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6. Salman Rushdie (e) il comico

6.3. La critica e il comico rushdiano

6.3.3. Ball: la satira postcoloniale

Un altro testo dedicato al rapporto tra postcolonialismo e comico (in particolare la satira) è quello di Ball (2003). Ball fa notare che molti romanzi postcoloniali sono (anche se a volte solo in parte) satire, considerando il termine in senso ampio, in riferimento a una modalità letteraria piuttosto che a un genere formale preciso. Così facendo Ball rischia di far rientrare sotto il termine “satira” ogni forma di comico, nonostante poi consideri il riso come una componente non obbligatoria per il genere. La definizione proposta è la seguente:

Satiric writing […] harnesses aggression, targeting one or more victims with some degree of historical specificity by playful indirection, implying judgment of the target(s) which a given reader may or may not be predisposed or convinced by the attack to share. (33-34)

Questa funzione serve anche come elemento di discrimine nei confronti della letteratura postmodernista, in cui manca solitamente la referenzialità, il rimando all’azione pratica, mentre la satira prende di mira un bersaglio appartenente al mondo della realtà sociale (fuori dal testo; cfr. Tiffin 1988). Il riferimento preciso a storie e culture particolari e ben definite è fondamentale anche per evitare il rischio che si corre satireggiando valori e difetti considerati come universali ma che in realtà sono imposti dalla cultura colonizzatrice in modo talmente pervasivo da non risultare più tali.

È necessaria però una certa attenzione: quello di satira è un concetto teoretico occidentale, con cui si incasellano testi che occidentali non sono; si tratta in un certo senso di un ulteriore atto di colonizzazione. È per questo che è preferibile parlare di una “modalità satirica” che può operare all’interno dei confini della forma romanzo e può operare in maniere molto diverse, in base all’autore che l’adopera: una modalità parassitaria che si adatta alla e trasforma la forma che la accoglie.

Un’altra distinzione importante dipende dal fatto che spesso la satira in occidente è associata all’idea di un’età dell’oro; se talvolta l’epoca precedente alla colonizzazione può essere letta come tale, non

sempre un tale schema è accettato: la satira (post)coloniale non deve per forza essere unidirezionale ma multidirezionale: come nel caso di Rushdie non è solo l’impero il bersaglio, ma anche il presente che dell’impero si è liberato, gli ormai ex colonizzati, indiani o pakistani. Lo stesso Rushdie ha più volte ribadito la sua intenzione di voler evitare il rischio di deresponsabilizzare i governanti indigeni che si potrebbe verificare concentrando la propria critica esclusivamente sui poteri esteri (che comunque hanno avuto e continuano ad avere le loro colpe nelle vicende del subcontinente indiano, cfr. Rushdie1985a).

Ball rimarca quanto già ripetuto più volte nelle pagine precedenti a proposito di ogni fenomeno umoristico: perché la satira funzioni, deve esserci comunanza di ideologie tra autore e pubblico. Ma l’ambiente postcolonialista, differenziato vario e frammentato, non garantisce uniformità, e quindi favorisce pericolosi fraintendimenti: di nuovo si pensi a The Satanic Verses, che è satira contro il razzismo in Inghilterra, ma nessuno pare leggerlo in quel senso.

Torna il concetto di comunità interpretative della Hutcheon (1995); inoltre, per evitare la possibilità di fraintendimenti, una tecnica spesso sfruttata è quella di inserire un personaggio positivo che incarni le norme positive, ma ciò è difficile che accada nelle satire prese in esame, data la natura più complessa e ambigua della visione postcoloniale, che vuole per l’appunto evitare l’imposizione di una polarità nuova e replicare così i meccanismi coloniali.

Ball si dedica nello specifico a Rushdie, con alcune considerazioni interessanti ma anche con osservazioni discutibili. Riprendendo la distinzione proposta da Bachtin tra satira menippea e realismo grottesco (positivi, in cui c’è partecipazione dell’autore e ambivalenza tra affermazione e critica) e satira di tipo negativo, opposizionale, di derisione (in cui l’autore si pone su un piano superiore rispetto a ciò che deride), Ball nota come l’opera di Rushdie possa essere definita come “Menippean grotesque”, perché nei suoi romanzi non ci si limita a serie di quadretti satirici e caricaturali nel senso della satira negativa:

through its dialogism and grotesque imagery, Rushdie’s work is energized by a tension between negative, pessimistic satire as verbal aggression ridiculing “some aspect of historical reality” […] and Menippean, grotesque satire as an optimistic expression of becoming, renewal, and freedom. (120)

Le due modalità però tendono a non mescolarsi e possono essere identificate nettamente all’interno dei romanzi: in Midnight’s Children, ad esempio, la satira menippea è presente fondamentalmente nella prima e in parte nella seconda parte (cfr. sopra, sez. 6.2, in cui ci si è occupati della distinzione di dominanti comiche nei due romanzi di Rushdie). Qui sono riscontrabili carnevalizzazione del linguaggio, compresenza di realismo e simbolismo, allegorie, e un ottimismo di fondo nella visione del futuro e nelle potenzialità dell’India. Nel terzo libro però il tono si incupisce: le forze tiranniche e monologiche dell’autorità si impongono e la satira diventa negativa. Il passaggio è riscontrabile anche

metaforicamente nel corpo di Saleem, che da scrittore, narratore, agente, passa ad essere oggetto, mutilato sempre di più dall’esterno, scritto, non più scrivente.

Anche le immagini del corpo possono assumere valore positivo o negativo, e servono la satira menippea o la satira negativa: può darsi celebrazione del pluralismo, dell’ibridità; oppure critica contro la tirannia che si impone. L’esplosione finale di Saleem può essere letta in entrambi i sensi e rappresenta la vera unione dei due stili: è sì una fine ma anche una rinascita, una disseminazione.

In Shame invece viene esclusa la possibilità del carnevalesco; il grottesco serve solo a sottolineare l’abisso morale mostruoso; il corpo è totalmente denaturalizzato. La componente menippea rimane soltanto nella moltitudine di voci presenti nel testo. Secondo Ball questo deriva anche dalla minor conoscenza da parte dell’autore del Pakistan, per cui Rushdie è costretto a limitare il proprio discorso alla classe dirigenziale come se fosse simbolica di tutto il popolo, che invece non è mai chiamato in causa in prima persona: così viene esclusa la possibilità del carnevalesco (cfr. anche Brennan 1989, che sottolinea questa “differenza di voci”: in Midnight’s Children parlano le masse indiane, in Shame l’élite pakistana, p. 118). L’apocalisse finale ha esclusivamente carattere di annichilimento, a differenza del corrispettivo del romanzo precedente.

Seppure offra qualche spunto interessante, e la differenza di modi sia stata in parte riscontrata nelle sezioni precedenti, un approccio del genere applicato troppo integralmente non pare molto efficace, sia dal punto di vista del modello da me proposto, che contempla sempre e comunque la possibilità di una compresenza tra le due modalità satiriche, sia nello specifico dell’analisi: la distinzione è meno semplice di quel che si affermi, e a volte le assegnazioni di genere sono totalmente discutibili, come quando si rimanda al genere menippeo l’uso ironico di termini positivi per connotare elementi negativi nel caso dello spionaggio definito chiaroveggenza (vedremo meglio questo episodio più avanti, cfr. sez. 8.3.2). Se è possibile accettare il rimando alla stilizzazione parodica e alla falsa complicità, è però inaccettabile sostenere che in questo caso le due voci presenti convivano carnevalescamente.

Un punto di vista condivisibile è invece l’apertura a una visione della satira che abbandoni i concetti di binarietà, di un obiettivo preciso, in favore di ambiguità, dinamicità relazionale:

Unlike satire, however, Rushdie’s novels are characterized by the “unresolved dualities” of polyphonic writing […] or by what Engblom (and Hutcheon) term a (Bakhtinian) dialogic that remains in tension, that does not cancel itself out. Because there is no fundamental truth to appeal to, the appropriate strategy is a plurality of presentational tactics. (17)

Come vedremo nei capitoli finali, spesso più che contro un bersaglio politico preciso l’aggressione comica rushdiana allarga la sua portata e mira a concetti più astratti e funestamente e subdolamente avvolgenti come l’intera logica basata sul principio dell’aut/aut. Si veda a questo proposito anche

Fletcher (1994a), che parla di una satira ambivalente, “both challenging all certainty and absolutes on the one hand, and satirizing specific political and social targets on the ohter” (8).