esaminate: lunghezza, comprensibilità, dettagli, ritmo comico (timing), tempo e posizione della punch line. Di questo si occuperà successivamente Attardo. Una barzelletta, comunque, rimane tale pur se questi elementi variano, si giustifica (malamente) Raskin.

Ciò di cui non si può fare a meno, oltre a sovrapposizione e opposizione degli script, è il passaggio alla modalità comunicativa non-bona-fide: è necessaria una ambiguità deliberata che quindi faccia oscillare verso una modalità non fattuale, non dichiarativo-descrittiva. In questo senso vedremo a quali estremi si possa giungere, avvicinando il comico a un meccanismo tipicamente postmodernista quale lo sfarfallio ontologico (cfr. cap. 10). Sarà comunque sempre necessaria una certa complicità ideologica tra i partecipanti all’atto comico: se la realtà dello status quo deve essere messa in discussione il peso ad essa accordato deve essere in partenza non eccessivo: un realtà troppo solida non offre opportunità di oscillazione e quindi neppure di riso.

Conclude Raskin, prima di offrire in appendice un vasto campionario di barzellette basate su comico sessuale, etnico e politico (come al solito senza notare che alla base di questa comicità troviamo sistemi di valori sociali e/o soggettivi):

the script analysis of verbal humor provides a unifying theoretical and formal basis for various intuitions people share about humor as well as a conceptually simple and an intuitively appealing explanation of the human ability to produce and understand jokes. […] the script-based semantic theory of humor helps formulate the necessary and sufficient conditions for a text to be funny, i.e., a joke. (1985a:147)

In conclusione si può affermare che la teoria proposta da Raskin presenta molti vantaggi: consente un tipo di analisi semantica componenziale e consequenziale che è ideale per l’interpretazione del comico. Il ricorso al concetto di script risolve inoltre molti problemi e si dimostra utile per gestire tutti quegli

elementi extralessicali che riguardano la connotazione, fondamentali per la produzione dello humour. Sarà necessario approfondire il concetto da un punto di vista della gerarchia dei tratti interni (se ne occuperà Attardo, cfr. capitolo successivo), ma è proprio questa nozione cognitivo-concettuale che può garantire una valida “riduzione” (in senso freudiano) delle occorrenze comiche e quindi facilitarne l’interpretazione. Come sottolinea Nilsen (1991), inoltre, riprendendo alcune considerazioni di Lakoff (1987), le categorie umane non sono il risultato di una registrazione oggettiva di quel che percepiamo attraverso i sensi, ma il risultato soggettivo di come quel che percepiamo attraverso i sensi interagisce con bisogni e funzioni umane: la nozione di script prova ad accogliere tale ammissione di relatività.

Sarà necessario abbandonare alcune pretese di scientificità e oggettività e accettare il carattere dinamico e relativo del concetto di opposizione, facendo entrare in gioco tutta una serie di fattori contenutistici molto poco formalizzabili e universali. È proprio la nozione di opposizione che determina il carattere arbitrario del comico, ma non per questo deve essere scartata: sarà utile piuttosto una rielaborazione che recuperi il piano dei contenuti e metta l’accento sui rapporti di trasgressione di norme e valori sociali che si creano attraverso il meccanismo dello scontro tra script.

Nel prossimo capitolo prenderò in esame la teoria di Attardo, che cerca di emendare alcuni di questi difetti; altri permarranno e sarà quindi utile rivolgersi ai suggerimenti di altri studiosi per integrare a dovere il modello proposto ed elaborare una concezione dello humour che possa rispondere della complessità delle sue modalità all’interno dei romanzi di Rushdie analizzati nella seconda parte.