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Violenza: l’ombra della sfera privata

3.1 Disuguaglianze di genere e ruoli social

Proseguendo il ragionamento e avendo come asse di riferimento il versante del welfare, è utile considerare che, soltanto, politiche sociali profondamente trasformate e volte all’empowerment delle persone, saranno in grado di sostenere una domanda sempre più specifica e poliedrica quale quella delle donne che subiscono violenza. I due “mondi” – le politiche di welfare e quelle contro la violenza, in un primo tempo estranei per impostazioni tecnico-operative – sembrano, oggi, avere sempre più aspetti in comune. Infatti, i temi oggetto delle politiche sociali tendono progressivamente a conformarsi con le caratteristiche specifiche della violenza di prossimità. Cimagalli, nel suo libro, Le politiche contro la violenza di genere nel welfare che cambia (2014), conferma che si debbano sperimentare

«politiche che non siano più soltanto riparative, ma che, nel loro agire, includano

aspetti promozionali, educativi, relazionali. In sostanza, tutti quegli interventi in grado di ascoltare la persona – quella ferita, ma anche quella colpevole – e di intraprendere con lei, grazie alle sue capacità e alle risorse che il territorio offre, un percorso originale».

Il percorso di analisi della violenza di genere, considerata fenomeno sociale tanto orribile quanto attuale, ha preso le mosse dalla riflessione sulle differenze biologiche tra uomini e donne e su come queste, spesso, diventino la base per la costruzione di stereotipi che rafforzano le disuguaglianze tra i generi. Questo concetto è stato introdotto, nel dibattito delle scienze sociali, da Gayle, nel suo libro The Traffic Women del 1975, articolandolo con l’espressione sex-gender system e avviando una riflessione sui processi che consentono alle società di organizzare e trasformare la divisione dei ruoli e dei compiti fra uomini e donne, socialmente differenziati.

~ 74~ L’antropologa afferma che:

«Gli uomini e le donne sono, è ovvio, diversi. Ma non sono così diversi come il giorno e la notte, […] la vita e la morte. Dal punto di vista della natura gli uomini e le donne sono più simili gli uni alle altre che a qualsiasi altra cosa […]. L’idea che siano diversi tra loro più di quanto ciascuno di essi lo è da qualsiasi altra cosa deve derivare da un motivo che non ha niente a che fare con la natura» (Piccone Stella e Saraceno 1996, p. 7).

Il termine, come dichiara Piccone Stella, si dota di una dimensione dicotomica dando l’opportunità di osservare le interazioni tra i sessi, nelle quali spesso coesistono similitudine e diversità, conflitto e partecipazione. Spesso, ci si riferisce alla categoria sesso rifacendoci esclusivamente a una serie di fattori biologici attinenti la corporeità sia femminile sia maschile, mentre la categoria genere46, in ambito sociologico, individua le differenze socialmente costruite tra i due sessi, in termini di comportamenti culturalmente accettati. L'interpretazione del genere come costruzione sociale è stata un’impresa lenta e difficile e non ancora giunta a compimento. Accettare questa definizione ci porta a riconoscere come la società sia stata permeata da stereotipi, associati sia al maschile sia al femminile, tanto da contribuire alla costruzione dell’identità e dei ruoli di genere. La portata della sua influenza sulla salute è stata riconosciuta recentemente ma continua a essere un dibattito attuale e ancora aperto, all'interno della quale, il genere sta faticosamente cercando una propria identità e un legittimo riconoscimento. Sono tanti gli stereotipi che si sono diffusi attorno all’identità femminile, tra questi in particolare quello che associa alla figura della donna valori molto alti di sensibilità ed emotività. Possiamo definirla come un’identità “naturale” della donna, come colei che é incaricata alla riproduzione della specie, all'accudimento della prole e alla stabilità della famiglia. L’uomo invece è più stabile, raggiunge un suo equilibrio emotivo e tende a dominare le situazioni che lo circondano. Esso, inoltre, si mostrerebbe come più stabile emotivamente, più legato alle regole e meno fiducioso,

46 Le recenti correnti sociologiche, diversamente dalla tradizione classica che rinvenivano le differenze di

genere a quelle biologiche, hanno portato a valutare la sessualità come costruzione socio-culturale, come effetto della società, la quale attraverso i propri processi dinamici ne normalizza, conserva, orienta, influenza e stabilisce il mutamento. Purtroppo, come sostiene Ricciardi (2016, p.10) «nonostante il tentativo di superare la visione neutra […] assistiamo tuttora a un uso non corretto del termine genere che, nel paradigma esclusivamente bio-medico, rimane sinonimo di diversità biologiche tra i sessi». Secondo i sociologi, due sono i sessi esistenti e la nozione di genere rimanda all’insieme delle caratteristiche fondamentali costruite socialmente che contraddistinguono un gruppo di persone in quanto appartenenti a un sesso.

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mentre le donna sarebbe più calda emotivamente e meno sicura di sé47. Bourdieu, nella sua opera, intitolata Il dominio maschile (2009), descrive la donna cabila, che:

«interiorizzava i principi fondamentali dell’arte del vivere femminile, del corretto atteggiamento, […] imparando a indossare e a portare i diversi abiti corrispondenti ai suoi successivi stati - bambina, vergine, nubile, sposa, madre di famiglia - e apprendendo in maniera inconsapevole, […] il modo giusto di presentare il volto e dirigere lo sguardo» (Bourdieu 2009, p. 36).

Il tutto avveniva attraverso un apprendimento sostanzialmente tacito. Nonostante i profondi cambiamenti avvenuti nel ruolo femminile, i preconcetti sulle donne continuano ad esistere, anche se spesso in forme più velate. Come evidenziato da Bourdieu, la differenza di genere si attua grazie a un costante lavoro di riproduzione delle strutture sociali, regolate secondo la divisone sessuale del lavoro. È possibile affermare, infatti, che “fin dall’antichità l’uomo e la donna sono (stati) percepiti come due varianti: il superiore e l’inferiore” (Bourdieu 2009, p. 23). L’inferiorità della donna è storicamente simboleggiata dal fatto che dapprima s’iniziò a parlare di “diritti dell’uomo” e solo successivamente di “diritti di entrambi i sessi”. Il diritto al voto, ad esempio, è stato acquisito in Italia nel 1848 e fu riconosciuto solo agli uomini con determinati requisiti, mentre le donne dovettero aspettare fino all’1 febbraio 1945. A prescindere dal riconoscimento del diritto al voto, alle donne era nei fatti negata anche possibilità di esprimere le proprie idee, perché il genere femminile nel complesso e, soprattutto all’interno della sfera pubblica, era tenuto in scarsa considerazione e il loro parere non poteva, quindi, avere influenza sul piano politico. Il ruolo dell’uomo, invece, è da sempre stato associato al suo onore, alla sua rispettabilità e virilità.

47 Per quanto riguarda le loro caratteristiche fisiche, le differenze rispetto alle parti del corpo si riflettono

anche in considerazione di come queste sono visibili in pubblico. Infatti, parti del corpo maschile quali: «il viso, la fronte, gli occhi, i baffi, la bocca, vengono definiti come, organi nobili di presentazione di sé e rappresentano l’identità sociale e l’onore»(Bourdieu 2009, p. 26). L’uso pubblico che viene fatto di queste parti del corpo è di far fronte, fronteggiare, affrontare, guardare in faccia, negli occhi. La donna in passato, invece, contrariamente all’uomo, aveva l’obbligo di tenere distante il proprio corpo dai luoghi pubblici, «doveva rinunciare a fare un uso pubblico dello sguardo (per strada doveva camminare con occhi bassi, puntati verso i piedi) e della sua parola (la sola frase ritenuta conveniente è “non so”)» (Bourdieu 2009, p. 26). Pertanto, Bourdieu ritiene che il rapporto di potere tra i sessi abbia la possibilità di valersi di modi di pensiero risultanti dal medesimo dominio. La potenza di quest’ordine maschile deriva dal fatto che non deve giustificarsi. A questo proposito, l’autore afferma che: «la differenza biologica, cioè tra il corpo maschile e femminile, e, in modo particolare, la differenza anatomica tra gli organi sessuali può così apparire (essere considerata) come la giustificazione naturale della differenza socialmente costruita tra i generi e in modo specifico della divisione sessuale del lavoro» (Bourdieu 2009, p. 18).

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Per quanto riguarda la condizione femminile è opportuno soffermarsi sull’analisi del contesto storico e sociale. Infatti, nei diversi Paesi, che si affacciano sul bacino del Mediterraneo, ancora oggi purtroppo, le donne, s’imbattono in un muro che le prelude a emanciparsi da un sistema familiare autoritario e patriarcale. Come sostiene Biancheri (2016, p. 27) emerge:

«una visione patriarcale che conserva, rafforzata dalla normativa e da credi religiosi, il possesso del corpo femminile; un’oppressione storica trasformata in dovere coniugale, in rapporti che possono essere pretesi con la forza in quanto diritti, dove la volontà della vittima è assoggettata alle esigenze maschili».

Studi condotti nel Mediterraneo, infatti, hanno da sempre riscontrato la cosiddetta sindrome dell’onore e della vergogna rispecchiabile rispettivamente il primo negli uomini e la vergogna alle donne, perché tratteggiate come persone silenziose, passive. Sembra evidente quindi come le donne “siano state votate al basso, all’obliquo, al piccolo, al meschino, al futile ecc.” (Bourdieu 2009, p. 40) e questo le condanna ad apparire un’identità minorata. Il dominio maschile, dunque, con il tempo, ha sottratto la capacità di ogni essere umano di “auto significarsi”48

. Ciò che è stato descritto finora è alla base della predominanza del dominio maschile nelle relazioni tra uomo e donna. Il dominio maschile, infatti, secondo una visione storica, è contraddistinto da disposizioni

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Le differenze tra i sessi quindi sono costruite culturalmente e giuridicamente in modo da costruire inferiorità femminile e superiorità maschile. La divisione tra i sessi così descritta, sembra rientrare nell’ordine delle cose e permette di cogliere il mondo sociale e le sue divisioni arbitrarie, a cominciare dalla stessa divisione tra i sessi, costruita come naturale ed evidente. A questo proposito, Goffman (2009) si domanda perché la differenza sessuale venga socialmente trattata tanto da produrre differenze di genere nella società. Il sociologo rovescia l’idea dell’esistenza dei sessi e del fatto che si esprimono naturalmente in un ambiente sociale neutrale, e afferma che: «il sesso non è una variabile indipendente, sono invece le situazioni sociali che vengono predisposte per valorizzare la differenza sessuale» (Goffman 2009, p. 11). Fra i tanti argomenti, egli si sofferma proprio sul posizionamento degli individui dentro le classi sessuali e sul processo di socializzazione all’identità di genere, iniziando a riflettere proprio sul perché le donne siano trattate, in modo diverso dagli uomini. Si domanda: «è possibile decostruire, smontare le differenze sociali, equalizzando i generi e superando quella strana e unica forma di svantaggio posizionale che pone le donne in una condizione antropologicamente e socialmente diversa, da quella degli uomini?» (Goffman 2009, p11). Le classi sessuali sono chiaramente individuabili in qualsiasi società; tutti, fin dalla nascita, siamo posti in classi sessuali, e si tratta di un posizionamento che successivamente verrà convalidato dall’apparenza e dal comportamento. Procedere in questo modo permette l’etichettamento in base al sesso (uomo – donna, maschio – femmina, lui – lei), il quale verrà attestato con segni biologici in altre tappe della crescita individuale(Goffman 2009, p. 23). L’appartenenza alla classe sessuale è un processo che si verifica in tutte società e permane per tutta la vita. Sia i soggetti collocati nella classe maschile che quelli posti nella classe femminile vengono considerati e trattati in maniera diversa sia per i modi di agire e sia per quanto riguarda le ricompense e le esperienze. Le differenze di genere, quindi, vengono costruite quotidianamente, per la tutela delle differenti classi sessuali e in particolare degli stereotipi sul genere.

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che non sono inscritte nell’uomo, ma che sono state costruite attraverso un lavoro di socializzazione. Considerando quindi il rapporto tra uomo e donna come rapporto tra “dominante e dominato”, si può asserire che “i dominati applicano a ciò che li domina schemi che sono il prodotto del dominio [...], i loro atti di conoscenza sono, inevitabilmente, atti di riconoscenza e di sottomissione” (Bourdieu 2009, p. 22). Anche le donne applicano, spesso, a ogni realtà schemi di pensiero e attraverso questi, riescono ad apprendere i principi della visione dominante. Queste rappresentazioni nel passato conferivano all’uomo la posizione di dominante e alle donne attribuivano una condizione di perenne incertezza. Il dominio maschile perpetrato sulle donne, quindi, è stato sempre presente, fin dai tempi più remoti; difatti, la caratteristica principale della nostra cultura è di essere una società androcentrica, ove l’uomo, o meglio il maschio, è percepito come un modello. La donna, invece, considerata solo in funzione del ruolo assegnatole dalla società, ossia quello di madre e moglie, è degradata a non persona e in quanto tale diviene dominabile. Analizzare tutti questi aspetti del dominio maschile, quindi, permette di rilevare la situazione subalterna nella quale ha sempre vissuto la donna.

Definendo il dominio maschile come una costruzione sociale o costruzione mentale e, quindi, come qualcosa di non naturale, Bourdieu ha osservato anche come esso sia talmente radicato nei corpi e nelle menti degli uomini da divenire difficile da eliminare. Se il dominio maschile oggi non si presenta altrettanto pervasivo, è grazie anche e soprattutto al lavoro svolto dal movimento femminista, con le sue importanti conquiste sociali. Infatti, Biancheri (2016, p. 14) evidenzia come:

«all’occultamento del dominio maschile sull’intera cultura, attraverso valori, regole, strutture dei saperi, su cui si sono alimentate le istituzioni pubbliche e le relazioni private, si è opposta la faticosa ricerca del pensiero femminista […]. Il movimento delle donne ha cercato di riappropriarsi delle proprie individualità, ricomponendo i diversi dualismi, in primis quello tra pensiero e corpo».

L’accesso delle donne nel mondo del lavoro retribuito, ad esempio, ha aumentato il loro potere nei confronti degli uomini, minando la legittimità del dominio maschile quale unica fonte di sostentamento della famiglia. La donna, tuttavia, sebbene all’apparenza emancipata, convinta di esercitare il suo ruolo in autonomia e con responsabilità, deve ancora affrontare, in questi cambiamenti, la manipolazione simbolica che è fatta del suo corpo e della sua mente. L’unica eccezione alla legge del dominio maschile, dice

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Bourdieu, è l’amore che riesce a far superare ogni limite connesso al potere e all’autorità a favore del sentimento e della reciprocità. Il dominio alla presenza di questa relazione sembra annullarsi. La scomparsa del dominio e dell’autorità si può ottenere solo attraverso un lavoro continuo, per creare il vero amore, quello della non-violenza e dell’instaurarsi di rapporti fondati sulla piena reciprocità, sentimento totalmente opposto all’uso strumentale che è fatto del potere nei rapporti di dominio. Ogni tipo di rapporto, tuttavia, anche quando è basato sull’amore o sull’accordo, appare sempre vulnerabile alla minaccia della crisi e del ritorno a relazioni di dominio. Purtroppo, è chiaro che non è solo nell’ambito della coppia che si riverberano le conseguenze delle subordinazioni di genere e dell’espletarsi di forme di dominio, ma esse permeano e orientano anche la vita pubblica. La storica costruzione della subordinazione femminile, infatti, trova riscontro anche nella quotidianità di tutti i rapporti sociali, quando le donne sono sovrastate dalla predominanza del ruolo maschile, dalle decisioni degli uomini, dal potere e controllo che essi esercitano, spesso, con molta disinvoltura. L’unica differenza rispetto al dominio maschile esercitato all’interno della coppia e nel segreto delle mura domestiche, è che nella sfera pubblica delle società contemporanee, il dominio maschile non può manifestarsi apertamente come prima, traducendosi in maniera esplicita in una svalutazione diretta del ruolo della donna. Ciò nondimeno, questa impostazione culturale continua a mostrarsi in molti ambiti della vita pubblica; basta osservare i cartelloni pubblicitari dove la donna è rappresentata come un oggetto sessuale, sempre considerata “bella ma stupida”, oppure i modi che spesso gli uomini usano per approcciarsi a una donna considerandoli adatti “a tutte le donne”, percepite come categoria stigmatizzata.

A questo proposito, Bourdieu sviluppa il concetto di violenza simbolica, intesa come una forma di violenza che possiamo definire “dolce e invisibile”. La stessa svolge, in ambito privato e pubblico, una funzione molto importante in tante situazioni umane. Colpisce soprattutto il sistema cognitivo e consiste nell’inculcare forme mentali. La donna è stata ridotta a un oggetto sessuale, a un oggetto del desiderio. Sono vittime di una violenza impercettibile che colpisce attraverso mezzi di comunicazione più svariati: la pubblicità, le riviste, i film, i video musicali e i video giochi, i reality show. Infatti, quotidianamente ci si accorge come la donna esposta in tv debba compiacere e assecondare i possibili desideri maschili. Le pubblicità tendono sempre più ad adottare

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un linguaggio seduttivo per riuscire a proporre quello che è il modello di riferimento per il quale in ogni ambito della società, dalla politica, alla musica, allo sport, le donne sono continuamente sottoposte a una pressione sul dover essere belle. La realtà mediatica ha spesso convinto le donne che il loro potere filtri tramite l’esibizione disinvolta del proprio corpo che è simbolicamente oggettivizzato. È vero anche che l’uomo, oggi, si confronta con una donna che non è più disposta ad accettare soprusi e quest’atteggiamento è visto dallo stesso come una minaccia al suo ruolo sociale. Il suo timore tende a fargli maturare una rappresentazione che lo porta a considerare la donna come un nemico che ha intenzione di appropriarsi dei privilegi che da sempre hanno fatto parte dell’essere maschile.

Il fenomeno storico-sociale della modernità che primo fra tutti diede origine a forti cambiamenti in questa direzione fu quello dell’industrializzazione e dei successivi processi di urbanizzazione; tutti fattori che hanno creato trasformazioni nelle strutture familiari, nelle nuove forme di divisione del lavoro e nei rapporti tra i sessi e tra le nuove generazioni. Prima di allora, la struttura familiare più diffusa tra tutte era quella della famiglia patriarcale. La caratteristica principale di questa tipologia di famiglia era l’autorità esercitata dai maschi su donne e bambini; di fatti, il potere e le sopraffazioni erano caratteristiche derivanti dalle istituzioni del patriarcalismo. Tuttavia, si sono dovuti aspettare gli anni Settanta del Novecento e la forte spinta del movimento femminista, per assistere a una:

«vera e propria rivoluzione, che vedeva da un lato le donne che lottavano per ottenere la loro liberazione e dall’altro l’uomo che non voleva perdere i privilegi acquisiti» (Castells 2008, p. 208).

Le idee femministe erano in discussione già da almeno un secolo ma l’impulso a esplodere fu determinato dalle trasformazioni dell’economia, del mercato del lavoro e dalla stagione di lotta che in generale accompagnò quei mutamenti. Il femminismo, come osserva Castells, è inteso come movimento discorsivamente costruito, caratterizzato da un elemento comune che è lo “sforzo storico - individuale e collettivo, formale ed informale - di ridefinire lo status della donna in diretta opposizione al patriarcato” (Castells 2008, p. 251). Le lotte di questo movimento di massa, quindi, si basavano sull’ottenimento dei diritti umani e l’obiettivo principale era quello di reagire al diffuso sessismo e al dominio maschile per ottenere l’uguaglianza sostanziale tra i sessi. Quando si parla di crisi del patriarcato, infatti, ci si riferisce all’indebolimento di

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un modello di famiglia basato sull’esercizio dell’autorità\dominio sull’intero nucleo familiare, da parte del maschio adulto, capofamiglia. La crisi del patriarcato diventa più evidente in gran parte della società negli anni Novanta e soprattutto nei paesi più sviluppati. È molto chiaro, quindi, che la famiglia patriarcale di un tempo ha dovuto affrontare molte trasformazioni avvenute in primo luogo nella coscienza delle donne e oltre a questo ha dovuto confrontarsi con le innovazioni introdotte dalla diffusione del lavoro femminile. Anche l’entrata delle donne nel mondo del lavoro, quindi, ha contribuito a trasformare le organizzazioni sociali, ma in particolare quelle familiari e di coppia. Tra i diversi fattori che hanno permesso il coinvolgimento delle donne come forza lavoro vi è stato quello della globalizzazione, anche se va rimarcato come l’aumento della partecipazione femminile alla forza lavoro, non dipende dalla crescita della domanda di lavoro e nemmeno nasce come risposta alla disoccupazione maschile ma deriva dalle caratteristiche sociali e di genere. Le donne italiane, ottenendo il loro ingresso nel mondo del lavoro e nelle istituzioni scolastiche, hanno conquistato riforme giuridiche che hanno minato il sessismo, che era alla base del potere tradizionalmente esercitato sulle loro vite, anche dalla Chiesa cattolica. Tuttavia, nonostante i cambiamenti giuridici e le conquiste sociali sopra analizzate, non è ancora possibile affermare che la condizione della donna appaia ribaltata rispetto alla subordinazione del passato. Spesso, le donne diventano, quindi, vittime di violenza simbolica, che non allude all’esercizio del potere, e quindi della forza su un corpo, ma si riferisce all’imposizione di una visione del mondo; essa costituisce una violenza lieve e invisibile che tende a nascondere gli effetti nei rapporti nei quali si configura. Parlare di essa:

«non significa minimizzare, il ruolo della violenza fisica e far dimenticare che ci