• Non ci sono risultati.

L'INTEGRAZIONE SOCIO-SANITARIA E LA VIOLENZA DI GENERE. LE POLITICHE D'INTERVENTO NEL CONTESTO TOSCANO

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "L'INTEGRAZIONE SOCIO-SANITARIA E LA VIOLENZA DI GENERE. LE POLITICHE D'INTERVENTO NEL CONTESTO TOSCANO"

Copied!
143
0
0

Testo completo

(1)

U

NIVERSITÀ

D

I

P

ISA

Dipartimento Scienze Politiche

Corso di Laurea Magistrale in

Sociologia e Management dei Servizi Sociali

T

ESI

D

I

L

AUREA

L’integrazione socio-sanitaria e la violenza di genere

Le politiche d’intervento nel contesto toscano

R

ELATRICE

C

ANDIDATA Chiar.ma Prof.ssa Ilenia Sabatino Rita Biancheri

(2)

~ 2~

Indice

Introduzione

pag. 4

1 Capitolo: Dal welfare state all’integrazione socio - sanitaria

1.1 La costruzione delle tutele sociali della persona pag. 10

1.2 I sistemi di welfare in Europa: un’analisi comparata pag. 15

1.3 Le sfide allo Stato sociale pag. 20

1.4 Crisi e trasformazione dei fondamenti del welfare pag. 23

1.5 Verso un welfare socio-sanitario pag. 29

2 Capitolo Integrazione socio - sanitaria: teorie di riferimento e iter

normativo

2.1 Sociale e sanitario: due strade separatepag. 39

2.1.1. Trasformazione del sistema sanitario e sociale: gli anni novanta pag. 42

2.1.2 Il piano sanitario nazionale 1998/2000: un patto di solidarietà per la salute pag. 45

2.2 Il versante sociale: legge quadro 328/2000 pag. 51

2.3 Lo sviluppo dell’integrazione socio-sanitaria: gli anni duemila pag. 55

2.4 L’iter legislativo dell’integrazione socio-sanitaria della Regione Toscana pag. 59 2.4.1 La Regione Toscana e il nuovo statuto del 2005 pag. 62

2.4.2 Legge regionale 60/2008 pag. 65

(3)

~ 3~

3 Capitolo Violenza: l’ombra della sfera privata

3.1Disuguaglianze di genere e ruoli sociali pag. 73

3.2 La violenza nell’analisi contemporanea: aspetti teorici pag. 81 3.3 La violenza domestica o di “prossimità”pag. 87

3.4 Il femminicidio pag. 92

3.5 Dimensioni politiche del fenomeno a livello internazionale pag. 95

4 Capitolo La risposta della Toscana: il Codice Rosa

4.1 Le politiche di contrasto alla violenza di genere in Italia pag. 104

4.2 La normativa nella Regione Toscana pag. 115

4.3 Il Codice Rosa pag. 121

4.4 Il percorso integrato del Comune di Pisa per le donne vittime di violenza pag. 127

Conclusioni

pag.132

Bibliografia

pag. 138

Sitografia

pag. 142

(4)

~ 4~

Introduzione

La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Il primo di fronte a come vanno le cose il secondo per cambiarle. Agostino d’Ippona

In questo mio lavoro, ho deciso di affrontare un tema che negli ultimi anni si sta posizionando all’interno del dibattito sugli assetti delle politiche di welfare italiane: l’integrazione socio-sanitaria. L’obiettivo che mi propongo di raggiungere consisterà nel fornire una descrizione e alcuni elementi di riflessione rispetto alle finalità, agli ambiti, agli strumenti e ai principi su cui si fonda l’integrazione socio-sanitaria. Inoltre, si auspica di proporre nuove chiavi di lettura ed elementi conoscitivi necessari per una trattazione analitica del tema, con specifico approfondimento riguardante il funzionamento del sistema di risposte integrate a un problema sociale di ordine pubblico quale che sia la violenza di genere (un fenomeno antico ma che continua ad avere una forte risonanza tutt’oggi). Nello specifico, ho deciso di avere contezza delle politiche d’intervento, risultante dal modello operativo d’integrazione socio-sanitaria, che sono state adottate dalla Regione Toscana, al fine di garantire il benessere bio psico sociale della donna che subisce violenza. Analizzerò e descriverò un excursus storico - analitico, partendo dalla costituzione del welfare state e delle politiche sociali, sintesi di ambiti complessi e articolati che richiede un approccio, da un lato, multisettoriale e, dall’altro, multidisciplinare. Si tratta di una pluralità d’interventi che segnano la garanzia del benessere dei cittadini e da cui si sostanzia il concetto di cittadinanza che designa la presenza e l'esigibilità non solo di diritti civili e politici ma anche di specifici diritti sociali. Bissolo e Fazzi (2005) sostengono che “i processi del welfare, in atto da diversi anni in Europa e nello specifico in Italia, hanno aumentato in modo significativo l’esigenza di integrare i servizi”. Pertanto, in seguito alle valutazioni politiche-economiche e ai processi di metamorfosi socio-culturale che hanno investito le società capitalistiche nel corso del XX secolo, i bisogni sociali si sono andati modificando secondo un processo che si può individuare nel passaggio dalla povertà dei beni

(5)

~ 5~

materiali (con l’avvio e lo sviluppo dell’industrializzazione) alla povertà post-industriale, che si connota in termini relazionali, vale a dire povertà di rapporti, relazioni umane e sociali, emarginazione di nuove fasce di popolazione.

Ecco che il fenomeno della violenza di genere s’inserisce perfettamente all’interno di questo scenario relazionale, attraverso strategie volte al dominio dell’altro, perché prossimo, caratterizzate da una persistente oppressione (Bartholini 2013). La violenza di genere, infatti, determina, in primo luogo, il prepotente desiderio maschile di potere e di dominio sulla donna, da cui consegue il disequilibrio relazionale della coppia a favore degli uomini e il conseguente impoverimento della figura femminile. Dal dibattito internazionale in corso, emerge l’esigenza, sempre più, di una politica che sia moderna e al tempo stesso funzionale alle nuove e articolate situazioni di bisogno; ciò si traduce esplicitamente nell’elaborare schemi teorici da utilizzare operativamente sotto forma di approcci pragmatici e di risposte ai diversi bisogni, tenendo conto delle caratteristiche individuali, collettive e territoriali, in una concatenazione delle risorse volte alla formazione, recupero e potenziamento dell’empowerment dell’individuo. Questa nuova lettura del sistema auspica a una tessitura non solo tra ambiti del welfare (sociale e sanitario) ma soprattutto tra servizi pubblici e privati al fine di promuovere un’articolata e integrata rete di prestazioni a favore della persona (Ferrario 2009). Ferrario, nel 2009, utilizza l’espressione sistema aperto o a rete, cui tutte le espressioni comunitarie sono partecipi, ognuna con la propria specificità, per programmare, organizzare e gestire le risorse e le risposte efficaci. La necessità di avere, con maggiore frequenza, in tempi recenti, risposte sempre più articolate rispetto alla complessità dei problemi, reclama a gran voce l’implementazione di un sistema di welfare state che sia caratterizzato dalla varietà di opportunità di analisi e di risposta attraverso una progettazione sinergica e integrata.

Ho, dunque, scelto di strutturare questo studio seguendo un disegno ben preciso, utilizzando un approccio metodologico di tipo deduttivo - induttivo che ha previsto dapprima una ricognizione della letteratura nazionale e internazione sul tema e, in seguito, un approfondimento dell’integrazione socio-sanitaria all’interno dell’area d’intervento rivolta alle donne che subiscono violenza. Il presente lavoro sarà articolato in quattro capitoli.

(6)

~ 6~

Nel primo capitolo ci si concentrerà a riflettere sul passaggio dalla costituzione del welfare state (con tutte le varie declinazioni presenti in Europa) all’esigenza del modello operativo dell’integrazione socio-sanitaria. Dalla metà degli anni Settanta, i sistemi di welfare dei Paesi occidentali si sono imbattuti in profondi cambiamenti strutturali sotto il profilo socio-demografico ed economico-produttivo e la crisi economico-finanziaria, che dal 2008 ha colpito tali Paesi, ha contribuito a inasprire vecchi rischi e bisogni sociali. Sono venuti meno i presupposti sociali ed economici sui quali si erano fondati originariamente i due modelli di welfare universalistico e occupazionale: un’economia in rapida crescita che ha garantito una piena occupazione, un equilibrio demografico stabile e una struttura solida della famiglia, basata sulla divisione dei ruoli. Di conseguenza, è stato ampiamente dimostrato che in una situazione di aumento della domanda di protezione sociale, di alti tassi di disoccupazione, scarsa crescita e alto debito pubblico, il processo di modernizzazione dei sistemi di welfare europei dovrà avvenire attraverso l’uso di nuovi strumenti sotto forma d’investimento sociale, sviluppo delle capacità e attraverso la creazione di sinergie tra settore pubblico e privato. In particolare, si è verificato un coinvolgimento di soggetti economici e sociali che hanno sostenuto il settore pubblico per la programmazione, gestione ed erogazione di prestazioni più efficaci ed efficienti. Questo processo di ammodernamento ha provocato la ridefinizione del ruolo dello Stato (non più unico soggetto responsabile del benessere della società) e il passaggio dal government a modelli di governance caratterizzati dalla pluralità di stakeholder. Kazepov (2009) lo definisce un passaggio di scala che forza le politiche a porre maggiore attenzione alla dimensione territoriale. All’interno di quest’attuale scenario dovranno assumere significati nuovi e complessi i seguenti concetti: la personalizzazione delle risposte, la globalità dell’intervento e l’interdisciplinarità. Inoltre, si rende necessaria, alla definizione delle politiche socio-sanitarie, la promozione della partecipazione diretta e attiva del cittadino alla vita sociale e, in particolar modo, alla gestione e alla protezione della propria salute.

Del resto, il “nuovo welfare” che sta emergendo appare sempre meno ancorato alla dimensione strutturale orientandosi, invece, alla promozione dei diritti di cittadinanza, considerati quale cinghia di connessione tra ambito privato e sfera pubblica (Cesareo, Vaccarini 2006, Rizza 2009). Pertanto, diventa indispensabile per lo sviluppo del

(7)

~ 7~

welfare socio-sanitario riportare al centro dell’interesse per la vita comunitaria l’intervento di prevenzione e promozione della salute.

Nel secondo capitolo sarà passata in rassegna la normativa italiana che ha portato l’emergere dell’integrazione socio-sanitaria. Nel nostro Paese, in sintonia con la peculiarità che ha contraddistinto il welfare italiano, parlare di settore sanitario e sociale indica ambiti molto segmentati e differenziati. Dagli anni ’70 del Novecento ha avuto avvio una produzione normativa specifica per il settore sanitario (Legge 833/78 che ha istituito il Servizio sanitario nazionale) e, nonostante evidenti difficoltà, anche, nell’ambito degli Enti locali sono iniziati a emergere elementi e presupposti che facilitano la successiva espansione dei processi d’integrazione (D.P.R. 616/77). Gli anni ’90 sono stati caratterizzati da un rinnovato periodo di riforme che ha investito i diversi settori; anche il sociale ha vissuto una vera e propria produzione legislativa, sebbene sia stata declinata per interventi specifici. Perino (2014, p. 121) sostiene che:

«l’insorgere di nuovi bisogni e delle problematiche a essi connessi ha obbligato i due settori a cercare forme e luoghi di confronto, di collaborazione. Da questa esigenza deriva la necessità da parte delle istituzioni responsabili dei due comparti di attuare interventi volti a integrare professionalità e risorse al fine di fornire risposte olistiche ai cittadini-utenti».

È con il Decreto Lgs. 229/99 che sono state definite le prestazioni socio sanitarie distinte, all’art. 3 septies, in prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, prestazioni sociali a rilevanza sanitaria e prestazioni socio sanitarie a elevata integrazione. Inoltre, al fine di potenziare forme di partnership1 sono stati individuati tre livelli in cui si articola l’integrazione socio-sanitaria: livello istituzionale, gestionale e professionale.

Anche la legge 328/2000, legge di riforma organica dei servizi sociali, contiene una costante attenzione all’integrazione socio-sanitaria promuovendo interventi sia in termini di prevenzione sia di promozione. È con il D.P.C.M. 14 febbraio del 2001 Atto d’indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni sociosanitarie che si supera la dicotomia tra sociale e sanitario per rispondere a bisogni complessi della persona. Bisogna capire cosa s’intende per bisogno sociale, quali sono i fattori produttivi che entrano in gioco, qual è l’evoluzione cui il bisogno sociale segue per capire quali sono le azioni che hanno la possibilità di garantire l’accompagnamento alle persone

1 La partnership è qualcosa di diverso dalla rete: quest’ultima comporta l’instaurarsi di relazioni, anche

intense, tra diversi stakeholder, ma non presuppone né accordi formali né la condivisione di obiettivi espliciti (Boccacin 2009).

(8)

~ 8~

nell’evoluzione del bisogno sociale. Per di più, ho scelto di comprendere a pieno le politiche di governance, sviluppate territorialmente dalla Regione Toscana, che negli ultimi anni hanno costituito risposte importanti nell’ambito della programmazione integrata. Dal dibattito istituzionale avviato negli ultimi decenni e ancora in corso, la Regione Toscana è all’avanguardia per essere stata capace di costituire un vero e proprio modello di welfare regionale, inteso come un sistema di norme, pratiche, metodologie, competenze e risorse. Risulta ormai chiaro come il welfare, in uno scenario di rinnovato sviluppo democratico, sostenibile e volto a un social investment, è riuscito a riacquisire un ruolo centrale. Il percorso che la Regione Toscana ha intrapreso, fin dagli anni ’90, si può definire complesso, articolato ma allo stesso tempo innovativo. Non a caso è stata la Regione Toscana a istituire le “Società della Salute” con le quali garantire dinamiche partecipative di diversi attori pubblici, privati ma soprattutto promuovere la partecipazione della comunità di cittadini, singoli e associati.

Nel terzo capitolo si procederà con l’analisi del fenomeno della violenza di genere; un problema sociale che presenta infinite sfaccettature, ognuna delle quali meritevole d’attenzione e approfondimento. La violenza femminile, può presentarsi in forme diverse, sebbene da tutte quante derivino angoscia e sofferenza. Il maltrattamento fisico, psicologico, insieme alla violenza sessuale, determinano, infatti, notevoli conseguenze sulla salute della donna, da lei stessa il più delle volte sottovalutate ma che lasciano un segno incancellabile sulla sua vita. In questo groviglio brutale, che lentamente annienta la persona, un ruolo fondamentale è svolto dalle relazioni sociali che spesso si mostrano determinanti nel fornire sostegno morale e materiale, fungendo da vere e proprie ancore di sopravvivenza. Lo studio di questo fenomeno sociale, tanto orribile quanto attuale, avrà inizio con la riflessione sulle differenze biologiche tra uomini e donne e su come queste, spesso, diventano la base per la costruzione di stereotipi che rafforzano le disuguaglianze tra i generi. L’origine di queste disuguaglianze si situa ancora e sempre nell’analisi sociale, culturale e politica del ruolo maschile e femminile e nella ridefinizione di alcuni concetti. Se in passato il ruolo delle donne nella società e nella famiglia si distingueva per la subordinazione e la sudditanza rispetto all’uomo, è possibile, infatti, affermare che a oggi questa sottomissione non sia del tutto superata ma si riproponga sotto forme meno esplicite. Si tratta di una violenza simbolica, espressione coniata da Bourdieu, intendendo una violenza dolce e invisibile.

(9)

~ 9~

In quest’ottica, le donne di ieri e di oggi sembrano legate da un filo comune che le unisce. Nel corso del capitolo sarà passata in rassegna la normativa sia nazionale sia internazionale per contrastare la violenza sulle donne per poi scendere nel dettaglio e descrivere le risposte date dal contesto regionale toscano.

La descrizione delle pratiche operative dell’integrazione socio-sanitaria relativa all’area d’intervento della violenza di genere sarà oggetto del quarto capitolo. Saranno prese in esame le risposte istituzionali adottate per contrastare e prevenire il fenomeno in oggetto dalla Regione Toscana. Essa è stata una delle prime Regioni in Italia a dimostrare particolare attenzione verso le problematiche di genere e a rendere concreto nel tempo quest’orientamento con leggi proprie e con strategie d'azione innovative. Lo studio di un caso in particolare, il Codice Rosa, definito come percorso di accoglienza e di presa in carico attivato al Pronto soccorso e dedicato a tutte quelle persone che subiscono una qualsiasi forma di violenza, mi aiuterà ad avere una visione più completa rispetto a come questa problematica è affrontata e contrastata a livello regionale.

(10)

~ 10~

Capitolo I

Dal welfare state all’integrazione socio-sanitaria

1.1 La costruzione delle tutele sociali della persona

Il dibattito politico e accademico, spesso, denota l'insieme delle politiche sociali utilizzando l'espressione stato del benessere o welfare state e, talvolta, quella di stato sociale; diviene fondamentale, quindi, giungere alla definizione del concetto e capirne il significato per analizzare e comprendere le politiche sociali2. Provare a spiegare questo concetto complesso non è stato e non è tuttora un compito semplice. Le ragioni della complessità semantica e di una sua graduale ambiguità derivano sostanzialmente dagli apporti di diverse discipline quali la filosofia, la giurisprudenza, l’economia e la sociologia ma anche dalla consapevolezza che i principali valori cui s’ispira hanno subito una metamorfosi secondo le caratteristiche del contesto all’interno del quale si sviluppa. Ferrera (2006, p.17), nella sua nota definizione, chiarisce il concetto di welfare state basato su tre elementi connotativi in base ai quali esso è: un insieme di politiche pubbliche che fondano le radici sull'autorità dello Stato e sono connesse al processo di trasformazione societaria; sono politiche tramite le quali lo Stato offre ai propri cittadini protezione contro rischi e bisogni prestabiliti, sotto forma di assistenza, assicurazione e sicurezza sociale3; infine, il welfare state mediante le politiche sociali introduce specifici diritti sociali e doveri di natura finanziaria.

2 Con il termine politica sociale o policy si fa riferimento a una vasta gamma di politiche pubbliche che

cambiano secondo i periodi storici (Ferrera 1996, 2006). Le politiche sociali possono quindi essere definite come un insieme di interventi pubblici con effetti sociali che vanno da una più equa distribuzione societaria di risorse e opportunità, alla promozione del benessere e della qualità di vita e che hanno lo scopo di ridurre o limitare le conseguenze sociali prodotte da altre politiche. Le principali politiche sociali sono: politiche pensionistiche (interessano principalmente la vecchiaia); politiche sanitarie (interessano il rischio di malattia); politiche del lavoro (interessano il rischio di disoccupazione); politiche di assistenza sociale (interessano vari ambiti del vivere sociale e varie figure); politiche per la casa; politiche educative.

3 L’analisi storico comparata identifica tre modalità differenti di intervento pubblico a fini di protezione

sociale che sono: l’assistenza, l’assicurazione sociale e la sicurezza sociale. Rispettivamente con la prima s’intende un intervento pubblico a carattere discrezionale, volto a rispondere in modo mirato a specifici

(11)

~ 11~

Le politiche sociali, in questo senso, rappresentano la sintesi di ambiti complessi e articolati e pertanto richiedono un approccio, da un lato, multisettoriale e, dall’altro, multidisciplinare. Si tratta di una pluralità d’interventi che mirano a garantire il benessere dei cittadini e che evidenziano il concetto di cittadinanza sociale:

«l'etimologia della parola “ben-essere” ci consente di aggiungere alcune precisazioni. I problemi e gli obiettivi che caratterizzano le politiche sociali riguardano le condizioni di vita degli individui, le risorse e le opportunità a loro disposizione nelle varie fasi della loro esistenza. In primo luogo, dunque, le politiche sociali sono corsi di azione volti a definire le norme, gli standard e le regole in merito alla distribuzione di alcune risorse e opportunità considerate particolarmente rilevanti per le condizioni di vita e dunque meritevoli di essere in qualche modo “garantite” dall'autorità della Stato. Nelle contemporanee democrazie queste norme, standard e regole sono incorporate nella nozione di cittadinanza sociale» (Ferrera 2006, p.12).

Pertanto, il concetto di cittadinanza4 designa la presenza e l'esigibilità non solo di diritti civili e politici ma anche di specifici diritti sociali garantiti, nello specifico, dalle politiche sociali. Il sociologo inglese Thomas Humphrey Marshall, in Citizenship and Social Class (1950), introdusse il concetto di modello di cittadinanza, dove lo stato sociale non è concepito esclusivamente come un annesso, come una sorta d’integrazione dello stato liberale democratico, ma come una nuova forma di stato enunciando l’espressione democrazia sociale. Nel nuovo patto sociale rientrano modalità di rapporto tra la collettività e i singoli cittadini diverse rispetto a quelle che si limitavano a considerare lo Stato come garante della sicurezza e della tutela dei diritti individuali (diritti civili, di proprietà e di libero esercizio dei diritti politici). Sono piani che s’intrecciano e, secondo Marshall, si verifica un passaggio dinamico dallo stato liberale, a quello democratico, fino ad arrivare a quello sociale. Non si tratta di un’evoluzione lineare ma di un percorso che ha avuto battute di arresto e diverse oscillazioni tra i diversi Paesi, assumendo forme diverse. È un modello che si realizza, al meglio, in

bisogni individuali o a categorie circoscritte di bisognosi. Infatti, essa è selettiva e residuale, tanto che le sue prestazioni sono subordinate all’accertamento, da parte pubblica, di due condizioni: un bisogno manifesto e l’assenza di risorse per farvi fronte. L’assicurazione sociale è un intervento pubblico che mira all’erogazione di prestazioni standardizzate in maniera automatica e imparziale, in base a precisi diritti/doveri contributivi e secondo modalità standard. Infine, la sicurezza sociale è un sistema di protezione esteso a tutti i cittadini volto a favorire prestazioni uniformi, corrispondenti a un minimo nazionale e capaci di garantire una vita degna, non connessa a doveri di contribuzione e incentrata sul concetto di cittadinanza (Ferrera 2006).

4

Marshall definisce la cittadinanza: lo status conferito a coloro che sono pieni membri di una comunità. I principi cui fa riferimento il concetto di cittadinanza si fondano in primo luogo sulla nozione di diritti/doveri, sul principio di uguaglianza ma anche sull’appartenenza a una comunità, a una società, a un territorio, a uno Stato.

(12)

~ 12~

Europa Occidentale in modi diversi ma con elementi in comune che ci permettono di formulare una definizione generica dello Stato sociale.

«Lo Stato sociale è lo stato in cui il potere politico s’interessa concretamente delle condizioni materiali e intellettuali dei cittadini, assicurando loro livelli accettabili di lavoro, di reddito, di salute e d’istruzione» (De Boni 2007, p. 5).

Questa definizione è di carattere generale e contiene un’indicazione circa l’impegno attivo da parte del potere politico (e non dello Stato). Sono, infatti, gli organi dello Stato che hanno il compito di applicare le politiche sociali, le politiche di welfare determinate da scelte di orientamento del governo. A questo fine ci chiediamo: qual è lo strumento che lo Stato utilizza per garantire i diritti sociali? Un primo strumento è rappresentato proprio dallo Stato sociale, poiché il welfare state (stato del benessere) rappresenta un modello di cittadinanza5 in cui i diritti sociali venivano e sono prevalentemente garantiti e resi effettivi dallo Stato. È questo ente che continua a essere centrale nella storia moderna e contemporanea nei paesi d’Europa poiché fornisce una copertura che ancora regge (o dovrebbe farlo) i diritti sociali.

«L’ordinamento giuridico dello Stato sociale riconosce e garantisce situazioni giuridiche soggettive, che si usano ricondurre alla categoria dei diritti sociali, secondo un’altra terminologia, a quella dei diritti di solidarietà o delle libertà sostanziali. Sono tutte formule sintetiche che richiamano i valori fondamentali su cui si è formato storicamente lo Stato Sociale, quali il superamento della visione individualistica dei rapporti tra Stato e cittadini, il principio solidaristico e il principio di uguaglianza sostanziale» (Caferra 1987, p. 3).

In linea con quanto sopra, siffatti valori fondamentali sono contenuti anche nella nostra Carta Costituzionale6. La Costituzione italiana, infatti, disegna un modello di Stato sociale, fondato sul lavoro e sulla sovranità popolare (art.1) ed enuncia i principi ispiratori dell’attuale legislazione in materia di lavoro, servizi sociali, scolastici, culturali, sanitari e previdenziali, in altri termini tutto quel complesso d’istituzioni e strutture che va sotto il nome di sistema di sicurezza sociale.

5 La cittadinanza, per Marshall, è un elemento strutturante per l’integrazione sociale ed è completa solo

con la presenza dei diritti sociali.

6 La Carta Costituzionale, in vigore dal 1° gennaio 1948, rappresenta il fondamento

giuridico-filosofico-etico e normativo di tutta l’organizzazione dello Stato; tra i principi fondamentali, vengono garantiti i diritti inviolabili dell’uomo e, tra i doveri inderogabili di solidarietà politica – economica e sociale della Repubblica, la rimozione degli ostacoli economici e sociali che possono impedire il pieno sviluppo della persona umana, nonché lo sviluppo del decentramento amministrativo e delle autonomie locali.

(13)

~ 13~

Nella parte dedicata ai Principi fondamentali (art. 1-12), l’art. 2 della Costituzione italiana stabilisce che: “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. L’art. 3 afferma che: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politica, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando, di fatto, la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

È nell’art.3 della nostra Costituzione che va, quindi, ricercata la convalida dell’intervento pubblico in ogni sua ramificazione e livello nel campo operativo dei servizi sociali e della persona. È bene riflettere su siffatti principi fondamentali (art.2-3) perché è implicita la reciprocità tra diritti civili, politici e sociali. In un contesto democratico, il godimento dei diritti e l’uso concreto delle libertà civili e politiche trae origine, infatti, dalla tutela delle libertà definite sostanziali che, garantiscono la più efficace soddisfazione del bisogno (Bartolomei, Passera 2005, p. 21). Nella parte della Costituzione riservata ai Rapporti etico - sociali (art. 29-34) e in quella indirizzata ai Rapporti economici (art. 35-47), due articoli meritano particolare attenzione nel quadro del sistema di sicurezza sociale, avendo attinenza con i servizi sociali. Sono gli articoli 32 e 38 che sanciscono rispettivamente la tutela della salute e il diritto all'assistenza sociale. Per quanto concerne il primo, l'articolo 32 recita: “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. La tutela della salute è descritta quale diritto fondamentale ed è quindi inalienabile cioè del quale non si può in alcun modo esserne privati ed è un diritto universale, garantito a tutti, non solo ai cittadini italiani. Altra estensione di significato di tale diritto possiamo rintracciarla nella riflessione di Tripodina (2008, p.321) che lo definisce come diritto proteiforme data la pluralità delle situazioni in esso garantite:

(14)

~ 14~

«la pretesa negativa dell'individuo a che i terzi si astengano da comportamenti pregiudizievoli per la sua integrità; la pretesa positiva dell'individuo a che la Repubblica predisponga le strutture e i mezzi necessari a garantirlo; e infine la pretesa negativa dell'individuo a non essere costretto a ricevere trattamenti sanitari, se non quelli a carattere obbligatorio volti a tutelare la collettività».

Invece, per quanto riguarda il diritto all'assistenza sociale, l'articolo 38 della Costituzione recita: “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso d’infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili e i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale. Ai compiti previsti in quest’articolo, provvedono organi e istituti predisposti o integrati dallo Stato. L'assistenza privata è libera”. Quanto scritto sopra enuncia il superamento sia dello stereotipo associato all’assistenza e, quindi, di essere semplice beneficenza7 sia l’ottica di categoria. In questo modo, si traccia un quadro di sicurezza sociale sulla base di principi universalistici e di prevenzione (piuttosto che di cura) attraverso il riconoscimento del diritto alla previdenza e all’assistenza. Come sostengono Brizzi e Cava (2003, p. 35), la differenza fra questi due ambiti del welfare è strettamente ancorata alle definizioni trascritte nella nostra Carta Costituzionale: “la sanità quale diritto soggettivo, la beneficienza/assistenza invece quale diritto condizionato e più generalmente quale interesse legittimo: due diverse posizioni del cittadino di fronte alla PA”. Una descrizione dal tono residuale, ancora molto lontana dall’accezione contenuta nella futura legge quadro dell’assistenza (legge 328/2000) sui servizi alla persona.

7

Il concetto di beneficenza è stato da sempre collegato alla questione della povertà, fenomeno sociale presente in ogni fase storica. Iniziative di beneficenza, basate su sussidi in denaro, in un primo tempo, venivano disposte nei confronti del singolo. La legge 17 luglio 1890, n. 6972, denominata “legge Crispi”, dando origine alle Istituzioni Pubbliche di beneficenza, richiama lo Stato a diventare attore attivo negli interventi di aiuto rivolti al prossimo. Intorno al primo decennio del Novecento, il termine assistenza affiancò il concetto di beneficenza e le IPAB occuparono il posto delle IPB; fu così che s’innestò una espansione dell’assistenza pubblica volta all’aumento della popolazione forte e sana attraverso la creazione di interventi tendenzialmente più specifici.

(15)

~ 15~

1.2 I sistemi di welfare in Europa: un’analisi comparata

In Europa, l’origine del welfare State8

coincide con l’introduzione e la regolamentazione dei primi sistemi di assicurazione sociale (assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, contro la malattia, contro la disoccupazione e la tutela pensionistica) tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Possiamo circoscrivere il vero sviluppo del welfare State nell’immediato dopoguerra, con l’affermarsi del diritto dei cittadini alla protezione sociale, attraverso un effettivo ampliamento del sistema d’assistenza e quello contributivo-assicurativo rivolto alla totalità dei cittadini (il noto Trentennio glorioso9). Vi furono nell'attuazione di questo percorso due modelli. Nei Paesi anglo-scandinavi si consolidò il modello universalistico di welfare, detto beveridgeano perché ispirato al Piano Beveridge del 1942 (da Beveridge, economista e studioso liberale) attuato in Inghilterra nel secondo dopoguerra per garantire una soglia minima di occupazione a tutti i cittadini; il modello universalistico era imperniato su schemi omnicomprensivi, fondato su principi egualitari e finanziato attraverso la fiscalità generale. Nel resto dell'Europa continentale il processo di espansione è stato più frammentato ed ha dato origine a quello che è stato definito il modello occupazionale, detto bismarckiano, perché avviato con le riforme del cancelliere Bismarck; il modello occupazionale si basava sull’obbligatorietà dei contributi in funzione della condizione di occupazione e prevedeva una pluralità di schemi assicurativi e prestazioni differenziate.

Nel tempo, sono stati proposti altri schemi di classificazione dei modelli di protezione sociale in Europa. In base alla letteratura (Titmuss, 1958; Esping-Andersen, 1990; Ferrera, 1996) si possono distinguere diversi modelli di welfare, intesi come risposte di gestione collettiva dei rischi10 individuali:

8

Secondo Ferrera (2006): «il welfare state va posizionato sullo sfondo di un processo di trasformazioni economiche, sociali e politico istituzionali che le scienze sociali definiscono come processo di modernizzazione. Questo processo ha interessato, con tempi e modalità differenti, le società occidentali dal XIX secolo, trasformando la loro struttura produttiva e occupazionale, i loro modelli di organizzazione sociale e i loro sistemi politici e amministrativi».

9 I trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale circoscrivono un periodo di sviluppo talmente

intenso ed esteso così da essere definito trentennio glorioso. In tutti i Paesi si è verificato una costante estensione e un miglioramento della protezione offerta dallo Stato.

10

Ferrera (2006) sostiene che nell’ambito delle politiche sociali si possono evidenziare altri due temi rilevanti oltre a quelli di benessere e di cittadinanza: il bisogno e il rischio. Rispettivamente con il termine bisogno s’indica la carenza o la mancanza di qualcosa necessario per la realizzazione del benessere, mentre il termine rischio indica l’esposizione a determinati eventi che possono accadere (es. malattia) e

(16)

~ 16~ Il sistema di welfare liberale

Il sistema di welfare socialdemocratico Il sistema di welfare familistico

Il sistema di welfare corporativista

Il sistema di welfare dei paesi in transizione.

Il sistema di welfare liberale

Questo modello è tipico del Regno Unito e dell’Irlanda. Alla base di questo sistema di welfare c’è una forte fiducia nella capacità autoregolativa del mercato, aumentando la convinzione che gli individui possano e debbano acquisire la capacità di far fronte da soli ai rischi sociali. Per questo, lo Stato si riserva di intervenire solo per dare un supporto ai più bisognosi. In virtù di questa impostazione concettuale, il sistema si caratterizza per il residualismo, in altre parole non tutte le situazioni di rischio sono assicurate dall’intervento dello Stato. Questa caratteristica fa sì che il modello organizzativo che ne consegue sia strutturato, in modo tale che le prestazioni a carattere prevalentemente assistenziale siano in genere limitate ai soli individui che possono dimostrare il loro stato di disagio e di bisogno. In questo modello, la società è divisa tra una maggioranza di cittadini che auspicabilmente sarà in grado autonomamente di far conto sulle proprie forze per acquisire l’assicurazione contro i rischi malattia, disoccupazione, ecc. e una minoranza che avrà necessità di beneficiare degli interventi dello Stato sociale. È, dunque, un sistema che registra una forte disuguaglianza non solo nella distribuzione della ricchezza (un alto tasso di povertà) ma anche per una stratificazione abbastanza netta fra le diverse classi (Kazepov 2009, pp. 22-23).

Il sistema di welfare social democratico

Questo modello di welfare caratterizza i Paesi scandinavi (Danimarca, Svezia, Finlandia, Norvegia) e si basa sul principio dell’universalismo nella programmazione delle politiche sociali. Questo principio si è imposto pienamente dagli anni ’60 rendendo le prestazioni dei servizi subordinate al diritto di cittadinanza e relegando, in posizione marginale, il principio di accesso ai servizi basato sulla contribuzione o sulla posizione individuale nel mercato del lavoro. L’obiettivo, dunque, è quello di

quando si realizzano minano il benessere generando un bisogno. Come rispondere a bisogni e rischi? Attraverso il mercato, la famiglia, lo Stato e il Terzo Settore, in altri termini i quattro attori del welfare state.

(17)

~ 17~

proteggere tutti, in base allo stato di bisogno individuale. Inoltre, il modello prevede la distribuzione di sussidi generosi, volti alla diminuzione delle disuguaglianze di qualunque origine (lavoro, formazione, reddito, ecc.). L’elemento centrale è, in ogni caso, lo sforzo di demercificare11 il benessere, provocando, dunque, una minore dipendenza dal mercato. Si tratta quindi di un modello che vede una maggiore presenza dello Stato; tuttavia, da un punto di vista territoriale, emergono scarsissime differenze locali nelle misure assistenziali (Kazepov 2009, pp. 23-24).

Il sistema di welfare familistico

In questo sistema sono inseriti i Paesi dell’area mediterranea (Spagna, Italia, Grecia e Portogallo). Il mercato è residuale nella produzione di welfare, ma a differenza del sistema scandinavo anche lo Stato lo è. Infatti, questo modello è definito familistico perché si fonda, o dichiara di avere come riferimento, non tanto i singoli individui ma principalmente le famiglie, alle quali sono demandati i compiti di cura e responsabilità ultima del benessere dei suoi membri. È un welfare pubblico che si basa sul principio della sussidiarietà passiva, cioè lo Stato interviene solo nel momento in cui la famiglia fallisce nel suo ruolo di ammortizzatore dei rischi sociali. Da una parte, i requisiti di eleggibilità per l’accesso ai servizi sono direttamente dipendenti dallo status contributivo legato essenzialmente all’occupazione svolta; dall’altra i destinatari delle politiche sociali non sono i singoli individui ma le famiglie. Per queste premesse di fondo, il sistema dei diritti si costruisce principalmente sull’occupazione e sulla carriera del capofamiglia maschio (breadwinner), mentre la moglie e gli altri membri della famiglia dipendono da diritti derivati e non personali. Il sistema familistico è quello meno generoso, insieme al modello dei Paesi in transizione (Kazepov 2009, p. 25).

Il sistema di welfare corporativista

Il sistema corporativista accomuna i Paesi dell’Europa centro-occidentale (Francia e Germania) e non sempre è ben distinto da quello familistico. Infatti anche questo sistema fonda la propria logica redistributiva sul doppio criterio: condizione

11

Esping-Andersen utilizza il termine demercificazione per connotare il grado in cui gli individui possono astenersi dal lavoro, senza rischiare il posto di lavoro e/o perdite consistenti di reddito e benessere. Diverso è il concetto di destratificazione ovvero il grado in cui la conformazione delle prestazioni sociali dello Stato attutisce i differenziali di status occupazionali o di classe sociale.

(18)

~ 18~

contributiva dei cittadini e sussidiarietà dello Stato nei confronti della famiglia. La differenza con il sistema di welfare familistico consiste nel fatto che nei Paesi dell’Europa centro-occidentale si dà maggior enfasi per l’appunto al corporativismo, con la collettivizzazione dei rischi in base alla posizione socioeconomica degli individui. Si ritiene, infatti, che i rischi sociali siano distribuiti in maniera diversa tra la popolazione. Inoltre, la sussidiarietà dello Stato ha una forma attiva rispetto al modello familista dei Paesi del sud Europa, cioè è prioritariamente previsto cosa deve fare il sistema indipendentemente dalle richieste d’intervento dei destinatari, in questo caso le famiglie. Essendo basato principalmente sulla valutazione della capacità contributiva delle persone, questo tipo di sistema non realizza in pieno i principi di equità nell’accesso delle prestazioni ma si rifà al vecchio sistema assicurativo.

Per differenziare gli interventi secondo il principio della diversa distribuzione dei rischi sociali nella popolazione, in genere, ci si basa sulla posizione lavorativa. In questo modo, da un lato a ciascun’occupazione sono collegati dei rischi specifici, dall’altra i gruppi occupazionali sono portatori di rivendicazioni particolaristiche. Questi programmi si basano su iscrizioni assicurative obbligatorie e la sussidiarietà attiva del sistema corporativo si riferisce alla maggiore generosità dei trasferimenti monetari e dei servizi di cui lo Stato si fa carico nei confronti delle famiglie per limitare i carichi di cura interparentali (Kazepov 2009, p. 24).

Il sistema di welfare dei paesi in transizione

Si tratta di un modello in fase di consolidamento che contraddistingue la maggior parte dei Paesi dell’Europa centro - orientale. Dopo gli avvenimenti del 1989, i Paesi hanno avvertito la necessità di definire gli indirizzi e i criteri di un sistema di welfare. Si è avviato un cambiamento strutturale dell’economia con forte instabilità nella capacità di produrre ricchezza, provocando una forte stratificazione sociale che dà luogo a una notevole disuguaglianza nella distribuzione delle ricchezze. Questo perché nel momento in cui non si sono consolidate le funzioni di governo a livello nazionale, è abbastanza chiaro che le diverse categorie di cui si compone la società possono prevalere rispetto ad altre in assenza di regole del governo. Le riforme dell’ultimo decennio, anche se con differenze sostanziali nei tempi e negli strumenti utilizzati da Paese a Paese, hanno avuto un duplice obiettivo: riuscire a stabilire delle funzioni di governo che siano in

(19)

~ 19~

grado di sostenere il passaggio da un’economia di tipo collettivistico a un’economia di mercato e introdurre all’interno del sistema elementi che siano in grado di contrastare il potenziale impatto negativo di questo tipo di economia che, nella misura in cui non è adeguatamente governato, rischia di generare da sé rischi sociali e quindi di produrre una politica ambivalente (Kazepov 2009, pp. 25-26).

Alle precedenti declinazioni di welfare state si aggiunge quello che può essere definito un paradigma di riferimento comune per i Paesi del vecchio continente: il modello sociale europeo. Con questa espressione, comparsa per la prima volta all’inizio degli anni ’80, si ritiene che il welfare europeo avrebbe dovuto combinare la dimensione economica con quella sociale, al fine di promuovere, come sostiene Leonardi (2010, p. 65): “pace sociale, equità e buone prestazioni sotto il profilo della produttività e della competitività economica”. Alcuni autorevoli studiosi, tra i quali citiamo Colombo e Regini (2009), hanno sintetizzato alcune caratteristiche costitutive di questo modello:

«un regime di protezione sociale relativamente generoso […]; un tipo di regolazione del mercato del lavoro che tenta di combinare flessibilità per le imprese con istituti di garanzia del lavoro o del reddito per i lavoratori; un sistema di relazioni industriali istituzionalizzato basato su associazioni di rappresentanza degli interessi tendenzialmente inclusive e riconosciute […]» (in Ascoli 2011, p. 12).

Il modello sociale europeo è contrapposto a quello statunitense perché le principali questioni che interessano il sistema di welfare sono considerate componenti fondamentali della politica nazionale degli Stati. Inoltre, si differenzia anche per la pluralità di sistemi di welfare adottati dai diversi paesi europei per fronteggiare i possibili conflitti che emergono dalle disuguaglianze di tipo socio economico e per l’utilizzo di strumenti di negoziazione, di coordinamento e cooperazione, atti a ridurre le conseguenze di questi eventuali conflitti. Giddens (2006) definisce il modello sociale europeo:

«non un concetto unitario, ma una miscela di valori, conquiste e aspirazioni, variabili per forma e grado di realizzazione tra i diversi Stati europei» (in Ascoli 2011, p. 12).

L’autore individua alcune caratteristiche di fondo relative a questo nuovo modello: in primis può essere definito come stato interventista, finanziato da alti livelli di tassazione; si fa garante di una rete estesa di protezione sociale e contenimento delle diseguaglianze economiche e sociali. Altro ruolo chiave è quello svolto dalle parti

(20)

~ 20~

sociali nel promuovere i diritti dei lavoratori (in Ascoli 2011, p. 12). In estrema sintesi, possiamo dire che all’interno di questo modello si trovano valori quali la solidarietà e l’equità nella distribuzione dei rischi e delle opportunità a livello collettivo, la protezione dei membri della società più vulnerabili, la concertazione e la cittadinanza sociale.

1.3 Le sfide allo Stato sociale

Con gli anni Sessanta si è ampliato il dibattito socio-politico che ha fatto affiorare le distorsioni scaturite dal distacco storico fra politica economica e politica sociale, da cui è sorta la richiesta di un modello di sviluppo integrato in connessione con i principi ispiratori della Carta costituzionale. Successivamente alle valutazioni politiche-economiche e ai processi di metamorfosi socio-culturale che hanno travolto le società capitalistiche, i bisogni sociali si sono andati modificando secondo una linea di cambiamenti che si può individuare nel passaggio dalla povertà dei beni materiali (con l’avvio e lo sviluppo dell’industrializzazione) alla povertà post-industriale che si connota in termini relazionali, vale a dire povertà di rapporti, relazioni umane e sociali, emarginazione di nuove fasce di popolazione. Le azioni legislative degli anni ’70 - ’80 s’ispirano a diversi principi: dall’unità della persona e recupero delle identità della stessa quale soggetto prioritario dell’intervento (cui logicamente va ricondotta la priorità della prevenzione e degli interventi correlati alla centralità della persona), alla complementarietà dei ruoli professionali (con il superamento del modello gerarchico rigido e articolato) volto alla democratizzazione del rapporto professionale all’interno della struttura e all’esterno con l’utente al cui servizio si è preposti. Altro principio delle politiche di questi anni è quello della personalizzazione delle risposte, privilegiando la priorità degli aspetti umano-relazionali su quelli tecnico-strutturali, e la garanzia della partecipazione dell’utenza alla formulazione e gestione dei programmi di intervento per la realizzazione, in particolare, di un corretto processo di valutazione in termini di efficacia e di efficienza (Bartolomei, Passera 2005, p. 24).

Dal dibattito in corso in quegli anni è emersa l’esigenza, sempre più, di una politica che fosse moderna e al tempo stesso funzionale alle nuove e articolate situazioni di bisogno; ciò si traduceva esplicitamente nell’elaborare schemi teorici da utilizzare

(21)

~ 21~

operativamente sotto forma di approcci pragmatici e di risposte ai diversi bisogni in relazione alle caratteristiche individuali, collettive e territoriali, in una concatenazione delle risorse volte alla formazione, recupero e potenziamento dell’empowerment dell’individuo. Questa nuova lettura del sistema auspica a una tessitura non solo tra ambiti del welfare (sociale e sanitario) ma soprattutto tra servizi pubblici e servizi privati al fine di promuovere un’articolata e integrata rete di prestazioni a favore della persona (Ferrario 2009). Come sottolineato all’inizio di questo capitolo, è la nostra Carta Costituzionale che afferma il diritto/dovere di partecipazione del cittadino, quale soggetto attivo della politica sociale e delle scelte d’indirizzo e di organizzazione con cui il sistema si realizza. Nell’ambito del sistema a rete, benché l’intervento dello Stato sia cresciuto costantemente solo dalla fine del XIX secolo, esso non ha sostituito le altre fonti di benessere (famiglia, associazioni e mercato) ma si comprende, sempre più, come lo Stato interagisce con altre istituzioni. S’introduce così, come sostiene Paci, il concetto di sistema di welfare e scompare quello di welfare state. Tutti questi aspetti hanno contribuito, da un lato a valutare il modello del welfare state come inadeguato a rispondere alla crescente eterogeneità dei bisogni e dei problemi correlati al progressivo aumento della complessità sociale e, dall’altro, a proporre modalità di intervento diversificate in funzione di risposte più efficaci ai problemi posti dalle vecchie e nuove povertà, in un quadro istituzionale di compiuto decentramento e territorializzazione dei servizi secondo le prospettive poste dai nuovi modelli di welfare comunitario o di welfare mix (Folgheraiter, Donati 1991).

Durante la cosiddetta golden age, il consolidamento e l’espansione dei diritti dei cittadini e della relativa spesa pubblica, nella maggior parte dei paesi industrializzati, ha combinato con un crescente sviluppo del settore economico. Questo doppio movimento espansivo si evidenzia nelle successive definizioni elaborate sullo stato di benessere. Ricordiamo la nota definizione di Briggs (1961):

«Lo stato del benessere è quello in cui il potere organizzato viene impiegato deliberatamente (con la politica e con l’amministrazione) per modificare il funzionamento del mercato in tre direzioni almeno: prima direzione, la garanzia per individui e famiglie di un reddito minimo indipendente dal valore di mercato del loro lavoro o della loro proprietà; seconda, la riduzione del grado di insicurezza, permettendo a individui e famiglie di far fronte ad alcune evenienze sociali (per esempio malattia, vecchiaia, disoccupazione) che potrebbero provocare crisi individuali e familiari; terza, l’assicurazione a tutti i cittadini, senza distinzione di censo o di status, di poter raggiungere i livelli migliori in rapporto a una dotazione convenuta di servizi sociali».

(22)

~ 22~

Si tratta di una definizione più articolata perché mette in campo una pluralità di attori, oltre lo Stato; sottolinea, inoltre, il carattere universalistico delle prestazioni ed è “aperta” perché considera il sistema di welfare non come qualcosa di dato definitivamente. Si presuppone, da una parte, un’integrazione tra Stato e società civile, ma dall’altra le tipologie di problemi, le dinamiche interne ed esterne dei bisogni segnano il limite dell’azione politica. Si noti come riacquista centralità il ruolo della famiglia, luogo di vita e tessitura di relazioni in cui i membri della stessa progettano il loro futuro. Bartolomei e Passera (2005, pp. 25-26) sottolineano che: “la famiglia e la comunità territoriale diventano soggetti dell’azione sociale in quanto competenti nella lettura e interpretazione dei propri bisogni e problemi, nella ricerca, impostazione e attuazione delle risorse / risposte più congruenti con la specificità soggettiva dei vissuti e delle attese rispetto agli obiettivi di diversa qualità della vita. Questa prospettiva è logica conseguenza del riconoscimento del diritto/dovere di partecipazione di tutti alla soluzione dei problemi, con responsabilizzazione progettuale rispetto al modello di sviluppo scelte”.

D’altronde nell’ambito del welfare mix, i nuovi soggetti emersi negli anni ’90 sono stati il volontariato12, le cooperative sociali13, le associazioni di promozione sociale14 e le organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS)15, in altri termini

12 Il volontariato organizzato è stato riconosciuto e regolamentato con la legge 11 agosto 1991, n. 266

Legge quadro sul volontariato. Le Regioni, nell’ambito della loro competenza normativa, hanno emanato leggi analoghe e istituito appositi albi delle organizzazioni di volontariato in esse operanti.

13 L’ampio dibattito che dagli anni ’70 si è sviluppato sul modello di Stato sociale, incapace di rispondere

alle vecchie e nuove emergenze e, più in generale, alle istanze di tutti i cittadini, ha posto in evidenza l’esigenza di allargare le aree di interdipendenza, di collaborazione, di coordinamento, in funzione del soddisfacimento dei bisogni sociali. Le esigenze di cui sopra hanno portato il legislatore a riconoscere e regolamentare, con la legge 8 novembre 1991, n. 381 Disciplina delle cooperative sociali, il fenomeno della cooperativa sociale. Ai sensi della norma richiamata, le cooperative sociali sono delle imprese che hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini. Le cooperative sociali si qualificano, pertanto, da un lato per lo scopo solidaristico che perseguono e dall’altro per la natura di impresa non speculativa, per lo più di produzione e lavoro, che deve coniugare al proprio interno l’efficacia economico – gestionale e produttiva con l’efficacia dei servizi. In base a quanto stabilito dalla richiamata legge, le cooperative sociali soddisfano le proprie finalità identificative mediante la gestione dei servizi socio sanitari e educativi o attraverso la creazione di opportunità di lavoro per i soggetti svantaggiati, ossia per quelle persone che, per condizioni personali o sociali, incontrano difficoltà a inserirsi proficuamente nel mondo del lavoro. La cooperativa sociale, in significativa espansione, rappresenta, inoltre, una delle più interessanti opportunità di incremento dell’occupazione, in particolare giovanile e nel campo delle cosiddette “professioni d’aiuto”. Le Regioni, in attuazione della legge in argomento, con proprie leggi, hanno istituto gli Albi regionali delle cooperative sociali ed hanno definito strumenti e modalità di collaborazione nel quadro delle linee programmatiche definite dalle Regioni stesse (Bartolomei e Passera 2005).

(23)

~ 23~

tutti quei soggetti costituenti il cosiddetto Terzo settore, definiti sia soggetti sociali, politici ed economici cui è stato riconosciuto uno specifico, nuovo e importante ruolo di partnership (con la legge 328/00) nell’ambito delle politiche a livello locale. Questi nuovi soggetti, considerati attori di concretizzazione dei moderni bisogni, hanno fornito prova di validità per la costruzione del sistema integrato dei servizi sociali. La necessità di avere, con maggiore frequenza, in tempi recenti, risposte sempre più complesse e articolate rispetto alla complessità dei problemi, reclama a gran voce l’implementazione di un sistema di welfare che sia caratterizzato dalla varietà di opportunità di analisi e di risposta con una progettazione sinergica e integrata. In questa prospettiva, muta anche la funzione dello Stato non più dare solamente risposte ai problemi e ridurre la povertà. Gli autori Bartolomei e Passera (2005, p. 30) evidenziano come il principale attore del tramontato welfare state, cioè lo Stato:

«non può assumere ed esaurire in proprio la funzione di garante del benessere sociale, secondo un modello di sviluppo e di qualità della vita preventivamente e centralmente individuato, ma deve sinergicamente armonizzare la propria funzione d’indirizzo e di garante dei diritti unitamente ai diversi soggetti associativi e socializzanti che possono, per mandato, per vocazione, per ruolo, per collocazione, soddisfare autonomamente i bisogni, i problemi, la domanda sociale in un quadro di opportunità e libertà garantite».

1.4 Crisi e trasformazione dei fondamenti del welfare

Dalla metà degli anni Settanta, i sistemi di welfare dei Paesi occidentali si sono imbattuti in profondi cambiamenti strutturali sotto il profilo socio-demografico ed economico-produttivo e la crisi economico-finanziaria, che dal 2008 ha colpito tali Paesi, ha contribuito a inasprire vecchi rischi e bisogni sociali. Al fine di comprendere le sfide provenienti da dinamiche esogene ed endogene dello scenario odierno della politica dei servizi socio sanitari è necessario rivedere le diverse tappe che fanno da sfondo alla situazione attuale. Il sistema del welfare state si dimostra incapace di far fronte efficacemente alla gestione dei nuovi rischi emersi in seguito alle trasformazioni economiche e sociali della società.

Secondo Borzaga e Fazzi (2005, p.147) gli elementi principali di questa trasformazione possono essere sintetizzati in “modificazioni della struttura

15 Decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460 Riordino della disciplina tributaria degli enti non

(24)

~ 24~

demografica della popolazione, il problema della sostenibilità economica delle politiche sociali, l’aumento della disoccupazione, l’aumento della concorrenzialità dei sistemi economici, la globalizzazione e infine il persistere della povertà e delle disuguaglianze sociali”.

Tab. 1 – Quadro riassuntivo delle trasformazioni intervenute nei sistemi di welfare occidentali dal dopoguerra a oggi

CONDIZIONI INIZIALI TRASFORMAZIONI

DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI

Strutture demografiche in equilibrio Aumento della popolazione dipendente Economia in rapida espansione Rallentamento dell’economia

Economie nazionali Globalizzazione

Disoccupazione frizionale Disoccupazione strutturale

Povertà tradizionali Nuove povertà

(Borzaga, Fazzi 2005, p. 148). La pluralità di queste trasformazioni ha avuto come conseguenza primaria la modifica radicale del contesto entro il quale il welfare state ha operato e, sfuggendo sempre più ai meccanismi di regolazione nazionale, ha provocato una prima stagione di processi di riforma. Gli ultimi decenni del XX secolo, come afferma Dal Pra Ponticelli (2010, p.16), sono stati contraddistinti da un considerevole aumento di rischi sociali che tuttora permangono e tendono ad inasprirsi:

«dal rischio di caduta al di sotto della soglia di povertà, al rischio di perdita del lavoro nonché della propria autosufficienza. Sono le conseguenze inevitabili di profondi cambiamenti sociali quali il progressivo invecchiamento della popolazione, le trasformazioni della famiglia […], le trasformazioni del mondo del lavoro anche in relazione alle ricorrenti crisi economiche: tutti fenomeni ben noti che hanno avuto e che hanno profonde risonanze sul sistema sociale nel suo complesso e in quello dell’assistenza sociale in particolare».

Di conseguenza, l’espansione del welfare state, conosciuta ininterrottamente per tre decenni (i noti trent’anni gloriosi) in tutti i Paesi occidentali, seppur con rilevanti differenze, conobbe un considerevole cambio di passo dando inizio all’ età dell’argento di austerità permanente (Kazepov 2009, p. 39). In questi anni, si affermano:

(25)

~ 25~

«quelle idee di rinnovamento dell’azione pubblica, contrapposte ai principi di equità che avevano animato la nascita dello stato sociale, unite a una necessaria valutazione degli esiti. Si tratta di un discorso di economicità, di migliorare l’impatto sui singoli beneficiari ed evitare sprechi» (Biancheri 2016, p. 21).

Infatti, sono venuti meno i presupposti sociali ed economici sui quali si erano fondati originariamente i due modelli di welfare universalistico e occupazionale: un’economia in rapida crescita che ha garantito una piena occupazione, un equilibrio demografico stabile e una struttura solida della famiglia, basata sulla divisione dei ruoli. Sul piano dei cambiamenti economici, nei Paesi Europei industrializzati, contrassegnati dalla crisi petrolifera degli anni ’70, si segnala un rallentamento della crescita economica e produttiva con un incremento significativo dei tassi di disoccupazione; l’attività economica è sempre meno legata ai mercati interni e si colloca sempre più nel mercato mondiale in un processo di globalizzazione; l’occupazione diventa flessibile e si deve adattare a un mercato variabile, con un aumento significativo di lavoratori saltuari e precari, i cosiddetti lavori atipici: part-time, interinale, temporaneo (Ferrera 2006, p. 27). Sul piano delle trasformazioni sociali, si registra un notevole mutamento della struttura demografica, con un aumento della popolazione anziana, determinato dal declino della fecondità (verificatosi nel periodo che va dagli anni ’60 alla seconda metà degli anni ’70), ma anche dall’aumento della speranza di vita alla nascita e dal generale miglioramento delle condizioni di vita e dell’assistenza sanitaria16(Ferrera 2006, p. 28). Questa dinamica demografica, che porta con sé un aumento significativo della domanda di cura da parte di una quota crescente della popolazione, mette in discussione anche i sistemi di organizzazione dei due pilastri dei moderni sistemi di welfare: i servizi per l’assistenza sanitaria e sociale e i sistemi pensionistici. Nel primo caso perché la popolazione anziana, maggiormente esposta ai rischi di malattie e non autosufficienza, esercita una pressione importante sui servizi e sulla spesa sanitaria, nel secondo caso perché una quota ridotta di popolazione attiva nel mercato del lavoro deve sostenerne l’altra quota crescente e inattiva. Infatti, per garantire protezione sociale agli anziani, che sono in costante aumento, il welfare state si è trovato costretto a esercitare una maggiore pressione fiscale sui lavoratori.

16Per un approfondimento, fare riferimento ai rapporti ISTAT. L’invecchiamento demografico della

popolazione influenza gli indici di vecchiaia e gli indici di dipendenza, cioè la correlazione tra la popolazione con un’età superiore ai 65 anni, che ha accesso al reddito attraverso il meccanismo redistributivo del sistema pensionistico e, la popolazione in età tra i 15 e i 64 anni, cioè la popolazione attiva nel mercato del lavoro.

(26)

~ 26~

In questi stessi anni si assiste, inoltre, a una profonda trasformazione sociale e culturale del ruolo femminile. Successivamente alle due guerre mondiali, le donne in tutta Europa hanno fatto dei passi nel campo delle pari opportunità. L’acquisizione da parte della donna di nuovi diritti e di un ruolo attivo nel mercato del lavoro ha condizionato, in modo decisivo, la struttura della famiglia e l’istituzione matrimoniale. Si assiste progressivamente all’aumento dei livelli di scolarizzazione, all’innalzamento dell’età per il matrimonio, alla diffusione delle separazioni e dei divorzi e all’affermazione progressiva di nuove forme di convivenza. Soprattutto l’ingresso della donna nel mondo del lavoro ha messo in crisi il modello di famiglia nucleare, che è stato alla base del modello di welfare fondato sul paradigma fordista. Questo paradigma prevedeva una rigida distinzione di ruoli di genere per i quali la forza lavoro impiegata nell’attività produttiva era maschile mentre il lavoro di cura in ambito familiare era di esclusiva competenza della figura femminile (Carbone, Kazepov 2007, pp.110-114). L’assunzione da parte della donna del duplice ruolo, di soggetto attivo nel mercato del lavoro e di cura in ambito familiare, determina l’affermazione progressiva di nuovi importanti bisogni legati alla conciliazione dei tempi di lavoro e di cura. Le politiche di conciliazione dei tempi di lavoro e di vita diverranno, negli anni seguenti, un elemento centrale delle politiche sociali, coinvolgendo diversi ambiti di intervento: dalle politiche del lavoro (relativamente alle misure contrattuali e normative di disciplina dei tempi di lavoro, dei permessi e congedi volte a sostenere il lavoro di cura e le funzioni genitoriali), alle politiche educative (mirate a garantire i servizi educativi per l’infanzia), alle politiche assistenziali (volte ad assicurare servizi di assistenza agli anziani e di sostegno alle loro famiglie).

Ripercorrendo la storia del welfare italiano possiamo tendenzialmente suddividerla, dal secondo dopoguerra, in due parti: la prima collima con il periodo volto all’approvazione delle grandi riforme universalistiche mentre la seconda è quella che coincide con la difficile realizzazione di molte di queste politiche e con un progressivo indebolimento del principio di cittadinanza. Comparando il welfare italiano ad altri paesi dell’Europa risultano evidenti alcune peculiarità che continuano a contrassegnarlo come sistema che mantiene caratteristiche tipiche del modello sud europeo. Ascoli (2011, p. 15), ne sintetizza alcune:

(27)

~ 27~

«i processi di invecchiamento della popolazione (con la relativa tematica della non autosufficienza) appaiano più accentuati; i livelli della natalità collocano il nostro Paese ai gradini europei più bassi, così come i servizi per l’infanzia, se confrontati con i principali paesi dell’UE, appaiono mediamente assai più lontani dai traguardi fissati a Lisbona; il sostegno e il riconoscimento sociale del lavoro di cura si rivelano particolarmente deboli se raffrontati con i contesti esteri più significativi; l’elevatissima disoccupazione giovanile conferisce all’Italia un triste primato europeo, così come la diffusione del lavoro atipico, sempre presso le giovani generazioni; anche il basso livello dell’occupazione femminile colloca il nostro Paese in fondo alla classifica europea; i flussi migratori sono stati affrontati con politiche che si posizionano tra le più fragili e sconnesse; l’Italia è il paese che ha fatto maggiormente ricorso alle immigrate per coprire i buchi del welfare pubblico nelle politiche della non autosufficienza; i bisogni di formazione e di politiche attive del lavoro appaiono tra i meno affrontati con efficacia».

Tutti questi fattori di cambiamento hanno rappresentato lo stimolo per attuare politiche di controllo dei costi e riforme, principalmente, nel settore pensionistico e in quello sanitario; ha avuto avvio così una riforma generale del welfare, definita con varie espressioni ma con analoghi contenuti: modernizzazione, riconfigurazione, ristrutturazione, razionalizzazione. Ferrera, al riguardo, introduce il termine ricalibratura per delineare un processo di cambiamento e riadattamento istituzionale che si contraddistingue per la presenza e l'influenza di vincoli esogeni ed endogeni nelle scelte politiche e per l'interdipendenza fra scelte espansive e scelte restrittive. Per spiegare tali caratteristiche l'autore fa riferimento a varie dimensioni di ricalibratura: quella funzionale che mira a ridefinire le diverse funzioni di protezione sociale; quella distributiva, tesa a ribilanciare il grado di protezione sociale di diversi gruppi; infine quella normativa, volta ad attribuire una base di norme e valori alle proposte di cambiamento. In linea generale, Ferrera sottolinea come tutte le dimensioni della ricalibratura siano tese a conciliare redistribuzione e solidarietà sociale, da un lato, con efficienza e competitività economica, dall'altro lato (Ferrera 2006, p. 30).

E’ in questo contesto che l’Unione Europea ha introdotto nei confronti degli stati nazionali due ulteriori elementi di regolazione delle politiche di welfare: la localizzazione delle politiche sociali e l’esternalizzazione di una serie di funzioni e servizi, sino a quel momento gestiti dai singoli stati. Questi nuovi indirizzi avranno una particolare importanza e ricaduta nella riorganizzazione delle politiche socio assistenziali, sia per quanto riguarda l’organizzazione territoriale dei servizi sia per l’ingresso di nuovi soggetti/attori nei sistemi di welfare (Carbone, Kazepov 2007, p. 126). I concetti teorici-culturali, che sottendono quest’ulteriore processo di

Riferimenti

Documenti correlati

Università popolare delle scienze psicologiche e sociali LINFA Psicologo, psicoterapeuta individuale e di coppia, supervisore, forma- tore. Docente presso la scuola di

Anche nelle Regioni che si sono poste la questione, come in Veneto, dove fin dall’approvazione della Legge 833/78 “Istituzione del servizio sanitario nazionale”

Violenza domestica, stalking, femminicidi, matrimoni forzati, stupri di gruppo tra adolescenti, violenze sessuali con droghe ad hoc, avance nei luoghi di lavoro, violenza

 Il quadro che emerge dalla lettura dei risultati del modulo sugli stereotipi sui ruoli di genere e sulla violenza sessuale, incluse le opinioni sull’accettabilità della

• Il direttore dei servizi sociali e della funzione territoriale è nominato dal direttore generale con provvedimento motivato, sentito il sindaco, qualora l’ambito

Le Parti prorogano di un anno la precedente Convenzione stipulata in data 11.04.2013 tra Regione Lazio - Dipartimento Programmazione Economica e Sociale e Inail - Direzione

La legge di conversione, quindi con efficacia dalla sua entrata in vigore, prevede un determinato procedimento nel caso di richiesta di revoca o

Prende il via martedì 12 aprile la 1^ edizione di un percorso di formazione ed aggiornamento per volontari, operatori e forze dell’ordine sul contrasto alla violenza di