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4. Alternative teoriche: il ritorno del rimosso comico

4.1. Billig: per una visione del comico anti-positivista

4.1.6. Il carattere paradossale dello humour

Un valido approccio critico al comico deve necessariamente recuperare le omissioni delle teorie esaminate, soprattutto quegli aspetti negativi su cui si è sorvolato: bisognerà quindi concentrarsi sul ridicolo e su quegli autori che non ne rifuggono.

Per Platone, Shaftesbury e Bergson il ridicolo è utile, ma nessuno dei tre sviluppa una teoria integrale da utilizzare. Le teorie della superiorità (Hobbes e Bain, per esempio) non mettono il ridicolo nel suo contesto sociale, lo confinano alla psicologia. Bergson di contro propone una teoria sociale del riso, ma non la allarga a una psicologia: dobbiamo integrarvi il contributo di Freud. D’altronde, nota Billig che

The historical discussion suggests that no single theory can hope to explain the complexity of humour. […] The present approach does not seek to reduce laughter to a single cause. Indeed, humour is not to be considered as a unitary entity. The paradoxical nature of humour is to be stressed. (2005:175-76)

È necessario insomma accettare l’idea che il fenomeno comico sia paradossale, per non continuare ad ingannarsi ed elaborare teorie forzatamente monche.

I paradossi fondamentali dello humour per Billig sono tre: il primo riguarda il fatto che “humour is both universal and particular. It is to be found in all societies, but not all humans find the same things funny.” (176). L’umorismo è presente in ogni cultura umana, ma definirlo universale non equivale a dire che tutti gli esseri umani condividano lo stesso sense of humour: epoca, luogo e background culturale sono varianti fondamentali. Il secondo ha a che fare con il suo ruolo sociale: “humour is social and anti- social: it can bring people together in a bond of enjoyment, and, by mockery, it can exclude people.” (ibidem). Il terzo infine è che “humour appears mysterious and resistant to analysis, but it is also understandable and analyzable.” (ibidem).

Per poter affrontare il comico nella sua integrità ne va innanzitutto affermata la natura retorica:

The rhetorical nature of laughter will be stressed. […] ridicule is both a means of disciplinary teaching and the lesson of that teaching. Like language and other aspects of rhetorical communication, laughter has to be learnt and taught. (177)

Il comico dipende dai suoi attanti. Billig offre un purtroppo famigerato esempio: la battuta sul kapò pronunciata dal primo ministro italiano nel 2003 di fronte al Parlamento Europeo. A detta di

Berlusconi le sue parole erano ironiche, e buona parte dei suoi sostenitori convenne sul valore di battuta dell’intervento ridendone, mentre l’opposizione si indignò e rifiutò l’interpretazione comica.

Secondo Billig il buon analista non può definire il comico nei termini dei suoi a/effetti, ma deve prendere in esame le intenzioni di chi lo produce e i modi in cui può fallire o aver successo. Una delle più grandi pecche è proprio la prescrittività di certe definizioni sul comico, in cui spesso sono presi in esame solo gli aspetti positivi e viene espunto il resto: questo non è un approccio critico, il lato negativo va esaminato, non eliminato teoreticamente.

Il che ci rimanda alla dimensione del potere del comico di sovvertire/imporre l’ordine: come accennato prima, “In this way, humour needs to be understood in relation to the social order” (180). Il riso nasce sempre in relazione a un ordine sociale (vedremo più avanti che tale definizione va intesa in senso ampio, e vi si devono far rientrare altre forme di sistema: morale, logico, letterario…).

Ma come si struttura il rapporto tra riso e società? La tesi di Billig è che il bambino “impara” il riso dai genitori: tra adulti e bambini si sviluppa un metadiscorso sul comico in cui si mostra che certe cose fanno ridere e possono o non devono essere ripetute (cfr. Tucker 1988 e Norrick 1993b e 2003). In questo senso il riso può essere usato in una duplice direzione: per comunicare apprezzamento come per trasmettere disapprovazione. La sua natura retorica ne fa un vero e proprio codice: “Laughter has a rhetorical character, for it is typically used to communicate meaning to others, rather than being a reflex reaction following a particular inner state.” (Billig 2005:189). Ma un codice ha bisogno di almeno due elementi: “The rhetorical nature of laughing is possible because there is a corresponding rhetoric of unlaughter.” (192). “Unlaughter”, il non-riso, si applica ai casi in cui ci si aspetterebbe una risata ma non la si ottiene: è più di una assenza, è un’assenza significante.

In quanto codice il riso può trasmettere sia messaggi di esclusione che di inclusione (e ciò permette di accomodare anche il secondo paradosso, quello del riso contemporaneamente sociale ed antisociale). Il genitore infatti non insegna solo il riso bonario, ma anche il ridicolo: la derisione come mezzo disciplinare è presente in tutte le culture (antropologicamente si tratta di una sublimazione dell’aggressività e della violenza); in ogni tempo e luogo i bambini imparano i piaceri e i dolori del ridicolo.

Il riso diventa quindi un mezzo fondamentale per trasmettere e apprendere le pratiche sociali e per scoraggiarne le infrazioni. I codici comportamentali non vengono ereditati geneticamente: sono appresi culturalmente (anche) attraverso di esso. Il primo paradosso allora può esser riscritto così: “Since the cultural codes differ from society to society and across time, then so will the content of the humour.” (188). La funzione sociale del comico è proprio quella di trasmissione e conseguente mantenimento dei codici sociali: “The possibility can be raised that the universality of humour derives from the necessity of having social codes, rather than directly from the biological characteristics of humans” (188-89).

Il sistema di valori di una famiglia e per esteso di una cultura viene trasmesso ed imposto (anche) attraverso il riso e (soprattutto) la pratica dell’imbarazzo:

Everyday codes of behaviour are protected by the practice of embarrassment. If one infringes expected codes of interaction, particularly if one does so unwittingly, one might expect to be embarrassed. What is embarrassing is typically comic to onlookers. Social actors fear this laughter. Accordingly, the prospect of ridicule and embarrassment protects the codes of daily behaviour, ensuring much routine conformity with social order. This is likely to occur within all cultures. Therefore, ridicule has a universal role in the maintenance of order. (201)

Colpisce che tale forma di comicità sia stata rimossa dalla stragrande maggioranza delle teorie in favore di un altro tipo di umorismo. Ma queste due tipologie sono davvero così distanti? Billig sostiene di no, alla base c’è sempre il ridicolo:

To begin with, a distinction can be made between two sorts of humour: disciplinary and rebellious humour. Both types can be seen as forms of ridicule. Disciplinary humour mocks those who break social rules, and thus can be said to aid the maintenance of those rules. Rebellious humour mocks the social rules, and, in its turn, can be seen to challenge, or rebel against, the rules. Disciplinary humour contains an intrinsic conservatism, while rebellious humour seems to be on the side of radicalism. […] The distinction does not rest upon the intrinsic nature of the humour itself, or what Freud called ‘the joke-work’, but upon the social position of the person using the humour and the uses to which the humour is put. (202)

Il paradosso di fondo di ogni sistema di codici sociali è che quando si insegna una regola si insegna contemporaneamente anche il modo per infrangerla. Il riso non è esente: si pensi all’apprendimento del parlare appropriato:

The laughter that greets the ‘wrong’ utterance points out the childish error. It is an easier form of discipline than physical punishment or withdrawal of love, especially for minor infringements. It is discipline with a loving smile – and all the more ambiguous for that. When disciplinary laughter occurs, the child may learn that a certain way of speaking is incorrect. Just as the teaching of politeness involves the teaching of rudeness, so disciplinary laughter teaches the rules that should be followed and, in so doing, it teaches how the rules can be broken. (205)

Ma la trasgressione, in quanto forma di ridicolizzazione, è comunque fonte di piacere: si prova piacere nel contravvenire ai tabù, nel deridere una proibizione: “The notion of rebellious humour conveys an image of momentary freedom from the restraints of social convention” (208).

È importante sottolineare però che il riso ribelle non è di per sé rivoluzionario come vorrebbe Bachtin: bisogna distinguere tra natura psicologica del comico e sue conseguenze sociali: certi atti comici potrebbero sembrare ribelli a che li compie, anche se le reali conseguenze di tale humour sono chiaramente atte a mantenere uno status quo. Il comico ribelle inoltre, in quanto valvola di sfogo di intenti violenti, può addirittura prevenire la ribellione reale (cfr. anche Rushdie, sez. 9.5.3).

Il rapporto tra mantenimento dell’ordine sociale e pratica dell’imbarazzo era stato segnalato in precedenza da Goffman (come già visto autore di un’opera fondamentale sui frame; in entrambi i casi le connessioni con il riso non vengono prese in considerazione):

Goffman was addressing the big question ‘How does social life continue?’ The broad answer was that social actors fear losing face so they comply with the social demands of the situations in which they find themselves. (Billig 2005:217)

Secondo Goffman tutta la vita sociale si basa su aspettative e imbarazzo: abbiano sempre aspettative sul comportamento altrui; quando qualcuno infrange i codici del comportamento atteso l’imbarazzo subentra. Il fenomeno è comune a tutte le culture:

Embarrassment, then, can be seen to possess a universal role in supporting the moral order of everyday life, whatever the nature of that moral order. What this suggests is that the social patterning of embarrassment may provide the answer to the big question about the continuation of social life. […] The logic of Goffman’s ‘Embarrassment and social organization’ points towards a conclusion of great importance. It explains why social actors do not regularly throw off the codes of behaviour. There is no need to formulate elaborate psychoanalytic theories in order to explain our routine acceptance of constraint. Built into the fabric of social life is the mechanism for social embarrassment, threatening social actors with a form of social death each time they forget the codes of appropriateness. (220).

La vergogna protegge il patto sociale. Ma ancora manca in legame con il comico: Goffman non parla di humour, non prende in considerazione il comico che mette in imbarazzo.

Torniamo al processo di apprendimento infantile dello humour: i bambini piccoli che non hanno senso dello humour, neppure si imbarazzano: anche l’imbarazzo è un fenomeno sociale, e come tale va appreso. A insegnarlo è proprio il riso: quando ci si comporta in maniera inappropriata, gli altri ridono (riso disciplinante) a nostre spese, che proviamo imbarazzo.

Gli studi sullo humour hanno spesso come esempi situazioni imbarazzanti ma solitamente gli studiosi vogliono far passare la linea dell’empatia in chi assiste all’imbarazzo: come se il divertimento a spese di chi adotta involontariamente comportamenti inadeguati non fosse ammissibile (e si ricordi che Bergson notava come empatia e riso spesso fossero in contrasto). Ma, sostiene Billig, “Perhaps enjoyment, not empathetic embarrassment, may be a major reaction to watching the embarrassment of others.” (2005:227). Sociologi e psicologi sono riluttanti a esplorare o solo menzionare questo aspetto, ma se pure l’empatia esiste, non può essere fatta norma; l’imbarazzo è così importante all’interno del mantenimento dell’ordine sociale perché la tipica reazione che suscita non è la solidarietà ma il divertimento che nasce dalla momentanea liberazione dagli imperativi sociali, dal partecipare ai crudeli piaceri dello humour disciplinante. Prosegue Billig:

There are further aspects to this teaching. Just as the teaching of politeness generally involves indicating what rudeness is, so disciplinary laughter has implicit consequences. It not only indicates that inappropriate behaviour is ‘naturally’ funny, but, in so doing, it provides a model of discipline. […] Becoming a socialized member of society means more than learning how to behave in public. It involves learning how to laugh at those who behave inappropriately, for polite adults must be able to discipline the socially deviant with momentary heartless mockery. Yet, the discipline seems to occur beyond the awareness of those who are exacting the discipline. (2005:230)

Gli adulti dicono che stanno solo ridendo, ma non è vero: stanno ridicolizzando, creando imbarazzo e insegnando, ma non possono/vogliono ammetterlo. Freud non spiega come si impari la repressione, e i genitori non possono certo insegnare direttamente come ci si reprime, ma lo possono far vedere, mettendolo in pratica di fronte agli occhi dei figli. Nel contempo, però, godono anche della liberazione dalle costrizioni sociali: “Here lies one of the central ambiguities of disciplinary laughter. It permits the laughers to enjoy what is being outwardly sanctioned. This can be seen in the practical joke that simultaneously disrupts and reinforces the social order.” (231). Si ride dell’infrazione, si insegna a non ripeterla, e intanto ci si concede, per un attimo, di infrangere le stesse regole.

Degli eventi imbarazzanti si può ridere anche a posteriori: sono quegli episodi, non divertenti al momento per chi li vive, che diventano tali successivamente, quando è possibile raccontarli. A quel punto il protagonista non è più in imbarazzo: è diventato l’eroe che infrange il normale ordine delle cose. È un modo per fare i conti con vicende penose, ma anche per ridere dell’ordine sociale momentaneamente infranto; “the later laughter indicates the pleasures of subversion and revenge against the ridicule of embarrassment.” (234).

La repressione del piacere in favore del comportamento sociale appropriato, dice Freud, è costante; le occasioni per infrangere le regole e provarne piacere sono continue, ma la persona matura non le coglie, mentre il bambino, che non si lascerebbe scappare l’occasione, crescendo interiorizza la repressione. Questa però non è mai totalmente efficace e trova una valvola di sfogo nei sogni, nei lapsus e nei motti. Il comico funziona in entrambe le direzioni, per insegnare e per contravvenire:

The link between embarrassment and humour is ambivalent. It can function to protect the social order, keeping social actors in line, but simultaneously it can express pleasure at subverting that same order. All this helps understand why humour is universal to the extent that it is found in all cultures. One might suppose that ridicule is universally useful both as a means of socialization and as a means of preserving everyday social order through the disciplines of embarrassment. Similarly, one can predict that all cultures make demands on their members. In consequence, the need to repress disruptive temptations will be universal, although the precise nature of the temptations will vary from culture to culture. From this it follows that the possibility of pleasure at seeing order disrupted and at seeing authorities discomfited should also be universal. The very conditions of social life may produce the necessity for empathy and compliance, but at the same time they enable the pleasures of ridicule and disruption. If one wants to say that this ambivalence reflect human nature, then this is because human nature is, and must be, a social nature. (235)

Lo humour quindi è intrinsecamente paradossale, perché sociale e antisociale, universale e altamente particolare, rivoluzionario e allo stesso tempo disciplinante: “Repression cannot be evaded if the disciplines of language and social practices are to be learned by the child. And laughter, far from indicating an escape from such disciplines, is complicit with them.” (237). In questo senso però Billig mette forse troppo l’accento sul lato della repressione, e pare non prendere in esame quelle forme di comico che cercano di sovvertire le basi del linguaggio e della logica: pur restando all’interno di un sistema dato, da cui è in effetti impossibile fuggire, questo tipo di comicità prova ad offrire scorci su quel che sta oltre, tentando di rendere consapevoli i suoi fruitori delle gabbie concettuali in cui si vive (e vedremo che Rushdie sfrutta molto tale modalità).

Quel che è importante sottolineare è che il riso è strettamente connesso con il potere, come rimarcheremo analizzando il testo di Ceccarelli. Billig offre poi qualche interessante considerazione su questo rapporto nel contesto contemporaneo, in cui la forma ribelle dello humour assume sempre più subdolamente una funzione disciplinante, soprattutto attraverso i media: la satira sulle celebrità conferma il loro statuto di celebrità; il carnevale continuo, non più limitato a circoscritti momenti dell’anno risponde bene al sistema capitalista che lo impone, che ha bisogno di rivoluzionarsi continuamente per poter sopravvivere – prendere in giro ciò che non è più di moda permette di vendere altro…

Dobbiamo leggere, nella dualità humour e serietà , riso e non riso, una dialettica che non si risolve mai, con i due principi sempre in lotta e necessari l’uno all’altro. Si tratta della stessa dialettica che appare in Bergson, tra rigidità del corpo e vitalità dello spirito: lo humour è l’arma dello spirito contro il corpo, di cui però non può liberarsi: lo spirito ha bisogno della risata, i cui movimenti iterati svelano proprio quell’inelasticità fisica che essa stessa cerca di disciplinare. Humour e serietà rimangono inestricabilmente legati, e non può esserci un’utopia della risata come invece tanti teorici spererebbero.